Tradizioni funebri salentine di fine Ottocento. i crocifissi mortuari

 

Lu crucifissu ti lu asu [*]

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Lu crucifissu ti lu asu (il crocefisso del bacio), per il suo stare fra le mani dei defunti durante le veglie funebri, non doveva essere usato come simbolo di culto, veniva ritenuto sconsacrato, motivo per cui, le poche famiglie ricche di un paese, potendosi permettere più crocifissi, ne tenevano uno apposito; e siccome apparenza voleva non fosse soltanto un simbolo religioso ma anche un elemento decorativo della salma, era un crocefisso importante, se non addirittura prezioso. Destinato a essere trasmesso di generazione in generazione, doveva poter rappresentare nel tempo il decoro delle casata, e non di rado  – ritenendolo soggetto a diritti dinastici – veniva citato nei capitoli testamentari, devoluto quasi sempre al primogenito.

Col passare degli anni e il sommarsi delle morti, il prestigio di quel crocefisso aumentava, tanto che si arrivava a fregiarlo di un nome particolare, affibbiandogli quello del trapassato più illustre: in qualche famiglia poteva essere “Il crocefisso di nonno Giovanni”, in qualche altra quello del bisnonno Giuseppe, in qualche altre ancora “Il crocefisso dello zio monsignore”. Un dato di fatto che aveva sempre irritato, e qualche volta mandato in bestia, le vecchie cameriere: per loro, figlie del popolo, alle cui usanze rimanevano vincolate per rapporto viscerale, quell’indicazione suonava bastarda, se non blasfema, giacché ritenevano inaccettabile l’idea di sovrapporre alla totalità di Cristo la riduzione di un possesso espresso attraverso il nome di un mortale, sia pure passato alla storia come illustre. Per loro, come per tutti i loro simili, quello era e doveva rimanere crucifissu ti lu asu, anche se, a rifletterci bene, avevano torto: i crocifissi mortuari delle famiglie nobili non potevano incarnare sino in fondo quella simbologia, giacché, data la differente sistemazione delle salme, nessun bacio poteva sfiorarli. La nobiltà veniva identificata, sia pure in modo allusivo, in un perenne rapporto di altezze, e se la vita aveva le sue lotte di gradino, anche la morte doveva sottostare alla regola dei rialzi. I catafalchi che si approntavano erano dei veri e propri monumenti, non facilmente raggiungibili nella loro sovrapposizione di piani: due per le donne, ma non meno di tre per i maschi, ai quali anche da morti spettava il riconoscimento di una supremazia adombrata nel mito del loro seme. E più il personaggio era stato importante, più la castellana (il catafalco) doveva essere alta.

Posta al vertice e in posizione un po’ inclinata per consentirne la visibilità, la salma incuteva una  certa soggezione, rafforzata dai damaschi – rossi o giallo oro – che in ricchi drappeggi scendevano sino a terra: un’ulteriore barriera che fermava a timorosa distanza i visitatori più umili, che mai e poi mai si sarebbero permessi di accostare a quelle stoffe preziose i loro piedi sporchi di terra, anche se, per la circostanza, infilati nelle scarpe della festa.

Una circoscrizione capace di gelare il cuore dei semplici e apparire, pur nell’esuberante presenza della ricchezza, come l’estrema penitenza di un modo di essere, forse il volto più duro della morte, giacché anticipava il silenzio della pietra.

La morte dei poveri era una cosa ben diversa, e anche se urlava come una belva aveva volto e fiato umani. Le salme, adagiate basse sulla matthrabbanca (madia – tavolo), non erano isole irraggiungibili, ma lembi di carne mantenuta umida da lacrime e aliti. Nelle loro mani il crocefisso non era soltanto l’asta della misericordia che promette perdono, ma la radice sublimata di un credo trascendentale che, sovrapponendosi al momento temporale del trapasso, stabiliva una convivenza quasi sacrale fra il ricordo dei viventi e l’essenza purificata dei trapassati.

le due foto sono state gentilmente concesse da Nino Pensabene

Le persone in visita di lutto vedevano in quel crocefisso il tramite insostituibile dei loro sentimenti, ossia il filo conduttore di un dialogo che intendevano stabilire con l’aldilà: baciandolo erano sicure di ottenere da Dio il permesso di affidare all’anima della salma in esposizione saluti e messaggi da portare alle anime dei loro cari. Un vero e proprio ufficio postale, anomalo nella sua equivalenza di fede, ma tragicamente reale nello sfogo delle pene individuali: appelli di aiuto, richieste di consiglio, sollecitazione di sogni rivelatori, comunicazioni di mutamenti drammatici, o notizie rassicurative per l’anima partita in travaglio.

Una ridda di voci che trovava la sua espressione più colorita negli interventi delle donne, sempre prime ad accorrere sui luoghi del dolore: convinte che una rappresentazione visiva dei loro affanni servisse a rendere più efficaci le parole, e quindi a meglio esprimere i loro sentimenti, non esitavano a strapparsi i capelli, a graffiarsi il viso, o comunque ad agitare le mani in una mimica di disperazione che sembrava racchiudere l’essenza stessa del dolore.

Scansioni da tragedia che toccavano il vertice quando, con un incedere assorto da statua dell’Addolorata, si faceva largo una giovane vedova seguita dal grappolo dei suoi orfani. Sulla bocca dell’innocenza, morte e miseria trovavano commistione in un unico boccone amaro, e non a torto il coro delle donne si dava a chiedere: “Pane!… Pane!… Pane!…”. Un’invocazione che di proposito si faceva echeggiare forte, poiché, oltre a essere una preghiera rivolta al Cielo, intendeva imporsi come appello rivolto ai vivi: un grido che nasceva sì in nome della pietà, ma che, sfruttando l’impunibilità del momento, vibrava come rabbiosa pietrata sui portoni dei ricchi, rappresentando, sia pure in modo coatto, un fermento di ribellione sociale.

Più silenzioso, forse più struggente, il pellegrinaggio dei vecchi. Entravano nelle case in lutto in punta di piedi, rigirando fra le mani la coppola nera come fossero intenti a raggomitolare i fili di un’esistenza che l’età tarda confinava nell’amarezza dei consuntivi. Fasciati da una solitudine visibile come un’amputazione, si presentavano con timidezza, quasi che l’essere ancora vivi fosse un torto da farsi perdonare, ma il loro faticoso curvarsi sul crocefisso acquistava il significato di un’espiazione collettiva, una mortificazione antica che non era soltanto loro, ma stillava l’amaro di un’infinità di radici, forse nate nell‘alba del mondo.

Anche la loro voce aveva sapore di lontananza, mentre sussurravano parole spezzettate dalla commozione: si rivolgevano all’anima della moglie (non aveva importanza se morta un giorno o dieci anni prima) per farle sapere che la vita senza di lei non aveva senso, ch’erano stanchi e aspettavano la sua chiamata. Un monologo che invariabilmente finiva col franare in una vera e propria commemorazione, tirando in campo le virtù di quell’anima benedetta che tanto aveva lavorato e sofferto nel portare avanti una famiglia. Dilatazione della memoria che trasferiva nel mito una verità vissuta e che le donne presenti ricevevano come indiretto tributo alle loro funzioni di spose e di madri. Sentendosene investite, come protagoniste di un ruolo che misconosciuto in vita trovava giusto apprezzamento solo dopo la morte, non lasciavano passare inosservato quel momento di esaltazione e intervenivano a coro per rafforzare i termini della valutazione femminile.

Mentre il vecchio chiedeva angosciato: “Cce rrestu a ffare sobbra lla facce ti stu munnu ci m’à lassatu sulu… sulu comu fugghiazza allu jèntu?!…” (“Che resto a fare sulla faccia di questo mondo se mi hai lasciato solo… solo come foglia al vento?!…”), loro, rivolgendosi alla defunta in questione, che per essere già, presumibilmente, in Paradiso, chiamavano “Benett’ánima ti rázzia”(“Anima benedetta per grazia”), incalzavano: “Facennulu cattíu l’a fattu orfanu!…” (“Facendolo vedovo, lo hai fatto orfano!…”); e giostrando sul tono della pietà, furbamente inserivano, forse a monito di qualche marito presente, un proverbio scelto a loro emblema: “Casa senza fèmmina ete terra senza acqua”. Una definizione lapidaria della loro indispensabilità, e i cui termini di comparazione si agganciavano a due simboli (terra – acqua} ritenuti sacri da tutta la popolazione salentina.

Del resto erano sempre le donne a essere le vere protagoniste delle veglie funebri; e la loro presenza, così come la loro continua intromissione nella sottolineatura dei messaggi, sapeva di padronanza, come se presiedere agli uffici della morte fosse un loro naturale diritto, derivato dal fatto che erano loro, donne, a partorire la vita. Solo nel messaggio ti la perdunanza (di richiesta di perdono) non osavano intervenire, anzi se ne tiravano fuori in modo visibile, stringendosi contro le pareti della stanza e creando lo stacco di un vuoto fra loro, il postulante e il crocefisso.

La persona che, a cancellazione di un odio o rimorso, andava a chiedere perdono a un’anima offesa in vita e con la quale non era riuscita a rappacificarsi prima della morte, non doveva avvalersi di interventi estranei: il suo era un particolare caso di coscienza, e sebbene la confessione veniva fatta a voce alta, doveva pur sempre rimanere un atto di umiliazione personale, senza interferenze e patrocini terreni. Aspettavano perciò che il messaggio fosse concluso, prima di tornare ai loro posti e riprendere la cadenza mimata dei lamenti. Solo qualche vecchia, a chiusura della parentesi, quasi offrendosi a testimone di un patto di pace, si permetteva di dare un bacio supplementare al crocefisso, mormorando un “così sia” ch’era affermazione ma anche implorazione. Una libertà che si poteva prendere solo in nome dell’età avanzata, vista come scaturigine di particolari diritti e di altrettanti particolari doveri.

Uno dei doveri delle vecchie era proprio quello di procurare il crocefisso del bacio, ed era un compito che eseguivano con scrupolo, convinte di potere così suffragare tutte le anime sante del purgatorio. Non potendo i poveri permettersi un crocefisso da dedicare alla morte, erano loro ad andare a chiederlo in prestito alle famiglie ricche, e affinché l’atto di carità fosse più valevole, usavano rivolgersi alla famiglia meno amica, o per lo meno andare a bussare alla casa più lontana.

Avvolte nello scialle nero, che per l’occasione di lutto indossavano alla monacale, facendolo aderire basso sulla fronte e fermandolo attorno al viso come un soggolo, si presentavano ai portoni signorili con l’atteggiamento umile di chi si riconosce in bisogno, ma nello stesso tempo con lo sguardo fiero di chi sa che la sua richiesta non può, per cause maggiori, essere respinta.

Il crocefisso del bacio, infatti, non si negava mai, e non soltanto per il rispetto che si aveva verso la morte, ma per la paura di attirare, con quel diniego, la disgrazia nella propria casa.

A Cristu nicatu sècuta muèrtu chiantu” (“Alla negazione di un crocefisso segue il pianto per un morto in famiglia”), stabiliva un detto popolare; e giacché ai signori dispiaceva prestare il crocefisso dei propri morti, ne tenevano un altro esclusivamente dedicato alle richieste del popolo. Di legno, quasi sempre chiaro, era caratteristico per il Cristo di rame che, mantenuto lucido dal ripetuto strofinio di labbra, aveva barbagli strani, quasi sprazzi sanguigni. Avvolto in un quadrato di tela nera, lo si teneva a portata di mano, chiuso in qualche stipetto della sala d’ingresso dove c’erano anche un fascio di candele e una scorta di pezzuole di lino, oggetti anche questi di continue richieste.

Quello di famiglia, al contrario, essendo un oggetto che ci si augurava non dovesse servire mai, si conservava in uno dei nascondigli più segreti della casa, e sebbene venisse intenzionalmente dimenticato, al momento opportuno il più giovane della famiglia sapeva sempre dove trovarlo. Pur nella confusione o smarrimento che quelle tristi circostanze potevano generare, nessuno scordava i suoi compiti, anzi ognuno se ne faceva uno scrupolo nell’osservarli, ansioso di rispettare le tradizioni, ma forse più che altro rassicurato da una successione di regole che potevano avere valore

scaramantico. A prelevare quel crocefisso doveva infatti essere il più giovane, e doveva farlo a tempo giusto, cioè quando la salma era già composta sobbr’a lla castellana e la fiamma dei quattro candelotti aveva già scavato la sua buca nella cera.

Sollecitato dai parenti, che gli tenevano dietro in processione, il ragazzo si avviava commosso a compiere la sua missione, anche se l’importanza e la responsabilità di quel gesto erano tanto grandi da non consentire spazio alle emozioni. Prima di prendere il crocefisso doveva segnarsi devotamente tre volte e attendere a che le donne gli appendessero al braccio, a mo’ di manipolo sacro, un asciugamano usato in occasione di un battesimo: uno di quegli asciugamani di lino che ogni famiglia ricca approntava per le nascite, contrassegnandoli con delle crocette ricamate a sfilato e un angioletto eseguito a filè[†]. Esibiti con gioia al fonte battesimale, quei lini tornavano a galla nell’ora del dolore, e, sebbene in forma più dimessa, la loro presenza risultava altrettanto importante, giacché voleva significare che l’offerta di quel crocefisso veniva fatta in nome di un’innocenza non ancora in debito con la morte.

Il concetto di un’esistenza da scompitare col travaglio della fine scattava dopo, a veglia funebre conclusa, cioè quando, immediatamente prima dei funerali, il crocefisso doveva essere tolto dalle mani del morto. Un compito che spettava al più anziano della famiglia, il quale si sentiva in dovere di autoindicarsi come il più stanco della vita, facendo valere il rispetto per quella legge di naturali successioni che la morte non doveva assolutamente incrinare con mietiture fuori stagione.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6, con prefazione di Pier Paolo Tarsi

[*] Per meglio comprendere la differenza di vedute nonché di usi che correva tra ricchi e poveri a proposito della morte, leggere della stessa autrice, Tre Santi e una campagna. Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento, Laterza, Bari 1994, Cap. “Li manure ti Santu Itu”, pp. 119-129.

 

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