Cosenza – Lecce andata e ritorno. La Tav della passione

La mia terra mi entra nelle vene come morfina e sento finalmente il sereno, la memoria della mia vera ragion d’essere.

(Raffaella Verdesca)

ph Giovanna Falco

di Raffaella Verdesca

L’aria umida di fango e temporale appesantisce il mio umore. Lancio uno sguardo al calendario e tiro le somme di quasi un mese di pioggia ininterrotta. Non sono fatta per vivere senza sole né per resistere a lungo lontana dalla mia terra, perciò, come consolazione, mi collego a Facebook e clicco sull’archivio della Fondazione Terra d’Otranto.

Seleziono un bel pezzo di Alfredo Romano, “Casa mia/ Canzone per la terra natìa”: è struggente, rievocativo, nostalgico. Il mio cervello esule, conoscendomi bene, cerca allora d’inserire il ‘salvavita’ spingendomi a organizzare il pomeriggio con uscite, incontri, magari con un bel giro a Cosenza a caccia di vetrine stravaganti. Il cuore ringrazia per educazione, ma tira avanti per la sua strada. In quel mentre, mio fratello Gianluca mi chiama da Ancona per informarmi, con tutta la meraviglia possibile, della scoperta della giornata: la sua storia preferita, “Lu Nanni Orcu”, è stata edita in una raccolta ideata e scritta proprio da Alfredo Romano, vecchia conoscenza. Gianluca mi legge pagina dopo pagina le avventure e le disavventure ti lu Nanni Orcu e del suo antagonista Gianninu, occupando a lungo e piacevolmente la mia linea telefonica.

Lui, in realtà, non sa che sta diventando complice di una delle follie più istintive del mio repertorio, quella che, tra l’altro, mi riesce meglio: Fuga da Alcatraz.

Per me Alcatraz è una prigione ben più proibitiva di quella descritta dal cinema, è il legaccio che mi tiene lontana dall’oggetto dei miei deliri sognanti: Lecce, la mia gente, la mia libertà.

Lu Nanni Orcu della storia di Alfredo parla il salentino, come pure lu Giuanninu, scaltro rappresentante di un mondo contadino costretto a usare l’intelligenza più raffinata per non soccombere alla forza bruta dei potenti e dei prepotenti. Gianluca scandisce fluido il dialetto che mi ricorda l’infanzia, le fiabe raccontate dalla nonna nei fortunati giorni di febbre lontani dai banchi di scuola. La nonna si sforzava di parlare in italiano, terrorizzata dalle possibili ritorsioni della figlia insegnante, mia madre, ma per istinto naturale, nelle sue storie intercalava meravigliosamente frasi in dialetto italianizzato ad espressioni salentine veraci. Il suo raccontare non era affatto privo di rivisitazioni in chiave personale dei pensieri dei protagonisti né d’interpretazioni onomatopeiche di spari, canti di uccelli, latrati di cani, trotti di cavallo, scricchiolii di porte e sibili di vento.

Che meraviglioso teatro!

Oggi so che tutta la mia fantasia è frutto dei racconti salentini della nonna e di tutta la saggezza fantasiosa del Salento che si racconta.

Quel sabato, quando Gianluca arriva in fondo alla fiaba con un vibrante “…E iddhi vissera felici e ccuntienti e nui nu’ ìppime gnenzi…”, mi accorgo che manca qualcosa d’importante al finale, ovvero la conclusione di ogni storia legata alla mia infanzia: un largo sorriso.

La nonna ‘Sina luccicava sempre di gioia alla fine di ogni suo regalo di fiaba, quasi a voler suggellare l’incanto delle storie che lei raccontava a me dopo averle sentite a sua volta da madre e nonni tanti anni prima.

Ancora trasognata, apro gli occhi distratta dal rombo di un motore pronto a banchettare con una bella striscia d’asfalto: è la mia auto. Mi sorprendo a stringerne il volante senza avere la minima idea del percorso che mi ha portata fin là. Indifferente alla mia confusione, il suv si lecca i baffi al primo rifornimento di gasolio e se la ride ogni volta che investe le mie scuse mentre le attraversano la strada: “Faccio un giretto e torno a casa.” o magari “E’ troppo tardi per andare da qualsiasi parte: se ci avessi pensato prima sarei arrivata almeno fino a Rossano.”

La mia auto, ahimè, mi conosce almeno quanto il mio cuore: supera Rossano, Corigliano, Sibari e si perde nella nebbiolina che esala l’asfalto bagnato.

Sono ormai le quattro del pomeriggio, le gomme divorano la strada battendo in velocità la lancetta dell’orologio e la mia nostalgia. Piove, batto le palpebre nell’illusione di vedere tutto più chiaro, di svegliarmi da questo trans che mi trascina sulla strada della mia vera casa, serpente insidioso che tante volte ho calpestato. Nella mia mente si affollano liste di cose importanti da fare come respirare, trovare un buon parcheggio alla mia complice a quattro ruote e dare il degno finale alla favola te lu Nanni Orcu. Non so se il tempo, storico mio acerrimo amico, quel sabato avesse deciso di stare dalla mia, fatto sta che in poco più di due ore Porta Napoli mi da il benvenuto in nome della sua e della mia città: Lecce. Scendo e tutto intorno a me si ferma: non ho più fretta né urgenza di fare, dire, pensare. Ora è arrivato solo il momento di vivere.

ph Giovanna Falco

Il Teatro Paisiello, illuminato nella sua calma facciata, mi guarda scivolare lungo la strada certo che troverò ciò che sto cercando. L’aria della mia città profuma di casa e di sole anche sotto la pioggia, al buio, e mi inonda dolcemente dell’aria di Piazza Duomo. Nomadi chiedono un obolo per il loro esistere, ma io non ho che un sorriso ed entro decisa nella cattedrale a carezzare gli echi d’incensi e di voci che mi appartengono fin dalla giovinezza. La mia mano accarezza furtiva ogni calda pietra che riveste le mura della città lungo la strada che porta al santo e ai suoi orizzonti di archi, anfiteatro, lupa e Sedile. Mi viene in mente Giovanna che parla dell’effetto del tempo sulla pietra leccese, divoratore che lascia merletti; penso a Michele che torna a Noha, a Paolo che sceglie la sua ultima meta tra la città e il paesino d’origine. Respiro, guardo come se tutto ciò che mi sta dinanzi sia un tesoro di famiglia conosciuto e sempre nuovo. Meraviglia. La mia terra mi entra nelle vene come morfina e sento finalmente il sereno, la memoria della mia vera ragion d’essere. Venti minuti, dice l’orologio. Può anche bastare, è ora che io vada, che io torni da dove sono venuta nell’attesa della mia terra in premio.

La storia te lu Nanni Orcu è salva, penso, ha il suo bel sorriso a conclusione dell’ultimo rigo, ha la benedizione del Salento che l’ha partorita e della nonna che l’ha tramandata, la nonna di tutti, la stessa che ha raccontato le verità di un popolo dentro la magia di una fiaba.

E vissera felici e ccuntienti…” ecco la corona per questa bellissima favola salentina e per la mia giornata di sabato, fine che segna l’inizio di un’auto che parte e di un cuore che resta.

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4 Commenti a Cosenza – Lecce andata e ritorno. La Tav della passione

  1. “…Una cosa avrei rimproverato volentieri a mio padre, non tanto l’averci portati via dal paese natale, quanto l’averci destinati per tutta la vita in un luogo lontano dal mare: emigranti sì, ma almeno… il mare dappresso! Quando d’estate, in Salento, finite le vacanze, fuoriesco da quel nostro mare verdazzurro fresco e profumato degli scogli e mi volto a guardarlo per l’ultima volta, ecco io… piango, sì, piango sempre!”
    Da “Piccoli seminaristi crescono”.
    Cara Raffaella, con la tua “Fuga da Alcatraz”, hai rappresentato quella “nostàlghia” (per dirla alla russa) di tutti coloro che sono andati via dalla nostra terra per varie ragioni e che sempre hanno avuto in mente di tornare alla loro Itaca, magari per una frisa soltanto bagnata nell’acqua di mare con sopra un pomodoro colto all’alba, quattro ulive nere mature, un mazzetto di rucola spontanea di ineguagliabile sapore colta presso un muretto a secco e, dulcis in fundo, quell’olio fresco te trappitu che raccoglie l’essenza stessa del nostro desinare, del nostro vivere.

  2. ..a volte non si può intuire ciò che delle sensazioni possano far scaturire nell’animo umano..ma se si tratta di mia sorella..e se succede dopo aver trascorso del tempo a chiaccherare insieme, posso provare ad indovinare, con buone probabilità di successo, ciò che verosimilmente potrebbe accadere nei meandri della sua vivacissima mente.
    Le nostre anime, nel corso dei nostri fugaci incontri al telefono, volano spesso sulla scia dorata di sentimenti e sensazioni indotti da comuni ricordi di luoghi ed episodi di vita trascorsa insieme.
    Sono proprio tali immagini, impresse indelebilmente nei nostri cuori, ad alimentare il desiderio irrefrenabile di tornare a rivivere di nuovo, con tutti i sensi che un tempo ne furono stregati, gli odori, i colori, le visioni e il contatto con una terra magica che ci ha forgiati con la contemplazione della sua ricca semplicità e ci ha nutriti con ciò che aveva di più caro: il calore del sole, la bellezza dei suoi paesaggi e il fascino magnetico delle sue tradizioni culturali e popolari.
    Il viaggio della mia amata sorella non è, quindi, che un autentico “ritorno alle origini”, volto a far rivivere ricordi e sensazioni indispensabili a chi non permetterà mai che “lu cippone ti la radice” si possa spegnere e ben sapendo, dunque, che proprio “ddhru cippone” arderà per sempre insieme alla sua anima e alle sue azioni..

  3. Cara Raffaella, stai attenta a tuo fratello…potrebbe averti rubato la penna e l’ispirazione ;)

  4. Cara Raffaella, sono trascorsi otto mesi dal 26 febbraio scorso, eppure ho riletto il tuo scritto come nuovo. Più di tutto mi ha impressionato il ritmo, l’affanno, la corsa e il suv ad assecondare il tuo “capriccio”, il tuo anelito, il tuo affanno, la tua brama, quasi Odisseo sull’isola di Ogigia. Ecco, questo tuo suv così compiacente, così aduso a non contrariarti, ecco, ho come l’impressione che anche il suv corra, si precipiti e voli al tuo fianco come farebbe un perfetto innamorato.

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