Girolamo Cenatiempo nella chiesa del SS. Crocifisso di Taranto

 

di Nicola Fasano

Nella valorizzazione del patrimonio storico artistico di Taranto non si può trascurare l’importante contributo del pittore napoletano Girolamo Cenatiempo, artista allievo di Luca Giordano, che nel capoluogo ionico realizzò due tele di grande formato raffiguranti: il Martirio di San Bartolomeo e la Visione dei SS. Gregorio e Benedetto Abate. Tralasciando la prima opera, la cui firma mette fuori discussione dubbi attributivi, la seconda non autografa, in un primo momento era stata attribuita allo stesso Cenatiempo da parte dello storico francescano Padre Benigno Perrone (cfr. P.B.P.Perrone  in  I conventi della serafica Riforma di San Niccolò in Puglia, 1590-1835, Galatina 1981 p. 62) e uccessivamente ricondotta da Galante a Paolo De Matteis (cfr. L.Galante, Per la fortuna della pittura napoletana Puglia in  Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia III, Fasano 1989 p.240), grande interprete della pittura tardo-barocca a Taranto.

Sarebbe forse il caso, invece, di soffermarsi e concentrare l’attenzione, come propone questo breve scritto, anche sugli elementi che potrebbero confermare come giusta l’intuizione del francescano, che per primo ricostruisce le vicende dei due dipinti.

Entrambi provenienti dalla demolita chiesa francescana di Sant’Antonio di Padova, vennero donati al municipio insieme ad altre suppellettili (tra cui lo splendido crocifisso ligneo del XVI sec.), per poi essere trasferiti nella chiesa del SS. Crocifisso intorno al 1875, edificio che custodisce le due tele in cornici marmoree mistilinee esposte nei bracci del transetto. Il Cenatiempo (documentato tra il 1705 e il 1742) godette di buon prestigio presso i Domenicani e i Francescani, lavorando in Abruzzo, Lucania e nelle Puglie, prevalentemente in quella che anticamente era la Terradi Bari e la Capitanata.

A spostare l’attribuzione in favore del pittore napoletano concorrono una serie di fattori stilistici, quali i volti dei personaggi raffigurati, in particolare i puttini di marca schiettamente “cenatiempana”, che si possono confrontare con gli altri presenti nel Martirio di S. Bartolomeo e in quelli nella tela della Maddalena penitente in San Lorenzo a San Severo.

La grazia pacata e addolcita del De Matteis risulta invece più rigida e meno sciolta nei dipinti del nostro pittore, il quale nell’angelo che regge la tiara papale fa un chiaro rimando al suo maestro: Luca Giordano.

La tela raffigura sulla sinistra San Gregorio Magno in abito sacerdotale, colto nel tipico atteggiamento estatico della retorica barocca, mentre ammira la colomba dello Spirito Santo; sulla destra San Benedetto in abito nero da abate, con il libro delle regole e il pastorale, indica il cielo con l’indice della mano. In basso due angeli, di cui uno su un rocchio di colonna “pagana”, tributano l’omaggio alla chiesa terrena e trionfante, reggendo la tiara e la mitra; in alto si staglia la colomba dello Spirito Santo fra due schiere di cherubini disposti a ventaglio.

La composizione pecca nell’eccessiva specularità dei due Santi che rispondono a precisi dettami di carattere retorico e didascalico ed il risultato è la messa in scena attraverso la bloccata espressività di gesti e atteggiamenti sapientemente calibrati. A tal proposito si veda la tela di Cenatiempo conservata in Santa Maria degli Angeli ad Avigliano, raffigurante la Vergine col Bambino e i Santi Filippo Neri, Michele Arcangelo, Gregorio e Carlo Borromeo.

Il dipinto, oltre ad una evidente matrice giordanesca, richiama il timbro del De Matteis nel pulviscolo dorato della zona superiore, che risalta i volti rapiti dei due Santi e i preziosi tessuti che accendono la tavolozza. Questa contingenza stilistica con il più quotato Paolo ci permette di azzardare una datazione intorno al secondo decennio del Settecento, periodo in cui il De Matteis arricchiva le chiese di Taranto con le sue preziose opere e dal quale il minore Cenatiempo avrà preso spunto per alcune soluzioni cromatiche.

Non mancano inoltre rimandi ad un altro “giordanesco” quale Giovan Battista Lama, nelle due figure principali. Ad arricchire la composizione si schiude tra le figure un paesaggio boscoso con chiesa, che evidenzia l’attenzione del pittore nell’indagine del dato naturalistico, caratteristica riscontrabile nella tela sorella del SS. Crocifisso e in numerose altre opere del pittore.

Tutto sulle zucche, zucchine e fiori di zucca

LE ZUCCHE, E NON SOLO PER HALLOWEEN

di Massimo Vaglio

Una volta tanto la giustamente avversata globalizzazione ha provocato un effetto collaterale positivo. Infatti, grazie all’acquisizione da parte delle giovani generazioni dell’americanissima festa di Halloween, è tornata un po’ in auge la coltivazione delle zucche, e si rileva anche la riscoperta di tante ricette dimenticate ed un rinnovato  interesse per questi, come vedremo, utilissimi quanto bistrattati ortaggi.

Prima, però occorre fare un po’ di chiarezza nella non sempre semplicissima materia botanica. Facile infatti dire zucca, ma bisogna sapere che sotto questa banale denominazione ricadono ben novanta distinti generi e un numero di specie stimato intorno al migliaio. Negli orti italiani, si coltivano numerose varietà di zucche e zucchette, di cui si utilizzano come ortaggio i frutti quando sono completamente maturi, ossia le zucche; oppure, quando sono ancora teneri e non del tutto ingrossati, ovvero le zucchette meglio note come zucchine.

Si tratta di varietà orticole derivate da alcune specie appartenenti al genere Cucurbita e alla famiglia delle Cucurbitaceae. Le varietà di zucca universalmente più diffuse sono quelle derivate dalla Cucurbita maxima. Si riconoscono per il portamento delle piante che sono sarmentose o rampicanti con frutti generalmente molto grossi, globosi, schiacciati ai poli, lisci, costoluti o bitorzoluti.

Altre zucche molto interessanti e saporite sono quelle derivate dalla Cucurbita moschata, queste sono ugualmente sarmentose e danno luogo all’emissione di frutti molto grandi, cilindrici, diritti o leggermente ricurvi e maggiormente ingrossati all’apice ove sono contenuti i semi.

Le zucchette, sono invece il prodotto della Cucurbita pepo, che si distingue facilmente dalle altre specie per il portamento cespuglioso e i frutti cilindrici e

Paolo Finoglio e il suo seguito

di Nicola Fasano

La mostra “Paolo Finoglio e il suo seguito”  inaugurata l’8 settembre nella pinacoteca del castello Acquaviva  di Conversano mette in luce alcuni aspetti soltanto lambiti nella grande esposizione sul pittore napoletano tenuta nel 2000, riguardanti il seguito dell’artista, le influenze e i reciproci scambi di Paolo Finoglio con altri artisti a lui coevi quali Carlo Rosa e Cesare Fracanzano.

L’evento espositivo è curato dalla cooperativa conversanese Armida con il contributo scientifico di Giacomo Lanzillotta e Francesco Lofano i quali si avvalgono di altri studiosi nei saggi critici e nelle schede del catalogo pubblicato per i tipi di Congedo.

Interessanti sono le indagini stilistiche e iconografiche sulla volta e sulle pale d’altare della chiesa dei Santi Medici, non sfuggite in passato  all’acribia critica del compianto Michele D’Elia e di Pina Belli; lo studio della personalità del Maestro della Samaritana e dei seguaci di Paolo tra cui spicca un vero e proprio Alter ego del pittore.

L’alto profilo scientifico della mostra è testimoniato dall’esposizione di fonti d’archivio inedite del pittore particolarmente singolari e accattivanti, quali il commercio di seta  che potrebbe spiegare  la particolare abilità dell’artista nel dipingere preziosità seriche prendendo come modello per le sue composizioni i tessuti che arrivavano nel suo studio o la dote lasciata da Finoglio  alla figlia Beatrice.

Tra i dipinti esposti si segnalano le varie copie di Cristo e l’adultera di Paolo Finoglio,  l’inedita Consegna elle Chiavi a San Pietro ascrivibile alla mano del Maestro della Samaritana, oltre ad opere di Cesare Fracanzano e di Carlo Rosa.

Uccisione di un brigante

 

di Alessio Palumbo

Come oramai assodato da buona parte della storiografia locale e nazionale, il brigantaggio salentino fu, nel contesto meridionale, un fenomeno quantitativamente e qualitativamente marginale. Lo stesso Regio Decreto del 20 marzo 1863, del resto, non incluse la Terra d’Otranto tra le province “invase dal brigantaggio”.

Sebbene, dunque, non fossero mancati episodi di ostilità ai Savoia, spesso fomentati dal clero e da vecchi “baroni”, le bande dei briganti salentini, solo in rarissimi casi, furono guidate da ideali legittimisti o conservatori.

In Terra d’Otranto, quindi, operarono soprattutto gruppi di sbandati, guidati da generici malviventi dai nomi pittoreschi, come lu Pecuraru, Pirichillu, Cavalcante, Scardaffa, Statico, etc.

In alcuni casi, le azioni spettacolari e sanguinose di queste bande, diedero ai briganti un’aura leggendaria che si riverberò per anni ed anni. È il caso di Quintino Venneri di Alliste, la cui leggenda continuò ad essere tramandata ancora per molti decenni dopo la sua morte, come testimonia questo scritto sulla sua uccisione, datato 1912:

La stazione dei carabinieri di Ruffano, nel pieno della notte del 23 luglio 1866, “fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, una chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. […] La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito[…].

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie: la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio” (R. Rizzelli, Pagine di Storia Galatinese, 1912).

L’olio del Salento sulla tavola della Casa Bianca

ph Mimmo Ciccarese

 

Carissime amiche e gentilissimi amici,

vi è probabilmente giunto ad orecchio che lo scorso maggio, con un atto ufficiale, abbiamo assegnato a Michelle Obama un bellissimo ulivo salentino di oltre 1.400 anni, quale riconoscimento per tutto l’impegno e la passione profusa in America dalla First Lady a sostegno della nostra Dieta Mediterranea. In quella occasione fu anche detto che in autunno sarebbero state raccolte le olive de “La Regina” (così è conosciuta la pianta a Vernole) e tutto l’olio prodotto sarebbe poi stato consegnato alla Famiglia Obama.

Bene, sabato scorso, 27 ottobre, è proprio avvenuto questo. Tutti i promotori dell’iniziativa, la Provincia di Lecce (con gli assessorati all’agricoltura, all’istruzione e al turismo), la Camera di Commercio, l’Unaprol, la Coldiretti, i Comuni di Lecce e Vernole, la Cooperativa Sant’Anna, i proprietari del terreno, i Dirigenti scolastici e, soprattutto, tanti studenti, piccoli e grandi, hanno effettuato sia la raccolta che, nella stessa giornata, la produzione dell’oro liquido destinato alla Casa Bianca denominato “Nettare della Regina”.

Complessivamente sono stati raccolti 320 kg di olive che hanno fruttato 40 kg di un olio extravergine di gran pregio, di qualità superiore e, audite audite, tracciato dal sistema Unaprol e certificato I.O.O.% alta qualità italiana. …alla faccia di chi sostiene che gli ulivi secolari non possono produrre olio di qualità! Le foto della giornata sono su: www.dietameditaliana.it/michelleobama.

Ma a cosa ha portato questa azione? La notizia ha fatto letteralmente il giro del mondo con pubblicazioni in Usa, Canada, India, Cina, Colombia, Cile, Argentina, Australia, etc. e in tutta Europa e, dato che a riportarla sono stati alcuni tra i maggiori media internazionali (Nbc, MyFox, Sky, Yahoo, Msn, Iams, etc.), si stima che sia stata letta da oltre 13 milioni di persone in tutto il mondo. (Nota di colore: l’attività svolta nella promozione della Dieta Med-Italiana è valsa agli studenti della nostra scuola la vittoria, il 19 ottobre scorso, dell’International Global Junior Challenge.).  La news dell’albero e dell’olio salentino donato a Michelle Obama è stata pubblicata: In inglese, in francese, in tedesco, in spagnolo, in portoghese, in messicano, in arabo, in hindi,

… Un’altra curiosità? Tutta quest’estate il presidente della Cooperativa Sant’Anna di Vernole, Michele Doria, ha continuamente ricevuto richieste da parte di turisti italiani e stranieri (tedeschi, inglesi, svedesi,..) per essere accompagnati presso l’albero della First Lady e vedere di persona l’imponente pianta. E poi ancora, a fine novembre verrà nel Salento un nutrito gruppo di funzionari della FAO, incuriositi dalla nostra proposta di utilizzare le “friseddhre” come pane per sfamare, hanno espressamente chiesto di includere tra le visite una tappa presso “La Regina”.

…e a cosa porterà? Fra pochi giorni invieremo un comunicato stampa internazionale, in lingua inglese, che giungerà nella posta elettronica di oltre 18.500 giornalisti e media di ogni nazione del mondo, e che, partendo dall’Olio salentino degli Obama, diffonderà e promuoverà la Puglia ed in particolare il Salento come la “nuova” Toscana, tutta da scoprire: dalla natura ai paesaggi rurali, dalle splendide coste all’architettura barocca, dall’olio di altissima qualità al vino e ai prodotti gastronomici tipici e unici.

Per questi importanti risultati, per essere stati al nostro fianco in questa splendida avventura, per aver creduto nelle nostre idee e nei nostri propositi, vogliamo ringraziare di cuore: Antonio Gabellone, Francesco Pacella e Antonio Del Vino (Provincia di Lecce), Alfredo Prete (Camera di Commercio), Pantaleo Piccinno e Benedetto De Serio (Coldiretti Lecce), Michele Doria (Cooperativa Sant’Anna), la sig.ra Ines Maria Antonucci (proprietaria della pianta), Paolo Perrone (Sindaco di Lecce) e Mario Mangione (Sindaco di Vernole) e, infine, Addolorata Mazzotta, dirigente dell’Istituto “Galilei Costa” di Lecce.

E poi, approfittiamo, VOGLIAMO RINGRAZIARE VOI, il popolo salentino, perché è …come è.

Gallipoli. Il castello angioino, centro nevralgico della storia cittadina

 

L’UMILIANTE CONDANNA ALL’INCURIA PER IL CASTELLO ANGIOINO DI GALLIPOLI

di Gino Schirosi

Per diretta esperienza sembra proprio difficile il rapporto tra cultura e politica. La cultura ha il compito di rincorrere ed incalzare la politica, spesso distratta da impegni istituzionali, anche perché coinvolta nella lotta esclusiva per il potere ad ogni costo pur di occupare poltrone e posti di riguardo. Rischiando di disattendere le primarie aspettative sacrosante della collettività, ormai dai politici, in tempi di magra, nessuno pretende né si aspetta miracoli, essendo lontano il miraggio di vedere realizzate opere importanti o faraoniche. È tuttavia auspicabile almeno che si possa provvedere a quanto è nell’evidenza: salvaguardare la realtà paesaggistica e l’eredità storico-artistica esistente da esaltare per promuovere l’eccellenza.

Gallipoli è naturalmente una città maliarda e tale deve restare al cospetto del forestiero non meno innamorato dei residenti. Nel corso della sua bimillenaria storia non ha mai avuto bisogno di protettori o padrini; è stata sempre libera e franca, mai dipendente da feudatari né svenduta impunemente a nessun capitano di ventura. È l’unico centro del Salento che può vantarsi della sua libertà senza aver mai conosciuto sudditanza da una classe nobiliare. Non sono difatti mai esistiti stemmi araldici di conti, baroni, duchi! È ampiamente documentato come alla sola Corona l’Università gallipolitana dovesse dar conto e corrispondere, senza intermediari.

Testimonianza del suo glorioso passato è il castello angioino, centro nevralgico della storia cittadina, cui sopratutto ha l’obbligo di guardare il primato della politica come dovere civico e impegno culturale. Si tratta del maniero più ricco, articolato e complesso finora sopravvissuto nel panorama dell’architettura militare di Terra d’Otranto, la piazzaforte più sicura nell’estremo avamposto del Regno di Napoli, caposaldo di rilievo a difesa del Salento e del Mediterraneo sud-orientale.

Il primitivo fabbrico della monumentale opera difensiva appartiene agli Svevi, ma la costruzione definitiva è degli Angioini, ancorché non siano mancati interventi marginali in periodi successivi fino al secolo scorso. Dopo il tragico fatto d’arme, sfociato nell’assedio e nell’occupazione veneziana del maggio 1484, e fino agli inizi del XVI sec. gli Aragonesi ne consolidarono ulteriormente la struttura prima che fosse aggiunta la fortezza del rivellino, con la successiva dotazione di torri costiere di avvistamento, torrioni, bastioni e baluardi.

Per secoli ha costituito la roccaforte della città-isola murata e bastionata e il castellano, reggente responsabile della piazza, era una personalità di prestigio nella stessa amministrazione civica, pur essendo sempre d’origine spagnola al pari di molti vescovi succeduti per secoli nella sua esigua diocesi. Oggi, debitamente restaurato, potrebbe invero costituire il più significativo contenitore culturale della città e del suo hinterland. Ma così non è ancora e, se non sono per nulla noti i motivi, il rammarico è più che giustificato e non è irrilevante.

Quale tra i castelli salentini vanta tanta storia quanto il castello di Gallipoli? Né il castello Carlo V di Lecce né di Copertino né di  Corigliano e neppure quello di Otranto hanno goduto della stessa gloria. Una storia a sé è Acaya. Di quali fatti militari sono stati protagonisti? Mai hanno avuto un ruolo di rilievo nello scacchiere strategico a presidio della periferia orientale del Regno di Napoli. Quali vicende storiche hanno minato più di tanto la sicurezza della provincia prima del XVI sec.? Solo allora fu costruito l’attuale castello idruntino in sostituzione del fragile fortilizio caduto senza difficoltà sotto i colpi fatali delle scimitarre della mezza luna (1480).

Eppure oggi negli antichi manieri, proprietà della collettività, aperti al territorio e al pubblico di visitatori, si celebrano costantemente manifestazioni culturali di vario genere: teatro, concerti, mostre d’arte, editoria, artigianato e antiquariato, convegni, congressi, tavole rotonde, incontri di studio e di lavoro con associazioni ed Enti, concorsi letterari, progetti culturali d’Istituti scolastici di ogni ordine e grado con vari forum monotematici multimediali.

Per il restauro del castello angioino di Gallipoli si è sempre accennato a fondi regionali ma non si sa in quale direzione o lotto sono stati dirottati e per fare che cosa e per chi. È tuttora inagibile in quanto degradato, specie il prospetto e l’ampio salone ennagonale, addirittura il Comune non è in possesso delle chiavi e nessuno può ipotizzare e garantire quale sarà il suo destino! La cittadinanza, insieme con cultori di storia patria e di arte, insieme con turisti e visitatori, attende di vederlo quanto prima aperto e fruibile in tutta la sua struttura, com’è stato prima dell’oscuramento causato dalla realizzazione del mercato coperto ben oltre un secolo addietro. Indubbiamente è il più importante contenitore culturale ereditato dalla storia. Solo se restituito dal demanio alla città e liberato dalle infauste superfetazioni legittimate dall’utilizzo improprio che lo Stato ne ha fatto ospitando per lunghi decenni la caserma della GdF e insieme il deposito dei Monopoli di Stato, potrebbe divenire un volano di sviluppo per un turismo culturale di eccezionale portata proiettato per le più disparate attività: riferimento per cittadini e forestieri, strumento di rivalutazione dell’antico borgo medievale, in grado di raccontarci l’eredità del glorioso passato che resiste tuttora ad insegnarci cosa fare nel presente e soprattutto cosa programmare per il futuro.

Se poi, tra le altre opzioni progettuali da tempo in cantiere, si volesse pervicacemente insistere, come finora s’è fatto, a “riqualificare” l’ex mercato coperto dando seguito ad un’idea scellerata, inadeguata e solo dilatoria senza rendere più vivibile l’attigua piazza Imbriani, salotto di richiamo del centro storico, sarebbe un’altra opportunità persa per la “perla dello Ionio”. Ma, perché possa restare davvero una perla a tutti gli effetti, vanno messe in sicurezza e rivalutate tutte le risorse culturali esistenti insieme con quelle naturalistiche e paesaggistiche di cui il nostro territorio si pregia.

Un serio e attento amministratore non può non coniugare turismo, ambiente e cultura, essendo ormai tale connubio una necessità urgente e improrogabile. Un cambio di rotta e di mentalità è indispensabile per il decollo definitivo della “bella città”, che notoriamente non ha nulla da invidiare ad altre ma che viceversa è ingiustamente umiliata e abbandonata al suo destino. Palese, difatti, è il suo graduale declino generato da varie impunite responsabilità, facilmente identificabili in precise inadempienze istituzionali, frutto dell’arroganza legittimata da una democrazia malata, ma pure falsata dall’indifferenza generale.

Senza andare assai lontano, la lezione di Otranto docet! Chiara la “morale”! Per il definitivo decollo della città ionica non c’è spazio per opportunisti, insipienti e irresponsabili, servi sciocchi e ballerini, avventurieri, acrobati e saltimbanchi della politica, gente effimera dal fiuto infallibile dietro al “vecchio che avanza” e che ritorna a dettar legge, sadico in “poltrona” con una regia occulta. Siano dunque all’erta, pronti a consigliare e suggerire quanto è da fare con sollecitudine, almeno i benpensanti, oggi più che mai delusi e in attesa che risorgano i valori della cultura. Tutto dipende ovviamente dalla buona politica, ossia dalla volontà non tanto di conoscere e interpretare, quanto di affrontare e risolvere i più elementari problemi che più ci assillano.

Agli amministratori va ribadita la solita lagnanza con un accorato appello: l’urgenza di priorità improrogabili da perseguire senza perdere ulteriore tempo. Chi sceglie Gallipoli si aspetta realizzato un certo modo di vivere nel rispetto di una moderna civiltà fatta di ordine e pulizia ad ogni livello, a partire dal centro storico tuttora sacrificato e derelitto, prigioniero di assurdi, ingiustificati ritardi. È proprio questo il problema principe e resta ancora un sogno per chi con dolore e rammarico attende ansioso di ammirare i beni culturali finora impunemente trascurati, come il castello chiuso nel suo degrado e soffocato non si sa da quali oscuri misteri!

Se si riuscirà a risolvere questo cruciale problema,  tutto il resto verrà di seguito come naturale conseguenza. Ma sarà possibile solo se s’intende operare unicamente per il bene comune, con trasparenza e competenza, tenacia e integrità morale, facendo politica autentica, mai ricorrendo a strumenti inequivocabili di un mortificante imbarbarimento del teatrino della politica, deteriorata e declassata fino al qualunquismo trasversale e strisciante, orfana di dialogo e tolleranza.

Ma, se Gallipoli stenta ancora a decollare, la responsabilità morale appartiene agli stessi gallipolini, mai sagaci, svegli e liberi da umilianti ricatti o condizionamenti con cui purtroppo si crea maggioranza e governo di una democrazia piuttosto fragile. Un imperativo categorico deve guidare in futuro quanti, capaci, operosi e consapevoli dell’impegno civile, si sentono legati alle loro radici, allo “scoglio”, stanchi di sbirciare dalla finestra, disponibili non alla facile critica denigratoria, demolitrice, ma alla dialettica democratica, per  “riappropriarsi” con fierezza delle sorti della città da governare con onore e rispetto, non verbis sed rebus.

Potranno pure essere, per indole, amanti del forestiero alla ribalta, non senza tuttavia essere politicamente maturi e pronti a denunciare e respingere i mercanti di voti e privilegi, sempre più spregiudicati in periodo elettorale nel costruirsi solide e facili “fortune”, mai domi e mai sazi di potere, figlio diretto del moderno dio dell’opulenza. A quanto pare, qui da noi la politica è di rado amante della cultura e il suo motto resta ancora legato al vile ricatto, che tradotto vale tristemente: “Ma cci me tocca a mme?”.

Intanto, nell’indifferenza generale, non pare siano ancora conclusi i lavori nell’ex mercato coperto addossato al castello, di cui peraltro invano si auspica l’apertura definitiva. Ma quando? Spetta agli intellettuali, al mondo della cultura incalzare il lavoro dei politici, ma spetterà alla politica investire per tutelare lo scrigno delle nostre risorse culturali da renderle fruibili alla collettività. Il potere finora ci ha irriso, forse sicuro di presentarci domani il conto di non si sa quali risibili “atti concreti”!

 

 

Il Calvario di Ortelle

di Angelo Micello

 

Commissionato da una nobile famiglia ortellese, come per tutte queste architetture religiose aperte ed esterne, il calvario di Ortelle si pone in posizione fortemente scenica rispetto al contesto urbano formando la perfetta la quinta finale di corso Vittorio Emanuele II in direzione sud.

Nato negli ultimi decenni dell’ottocento come buona parte dei calvari dell’area Jonico-salentina, è caratterizzato da una struttura a portico in pietra leccese (ad eccezione del prospetto posteriore) che dispone di un proprio spazio urbano formato da una grande villetta appositamente dedicata. Se in altri ambiti la struttura  devozionale è ubicata su piccoli larghi o appoggiata ad altri fabbricati civili, qui ad Ortelle alla struttura è dedicato un proprio spazio e concorre alla definizione delle visuali prospettiche urbane nell’ambito di maggiore prestigio del paese.

Per un approfondimento sui calvari pugliesi segnalo uno studio organico di Bruno Perretti e alcune considerazioni su queste architetture minori di Francesca Talò.

Fu affrescato da Giuseppe Bottazzi (1821-1890) probabilmente negli ultimi anni della sua attività, un vero e proprio manierista delle rappresentazioni religiose e dei calvari in particolare. I tagli, le pose e i colori delle figurazioni del Bottazzi sono replicate per esempio nel calvario di Montesano Salentino (commissionato nel 1873). Formatosi presso il concittadino Francesco Saverio Russo, dopo una pausa di studio e di prime esperienze a Napoli, nel 1849 fece ritorno a Diso ed ebbe tra i suoi disceppoli Paolo Emilio Stasi di Spongano, Giuseppe Mangionello e Nino Palma di Maglie, Vincenzo Valente di Specchia, Roberto Palamà di Sogliano, Alessandro Bortone di Diso, Emilio Iannuzzi ed altri.

Per la sua capacità tecnica nei dipinti murali ben presto gli vennero commissionati molte opere all’aperto, soprattutto calvari; tra quelli finora certi: Ortelle, Specchia Preti, Montesano Salentino e Morciano di Leuca tutti eseguiti con la tecnica del mezzo fresco che gli permetteva di ridurre di molto i tempi di esecuzione delle opere.

A Ortelle, come negli altri calvari, illustrò le immagini della Passione di Gesù Cristo, raffigurandovi i cinque Misteri Dolorosi del Rosario secondo lo schema delle Litanie Lauretane. Tre delle cinque scene sono collocate sull’abside centrale. Al centro la Crocifissione con la Vergine, San Giovanni e la Maddalena.

Alla sinistra la Flagellazione

Alla destra una stazione dell’Andata al Calvario, con la Maddalena

Nei due bracci laterali altre due stazioni della Passione, come la Coronazione di spine

e l’ultimo quadro la Preghiera nell’orto degli ulivi:

L’edificio, pregevolissimo negli equilibrati prospetti in pietra leccese, è arricchito da cancelli in ferro e ghisa e da ringhiere di pietra di pianta quadrata.

Le foto del post ed altre di dettaglio, in maggiore risoluzione, le scaricate QUI

La rifondazione normanna di Manduria nel 1090: realtà o mito?

 di Nicola Morrone

Come è noto ai più, non è ancora possibile ricostruire con sufficiente chiarezza le vicende che hanno interessato il territorio di Manduria in epoca medievale. In relazione al periodo altomedievale (secc. V-X) i dati documentari a nostra disposizione sono per il momento davvero esigui, per non dire quasi inesistenti, e poche sono anche le evidenze monumentali a partire dalle quali si possa tentare di delineare un quadro degli accadimenti.

In questo senso, un contributo significativo rispetto alla conoscenza di tanti fatti ancora avvolti dall’oscurità potrà venire solo dalla ricerca archeologica, di cui auspichiamo una decisa ripresa.

Per ciò che riguarda invece il periodo basso medievale (secc. XI-XV), nella ricostruzione delle vicende che hanno interessato il nostro territorio, tutti gli storici (locali e accademici) partono solitamente da un dato tradizionale, cioè la rifondazione di Manduria con il nome di Casalnuovo ad opera di Ruggero il normanno nell’anno 1090.

Roberto il Guiscardo e Ruggero il Normanno

Ora, sulla fondatezza storica di questo dato tradizionale vorremmo fare alcune considerazioni, tentando altresì di ricostruire, con i pochi elementi a nostra disposizione, una verosimile sequenza di ciò che realmente può essere accaduto in quello scorcio dell’XI secolo nel nostro territorio. A questo proposito, il necessario punto di partenza del nostro discorso è la testimonianza dell’anonimo compilatore del Chronicon Breve Northmannicum (Rerum Italicarum Scriptores, tomo V) il quale ci fa sapere che, alla data del 1061, “mense Ianuario Rogerius comes intravit Mandurium”. Cioè, letteralmente, “nel mese di Gennaio (del 1061) il conte Ruggero entrò in Manduria”. È questo l’unico dato storiografico che, indipendentemente dalla sua veridicità, possediamo sulle vicende manduriane dell’XI secolo, dal momento che, come già detto, il 1090 è un dato tradizionale, che non è per il momento possibile verificare nè in relazione alle cronache coeve, nè tantomeno in relazione a un’evidenza documentaria.

Nell’ultima, pregevolissima  ricostruzione globale della storia di Manduria dalle origini ai giorni nostri, quella cioè di Pietro Brunetti (Manduria tra storia e leggenda, Manduria 2007), alla pagina 159 si afferma che “Roberto il Guiscardo e il figlio Ruggero Borsa sono impegnati nella conquista della Puglia” negli anni 1061-1063. In realtà, in considerazione della cronologia dei singoli personaggi storici, il dato andrebbe lievemente corretto: ad essere impegnati nella conquista della Puglia in quegli anni sono precisamente Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero I d’Altavilla. Cioè il Ruggero che verosimilmente nel 1061 entrò in Manduria è appunto il fratello minore del Guiscardo, colui che nel 1062 diventò il “Gran Conte”.

Ruggero I a cavallo (da numismaticavaresi.binside.com)

Fin qui arrivano i dati verificabili nella storiografia ufficiale. Parallelamente alla storiografia “ufficiale” si è però sviluppato un altro filone, quello portato avanti dagli storici locali, che hanno tenacemente tramandato sino ai giorni nostri la “famosa” presunta data della rifondazione di Manduria con il nome di Casalnuovo, cioè il  1090. Se qualcosa è veramente successo in quella data, cioè a ben trent’anni di distanza dall’effettivo ingresso dei Normanni nell’area dell’antica Manduria messapica, avrà però riguardato un altro Ruggero il normanno, cioè Ruggero Borsa, figlio di secondo letto di Roberto il Guiscardo. Ruggero I, infatti, zio di Ruggero Borsa, non poteva trovarsi a Manduria, essendo impegnato verosimilmente su scenari di guerra siciliani (al 1090 data infatti l’assedio e la conquista normanna di Butera ad opera del Gran Conte). Anche in relazione a questo dato, le osservazioni fatte a pagina 159 dell’ultima sintesi della storia di Manduria vanno lievemente corrette.

La domanda, molto concreta, che ci si pone allora a questo punto è: tenendo presente la cronologia, si può arrivare a stabilire con relativa certezza quando è stata rifondata Manduria con il nome di Casalnuovo?

La famiglia Altavilla. Da sinistra verso destra: Tancredi e Fressennda, i figli in ordine di età: Serlone, Guglielmo, Drogone, Umfredo, Goffredo, Roberto, Malgero, Guglielmo, Alveredo, Tancredi, Umberto e Ruggero

Il dato da tenere presente è sempre il 1061. Se davvero in quell’anno Ruggero I occupò Manduria con le sue truppe, qualcosa sarà pure successo nei trent’anni che passano dal 1061 al 1090. C’era tutto il tempo, in questi trent’anni, di fondare un nuovo nucleo abitato (casale), ripopolandolo con le genti accorse dalla campagna, dopo aver fatto costruire la civica chiesa, com’era strategia consolidata dei conquistatori normanni.

In conclusione, alla data tradizionale del 1090 a Casalnuovo erano verosimilmente già successe molte cose, purtroppo ancora non sufficientemente documentate. È probabile quindi che la stessa fondazione della cappella normanna del casale (di cui non rimane traccia) debba essere anticipata di qualche decennio. La data del 1090 come quella della rifondazione della comunità mandurina fu poi pubblicamente “consacrata” e resa visibile ai cittadini nel 1895 con la collocazione di una lapide posta sul retro dell’Arco di Sant’Angelo. Non sappiamo a quale fonte abbia fatto riferimento l’estensore dell’epigrafe, ma è evidente che in quel momento il 1090 come anno topico per la rifondazione di Manduria era ormai un dato tradizionalmente acquisito.

Resta da chiarire come questa data ha fatto il suo ingresso nella storiografia della città. Abbiamo riscontrato la presenza della data del 1090 solo nell’opera di uno storico locale, comunemente definito Anonimo Oritano, autore di un manoscritto intitolato Narrazione Storica delle Antichità Oritane. Egli appunto afferma che nel 1090 Casinovi (Casalnuovo) fu edificata in un angolo dell’antica Manduria per ordine di Ruggero. Come era però consuetudine dei raccoglitori di patrie memorie di quell’epoca, l’autore non fa riferimento ad alcuna fonte documentaria per supportare la veridicità delle sue affermazioni; di conseguenza, fino a quando non sarà possibile verificarlo documentalmente, il 1090 resta un dato puramente tradizionale. Dall’Anonimo Oritano, poi, il 1090, già per altre vie entrato nella storiografia mandurina, passa verosimilmente al Pacelli e, quindi, agli storici locali successivi, per essere finalmente consacrato con la lapide del 1895.

Ma, al di là della tradizione locale, cosa afferma la storiografia accademica in relazione alla fondazione normanna di Casalnuovo? Il prof. Cosimo Damiano Poso, massimo conoscitore della storia del Salento in età normanna, addirittura esclude che il toponimo “Casalenovum” con cui fu chiamata la Manduria rifondata possa attribuirsi ad epoca normanna. L’illustre accademico leccese giunge a questa conclusione, però, solo sulla base dei pochissimi documenti dei secoli XI-XII a noi pervenuti, in cui effettivamente (a differenza, per esempio, di san Pietro in Bevagna, Felline e Mandurino) Casalnuovo non compare. Il prof. Poso, come ogni accademico che si rispetti, ragiona cioè in linea di assoluta scientificità, ma in considerazione della ricostruzione da noi proposta in precedenza, e soprattutto tenendo conto della mole di documenti di età normanna andati perduti, riteniamo che la rifondazione normanna di Casalnuovo si debba ammettere, almeno come ipotesi. E l’ipotesi con cui ci sentiamo di concordare è, più o meno, quella avanzata dallo storico locale Pietro Brunetti, proposta a pagina 159 del suo volume sulla storia di Manduria.

In conclusione, poichè gli eventi del passato non sono ricostruibili in laboratorio, una comprensione piena di ciò che effettivamente accadde in quella convulsa seconda metà dell’XI secolo nel territorio di Manduria ci è per ora in parte negata, almeno fino a quando nuove ed auspicabili scoperte documentarie ci consentiranno di fare maggior luce sugli accadimenti. Tuttavia, pur con le grosse difficoltà che un razionale approccio al problema pone, mettendo insieme le scarne testimonianze documentarie e dando ai dati tradizionali il credito che meritano, siamo portati a ritenere che in ogni caso veramente, nella seconda metà dell’XI secolo, in un angolo della gloriosa Manduria messapica si dovette fondare un piccolo centro abitato da cui, dopo i difficili e lunghi secoli del Medioevo, si originò la Manduria moderna.

 


In fuga dalla Terra d’Otranto: spunti sull’emigrazione salentina di inizio Novecento

 

di Alessio Palumbo

 

Con l’arrivo dell’estate le campagne tornano ad animarsi. La raccolta di pomodori, angurie e quant’altro, impegna una vasta manodopera, spesso immigrata. Povera gente che, in molti casi, fugge da condizioni sociali ed economiche terribili e cerca di allontanare lo spettro della fame lavorando nelle nostre campagne. Non di rado sono immigrati irregolari, pagati pochi soldi e stipati in alloggi di fortuna. Svolgono quei lavori spesso rifiutati dagli italiani, ma ciò non garantisce loro rispetto o solidarietà. Anzi, in molti casi sono esclusivamente additati come causa di disordini, come autori di atti criminosi. Sono degli indesiderati. Sono le “vittime” di chi ha una scarsa conoscenza delle proprie origini e della propria storia.

Troppo spesso, infatti, confusi da immagini edulcorate sul nostro passato, fermandoci alle rappresentazioni della campagna salentina come luogo sì di lavoro, ma soprattutto di feste contadine e di canti al ritmo dei tamburelli, dimentichiamo che anche i nostri antenati hanno vissuto l’emigrazione, lo sfruttamento, il disprezzo degli altri popoli.

da Come Eravamo: il mio Sud

Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900,  l’agricoltura del sud Italia attraversò un periodo di profondo regresso a causa sia di trattati commerciali dannosi per le colture del Mezzogiorno sia di periodiche crisi agricole, dovute tra l’altro alla diffusione di malattie parassitarie. A questa difficile situazione le popolazioni meridionali risposero, in molti casi, con l’emigrazione in Europa ed oltreoceano.

Nel Salento la crisi fu particolarmente grave, intaccando le due principali colture locali: la vite e l’ulivo. Dal 1892 in poi, interi uliveti furono colpiti da un’epidemia, la brusca, che costrinse i proprietari a sradicare numerose piante, facendole saltare in aria con la dinamite. Nel giro di pochi anni anche la vite fu infettata da una malattia parassitaria, la filossera. Ne derivò un terribile immiserimento per tutti coloro che vivevano del lavoro nei campi:la Terrad’Otranto divenne per molti una terra di disperazione.

Per tutto il primo quindicennio del secolo, una miseria terribile e diffusa impedì a gran parte del proletariato salentino persino di  racimolare il denaro necessario per emigrare oltre confine. Scriveva Francesco Coletti:

M’interessa segnalare una zona delle più disgraziate posta nel Subappennino (nei circondari di Lecce e Gallipoli), la quale ancora non fornisce emigranti: è gente isolata e denutrita, che ha paura dell’ignoto e persino stenterebbe a racimolare il peculio per il viaggio”[1]

Enormi masse di contadini cercarono quindi di sottrarsi alla fame e alla povertà spostandosi nelle campagne del brindisino, del Tavoliere e persino della Calabria. Nei borghi, flagellati dalla malaria e da periodiche epidemie di colera, rimasero le famiglie e quei pochi che potevano far a meno di emigrare. Come dimostrano le numerose inchieste dell’epoca e le denunce dei meridionalisti, gli immigrati dal basso Salento venivano alloggiati in posti di fortuna, costretti a lavorare dall’alba al tramonto, tra il disprezzo e l’astio dei contadini locali. Per i braccianti baresi e foggiani, spesso già organizzati in combattive leghe di lavoro, i leccesi erano soltanto degli affamatori che svendevano per nulla il proprio lavoro, causando così un abbassamento generale dei salari. Le carte prefettizie testimoniano le aggressioni ai danni dei contadini salentini:

“Queste immigrazioni […] danno luogo a incidenti fra gli immigrati e gli indigeni i quali temono ribassi nei salari. La cronaca deve registrare casi non infrequenti di violenze commesse a danno degli immigrati”[2]

“Gli operai giornalieri restano, di regola di notte alle masserie; le condizioni di ricovero variano da masseria a masseria. Nel migliore dei casi gli adulti maschi stanno in un locale, le femmine e i ragazzi in un altro. D’estate per molte masserie anche in siti malarici, si dorme all’aperto tutti quanti o tutt’al più in qualche capanna di paglia, nei cui angoli gli uomini si ammucchiavano”[3]

da Come Eravamo: il mio Sud

Chi rimaneva nei luoghi d’origine molto spesso viveva di stenti. Gli scarsi sussidi del governo, le cucine economiche per i più poveri, l’opera di alcune società di mutuo soccorso e di enti benefici, rimanevano semplici palliativi per una situazione drammatica. Alcune testimonianze dell’epoca possono rendere maggiormente l’idea:

“Prolungamento piogge e deficienza lavori campestri sindaco Cutrofiano invoca concessione sussidio per distribuzione generi alimentari famiglie povere e bisognose […] anche per evitare turbamento ordine pubblico”[4]

“Sindaco Alezio invoca sussidio per impianto cucine economiche a pro contadini disoccupati. Dalle informazioni assunte risulta che causa piogge abbondanti quei terreni sono tutti allagati e quindi effettivamente vi è assoluta mancanza di lavoro con conseguente miseria della classe dei contadini”[5]

“Comune Casarano ove giorno sei corr. verificansi caso accertato colera ed ove occorre intensificare profilassi così nel capoluogo come nell’importante frazione Melissano, essendo deficienti servizi come fu constatati da ispezione medico provinciale. Chiede sussidio”[6]

Fermiamo qui la narrazione. Sono solo degli spunti per riflettere su un passato spesso dimenticato. Volendo, potremmo interrogarci sul perché di questa dimenticanza: si tratta di un passato troppo remoto per essere ricordato? O forse  talmente duro da “dover” essere dimenticato?


[1]Francesco Coletti, Dell’emigrazione italiana, 1911 in R. Villari, Il sud nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 1981

[2]Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini meridionali e della Sicilia – Puglie, vol III, tomo I: Relazione del delegato tecnico prof. G.Presutti, Tip. Nazionale di G.Berterio, Roma, 1909, p.170, in. F. Grassi, Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, Roma-Bari, Laterza, 1973

[3]Inchiesta sui contadini in Calabria e in Basilicata, in F.S. Nitti, Scritti, Bari, Laterza, 1968, p.182

[4] Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 04/03/1910, in Archivio Centrale dello Stato, M.I. Assistenza e beneficenza Pubblica, 1910-12, b.21

[5]Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 28/02/1910, ivi

[6]Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 10/01/1911, ivi

Istruzioni per non tediare un vegetariano

di Pier Paolo Tarsi

Non so se qualcuno di voi è vegetariano o frequenta assiduamente vegetariani, so in compenso che certamente anche qui essere vegetariani significa far parte di una sparuta e numericamente insignificante minoranza (ammesso sempre che il sottoscritto non sia l’unico e solo!). Ebbene per farvi capire come si vive da questa parte del cosmo, vorrei farvi un elenco ragionato delle miserie e dei fastidi cui è sottoposto costantemente un vegetariano (specialmente in Italia), sperando che questo mio sfogo possa servire anche a chi vegetariano non è, suggerendogli cosa evitare per non angustiare il prossimo vegetariano che avrà tra i piedi (devo dire subito che esiste tuttavia anche una razza di vegetariani specializzata ad angustiare gli onnivori). Tra le prime fatiche che un vegetariano affronta quotidianamente vi è proprio quella sensazione di far parte di una comunità microscopica, di essere una mosca bianca e in qualche modo un diverso. Ora, a questo senso di particolarità ognuno reagisce a modo suo, andando per generalizzazione i due atteggiamenti discordanti di fondo più riscontrabili sono da un lato quello di chi fa del proprio vegetarianesimo una bandiera da sventolare sempre e ovunque alla minima occasione (anche per abbordare, perché fa figo talvolta) come se fosse un segno di eroismo e levatura morale (atteggiamento questo che nasconde una scelta non matura e convinta di

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (III ed ultima parte)

L’ ABBAZIA DI S. MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA

di Marcello Gaballo

… Tra i beni ceduti vi era anche l’ edificio abbaziale di S. Maria de Balneo che, nell’ annotazione degli annui censi che ogni anno, nella festa dell’ Assunta, si devono versare alla Mensa Episcopale di Nardò, registrati nella visita pastorale del Vescovo Bovio del 1578[67], risulta essere ormai diventata masseria vulgariter dicta lo Bagno olim Abbatiae S. Leonardi de la Matina, sita in loco dicto lo Vagno, in territorio Neritoni, iuxta bona Abbatiae S. Maria de Alto et Abbatiae S. Nicolai de Scundo[68], ora del Mag. Gio: Francesco Della Porta e di cui era stato ultimo commendatario il Cardinale di Sermoneta. La masseria versava annualmente due libbre di cera et alias libras duas incensi. Dictus census debebat ab antiquo ipsi mense pro dicta Abbatia S. Leonardi.

Santa Maria al Bagno (Nardò-Lecce), masseria Fiume che ingloba, nella parte inferiore, l’abbazia di Santa Maria de Balneo

L’ acquisto dell’ edificio e del terreno circostante da parte del barone di Serrano Della Porta probabilmente comportò una sua modifica strutturale, avendo riutilizzato la maggior parte della costruzione precedente con i grossi muri esterni, aggiungendovi un corpo superiore per ottenenere così una torre con le caratteristiche di cui si è già detto e con elementi in comune con le numerose masserie fortificate del neritino e con le torri costiere che nello stesso periodo venivano erette lungo la costa a scopo difensivo.

Il notevole spessore murario del piano terra dell’edificio

Da Francesco di Antonio Della Porta la masseria con i terreni circostanti, come tutti gli altri beni della famiglia,  passò al figlio Giorgio Antonio, da cui alla figlia Eleonora[69]. Questa, sposa di Mario Paladini da Lecce, VII barone di Lizzanello e Melendugno, il 9 giugno 1589 vendette la masseria nuncupata de lo Bagno al magnificus Marco Antonio de Guarrerio per 1000 ducati, con un censo annuo di 90 carlini di argento[70].

Dal De Guarrerio il bene fu rivenduto per 1000 ducati ad un altro neritino, Antonio de Monte, con istrumento per notar Pietro Torricchio del 15/7/1590[71].

In un atto del 1597 ne sono proprietari Antonio e suo figlio Scipione de Monte[72].

l’accesso alla masseria visto dal cortile interno, prima degli ultimi restauri

Nel 1600 la masseria è denominata lo Bagno… cum turre, curtibus et omnibus territoriis, iuxta massariam abbatie sub titulo S.ti Nicolai de Scundo, iuxta bona benefitialia benefitii sub titulo S.ti Laurentii ac bona benefitialia sub titulo S. Caterina de Modio, iuxta litus maris ed appartiene al giudice Antonio

S. Vito ha una pietra forata: appunti per un rito arcaico

Calimera (Lecce), dintorni della cappella di San Vito

di Brizio Montinaro*

Che il Salento sia una penisola estremamente pietrosa non sono più solo gli abitanti del posto a saperlo, non sono i contadini disperati e piegati in due dal lavoro a farne quotidianamente i conti, ma oggi lo sanno anche i tanti turisti che vengono in questa terra dal misterioso fascino, arcaica e piena di sole a trascorrere le loro feriae. italiani e stranieri. Il Salentino ha avuto sempre un rapporto stretto con la pietra. E non è casuale che sia proprio questa terra uno dei siti più ricchi di monumenti di pietra: i megaliti.

Dolmen, specchie e menhir a centinaia sono sparsi per questo estremo lembo d’Italia. Nel 1955 G. Palumbo in un suo ” Inventario delle pietrefitte salentine ” contò poco meno di cento soltanto di questi prismi di pietra alti e sottili. E poi ancora i dolmen, mai veramente contati, e le tante specchie il cui mistero mai e stato risolto. ” Congestio lapidum ” dicono gli antichi storici e stendono un velo. E intanto intorno a questi coni di pietre si intrecciano in una fitta rete storie di sudore contadino, di tesori nascosti, di diavoli che si presentano come grandi bisce nere, more, come more erano altre bestie nella fantasia popolare: i Saraceni che terrorizzavano le genti delle masserie e delle terre costiere nei tempi passati.

In questi ultimi decenni i megaliti hanno cessato completamente di “parlare” ai salentini o, forse meglio, i salentini non intendono più il linguaggio delle pietre monumentali, linguaggio oggi quanto mai difficile, criptico. Sono attratti da altro, da altri problemi, da altre terre. La campagna non li interessa e le pietre che li hanno per secoli angosciati non li toccano più. Sono le coste la loro meta, il loro interesse, la loro speculazione. Ma in tanta indifferenza c’è ancora una pietra degna di attenzione perché parla un linguaggio chiaro e comprensibile. E’ una pietra che almeno una volta l’anno è meta di visite, se non proprio di pellegrini e devoti, come avviene in altri Santuari salentini, di persone che in un certo qual modo la venerano e credono confusamente ad un suo magico potere.

Appena fuori dell’abitato di Calimera, un paesino di origine greca a 15 chilometri a sud di Lecce, ad est del cimitero, nei pressi del fondo detto Malakrito esiste una piccola cappella dedicata a San Vito, chiusa tutto l’anno. Intorno, piccoli apprezzamenti di terreno coltivati in massima parte a olivi e spesso a metà tra la campagna vera e propria e l’orto.

A pochissima distanza le querce di un bosco, del bosco di Calimera. Nell’interno della cappella, leggermente sulla destra, sporge dall’impiantito una grossa pietra calcarea. Su parte della superficie, tracce di colore di un dipinto difficilmente riconducibile ad un preciso momento storico e raffigurante forse l’effigie di San Vito.

Calimera, la pietra forata nella cappella di San Vito

Tutti gli anni, il giorno di Pasquetta, gli abitanti del vicino centro di Calimera andavano, e ancora vanno, a consumare la festa a ” Santu Vitu “, come oggi si

L’ortica. Tanti nomi dialettali per una pianta “che brucia”

La cantarìnula

 

di Armando Polito

 

nome italiano: Ortica maggiore

nome scientifico: Urtica urens L.

famiglia: Urticaceae

nomi dialettali salentini: cantarìnula (Nardò), ardìca (Alessano, Spongano), ardìcula (Neviano, Erchie, San Vito dei Normanni, Cisternino, Mottola, Massafra, Palagiano), ardìchele (Ceglie Messapico, Martina Franca) ardìchela (Ostuni), irdìca (Galatone), irdìcula (Veglie), àrdeche (Taranto), urdìca (Aradeo, Castrignano del Capo, Collepasso, Galatina, Miggiano, Presicce, Sogliano, Specchia), lurdica (Cutrofiano, Parabita, Vernole, Surbo), vurdìca (Salve).

Etimologie dei nomi: l’italiano, il primo componente dello scientifico e quello della famiglia sono dal latino urtìcam, probabilmente connesso col verbo ùrere=bruciare; il secondo componente del nome scientifico (urens=che brucia) altro non è che il participio presente del verbo latino appena ricordato; per quanto riguarda i nomi dialettali salentini, mentre ardìca, ardìcula, ardìchele, ardeche si collegano al verbo ardere1 (da notare in ardìcula e ardèchele l’aggiunta di un suffisso diminutivo) urdìca è direttamente dal detto latino urtìcam;  lurdica, poi, è sua figlia per agglutinazione dell’articolo (l’urdica>lurdìca>la lurdìca) cui potrebbe essere non estraneo un incrocio con lurdu, come pure vurdìca che registra

Salento a tavola. La patata novella Sieglinde di Galatina

di Massimo Vaglio

La patata (Solanum tuberosum), benché introdotta in Europa dall’America nel XVI secolo, sarà per circa due secoli coltivata come curiosità botanica e a scopi medicinali, rigorosamente per uso esterno, come lenitivo per piaghe e scottature. Solo le carestie del Settecento, e la promozione effettuata dai governi dell’epoca, rimossero i gravi pregiudizi che la attorniavano, e questo strano tartufo bianco, come spesso veniva indicata, cominciò ad essere accolto nei campi e sulle mense. Sulla scorta delle rape venivano lessate e condite con olio, aceto e sale, oppure con olio, aglio, pepe, e prezzemolo.

Nel Salento, grande impulso alla sua coltivazione, ed al suo uso, venne dato dall’oritano Vincenzo Corrado, che nel suo famoso libro di cucina, Il Cuoco Galante, include un Trattato sulle patate o pomi di terra, ove egli consiglia l’uso della fecola di patate per confezionare il pane, mescolandola al 50% con la farina di grano; e ne rivela oltre cinquanta modi diversi d’impiego gastronomico.

La patata novella Sieglinde di Galatina, è una pregiata varietà orticola di patata. Presenta tuberi di forma ovale allungata, del peso medio di 80-100 grammi, buccia di colore giallo intenso, brillante e pasta gialla. Nel Salento, e in particolare nella parte Sud Occidentale dello stesso caratterizzata dalla presenza della cosiddetta sinopia, ovvero, della terra rossa, ha trovato un ambiente particolarmente congeniale e sviluppa ineguagliabili caratteristiche

La Città Bella nei diari di alcuni viaggiatori

il castello di Gallipoli (ph Vincenzo Gaballo)

di Alessio Palumbo

Alla fine dell’800 la crisi del commercio e della produzione olearia in Puglia e l’affermarsi dei porti di Taranto e Brindisi mise in ginocchio l’economia di Gallipoli. I commerci, le attività artigianali ed industriali, come ad esempio la produzione di botti, subirono una drastica contrazione. Ciò pose fine al periodo di splendore e ricchezza vissuto dalla città tra il XVIII e il XIX. Di tale “età dell’oro” rimangono le affascinanti testimonianze di alcuni viaggiatori.

Nel 1789, agli albori della rivoluzione che avrebbe sconvolto le sorti di mezza Europa, così Carlo Ulisse De Salis Marschlins descriveva la città bella, nel suo Viaggio nel Regno di Napoli:

“Gallipoli è un paese di 7000 abitanti, con strade sporche e strette, e situato sopra una roccia che sporge nel mare […]. Quantunque non abbia né porto, né una sicura rada per le imbarcazioni, a Gallipoli si pratica il commercio più importante del Regno. Vengono di qui esportate annualmente 150.000 salme d’olio […] Gallipoli è certamente un fenomeno fra le città commerciali, ed è inconcepibile come questo fiorente commercio riesca a mantenersi” (C.U. De Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, Cavallino, L.Capone, 1979, pp. 148-149).

Una città inaspettatamente ricca dal punto di vista economico, dunque, ma non esteriormente. Le strade sono sporche, il porto è inesistente. Un giudizio non isolato, quello del De Salis.

Circa un secolo dopo infatti, nel 1882, Cosimo De Giorgi, esprimeva la sua ammirazione per il dinamismo della città, ma non per le sue bellezze artistiche ed architettoniche. Un vero e proprio nonsense per la città Bella:

“Il borgo di Gallipoli non ha nulla di artistico” scriveva De Giorgi “ma pure

Lettera a mio cugino residente a Taviano

di Ezio Sanapo

PRIMA GENERAZIONE

 

Caro cugino,

Lo scorso mese di giugno 2004, sono stato, per vari motivi nel nostro paese di origine e ho chiesto di te. Mi hanno detto che ora risiedi a Taviano presso una nuova e confortevole casa di cura per disabili e malati mentali e che lì tutti ti vogliono bene. Così ci siamo rivisti, dopo non so quanti anni a Taviano.

In tutto questo lungo periodo, credimi, ho potuto riflettere meglio per capire queste nostre due esperienze di vita, vissute agli antipodi, come i due lati della stessa medaglia, ma simili tra loro.

Noi, ti ricordi, siamo cresciuti insieme per tutto il periodo della nostra infanzia fino all’età di sei anni. Poi ti hanno rinchiuso in un orfanotrofio e lì hai potuto studiare. Io invece come tu sai, sono rimasto in paese e lì ho dovuto inventarmi un lavoro molto riduttivo e con quello ho potuto lavorare mentre aspettavo il tuo ritorno per le festività di Pasqua, Natale e poi tutta l’estate.

Durante quei periodi e per gli anni che scorrevano, abbiamo ragionato molto sul mondo così com’era e come lo immaginavamo. Era come qualcosa che ti sfugge di mano e ti accorgi poi che non hai più. Quel mondo stava radicalmente cambiando, con le contraddizioni e le conseguenze che ne sono derivate.

Era il 1960: il consumismo e il miraggio del benessere economico, l’abbandono del paese, l’emigrazione e la disgregazione di una intera comunità. Intanto, grazie ai tuoi studi, noi avevamo scoperto e condiviso un reciproco interesse per i classici: la musica, la poesia, la letteratura, il cinema, il teatro e tutto ciò era bastato a preservarci da un imbarbarimento sempre più diffuso. La nostra generazione non aveva potuto, nè voluto continuare a tramandare i valori di un modello culturale, quello nostro di origine, ritenuto non più credibile. Noi però in quegli anni abbiamo vissuto quei brevi periodi, molto intensamente ed in maniera diversa. Grazie alla nostra fervida fantasia ci siamo creati uno schema esistenziale approssimativo ma tutto nostro, basato su valori e principi controcorrente, una specie di ’68 molto anticipato che però non rinnegava niente del proprio passato.

Un ’68 che poi è arrivato ma, per noi, non aveva più senso. Fu l’anno del nostro ‘primo esodo: tu in Germania per ragioni economiche, io in Svizzera per incomprensioni familiari. La gente in quel periodo viveva con entusiasmo un clima di festa e di rinascita, di entusiasmo. Tutto questo sarebbe sfociato poi in più impegno nel sociale, in politica e quindi nelle lotte per la conquista di diritti fondamentali.

Tanta volontà, passione, ma anche ingenuità e utopia. Nessuno si aspettava una così feroce e violenta controffensiva conservatrice che da lì a poco, con un nuovo clima di tensione e paura, avrebbe determinato la fuga di ognuno nel suo privato (la comunità non c’era più), la caduta di ogni certezza acquisita (quelle d’origine le avevamo rinnegate) e da tutto ciò ne è scaturita una crisi d’identità che ha causato danni in ogni singola famiglia. Noi tutto questo l’abbiamo visto col senno di poi.  Alla ricerca delle nostre radici negli anni ’70, io ero tornato in paese e tu con il tuo bravo diploma acquisito in orfanotrofio, hai trovato lavoro all’ltalsider di Taranto, dopo un breve periodo in una fabbrica tedesca. Le tue esperienze in fabbrica, Germania prima e Taranto dopo, ti hanno fatto scoprire la realtà cruda e cruda che sicuramente ignoravi.

Hai avuto un ripensamento, uno sbandamento e hai tentato anche tu una fuga a ritroso, ma indietro, nel tuo passato, come un chiodo dolorosamente piantato nella memoria, c’era l’orfanotrofio con tutti i suoi orrori. Ricordo allora quando mi confidavi che nell’orfanotrofio i bambini più malinconici smarriti e provati fisicamente, venivano fotografati e fatti pubblicare sul giornalino da mandare a tutte le famiglie, insieme al vaglia per le offerte […] I più carini invece, scelti in mezzo a tanti, erano privilegiati e coccolati. A questi, i padri educatori manifestavano certe attenzioni, nessuno avrebbe reagito, nessuno avrebbe saputo. Ognuno di questi bambini pensava di essere il solo, il fortunato, magari prescelto da un disegno divino”.

Tra questi c’eri tu, Sergio, all’anagrafe Salvatore, nato il 25 dicembre, notte santa di Natale. Mi raccontavi che il padre educatore che abusava di te, ti leggeva il Vangelo, quello di San Matteo che racconta di Gesù Bambino, Salvatore e nato la stessa notte come te, morto poi sulla croce per scontare tutti i nostri peccati. Successe allora così, un corto circuito improvviso nella tua mente, pesante come una croce, la tua.


SECONDA GENERAZIONE

Come tu sai, io sono invece cresciuto in mezzo alle insidie quotidiane e questo mi ha preservato dal male che ti ha colpito. Ho avuto credimi molta forza d’animo per continuare anche da solo a far valere le ragioni tutte ideali, dei nostri principi. L’ho fatto anche per te.

Quello che ho potuto fare è sicuramente servito a preparare il terreno a quanti sarebbero ritornati nel nostro paese: Quelli che partivano per cercare lavoro e quelli che invece per studiare alle università del nord. Quelli partiti per lavoro non sono più tornati, gli studenti, invece (li abbiamo aspettati tanto) sono puntualmente arrivati: medici, ingegneri, avvocati, professori. Appena arrivati diventavano esattamente come quelli che c’erano già, lo stesso opportunismo, la stessa arroganza e secolare mentalità borbonica che ancora oggi fa comodo e si tramanda.

Allora ho capito che la realtà lì non sarebbe cambiata anzi riceveva rinforzi. La maggior parte dei medici di famiglia si alternano a spadroneggiare con metodi feudali i paesi del sud come il nostro, questo perché la gente lì, più che altrove, ha due chiodi fissi: la morte e la malattia. Su queste paure medici e preti senza scrupoli hanno sempre speculato sui risvolti emotivi della gente strappando loro i consensi necessari per il controllo del territorio. Per questo, nelle competizioni elettorali di quei paesi i medici sono sempre primi e al comando di ogni lista, con tutta la loro ipocrisia ideologica. Di riempimento e a seguire tutti gli altri, le loro pretese in base al titolo.

Era il periodo degli arrampicatori sociali, arrivisti e furbi di ogni genere, gli ideali erano il loro tormento. Quel periodo ha segnato il nostro ‘secondo esodo’: tu a Taviano e io a Parma. Come tu sai, il mio impegno ha sempre avuto una motivazione ideale, un’esigenza caratteriale che ho pagato a caro prezzo, niente per interessi personali. Gli ideali ti portano a fare scelte di vita che non puoi barattare con un posto di lavoro, una licenza edilizia, una strada asfaltata che ti arriva fino a casa e lì la strada finisce.

Gli ideali non si barattano con un parcheggio contornato di verde, fatto costruire d’autorità accanto alla propria casa con la scusante dell’interesse pubblico. Chi non ha ideali non può avere scrupoli e anche questo è un dato caratteriale che può esplicitarsi e avere ragione solo in un basso della storia, perché come tu sai la storia è fatta di alti e bassi e questi livelli valgono per tutti, nessuno è escluso. Cambia solo il valore di cosa si rimette o si guadagna.

Il compito che ha la storia è quello di quantificare, soppesare e discernere inesorabilmente. Lo so, caro cugino, cosa hai provato quando hai capito che crescere significava subire una trasformazione, accettare l’ipocrisia, la furbizia e la mediocrità come regole di vita e su queste regole, misurarsi con gli altri: sopraffare per non essere sopraffatti. Hai accettato la pazzia perché questo ti permetteva di restare bambino, ti sei rifiutato di crescere.


TERZA GENERAZIONE

Ma noi intanto siamo cresciuti e il mese di giugno scorso ci siamo ritrovati a parlare per la prima volta da adulti ma con le stesse idee, perché le idee non muoiono, non invecchiano, e restano giovani per sempre. Nel nostro paese ho conosciuto gente che ha tanto bisogno di speranza e di credere che il peggio è passato.

Oggi ci tengo a dirti che sul grafico della storia siamo ad una risalita: c’è forse un’altra generazione che avanza. Non parlo della nostra, ingenua e bidonata, né di quella attuale, fredda e calcolatrice, ti parlo di una generazione nuova, con più orgoglio e dignità: una terza generazione, forse quella ideale. Con questa occorrerà costruire un dialogo, stabilire un contatto (di questo lo gente ha bisogno)e tu puoi farlo da Taviano, io da Parma e di seguito tutti gli altri mille, duemila paesani sparsi in tutto il mondo.

Un’intera comunità che si ricompone. Non è l’annuncio di una speranza messianica nè tanto meno di una rivoluzione. Ti lascio con il progetto, forse l’unico possibile, di un sogno infantile interrotto tanti anni fa, così sarai tranquillo per un po’. Sono tanti anni che non dormi più e finalmente potrai farlo ora; abbiamo un intero millennio davanti, alla fine di questo faremo un bilancio, io sarò lì ad aspettarti.

Ciao, tuo cugino Parma, 20 luglio 2004

“Andrò a chiedere a Dio

La mia antica anima di bambino

Con il cappello di carta

E la spada di legno”

(F. Garcia Lorca)

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (II parte)

Santa Maria al Bagno - Nardò (Lecce), masseria Fiume, ingresso principale

L’ ABBAZIA DI S. MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA (seconda parte. La vendita di tutti i beni pugliesi dell’ordine)

 

di Marcello Gaballo

… Per restare nello specifico della nostra abbazia di S. Maria e nel tentativo di ordinare cronologicamente le sue vicende attraverso i documenti pervenutici, l’ Ordine, rappresentato dal procuratore Giovanni Helfenbeck di Norimberga, dovette sostenere una lite con la diocesi neritina, rappresentata dal vescovo Stefano Agricola De Pendinellis (1436-1451), per il possesso pleno jure dell’ abbazia di S. Maria de Balneo; lite poi risolta da papa Eugenio IV, che confermò al monastero di S. Leonardo di Siponto il possesso  dell’ abbazia[42].

Il primo documento sulla questione è stato riportato dal Camobreco nel suo “Regesto”[43]. Datato 13 aprile 1440 e rilasciato a Barletta, vede tra i testimoni pure Marinus de Falconibus et Perrus eius frater, Lodovicus de Noya, Petrus de Fonte Francisco, artium et medecine doctores, fr. Cicchus abbas S. Marie de Alto, fr. Benedictus abbas S. Angeli de Salute, Cobellus Cafaro vicarius Episcopi in spiritualibus, abbas Nicolaus Grande episcopi vicarius in temporalibus, fr. Victori Gayetanus propositus maioris eccl. Neritonensis, not. Antonius Natalis, not. Loysius Securo et not. Loysius de Vito, tutti di Nardò.

 

Un altro documento datato 20 giugno 1444, rilasciato in Manfredonia[44], tra l’ altro riporta: …locumtenentem cum aliis fratibus dicentes ab antiquo possedisse ecclesiam S. Marie de Balneo… et ipsam ecclesiam Stefanus episc.

Taranto. Il cappellone di san Cataldo, capolavoro dell’arte barocca

di Angelo Diofano

Noti critici d’arte, tra cui Vittorio Sgarbi, sono concordi nel definire così il cappellone di san Cataldo, vero trionfo del barocco, situato a lato dell’altare principale del duomo di Taranto. È un vero trionfo di affreschi e di marmi policromi, con colori e immagini che s’inseguono e si fondono in un turbinio di emozioni.

Molti interrogativi permangono sulle tappe più importanti della sua storia. I primi passi per la realizzazione dell’opera furono mossi nel 1151 con l’arcivescovo Giraldo I che ordinò la costruzione, (nell’area dell’attuale vestibolo) di una cappella quale dignitosa sepoltura al corpo del Patrono. Nel 1598 mons. Vignati ne ideò la trasformazione, sollecitando l’autorizzazione di Clemente VIII e trasferendovi il sepolcro marmoreo rinvenuto ai tempi del Drogone.

Nel 1658 con l’arcivescovo Tommaso Caracciolo Rossi il cappellone iniziò ad avere il suo assetto definitivo così come siamo abituati a vederlo oggi. I lavori furono proseguiti nel 1665 dall’arcivescovo Tommaso de Sarria, con il contributo generoso di tutta la comunità. L’ultimo tocco, nel 1759 con l’arcivescovo Francesco Saverio Mastrilli che fece realizzare l’artistico cancello di ottone.

Alla cappella vera e propria, di forma ellittica, si accede dal vestibolo quadrangolare, in un ambiente reso suggestivo da giochi di marmi verdi e gialli che si alternano alle belle volute bianche ad intarsio delle quattro porticine.

Le statue di san Giovanni Gualberto a destra e di san Giuseppe a sinistra sono opera dello scultore napoletano Giuseppe Sammartino. L’organo, collocato al piano superiore, è del 1790, opera di Michele Corrado, in sostituzione di quello più antico, realizzato dal leccese Francesco Giovannelli, distrutto in un incendio.

Nel cappellone attirano l’attenzione i coloratissimi marmi intarsiati alle pareti, fatti porre dall’arcivescovo Lelio Brancaccio nel 1576, probabilmente ricavati dalle rovine degli edifici classici, sparse in gran quantità nel sottosuolo. Lo sguardo poi si perde in alto, verso l’affresco della cupola, dove il vescovo irlandese è ritratto nella gloria dei santi. Neppure dopo l’ennesima visita è possibile abituarsi a tanta bellezza.

L’opera fu commissionata nel 1713 dall’arcivescovo Giovanni Battista Stella all’artista napoletano Paolo De Matteis, allievo di Luca Giordano, per un compenso di 4.500 ducati. Ne La gloria di san Cataldo (così s’intitola l’opera) il vescovo irlandese appare inginocchiato di fronte a Maria Santissima che lo invita ad accostarsi al trono di Dio; la scena è sovrastata dalla Santissima Trinità attorniata dagli angeli mentre in basso appare la folla dei santi, soprattutto francescani e domenicani, appoggiati su nuvole rocciose nell’atto di scalare la montagna dell’Empireo.

I sette affreschi del tamburo ritraggono, invece, gli episodi più importanti vita di san Cataldo. A partire da sinistra: la resurrezione di un operaio addetto ai lavori di scavo delle fondazioni di un tempio alla Vergine, finito sotto le macerie; il ritorno alla vita di un bambino in braccio alla madre; il cieco guarito all’atto del Battesimo; San Cataldo mentre prega sul sepolcro di Gerusalemme e che riceve l’ordine di recarsi a Taranto; il ritorno della voce a una pastorella muta mentre indica all’illustre pellegrino la strada per la città ionica; la liberazione di una fanciulla indemoniata mentre è in preghiera davanti alle spoglie mortali del santo. L’affresco di fronte all’altare mostra infine san Cataldo mentre predica al popolo tarantino.

Di pregevole fattura anche le dieci statue di marmo, collocate nel in apposite nicchie, di epoche e autori differenti. Da destra a partire dall’ingresso, raffigurano nell’ordine: san Marco, santa Teresa d’Avila, san Francesco d’Assisi, san Francesco di Paola, san Sebastiano, sant’Irene, san Domenico e san Filippo Neri. Ai due lati dell’immagine del Patrono appaiono i simulacri di san Pietro e di san Giovanni. Secondo una suggestiva ipotesi, ancora tutta da avvalorare, pare che questi ultimi due fossero di antica fattura greca (naturalmente in seguito adattati alla fede cristiana) e che rappresentassero rispettivamente Esculapio ed Ercole.

Visibile attraverso una grata marmorea e finestrelle laterali, la tomba del Santo è posta all’interno dell’altare marmoreo. Quest’ultimo fu realizzato nel 1676 da Giovanni Lombardelli, artista di Massa Carrara, impreziosito da madreperle e lapislazzuli. Alzato su tre gradini, ha struttura lineare caratterizzata da un decorativismo dei marmi ora finissimo nei ricami dei gradini del postergale e del paliotto, ora nervoso nelle ornamentazioni scultoree dei putti capialtare.

Le decorazioni marmoree, tutte policrome, hanno temi diversi; sui due pilastrini laterali vi sono gli stemmi, dai vivissimi colori arricchiti da inserti di madreperla, del capitolo e della città di Taranto, committenti dell’opera.

Sul ciborio lo stemma con le tre pignatte del vescovo Francesco Pignatelli, a testimonianza del suo intervento all’abbellimento della cappella avvenuto nel 1703.

Sovrastante l’altare, ecco la nicchia ove è posto l’argenteo simulacro di san Cataldo, il quarto nella storia di Taranto. Di una prima statua di san Cataldo si iniziò a parlare nel 1346 quando l’arcivescovo Ruggiero Capitignano-Taurisano, accogliendo le richieste della popolazione, volle realizzarla con l’argento del sarcofago, ove nel 1151 il suo successore, Giraldo I, volle riporre il corpo del Santo. Il prezioso metallo fu però insufficiente per un simulacro completo, tanto da costringere a ripiegare su un mezzo busto.

Per il completamento della statua si attese il 1465, anno in cui la città fu liberata dal flagello della peste. Il merito fu attribuito all’intercessione di san Cataldo, tanto che l’intera popolazione a gran voce chiese il completamento del simulacro. Il sindaco Troilo Protontino indisse perciò una sottoscrizione che ebbe l’effetto auspicato, con l’allungamento del mezzobusto. La statua fu rifatta ad altezza d’uomo (sette palmi) a spese della civica università con l’esazione del catasto e con il personale contributo dell’allora sindaco Troilo Protontino. Pareri contrastanti, nel tempo, accompagnarono l’esistenza di quella statua. La popolazione vi era affezionata in quanto realizzata con l’argento ricavato dal sarcofago che aveva toccato il corpo del Patrono. Inoltre il volto del Santo era di grande espressione, tanto che i devoti lo credettero finito per mano angelica. Altri però ritenevano l’opera dalle forme troppo rigide e stilizzate, in quanto proveniente da un mezzobusto. Senza contare che le ripetute riparazioni e le aggiunte in breve lo ridussero in condizioni davvero pietose.

Fu così che nel 1891 l’arcivescovo mons. Pietro Alfonso Jorio commissionò la nuova statua d’argento all’artista Vincenzo Catello dell’istituto Casanova di Napoli. L’artista completò il lavoro in appena sei mesi. Furono impiegati oltre 43 kg di argento, di cui 37 provenienti dalla vecchia immagine. La statua era smontabile per facilitare le operazioni di pulitura e lucidatura. Il simulacro giunse il 7 maggio del 1892 alla stazione ferroviaria di Taranto da dove, dopo la solenne benedizione, fu portato in grande processione fino alla cattedrale. L’opera piacque per la perfezione della lavorazione e l’espressione del viso.

Così descrivono le cronache dell’epoca: “L’argenteo simulacro di san Cataldo misura due metri in altezza: il patrono è in atto di camminare, con la destra benedicendo la città che gli è fedele, mentre con la sinistra stringe il pastorale… Indovinatissimi la posa e l’atteggiamento… Assai bello il panneggiamento della pianeta della stola, il merletto del piviale, il camice che sembra cesellato”. Gli occhi, poi, neri e lucenti da sembrar veri; questo grazie alla devozione di una nobildonna tarantina che in periodo più recente donò alla cattedrale due artistici e preziosi spilloni a testa nera (forse di onice) e con al centro una piccolissima pietra preziosa da far pensare a una pupilla. Un’opera, insomma, vanto dell’intera comunità ma destinata a durare non per molto.

Nella notte fra il primo e il 2 dicembre del 1983, mentre imperversava il maltempo, la statua fu rubata assieme a molti altri reperti (candelieri, calici, reliquiari ecc.). Qualche anno dopo, grazie alla soffiata di un recluso tarantino, gli autori del furto (quattro napoletani specializzati in furti nelle chiese) furono arrestati e condannati, ma della statua non fu possibile recuperare nulla in quanto fusa e ridotta in lingotti. Un’impresa davvero poco fruttuosa e per giunta finita male per i malfattori ma ancor più per la comunità, privata di uno dei suoi simboli più importanti.

L’attesa per una nuova statua, la terza della storia, non durò a lungo. Il 14 gennaio ’84 l’arcivescovo Guglielmo Motolese incaricò un apposito comitato presieduto dal priore del Carmine, Cosimo Solito, di provvedere in merito.

Fu contattato l’artista grottagliese Orazio Del Monaco, che approntò in breve il bozzetto in argilla. Valutate alcune proposte, si decise di realizzare il nuovo San Cataldo in ottone e di rivestirlo in argento (tranne testa, mani e braccia che furono interamente di quel metallo prezioso) donato dagli orafi tarantini (in tutto ben 35 kg). Finalmente l’opera fu completata. Il volto era quello felice del pastore che finalmente torna dal suo gregge dopo l’esilio. Molti però non furono d’accordo con quella scelta perché avrebbero preferito la copia conforme a quella derubata. Portata in un furgone a Palazzo del Governo, l’8 settembre del 1984 alla rotonda del lungomare la nuova statua fu ugualmente accolta da una gran folla festante; nella stessa sera si svolse quella processione a mare che non poté aver luogo nel maggio precedente. Ma tanti non si riuscivano a rassegnare, ostinandosi a fantasticare sul san Cataldo di Catello esposto nella residenza di qualche emiro amante delle opere d’arte e chissà un giorno da recuperare: tanto era anche il sogno dell’allora parroco della cattedrale mons. Michele Grottoli.

Ben presto si dovette fare i conti con l’eccessivo peso del manufatto. Le operazioni concernenti lo spostamento dalla nicchia in preparazione ai solenni festeggiamenti di maggio destavano parecchie preoccupazioni per l’incolumità sia degli addetti sia dei preziosi marmi dell’altare. Inoltre ci voleva la gru per le complicate e laboriose operazioni di imbarco e di sbarco sulla motonave per il giro dei due mari. Così dopo vent’anni dall’arrivo dell’opera di Del Monaco si cominciò a pensare a una nuova statua.

L’arcivescovo mons. Benigno Luigi Papa accolse la proposta dell’arcidiacono mons. Nicola Di Comite che, agli inizi del 2001, dette il via all’operazione “Una goccia d’argento per la nuova statua di San Cataldo”, per la raccolta del prezioso metallo. I tarantini aderirono generosamente all’iniziativa, donando medagliette, catenine ed oggetti fra i più disparati. La realizzazione del simulacro fu affidata all’artista Virgilio Mortet, del laboratorio di Oriolo Romano (Viterbo).

Sue opere si trovano nei Musei Vaticani e in chiese, conventi e gallerie d’arte; per la cattedrale di Osimo eseguì un artistico sarcofago per custodire le reliquie di san Giuseppe da Copertino e una sua croce pettorale di ottima fattura fu donata a Giovanni Paolo II. A Mortet fu posta solo una condizione: che le sembianze della statua fossero, finalmente, quanto più possibile simili a quelle dell’opera di Catello. L’iniziativa ebbe buon fine. Così il 4 maggio del 2003 il nuovo san Cataldo (fuso in un unico pezzo) fu pronto e arrivò via mare alla banchina del castello aragonese. Tanta gente, affacciata su corso Due Mari, partecipò alla cerimonia. Ancor più massiccia fu l’affluenza di popolo alle successive processioni a mare e a terra, porgendo così il più caloroso benvenuto alla nuova effige del santo Patrono.

Una grande manifestazione di fede che continua a mantenersi inalterata ogni anno nei tradizionali festeggiamenti di maggio.

L’orobanche, per i nostri contadini spurchia, terrore dei campi

La spùrchia

 

di Armando Polito

Nome italiano: orobanche, succiamele delle fave

nome scientifico: Orobanche minor L.

famiglia: Orobanchaceae

Il primo nome italiano, la prima parte di quello scientifico e il nome della famiglia derivano tutti dal latino classico orobanche1, a sua volta dall’omofono e omografo greco2 composto da òrobos=veccia e ancho=stringere, soffocare; la seconda parte del nome scientifico (minor=minore) è distintiva rispetto alle innumerevoli varietà di questa specie.  Il secondo nome italiano deriva da succiare e mele (variante popolare di miele, inteso come umore).

Tutte le etimologie fin qui riportate confluiscono concordemente a stigmatizzare il carattere di infestante parassita in grado di distruggere intere piantagioni di fave con l’azione del suo austorio (forma aggettivale sostantivata dal latino haustum, supino di haurìre=attingere, che definisce l’apparato attraverso il quale piante o funghi parassiti assorbono le sostanze nutritive dal corpo dell’ospite).

E il nome dialettale? Spùrchia, invece, contiene un riferimento alla grandissima quantità di semi che la pianta è in grado di produrre, derivando da un latino *exporculàre=produrre come una piccola porca3; legato ai successivi passaggi semantici per traslato (facilità di riproduzione> carattere infestante>danno) è il significato che la voce ha assunto come sinonimo di sfortuna (quandu tice la spùrchia=quando si parla di sfortuna) e, come epiteto poco gratificante, quando è riferita a persona: per lo più è la mamma a farne le spese: ddha spùrchia ti màmmata (quell’orobanche di tua madre).

E pensare che in passato, in tempi di bisogno,  la spùrchia è stata una vera e propria risorsa alimentare, specialmente in Puglia dove lo stelo tenero veniva consumato fritto in olio. Ma della sua commestibilità non aveva parlato molti secoli prima, come abbiamo visto nella nota 2, Dioscoride?

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1La voce è attestata in Plinio (I° secolo d. C.)): (Naturalis historia, XIX, 44): Est herba, quae cicer enecat et ervum, circumligando se: vocatur orobanche (C’è un’erba che uccide il cece e la lenticchia, avvolgendosi [questa caratteristica escluderebbe la possibilità di identificarla con la nostra e spingerebbe a credere che si tratti della cuscuta] loro intorno: si chiama orobanche).

2 La voce in Teofrasto (IV°-III° secolo a. C.), De historia plantarum, VIII, 8, 4, designa la cuscuta: L’orobanche della cicerchia e la speronella della lenticchia: la prima prevale soprattuttio per la debolezza della pianta infestata, la seconda prolifera poi soprattutto in mezzo alla lenticchia e in qualche modo è simile all’orobanche, poichè avvolge con i suoi riccioli tutto lo stelo avviluppato e in questo modo lo uccide, donde ha preso il nome.

In Dioscoride (autore greco contemporaneo del latino Plinio), De materia medica, II, 171 la descrizione rende plausibile l’identificazione con la nostra: L’orobanche (per alcuni cinomorio, per altri leone, per i Ciprioti tirsine,dal popolo detta lupo] è un piccolo stelo rosseggiante, quasi di un piede e mezzo, talora di più, senza foglie, un po’ lucido, un po’ peloso, tenero. Si fregia di fiori biancastri o tendenti all’arancione. Si dice poi che nascendo vicino a certe leguminose le soffoca, donde prende pure il nome. Si mangia poi a guisa di erba cruda o cotta nei pasticci a mo’ di asparago. Si dice che cotta insieme con i legumi ne accelera la cottura.

3. Rholfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, v. II, pag. 685, alla voce spùrchia, ove, tra l’altro, si ricordano  le napoletane spòrchia=gemma germogliata e sporchiàre=gemmare, nonché  il calabrese purchiàre= germogliare. Sulla probabile comunanza etimologica con brucàcchiu vedi sul sito il post Lu brucàcchiu del 3 dicembre u. s.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/19/portulaca-porcacchia-erba-porcellana-erba-dei-porci-insomma-lu-brucacchiu/

L’albero di ulivo, emblema del paesaggio e della storia dell’economia salentina, corre il rischio di scomparire


di Antonio Bruno*

L’olio d’oliva extra vergine qualche settimana fa veniva pagato al mercato di Andria all’ingrosso Euro 2,75 al chilo. Se l’olio ha il marchio dop (denominazione d’origine protetta) oppure igp (indicazione geografica protetta) allora può arrivare a quasi 7 euro al chilo, ma di questo tipo di olio ce n’è davvero molto poco.

Il numero di piante di olivo per ettaro si aggira in provincia di Lecce nel caso di impianto tradizionale a 400 piante che producono mediamente 45 chili di olive. Dalle olive si ricava mediamente il 18% di olio per cui da un ettaro di oliveto si ricavano 18.000 chili di olive e quindi 3.240 chili di olio che se è andato tutto bene, e sempre se risultasse tutto extravergine con i prezzi di qualche giorno fa sarebbe venduto a 2,75 euro al chilo.

Ecco che, se tutto viene fatto a regola d’arte e l’annata è stata buona, un ettaro di oliveto fornisce al proprietario una produzione lorda pari a circa 9.000 euro. Dai 9.000 euro però bisogna togliere i costi di produzione e cioè le spese per le lavorazioni, la concimazione, la potatura, la raccolta e trinciatura della legna, la difesa dai parassiti, la raccolta, il trasporto e infine la molitura. Cosa resta? Leggiamolo dalle parole scritte dagli agricoltori di Martano domenica 25 gennaio 2009 e che anche quest’anno risuonano nel Salento leccese: “Produrre olio non conviene più? Allora abbattiamo gli olivi del Salento e magari facciamone legna da ardere, con quel che costa il gas.

Sebbene la Legge n.144/51 permetta solo l’abbattimento di 5 alberi di ulivo ogni biennio, quando sia accertata, la morte fisiologica, la permanente improduttività o l’eccessiva fittezza dell’impianto da parte dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, alla luce della crisi che sta attraversando il comparto olivicolo si comunica all’Ispettorato la necessità di operare lo svellimento totale degli alberi di olivo presenti nei terreni di proprietà.

Tra l’altro in controtendenza rispetto alla linea perseguita dal governo regionale che, con la legge regionale n. 14 del 4 giugno 2007 recante “Tutela e valorizzazione del paesaggio degli ulivi monumentali della Puglia”, entrata in vigore il 7 giugno 2007, aveva inteso tutelare e valorizzare gli alberi di ulivo monumentali in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché in quanto elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale, cercando di porre un freno al fenomeno dell’espianto e commercio degli alberi, specie di quelli secolari.”.

Il motivo? “Le attuali condizioni di mercato” – aggiungono gli olivicoltori – che in assenza di nessun intervento istituzionale a sostegno della economicità aziendale, rendono passiva, deficitaria ed antieconomica la loro coltivazione ed il loro mantenimento ai fini agricoli.

Dopo un secolo la storia si ripete solo che nel 1918 chi aveva occasione di percorrere le campagne del Salento leccese non poteva fare a meno di restare sorpreso nel vedere il grande movimento rappresentato dalla distruzione di oliveti che si andava compiendo a partire dal 1915. Tale distruzione era senza tregua sia d’estate che in inverno e sia che gli alberi di olivo si trovassero in buono che in cattivo stato di vegetazione e che producessero o meno un buon quantitativo di olive.

Nel 1918 si sentivano i colpi secchi della scure amplificata nel silenzio che allora dominava le campagne, chi si avventurava per le strade rurali era investito dall’odore acre del fumo che si sprigionava dalle carbonaie che si incontravano in ogni dove nelle contrade del Salento leccese. E sempre percorrendo la rete viaria salentina si incrociavano ovunque lunghe file di carri stracarichi di legna.

Questa immagine di devastazione è stata la caratteristica del Salento leccese del 1915 – 18 che costituisce la prova della crisi gravissima che in quel periodo stava attraversando l’oliveto e l’olivicultura salentina.

In quel periodo non c’era necessità di recarsi in campagna per poter vedere le migliaia e migliaia di metri cubi di legna d’olivo che si accatastavano nei pressi delle stazioni ferroviarie. Inoltre a Piazza delle Erbe era possibile vedere i carri ricolmi che formavano una lunga coda per aspettare uno dopo l’altro di poter essere pesati sulla bascula dell’Ufficio daziario.

Questa situazione era già evidente in tutto il Regno d’Italia e il governo di allora avuta chiara la situazione pubblicò un decreto luogotenenziale l’8 agosto del 1916 che aveva la funzione di moderare questa piaga del taglio senza scrupoli degli oliveti meridionali.

Le norme per accordare la concessione del taglio degli olivi contenute in quel decreto erano troppo vaghe ed indeterminate al punto che due anni dopo, ovvero nel 1918, si poteva assistere a questo scenario devastante ed apocalittico di taglio dei veri e propri boschi d’olivo del Salento leccese.

Quel decreto imponeva la costituzione di commissioni che dovevano autorizzare o meno la distruzione degli olivi che però agivano senza criteri precisi tanto che alcune volte autorizzavano la distruzione di oliveti che avrebbero dovuto essere rispettati e altre volte vietavano il taglio di oliveti vecchi ed improduttivi.

I proprietari di oliveti del 1915 – 18 erano incentivati a divenire taglialegna dai prezzi altissimi dei combustibili legna e carbone e quindi non esitavano a chiedere lo svellimento dei loro oliveti. Gli astuti proprietari per fare in modo che la domanda di autorizzazione per il taglio fosse fondata e accettata dalla commissione hanno scritto interminabili motivazioni alcune volte giuste, ma spesso le argomentazioni addotte erano solo dei pretesti alcuni dei quali addirittura ridicoli.

La maggior parte degli olivicoltori giustificavano la loro domanda di svellimento per l’improduttività delle loro piante. Spergiuravano che la mancanza di produzione permaneva nonostante avessero impiegato tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnica e dalla scienza. Altri giustificavano la domanda di taglio con la volontà di trasformare l’oliveto in seminativo da destinare alla coltivazione del tabacco o del vigneto che a loro dire garantivano un reddito di gran lunga più elevato.

Altri dichiaravano di voler tagliare il loro oliveto per destinare il terreno alla coltivazione raccomandata allora dal governo ovvero quella dei cereali, essendo che il paese ne aveva necessità essendo stato tanti anni in guerra. Infatti in quel periodo il Governo raccomandava di aumentare quanto più era possibile la produzione di derrate alimentari. Tale argomentazione risultava altamente umanitaria e spesso inteneriva i cuori dei componenti della commissione ottenendo in tal modo l’agognata autorizzazione al taglio.

Ma le ragioni che allora fecero più presa sull’animo dei componenti della commissione furono quelle di salvaguardare la salute dei lavoratori, potatori e raccoglitrici di olive che potevano essere contagiati dalla malaria che imperversava in quegli anni in quegli oliveti.

Tutti i motivi addotti hanno avuto un gran successo tanto che la commissione ha autorizzato il taglio del 90% degli oliveti dei proprietari che presentarono domanda di distruzione.

Per questi motivi nel 1918 il Governo si apprestava a licenziare un altro decreto in sostituzione di quello del 1916, ma mentre il Governo provvedeva c’era un’altra causa che dava davvero ragione ai proprietari di oliveti di distruggere tutto ed era l’istituzione in quegli anni del calmiere sugli oli.

Col termine calmiere dal greco kalamométrion, si intende l’imposizione per legge di un tetto massimo ai prezzi al consumo per uno o più prodotti, solitamente di prima necessità. Questa misura venne presa dal governo per contrastare un aumento eccessivo dei prezzi causato dall’inflazione. Per questo motivo se prima di questa decisione a voler tagliare gli oliveti erano solo i proprietari di quelli infruttiferi o poco fruttiferi affascinati dal miraggio dell’alto prezzo della legna, dopo l’introduzione del calmiere anche i proprietari di oliveti produttivi si lasciavano trascinare dalla corrente.

Il produttore di olive e di olio del 1918 faceva un ragionamento molto semplice dopo aver fatto i calcoli sulle spese di coltivazione e di raccolta del prodotto e tenuto conto anche della produzione di olive che non è costante, arrivavano alla conclusione di distruggere i loro oliveti vendendoli per legna anziché ricavare olio. Questo poiché l’olio avrebbe finito con l’essere venduto a prezzo di calmiere ritenuto per quegli anni eccessivamente basso rispetto a quello di altri grassi commestibili.

Le notizie riportate sono state redatte dal Prof. Ferdinando Vallese che conclude la sua nota con l’affermazione che il problema non era di facile soluzione perché, comunque si cercasse di risolverlo, si urterebbero gli interessi dei proprietari se si propendesse per l’applicazione del calmiere e quelli dei consumatori se del calmiere si intendesse fare a meno.

Ora come allora gli olivicoltori pur consapevoli che l’espianto indiscriminato di ulivi porterebbe alla deturpazione del paesaggio tipico del nostro territorio, non vedono altre soluzioni alla grave crisi che sta attraversando il settore, che mette in serio pericolo la loro sopravvivenza aziendale.

L’albero di ulivo, emblema del paesaggio e della storia dell’economia salentina, corre il rischio di scomparire perché risulta antieconomico.

Oggi la legna e il carbone non rappresentano la “suggestione energetica”, oggi va il rinnovabile, il solare e l’eolico, frutta tanti Euro all’anno, da riuscire ora come allora a distruggere gli oliveti del Salento leccese.

Ad oggi la Puglia occupa per le energie rinnovabili il primo posto in Italia per potenza installata con oltre 100 Megawatt. Tra eolico, fotovoltaico e biomasse, il Piano Energetico regionale (Pear) prevede l’installazione di poco meno di 5 mila Mw di potenza entro il 2016.

L’obiettivo “minimo” fissato dal Pear, prevede l’installazione di almeno 200 MW, cioè il doppio del risultato raggiunto fino ad oggi. Questo vuol dire che siamo solo a metà dell’obiettivo considerato minimo. Ora come allora la crisi del mercato è affrontata dagli agricoltori vendendo ciò che hanno avuto dai loro padri per ricavare energia.

Allora la situazione cambiò. E oggi? Cosa faranno gli olivicoltori di oggi con un prezzo dell’olio di 300 euro al quintale?

*Dottore Agronono

 

 

Bibliografia

L’Agricoltura Salentina del 1918

Marcello Scoccia Capo Panel ONAOO Rilevazione prezzi del 02 e 03 Aprile 2010 TN 13 Anno 8

Disciplinare Consorzio di tutela DOP Terra d’Otranto

UNAPROL FILIERA OLIVICOLA ANALISI STRUTTURALE E MONITORAGGIO DI UN CAMPIONE DI IMPRESE

http://www.frantoionline.it/ultime-notizie/produrre-olio-non-conviene-piu.html

Paolo De Maria L’olio nel Salento

Adriano Del Fabro Coltivare l’olivo e utilizzarne i frutti

Glauco Bigongiali Il libro dell’olio e dell’olivo: come conoscere e riconoscere l’olio genuino

Borgagne – Bel suol d’amor

Borgagne su una tela del ‘600

 

di Wilma Vedruccio

Per molto tempo Borgagne non è stato il mio paese, era il paese di mia madre, il paese dei nonni materni che coltivavano garofani in vasi di fortuna, nel loro giardinetto dietro casa, con al centro l’albero di mèndule. La loro casa, sotto un arco di pietra con un rosaio di rosa ndurante per ghirlanda,  in quello che oggi si dice centro storico, si affacciava nella stessa corte dove imperava un geranio  rosso scuro di velluto, dentro una capasa, e dove Romeo, il cacciatore di sanguette, passava i pomeriggi a fumare la pipa e a riposare sul gradone di liccisu.

Odor di rose a maggio, odor di botti di vino in tutte le stagioni.

La poesia di San Martino si mandava a memoria facilmente.

Ora, dopo vicissitudini ed affanni, è il paese in cui vivo stabilmente, io che ho eletto il Salento intero a patria mia poichè un paese solo mi par poco.

Olivi cingono Borgagne tutta in tondo, le vigne le vedi solo se ti inoltri a piedi nel feudo di Pasulo, in alcune conche le puoi ancora trovare, coi cippuni che affondano nell’acqua, nelle annate in cui abbondano le piogge.

Il centro abitato, cresciuto molto negli ultimi decenni, sembra voler assediare gli oliveti,  morde la campagna che si ostina a fiorire intorno, cancella sciardine, innocenti vittime sacrificate al dio delle lottizzazioni, mentre la popolazione è ferma ad un numero costante, circa 2000, che ha cristallizzato istituzionalmente il paese in un dimensione sgradita  di frazione. Poche le sezioni di scuola di base. Tante le macchine e le case.

Duemila anime, dunque, suppergiù, un microcosmo multiforme di culture, dalle roccaforti ancora resistenti di cultura contadina a frange giovanili postmoderne, da stili di vita quasi arcaici a quelli riconducibili a forme sfrenate di consumismo a gogò, con annessa problematica e malcostume inerente a cosa farsene degli oggetti in più, se non abbandonarli nelle campagne quali istallazioni di arte informale.

Il meglio del paese viene fuori nelle occasioni di partecipazione corale a festività, civili e religiose. Dal pellegrinaggio a Roca, nel mese di maggio, alle feste patronali, dalla Maratona di Primavera al premio Vrani, per salentini geniali e operosi, fino allo travolgente Borgoinfesta, tre giorni di ininterrotta giostra di musica, arte, cibo e solidarietà, che si offre a stanziali del Salento e a turisti d’ogni dove e che vuole allungare sguardo e benefici all’Africa lontana del Benin, dove i ragazzi dell’orfanotrofio di Ouenou, guardano a Borgagne quale paese di Bengodi, a ragione.

Ogni iniziativa è frutto di lunga programmazione, di concertazione, di volontariato generoso oltre che di forte motivazione.

La Chiesa Madre è ricca di tracce del passato di cui non si ha memoria,  parla di arte, religione, ricchezza, di pietas e di amore per la natura.

Il santuario di Borgagne è la zona dell’Olmo, sopravvissuta a smanie di lottizzazione. Si trova ai piedi della mappa, quale propaggine naturale per un paese bucolico, da sogno, frammento di coltivi illuminati del passato, quando si combatteva con metodi naturali, la presenza d’acqua, eccessiva.

Ora la zona dell’Olmo è un residuo “culturale” che parla di rapporto positivo fra gente di buona volontà e territorio, di equilibrio fra natura e uomo. Le sue foglie raccontano per tutta la stagione storie scordate.

Lo so, la mia descrizione del paese carezza aspetti di poco conto, marginali, alternativi, non sono queste le cose che contano in banca, che parlano di crescita e di guadagni…voi che ne dite, rincorriamo la modernità ad ogni costo o ci aggrappiamo a ciò che di bello ancora s’intravede?

La Fiera di S. Vito e l’ucceria di un tempo

di Rocco Boccadamo

Si svolge ad Ortelle, piccolo paese del Sud Salento, l’annuale e ormai secolare Fiera di S. Vito, fra le più antiche dell’ Italia meridionale, assurta al rango di “Manifestazione Fiera Regionale” e rappresentante, come si legge sulle apposite locandine, un “appuntamento imperdibile per espositori, produttori ed estimatori, anzitutto, del maiale, la cui carne viene venduta, preparata e servita in tanti modi che ne valorizzano sapore e proprietà”.

Mette subito conto di sottolineare che, negli ultimi tempi, la manifestazione di cui trattasi ha progressivamente registrato una radicale evoluzione e trasformazione, passando da “Fiera“ del genere “mercato all’aperto omnicomprensivo”, quale, tradizionalmente, si poneva una volta, ad una sorta di agorà, anfiteatro, tempio di culto specifico per leccornie culinarie ottenute dal corpulento suino.

Specialità, piatti, sfizi, vieppiù ricercati e, perché no, gustosi e stimolanti; ciò, sulla base del consueto, rigoroso ricorso a materie prime genuine e di qualità, accompagnato, nel contempo, dalle tecniche di preparazione maggiormente raffinate acquisite e poste in atto man mano.

che, sul maiale e sul consumo della sua carne, una volta si dicevano tante cose, anche non veritiere, ad esempio che la carne di maiale è troppo grassa e, quindi, va evitata, specie quando fa caldo.

Sulla base dell’anzidetta credenza, nel periodo, all’incirca, da giugno a settembre e anche ottobre, non se ne vendeva, né, ovviamente mangiava (i freezer erano sconosciuti) e proprio la Fiera di S. Vito, l’ultima domenica d’ottobre, segnava la canonica riapertura del consumo di tale alimento.

Si diceva, con riferimento ad una volta, di fiera del genere mercato, dove le famiglie del luogo e dei paese vicini solevano portarsi, a piedi o in bici o su traini, ai fini di preordinati acquisti utili: spezzoni di stoffa per far confezionare pantaloncini per i figli piccoli, scarpe, giacche di panno pesante per l’inverno. Se avanzava qualche spicciolo, il giro in fiera si concludeva con la compera di alcuni etti di sanguinaccio.

Ben diverso appare lo scenario di oggigiorno, l’obiettivo dei visitatori attuali: si va ad Ortelle per una mangiata, chi più chi meno, di carne e/o specialità varie di maiale. Mangiata, ovviamente, affatto sostitutiva, bensì aggiuntiva rispetto ai normali pasti domestici.

Puntualizzazione, quest’ultima, confermata dall’interminabile colonna di autovetture che sabato 23 ottobre, intorno alle ventidue, si muoveva lungo la statale 16 e provinciali a seguire, sulla  direttrice Lecce – Maglie – Ortelle. Effetto collaterale dello straordinario richiamo e afflusso, le condizioni del traffico nell’abitato del paesino apparivano a livello di Roma centro.

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In un’altra minuscola località limitrofa ad Ortelle, verso la metà del ventesimo secolo, esisteva sì una macelleria (o ucceria), ma con apertura limitata alla domenica e, eccezionalmente, al sabato e in occasione di determinate vigilie. Giovannino “ucceri” doveva servire, infatti, due paesi contemporaneamente.

Del resto, allora, gli abitanti non si portavano in tale esercizio ogni giorno, ma, quando andava bene, con frequenza settimanale, compiendo acquisti misurati se non centellinati.

E, non tutti gli abitanti. Sicuramente, non conosceva per niente la macelleria, un compaesano con pochissime risorse e famiglia numerosa a carico, il quale, tuttavia, la domenica mattina si faceva puntualmente notare, in sosta lì fuori, accanto alla porta del locale. Alla domanda di taluno in merito al motivo dell’ immancabile presenza, questa era la sua risposta: ”Siccome non posso per- mettermi di comprare la carne, mi metto qui, in modo che, perlomeno, mi sia dato di saziarmi attraverso il suo profumo”.

I cavalieri teutonici in Puglia e a Santa Maria al Bagno (I parte)

 

L’ ABBAZIA DI SANCTA MARIA DE BALNEO

DA DIMORA DEI CAVALIERI TEUTONICI A MASSERIA

 

di Marcello Gaballo

A meno di 300 metri dal rudere delle Quattro Colonne, a sud del piccolo abitato costiero di Santa Maria al Bagno, sulle ultime propaggini delle Serre Salentine, a circa 35 metri dal livello del mare, seminascosta dalle abitazioni sorte senza rispetto del paesaggio e fuori da ogni regola urbanistica, si intravede la torre di quella che un tempo fu la masseria Fiume, oggi radicalmente ristrutturata in moderna e confortevole abitazione.

L’ ingresso alla masseria si raggiunge da una traversa, sulla provinciale S. Maria al Bagno-Galatone, prima di via Edrisi, per la quale si giunge alle Quattro Colonne e che un tempo era contigua all’ importante ed antica via di comunicazione che da Galatone portava al mare.

La denominazione della masseria si spiega, probabilmente, col fatto che la costruzione fiancheggiava un corso torrentizio in cui si raccoglievano le acque reflue da tutto il territorio a monte, per mescolarsi poi con quelle della sorgente delle Quattro Colonne[1]. Il complesso, nel modo con cui si colloca, corona una prospettiva che sale regolarmente dal litorale verso l’ entroterra.

Le numerose modifiche delle costruzioni adiacenti e la suddivisione successiva impediscono di delineare l’aspetto originario della masseria, restando comunque evidenti l’ androne di ingresso alla corte e, soprattutto, la torre, che rappresenta ancora oggi il nucleo centrale e l’ elemento più sorprendente.

Essa, formata in epoche successive, si sviluppa su due piani, di cui quello a piano terra molto ampio, con volta a botte e spessa muraglia; il secondo è il piano diventato utile, in cui risiedeva il proprietario, con volta a botte lunettata, tre finestre, il camino (poi trasformato in “cucina economica”), una muraglia dello spessore di circa 80 cm.

Santa Maria al Bagno – Nardò (Lecce), masseria Fiume, ingresso principale

Opere in muratura successive dividono questo piano in più ambienti, evidenziandosi comunque un corpo aggiunto sul lato orientale, che ha trasformato la pianta della torre da quadrata in rettangolare. Tale modifica ha previsto anche l’ aggiunta di una scala esterna a due rampe che collega i due piani, in sostituzione di quella più antica che si sviluppava nello spessore delle

Viaggio a Presicce, città degli ipogei

Piazza Villani

testi e foto di Gianluca Ciullo

I luoghi del cuore sono sempre cari ed appaiono agli occhi di chi li percorre belli e a volte unici, ma obiettivamente il piccolo borgo di Presicce è un prezioso scrigno di architettura gentile come il Basso Salento che lo ospita. Un concentrato di edilizia religiosa, nobile, gentilizia e “a corte” che è difficile riscontrare comunemente in un’estensione di territorio così modesta.

Nulla è casuale, la sua storia l’ha reso possibile.

Palazzo ducale Paternò è stato da sempre la residenza dei feudatari che si succedettero. Dell’antica  torre di difesa è rimasto solo un richiamo nella merlatura neoguelfa che il duca Pasquale Paternò fece apporre sull’ormai residenza gentilizia agli inizi del novecento. Era il 1630 quando la principessa Maria Cyto Moles lo modificò secondo l’attuale fisionomia, arricchendolo di un meraviglioso giardino pensile e della cappella dell’Annunziata.

il giardino pensile del palazzo

I Cyto non godevano di particolari privilegi, spesso oppressivi per la popolazione locale come accadeva nel resto del Mezzogiorno feudale. Liberi erano i mulini, i forni e i frantoi appartenenti ai privati. Ancora libera era l’elezione del sindaco senza il consenso del feudatario così come quella del parroco. Tale assenza di privilegi consentì di creare condizioni particolarmente favorevoli tra ceto popolare e borghese, dediti pertanto, non solo al lavoro dei campi ma anche e soprattutto all’artigianato ed all’arte.

Piazza Villani con la colonna su cui è posta la statua di S. Andrea

Questo consentì di attrarre l’interesse economico di molti nobili, baroni, e ricchi possidenti che immigrarono fornendo al paese giureconsulti, medici, notai e letterati. I Giuranna di origine veneta, i Pepe fiorentini, i Cara foggiani,

Piccolo approdo di età romana in località Lido Marini (Ugento)

di Marco Cavalera, Nicola Febbraro

Lido Marini, località balneare divisa tra i comuni di Salve e di Ugento, si caratterizza per un tratto di spiaggia, che si alterna tra sabbia finissima e bassa scogliera.

Lungo la costa rocciosa, a sud della marina, dove l’acqua diventa improvvisamente fredda e dolce – per la presenza di alcune sorgenti subacquee – si conservano significativi resti di costruzioni associati ad abbondante materiale ceramico. Si tratta di una struttura muraria parallela alla linea di costa, lunga circa 17 metri, perpendicolarmente alla quale se ne sviluppano altre tre lunghe circa 2 metri.

I resti murari sembra che un tempo definissero una serie di ambienti in seguito intaccati dall’azione erosiva del mare, che ha determinato il continuo arretramento della linea di costa.

I ruderi – conservatisi in alzato per un’altezza di circa 40 cm- sono costituiti da pietre calcaree informi, di piccole e medie dimensioni, poste in opera direttamente sul banco roccioso e da numerosi frammenti ceramici (in prevalenza laterizi), il tutto coeso con malta.

Alle strutture sono connessi depositi archeologici; l’erosione marina, infatti, ha messo in luce alcune sezioni di sedimento terroso ricco di frammenti ceramici.

Poco distante dalle costruzioni si individua un tumulo artificiale, di pietre calcaree informi e terra, eroso anch’esso dall’azione del mare. In sezione è presente un significativo strato di frammenti ceramici che poggia direttamente sul banco roccioso. Molto probabilmente si tratta di una base per il sovrastante allineamento di blocchi e pietre calcaree, in opus caementicium.

La datazione delle strutture dipende dall’inquadramento cronologico degli

Il cappero


 di Armando Polito

nome dialettale: chiàpparu

nome scientifico: Capparis spinosa L.

famiglia: Capparidaceae

Tutti i nomi sono dal latino càppari(m), dal greco kàpparis. Da notare nella voce dialettale la conservazione del vocalismo originale con la seconda a passata in italiano ad e. Il secondo componente del nome scientifico si riferisce alle spine di cui la specie è dotata, assenti nella varietà inermis (disarmata) che è quella presente nel nostro territorio1.

La più antica testimonianza sulle proprietà terapeutiche del cappero risale ad Ippocrate (V°-IV° secolo a. C.): “Altro rimedio [contro le fistole]. Applica foglie di cappero verde tritate poste in una borsa e quando ti sembrerà che brucino allontanale e poi riapplicale. Se non hai a disposizione le foglie applica allo stesso modo la corteccia pestata della radice del cappero infusa in vino nero. Questa procedura è efficace pure nel caso di dolore alla milza2.

Due secoli dopo il latino Catone lo propone tra gli ingredienti per “correggere” il vino per renderlo efficace contro la stranguria: “Trattare il vino, in caso di stranguria. Pesta in un mortaio cappero o ginepro, mettine una libbra, fallo bollire in due congi di vino vecchio in un contenitore di bronzo o di piombo:quandosi sarà raffreddato , versalo in una brocca di terracotta. Prendine al mattino unciato a digiuno: ti gioverà3”.

capparis baducca o amplissima

È però in epoca successiva e nel mondo romano che a questa essenza vengono riconosciute maggiori benemerenze, anche se non disgiunte da avvertimenti precauzionali, sicché leggiamo in  Plinio (I° secolo d. C.): “Bisogna guardarsi dalle sue specie straniere, dal momento che quello degli Arabi è nocivo, quello Africano dannoso per le gengive, il Marmarico per le vulvee per tutti i gonfiori. Quello dell’Apulia procura il vomito, libera lo stomaco e l’intestino. Certi lo chiamano cinosbato, altri ofiostafile4; “Del cappero ho parlato abbastanza tra gli arbusti stranieri. Non bisogna usare quello d’oltremare, più innocuo è l’italico. Dicono che coloro che lo mangiano quotidianamentenon corrono rischio di paralisi né di dolori di milza. La sua radice elimina le vitiligini bianche se stropicciate al sole con quella dopo averla affettata. La corteccia della radice nella dose di due dracme  bevuta nel vino giova ai sofferenti di milza ed elimina la necessità dei bagni; e dicono che in 35 giorni tutta la milza viene eliminata attraverso l’urina e l’intestino. Si beve contro i dolori dei lombi e la paralisi. Calma il dolore di denti tritato con aceto o il seme cotto o la radice masticata. Si applica cotto con olio in caso di dolore di orecchi. Le foglie e la radice verde con miele sanano quelle ulcere chiamate fagedene. Così la radice elimina anche le scrofole e cotta in acqua è efficace contro la parotite econtro i vermi. Pestata con la farina di orzo si applica in caso di dolori di fegato. Cura pure le malattie della vescica. La somministrano pure in aceto e miele contro le tenie. Cotta nell’aceto elimina le ulcere della bocca. Gli autori sono concordi nel ritenerla inutile per lo stomaco5”; “Il caglio della lepre con pari peso di cappero cosparso di vino cura le piaghe sanguinanti6”.

E Celso qualche decennio prima di lui aveva scritto: “(Contro le difficoltà di respirazione) deve essere assunta a digiuno acqua con miele, nella quale sia stato cotto l’isopo o spezzettata la radice del cappero7”; “E in molti modi a questo scopo [a curare i sofferenti di milza] è adatto il cappero: infatti è utile assumerlo col cibo e sorbirne la salamoia con aceto. Anzi giova pure applicare esternamente la radice tritata o la sua  con corteccia con la crusca o lo stesso cappero tritato con miele. Pure gli empiastri sono utili allo scopo8”; (Contro le malattie dell’anca) sembra giovare soprattutto o con farina di orzo o mista a fico con acqua bollita la corteccia tagliata del cappero9”.

Nel mondo greco, successivamente, la testimonianza di Galeno (II°-III secolo d. C.): “La pianta del cappero è ricca di germogli e cresce soprattutto a Cipro. La sua sostanza risiede in particelle minute, sicché, come succede a tutti gli altri alimenti costituiti da particelle minute, danno poco nutrimento a chi se ne nutre. Uso perciò il frutto di questa pianta più come medicamento che come alimento. Nelle nostre parti viene importatto cosparso di sale, dal momento che imputridisce se è conservato da solo. È chiaro che il cappero ha maggiori sostanze nutritive prima della salatura, a causa della quale ne perde una grandissima parte, a meno che il sale non venga sciacquato: tuttavia rilassa l’intestino. Se viene messo a mollo in modo che si perda il sapore del sale non è un gran cibo da mangiare; sarà tuttavia un companatico ed un medicamento per stimolare l’appetito, purificare lo stomaco, eliminare le occlusioni della milza e del fegato. Bisogna per questi scopi utilizzarlo prima di tutti gli altri cibi con l’aceto al miele o aceto e olio. Si mangiano anche di questa pianta i teneri germogli, come quelli del terebinto, ancora verdi e mettendoli a bagno in aceto e acqua salata o solo in aceto10”. 

L’interesse piuttosto freddo che il mondo greco sembra manifestare, rispetto al romano, nei confronti di questa pianta è confermato da Ateneo di Naucrati, anche lui del II°-III° secolo d. C.

Nel primo passo (in cui due interlocutori si scambiano opinioni sulla prostituzione) il cappero diventa quasi il simbolo sociale di una classe subalterna e del suo sfruttamento: “- La meretrice poi – come Antifane dice nel Rustico – è una grave calamità per lo sfruttatore: infatti ha in casa la peste e tuttavia è contento-. Perciò un tale viene introdotto da Timoteo nella Neera mentre si compiange: – Ma sono veramente infelice, io che ho amato Frine quando raccoglieva capperi e non aveva quel patrimonio che ha oggi; e io che non ho badato a spese in ogni occasione ora sono sbattuto fuori dalla porta-11“. Insomma, la raccolta del cappero di allora stava a Frine come la raccolta del pomodoro di oggi sta all’extracomunitario di turno12.

Il secondo passo mi offre l’occasione per mettere in risalto quella che sembra essere una straordinaria coincidenza. Il plurale capperi, come tutti sanno, in italiano viene usato anche come interiezione e considerato in questo caso come  una deformazione eufemistica di cazzo, al pari di caspita (da cui caspitina e caspiterina), cavolo e cacchio13. La più antica attestazione conosciuta e registrata di capperi! risale al Rinascimento14 (quella di caspita! al 183015, quella di cavolo! al 185014 e quella di cacchio! al 194316). Fatta questa premessa riguardante tempi più o meno moderni, ecco cosa ci ha tramandato l’antico: “Teleclide ne I Pritanensi dice: -Giuro sui cavoli-. Epicarmo in Mare e terra giura sul cavolo. Eupoli ne I tintori giura sul cavolo e questo giuramento sembra essere ionico. Non deve sembrare strano che certi giurassero sul cavolo  dal momento che Zenone di Cizio, che fondò la Stoà, imitando il giuramento fatto da Socrate sul cane, giurava pure lui sul cappero, come dice Empodo ne Le cose memorabili17”.

A proposito di questi strani giuramenti c’è da chiedersi se è il caso di cogliere in essi la vena ironica di chi li pronunciava  (il che, poi, significava giurare senza assumersi nessun impegno, avendo sostituito la divinità non con un animale, come aveva fatto Socrate,  ma, addirittura, con due comunissimi vegetali che, fra l’altro, non godevano di commistioni mitologiche con una qualsiasi divinità) oppure un’intenzione discreditante nei loro confronti da parte di chi ce ne ha tramandato il ricordo. Se si è verificata la prima ipotesi l’interiezione capperi! potrebbe essere la “citazione” di qualche letterato del Rinascimento18 colpito dalla lettura del brano di Ateneo in cui il giuramento finisce per corrispondere ad una bestemmia; il passaggio finale, poi, sarebbe stato favorito dalla coincidenza in cazzo e capperi dei primi due fonemi, come, d’altra parte, è successo per le restanti voci.

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1 Del cappero si conoscono molte varietà, tra cui Capparis baducca o amplissima, nativa di S. Domingo, il cui frutto è grande quanto un uovo d’oca (nella foto).

2 De fistulis, 10.

3 De agricultura, 122: “Vinum concinnare, si lotium difficilius transibit. Cap<ar>idam vel iunipirum contundito in pila, libram indito, in duobus congiis vini veteris in vase aheneo vel in plumbeo defervefacito. Ubi refrixerit, in lagonam indito. Id mane ieiunus sumito cyatum; proderit”.

4 Naturalis historia, XIII, 23: “Cavenda eius genera peregrina, si quidem Arabium pestilens, Africum gingivis inimicum, Marmaricum vulvis et omnibus inflationibus. Apulum vomitus facit, stomachum et alvum solvit. Quidam id cynosbaton vocant, alii ophiostaphylen”.

5 Op. cit., XX, 5:“De cappari satis diximus inter peregrinos frutices. Non utendum transmarino, innocentius est Italicum. Ferunt eos, qui cotidie id edint, paralysi non periclitari nec lienis doloribus. Radix eius vitiligines albas tollit, si trita in sole fricentur. Splenicis prodest in vino potu radicis cortex duabus drachmis, dempto balinearum usu, feruntque XXXV diebus per urinam et alvum totum lienem emitti. Bibitur in lumborum doloribus ac paralysi. Dentium dolores sedat tritum ex aceto vel semen decoctum vel manducata radix. Infunditur et aurium dolori decoctum oleo. Ulcera, quae phagedaenas vocant, folia et radix recens cum melle sanant. Sic et strumas discutit radix, parotidas vermiculosque cocta in aqua. iocineris doloribus tusa cum farina hordeacia inponitur. Vesicae quoque malis medetur. Dant et ad taenias in aceto et melle. oris exulcerationes in aceto decocta tollit. Stomacho inutile esse inter auctores convenit”.

6 Op. cit., XXVIII, 74: “Carcinomata curat coagulum leporis cum pari pondere capparis adspersum vino”.

7 De medicina, IV, 8: “Sumenda deinde ieiuno potui mulsa aqua, <in qua> vel hysopus cocta vel contrita capparis radix sit”.

8 Op. cit., IV, 16: “Multisque modis huic rei cappari aptum est: nam et ipsum cum cibo adsumere et muriam eius cum aceto sorbere commodum est. Quin etiam extrinsecus radicem contritam vel corticem eius cum furfuribus aut ipsum cappari cum melle contritum imponere expedit. Malagmata quoque huic rei aptantur”.

9 Op. cit. IV, 29, 2: ”Maxime prodesse videtur aut cum hordeacea farina aut cum ficu ex aqua decocta mixtus capparis cortex concisus.”

10 De alimentorum facultatibus, II.

11 Deipnosofisti, XIII, 22.

12 Chiàpparu a Nardò, al pari di lampasciòne,  è usato anche nel significato di stupIdo.

13 Nel dialetto neretino non è raro sentire l’interiezione cazzulèddha! o cazzatèddha! Le voci normalmente sono usate per indicare una specie di mestolo e un tipo di panino schiacciato. Pure etimologicamente slegate da cazzo (cazzulèddha è doppio diminutivo dell’osoleto cazza; cazzatèddha è da cazzare), tuttavia, lo evocano, pur approssimativamente, nella forma; lo stesso è successo per l’italiano cavolo e cacchio (=germoglio, dal latino  càtulum=cagnolino, cucciolo).

14 Dizionario italiano Sabatini-Coletti, Giunti, 1997; il Dizionario italiano De Mauro, Paravia, 2000, si limita solo a riportare la data di nascita della voce al singolare nell’accezione originaria: circa 1340.

15 Dizionario italiano De Mauro, op. cit.; idem nel Dizionario italiano Sabatini-Coletti, op. cit. Qui i due dizionari, pur avendo potuto fruire di strumenti informatici di ricerca,  hanno preso una cantonata incredibile, dal momento che caspita usato come interiezione compare già, per esempio, in due commedie di Carlo Goldoni (XVIII° secolo): L’impostore, atto III, scena XII: “Le bandiere? Mo caspita!”; Il frappatore, atto II, Scena XII: “Caspita! Poeta ancora?”. Non escludo che nelle edizioni più recenti, che non ho potuto controllare, compaia una retrodatazione ancora più spinta di quella da me suggerita.

16 Dizionario italiano Sabatini-Coletti, op. cit.; nel Dizionario De Mauro, op. cit. la voce è fatta risalire al 1955.

17 Op.cit., IX, 9.

18 La più antica attestazione rinascimentale che son riuscito a trovare appartiene a La Sibilla, commedia, sicuramente anteriore al 1566, di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (nel pezzo, che colpo di fortuna!,  compare pure un càppita, dal quale, secondo me, con dissimilazione è nato càspita): atto III, scena IV: “Capperi! o va, abbi spesso dietro di queste pollezzole; ella vorrebbe in poche volte mandarmi alle stinche: cappita! oh, io mi pensava fare a grossoni”.

Storia del pasticciotto salentino

di Sonia Venuti

Il pasticciotto, dolce tipico galatinese,  è nato per caso nel 1740 nell’antica e rinomata pasticceria Andrea Ascalone ubicata ancora oggi, come allora, nella storica sede dell’odierna Via Vittorio Emanuele II, cuore del centro storico  e fulcro intorno al quale ruotava molto del dinamismo e della vita cittadina.

La fragranza del suo profumo accompagna  la storia di Galatina attraverso i secoli da ben nove generazioni, approdando ai giorni nostri senza aver perso nulla, negli anni, del suo antico sapore.

Nato col nome di bocconotto, piccolo boccone di pasta frolla farcito di crema pasticcera, insieme ad un altro dolce tipico Galatinese dita d’apostolo”, nome trasformato in seguito in “africano”, il pasticciotto è divenuto il dolce galatinese per antonomasia che andrebbe gustato, per esaltarne il sapore, con una tazza di cioccolata calda o granita al caffè.

In uso da sempre per i galatinesi quale  dolce tipico della domenica e delle festività in genere, è consigliato ai turisti  come tappa obbligata di degustazione nella visita alla città.

L’antica pasticceria Ascalone, un tempo anche rinomata gelateria e servizio ricevimenti, ha legato il suo nome nel corso dei secoli a tutte le famiglie della nobiltà prima, e della nuova borghesia poi, con la sua presenza costante nei giorni  importanti quali feste di fidanzamento,  matrimoni battesimi e quant’altro,  attraverso la produzione di piatti tipici, dolci e gelati, quest’ultimi conservati in appositi contenitori con una miscela di  ghiaccio e sale, per mantenere la giusta temperatura.

Requisita dagli Americani, subito dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, la pasticceria Ascalone produceva  i sui rinomati prodotti  esclusivamente per gli aeroporti di Galatina e Brindisi, ove erano di stanza molti soldati delle truppe

Dall’antica Grecia al Salento. Appunti per una storia della tessitura

Tessere

di Maria Grazia Anglano

Donna.

E’ nella donna, il silenzioso mistero, del tempo del creare.

Da sempre trova in lei, la sua casa. E la paziente attesa tesse.

La sua unicità irripetibile.

 

All’apertura del passo, rintocca il telaio. Mentre la navetta scorre, nel varco, degli alterni fili dell’ordito. Gesti rituali, di un improbabile danza, scanditi ritmicamente, nel sonoro vuoto della propria stanza.

E’ antica quasi quanto l’uomo quest’arte e nel tempo è diventata più di una semplice necessità, assumendo sempre più caratteristiche identificative di popoli, cultura, stato sociale e non ultima capacità decorativa e creativa.

La tessitura ha superato secoli, tradizioni e miti, basta pensare all’Odissea, dove Penelope nel “tessere” riaffermava la sua capacità di scegliere, una fiduciosa attesa. Oppure ad Aracne, che della sua abilità, ne fa addirittura un’amara sfida agli dei. Condannata per questo, a tessere per sempre, la sua tela dalla bocca.

Dal mito all’arco della nostra storia, la tessitura ha conosciuto alterni momenti, legati strettamente alle vicissitudini, del periodo storico.

Così come anche per la storia dell’arazzo. Inizialmente aveva caratteristiche grezze e prettamente nomadi, serviva di volta, in volta, ora per separare un ambiente, ora per coprire una finestra ecc.

Finché queste grossolane tessiture non iniziarono ad acquisire delle decorazioni più proprie e ad assurgere a un compito più prettamente decorativo. Trovando, per questo, il loro uso, anche e specialmente nelle occasioni più solenni.

Doveroso è ricordare la città francese di “Arras”. Dalla quale prenderanno il nome gli arazzi, e dove appunto i Gobelins, per secoli, ad iniziare dal 1601, hanno prodotto pregiatissimi arazzi, dalle complesse e istoriate decorazioni.
La Galerie des Gobelins, requisita nel corso della prima Guerra Mondiale, venne inaugurata nell’ 1922 e ospitò mostre sino al1939. Chiusa nel 1972, in seguito utilizzata come deposito, ha riaperto i battenti il 12 maggio 2007, dopo ben tredici anni di restauri, con la mostra: Les Gobelins 1607-2007, Trésors dévoilés – Quatre siècles de création.

L’arte del tessere, col suo lento divenire, dilata uno spazio atto anche al pensare, recuperando un tempo del lavoro più a misura d’uomo. Dove la manualità segue ed esegue, da una precedente progettazione, messa appunto su una carta tecnica, detta propriamente -cartone-.

Qui ogni piccolo quadratino sulla carta tecnica, corrisponde a quell’unico fiocco (termine tecnico, che indica un filo lungo pochi centimetri, che si annoda a quelli verticali dell’ordito.) che insieme agli altri costruisce il vello dell’arazzo. E dall’uno (fiocco) diviene il tutto(opera-arazzo, con la sua caratteristica iconografica).

Vi sono vari tipi di telai, da quelli verticali a quelli orizzontali, o da tavolo. Tra i tanti telai, quelli, tuttora, maggiormente in uso, sono quelli a pedali, di origine antichissima. Questo modello ha forma rettangolare ed è in legno d’ulivo.

Con esso la lavorazione è resa più veloce grazie all’apertura del passo, ossia lo spazio creato tra i fili dell’ordito, mediante i pedali, con la successiva introduzione della navetta, o sciuscetta, che porta con se il filo della trama. Vi sono poi due rulli, uno anteriore ed uno posteriore: il primo serve ad avvolgere il lavoro, tessuto, il secondo a reggere i fili dell’ordito, ancora da lavorare. I licci, poi, servono ad allontanare ad uno, ad uno i fili dell’ordito. Il battente, o pettine, ha poi la funzione di pettinare e assestare il tessuto, ossia permette al filo della trama di accostarsi, a quello precedente.

Interessante è focalizzare come quest’arte abbia trovato pervicace espressione, anche nel nostro Salento. Attraverso i più svariati centri, della nostra penisola. Trovando poi in Casamassella, uno dei più importanti epicentri della storia della tessitura salentina.

Casamassella è un paesino di mille abitanti, vicinissimo ad Otranto. Tutto ebbe il suo inizio, nel castello dei Marchesi De Viti De Marco, dove la giovane donna Carolina decide di trasformare l’arte del ricamo, diffusamente conosciuta in tutto il Salento, in un’arte assolutamente esclusiva al fine di poter esportare i prodotti di tale, pregiata produzione.

Sul finire dell’ottocento fonda così a Maglie, la scuola del ricamo di Casamassella. Grazie alle conoscenze, che il celebre economista Antonio De Viti De Marco aveva a Roma ed in tutta Italia, la signora Carolina poté commercializzare i ricami, diffondendo il prestigio della scuola.

 Dopo qualche anno a Maglie arrivava il lino dall’Irlanda, mentre i ricami si vendevano tanto in America, quanto in Russia; un vero mercato mondiale che fu attivo per tutta la durata dell’attività della scuola. La tradizione familiare fu continuata dalle due figlie di Donna Carolina, Lucia e Giulia. Lucia si trasferì in Sud Africa, portando la tradizione salentina nelle comunità Boere, mentre Giulia si specializzò nell’uso dei telai che fece montare nelle sale al pianterreno del castello, e poi in una masseria, detta Villa Carmosina, destinata al proseguimento di queste ricercate lavorazioni.

Negli anni 20 il mercato del tabacco era fiorente, e le donne preferirono spostare le proprie energie nella coltivazione, e nella raccolta del tabacco, obbligando così la scuola a chiudere. La tradizione continuò nel castello e molte donne del paese di Casamassella continuarono a produrre. Anche se questo determinò un cambio di connotazione di mercato, passando da una produzione capace di soddisfare una richiesta di livello internazionale, ad una più prettamente locale.

Successivamente dal lino si incominciò a tessere la bambagia e la lana. Si incominciarono a produrre coperte, tappeti ed arazzi. Per migliorare la produzione furono importate delle pecore che migliorassero la qualità della lana, dal Medio Oriente arrivarono le pecore karakul. Queste pecore dalla lana nera, venivano tosate e filate, insieme alle bianchissime pecore locali, creando geometrie di colori bianco e nero di rara eleganza.

La riforma fondiaria diede una nuova e ulteriore scossa a questa scuola, e così il nuovo progresso fece terminare, per una seconda volta, il sogno della scuola di Casamassella.

Era d’uso ancora sino ad un po’ di decenni fa, a Casamassella trovare donne negli atri delle proprie abitazioni intente a tessere al proprio telaio.

La tessitura ha poi avuto, un rinnovato impulso, in alcuni centri della provincia, come Casarano,  Collepasso e Uggiano La Chiesa.  Nella zona di Maglie e Suranonoti sono i tappeti in lana e cotone grezzo, con una tecnica forse di origine saracena, detta “fiocco leccese”, che evidenzia un aspetto arricciato.

Non ultimo in questo elenco Nardò, dove donne maestre nelle diverse arti, dal telaio al ricamo, svolgevano lavoro su committenza oltre ad insegnare l’arte. Queste maestre, all’occorrenza, attuavano quella rete di solidarietà femminile per le mamme, intrattenute in altri impegni o lavori da assolvere, chiedendo“lu ntartieni” (cioè l’ intrattenimento)per i loro ragazzini, e questo era una buon motivo per tentare, su un piccolo canovaccio, di imparare i più facili rudimenti del ricamo. Come pallini e punto erba.

Importanti a tal proposito sono le coperte imbottite di Nardò e Galatone dette “buttite”. Venivano tutte rifinite e cucite a mano, all’interno si inseriva la bambagia, tra due teli di diverso colore, quasi sempre in raso rosso o verde, e rappresentavano un elemento indispensabile, nel corredo o “dote”della futura sposa.

La produzione dei ricami, e dei tessuti, ha tradizioni antichissime, ed è nata per oggetti di uso quotidiano: asciugamani, lenzuola, tovaglie, sacchi, abbigliamento, ecc. Oggi la tendenza si va spostando verso la realizzazione di tessuti pregiati, arazzi, tappeti, stuoie, cuscini e coperte.

Tutte le tipologie del punto ad ago sono presenti, in una infinita gamma di disegni, spesso ispirati al paesaggio e alla natura. I merletti più conosciuti sono “il chiaccherino”, fatto con la spoletta sulle dita, che forma una sorta di tela di ragno, a disegni concentrici.

tombolo

Ed ancora nelle zone di Lecce, Nardò, Galatina e Ruffano abbiamo “il tombolo”. Con la famosa tecnica, di intrecciare i fili intorno ad aghi puntati su un disegno, sistemato su un grosso cuscino cilindrico, imbottito. E un’arte poco diffusa perché generalmente viene tramandata di madre in figlia, o comunque nel ristretto del proprio ambito familiare.

Ci sono oramai poche realtà o botteghe, che perdurano le caratteristiche dell’artigianalità. Dove le esperte ricamatrici salentine si cimentano nell’arte del ricamo, in tutti i suoi punti, ed anche nella realizzazione di pizzi e merletti, sia ad ago che ad uncinetto. Se si passa alle origini storiche del merletto, si vede che esso è nato con tutta probabilità proprio in Italia, alla fine del 400, e per ragioni funzionali, non meno che estetiche. In quanto andava a sostituire importanti e pesanti decorazioni, galloni, con uguale pregio e maggiore facilità di lavabilità.

Dal seicento sino all’ottocento il merletto ha il suo apice e per la sua preziosità, costituisce uno degli elementi di distinzione del ceto socia­le nobile e alto borghese; viene richiesto da committenze facoltose, destinato ad arricchire gli abiti degli aristocratici, del clero e ad abbellire gli altari nelle cattedrali. La produzione italiana è la più ricercata, apprezzata anche all’estero: il protocollo delle varie Corti Reali euro­pee obbliga i nobili a presentarsi con abiti ornati di pizzi. Tale fu l’importanza economica che ebbe in Italia il merletto che nacquero pesanti sanzione a quanti diffondessero i segreti di tali tecniche, sino ad essere tacciati addirittura come traditori della patria. Successivamente l’avvento della Rivoluzione industriale sovverte abitudini e stili di vita decretando un impoverimento di questo settore. La tessitura subisce così le sue necessarie contaminazioni dovute alla tecnologia, alla comparsa di nuove fibre, e ad una produzione sempre più rapida e accessibile economicamente, a scapito di una imitata quanto approssimativa qualità artigianale. Prova ne sono i merletti industriali.

Ma l’artigianalità perdura nelle pregiate fatture, per quanto ripetibili come soggetto, rimangono comunque sempre uniche.

Infatti, la storia dell’artigianato nelle sue pecularietà e specificità, da sempre porta con sé quel labile e difficile distinguo, tra opera in sé, ed opera come, semplice, buona fattura tecnica. D’altra parte delimitare questo terreno di commistione è reso ancora più difficile, in quanto l’artista stesso usa e si avvale di bravi artigiani per realizzare le proprie opere. Innumerevoli sono infatti gli artisti che nella storia recente, e passata, hanno prodotto importanti cartoni, per la realizzazione di arazzi. Tra i tanti nomi Matisse, Le Corbusier, Picasso.

Molti artisti hanno trovato espressione nelle fibre tessili, dando il via a quella che successivamente sarà chiamata fiber art. Anch’io ho subito la fascinazione di questo mondo e da tempo, faccio ricerca attraverso l’uso di queste tecniche nelle sue varie e possibili declinazioni. Realizzando, oltre ad arazzi in canapa, anche arazzi su carta. Dove il filo è insieme segno, e materia percettibile, capace di ospitare la luce, è il relativo indelineabile, cono di presenza,-ombra-. Il tutto, in una forma di comunicazione, di piani .Di vuoti, e superfici, in una sorta di continuum spazio temporale. Dove la luce allo zenith, ha ormai arso e graffiato ogni cromia, di delineate, quanto arcaiche, geometrie.

Giurdignano. Il menhir San Paolo

di Marco Piccinni

Appena fuori dal centro abitato di Giurdignano, lungo quella che è stata definita la strada dei dolmen e dei menhir, all’interno del percorso archeologico del comune, definito il giardino megalitico d’Italia, è possibile ammirare una perfetta forma di sincretismo religioso-culturale costituitosi nei secoli intorno alla cripta di San Paolo.

Sormontata da uno dei menhir più “bassi” di Giurdignano, alto poco più di due metri, una cavità scavata in un basamento roccioso con tracce di affreschi fortemente deteriorati dal tempo e ulteriormente danneggiati da azioni vandaliche, rivela le sue origini, probabilmente bizantine, con degli abbozzi al culto di San Paolo e alla ormai storica associazione alla terribile taranta.

Menhir e cripta di San Paolo

San Paolo, divenuto un taumaturgo per ogni fenomeno di avvelenamento indotto dal morso di animali dopo aver debellato dal suo corpo il veleno iniettatogli da un serpente sull’isola di Malta, divenne anche il “testimonial ufficiale” di un fenomeno tipico dell’Italia Meridionale, con prevalenza nel territorio salentino, che fece discutere uomini illustri di ogni tempo, tra cui anche il grande Leonardo da Vinci:

San Paolo che vince sul mistico ragno che induce uno stato di possessione nel soggetto morso, è rappresentato nella piccolissima cripta di Giurdignano, accanto ad un ragnatela, probabilmente postuma all’affresco insieme ad altri piccoli dettagli  ”ricalcati” intorno alla figura dell’apostolo delle genti.

Affresco di San Paolo

 

L’associazione di San Paolo alla taranta avvenne con predominanza nel ’700, quando la chiesa cercò di arginare il fenomeno del tarantismo, di stampo tipicamente pagano, intorno ad un piccola cappella di Galatina, con il solo fine di debellarlo e ristabilire l’ordine nella terra dove la leggenda vuole siano sorte le prime chiese cristiane d’occidente. Nello stesso periodo, inoltre, i progressi in campo medico raggiunti nella capitale del regno di Napoli respingevano ormai di netto la teoria della possessione da morso, benchè fosse stata fortemente accreditata nei secoli precedenti, per sposarne una  più razionale focalizzata su un autentico avvelenamento. Questi sarebbe stata la causa di spasmi e tormenti psico-fisici.

All’interno della cripta, tutt’oggi oggetto di culto, è possibile individuare altre figure di santi ai lati di San Paolo. Si ipotizza che in origine fosse utilizzata per usi sepolcrali, ipotesi non suffragata da evidenze archeologiche. Sulla sua sommità tuttavia, adiacente al menhir,è possibile notare un insenatura nella roccia, artificiale, che ricorda tombe bizantine e medievali. Se così fosse non ci sarebbe spazio per nessun stupore. Questa zona è stata fortemente frequentata nei secoli, come dimostrano i rinvenimenti archeologici nelle vicine contrade Quattromacine e Vicinanze.

Possibile tomba sul menhir San Paolo

 

Il lato nord del menhir presenta sette tacche alla medesima distanza, mentre sulla sommità è possibile notare un foro, probabilmente utilizzato per l’installazione di una croce. Tutti i monumenti/simboli vistosamente legati a culti di stampo pagano vennero progressivamente cristianizzati a partire dagli editti di Teodosio, con i quali il Cristianesimo divenne religione di stato per l’impero romano e il popolo dei Cristiani divenne, da perseguitato, un persecutore. I menhir vennero incisi con delle croci o sormontati con “addobbi” cristiani, le cripte vennero affrescate e gli dei catechizzati.

Anche se molto piccola, questa cripta rappresenta un anello di congiunzione per molti dei culti che hanno segnato in maniera decisiva la storia etnografica del Salento.

 

pubblicato su http://www.salogentis.it/2012/02/19/il-menhir-san-paolo-di-giurdignano/

Briganti di casa nostra

Archivio di Stato Lecce, Pref. Gab. Ctg. 28, fasc. 2636

di Fernando Scozzi

Ancora oggi emerge come siano contrastanti  le interpretazioni che i vari indirizzi storiografici danno del brigantaggio meridionale postunitario. Cosicché, la  storiografia di destra che prima condannava il brigantaggio vedendo in esso la personificazione della reazione borbonico-clericale, oggi  lo  rivaluta  facendolo assurgere a lotta partigiana contro l’invasore  piemontese,  mentre gli storiografi di sinistra, che fino ad un certo periodo hanno  visto  nel  brigantaggio  i  prodromi  delle  lotte  contadine  contro la protervia dei galantuomini, usurpatori dei demani, oggi lo condannano vedendo in esso più l’aspetto delinquenziale che quello politico. In effetti, non fu l’unificazione nazionale a creare il brigantaggio, perché le molteplici cause di questo fenomeno, da sempre esistito, non sono di origine politica, ma di origine sociale. I presupposti per lo sviluppo della rivolta si svilupparono sotto i Borbone e se pure a Napoli e in Campania c’erano delle isole felici, (dovute alla presenza della corte e di alcune industrie manifatturiere) nel resto del Regno delle Due Sicilie e specialmente nelle campagne, si  viveva nella miseria. Il caos politico e sociale scatenato dall’unificazione, la leva militare, le tasse, l’usurpazione dei demani (che i Borbone, comunque, non avevano provveduto a far dividere fra i contadini)  la politica anticlericale del governo, innescarono la miccia. Ma  non ci fu un brigantaggio politico, bensì un brigantaggio utilizzato per fini politici. E’ lo stesso Pasquale Villari a scrivere che il brigantaggio meridionale antico e contemporaneo trae unicamente origine dalla triste condizione delle popolazione, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita; il brigantaggio altro non è che una questione ardente agraria e sociale. I borbonici, quindi, strumentalizzarono il malessere del Mezzogiorno servendosi del brigantaggio per impedire la stabilizzazione del nuovo ordine. I briganti accettarono il patrocinio politico perché  in  questo  modo  le  loro imprese uscivano dal  novero  delle azioni delinquenziali   e  della mera vendetta contro i signorotti locali per assurgere a lotta politica contro l’invasore piemontese. In realtà, sia i briganti che i borbonici combattevano per scopi diversi e si servivano gli uni degli altri.   La comunanza  di  interessi  si  ruppe  per  il mancato intervento delle Potenze assolutistiche europee nel Mezzogiorno e per il conseguente rafforzamento dello Stato unitario. A quel punto, chi dalle retrovie aveva soffiato sul fuoco della rivolta si dileguò; ma i briganti non potevano tornare indietro e furono fucilati, deportati, massacrati senza pietà.

In Terra d’Otranto non c’erano le condizioni per una rivolta di grandi dimensioni, perché – scriveva un funzionario di pubblica sicurezza al prefetto –  la Provincia di Lecce non sarà mai la prima a ribellarsi contro l’attuale ordine di cose, essendo pronta sì alla parola, ma tarda, anzi nemica di ogni azione. I leccesi hanno buone viscere, calda fantasia, facile parola,  ma tardo il braccio.   In realtà, più che di brigantaggio si può parlare di gravi problemi di ordine pubblico per evitare i quali  era necessario assicurare pane e lavoro ai contadini che, ben presto, iniziarono a manifestare il loro malcontento. Il contadiname del piccolo Comune di Surbo – infatti – falsamente imbevuto dell’idea del rientro in Napoli di Francesco II,  si abbandonava dall’avemaria fino alle ore sette  circa  della sera di domenica 10 marzo, alle maggiori sfrenatezze reazionarie imperocché,  principiando a gridare in piazza “Viva Francesco II , Abbasso la Costituzione”, in più centinaia si davano a percorrere le vie del paese, continuando sempre nelle stesse grida e portando un lenzuolo bianco come vessillo. Nel giro che facevano abbatterono gli stemmi reali, mentre nel corpo di guardia venivano presi e rotti alcuni fucili e bistrattato un militare in servizio che tostamente se la svignava per la paura. Poscia aggredirono diverse persone che avevano fama di liberali arrecando loro molti danni. Al municipio si davano a sconquassare la poca mobilia, rompendo i quadri di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, nonché disperdendo diverse carte dell’archivio, molte delle quali bruciarono in piazza. E durante il tumulto alcuni dei più facinorosi gridavano: “ Vittorio Emanuele, che ci dai? Noi moriamo di fame e dobbiamo rivoltare per farci dare lavoro. A Marittima la popolazione insorse il 23 marzo 1861 mentre i tumulti si propagavano nei comuni di Ortelle, Andranno e Spongano. A Taviano, nel corso di un tumulto popolare scoppiato il 7 aprile 1861, fu ucciso Generoso Previtero, primo eletto del Comune, mentre la rivolta si estendeva rapidamente ai limitrofi comuni di Racale, Melissano e Alliste dove  furono  devastati  i locali del municipio e fatto un corteo con l’immagine di Ferdinando  II.

Ma la causa scatenante della rivolta è da ricercarsi nella legge per la coscrizione militare, obbligo fino ad allora sconosciuto nel Mezzogiorno d’Italia, che privava le famiglie dell’apporto indispensabile dei figli più giovani i quali non intendevano marciare sotto le bandiere di uno Stato lontano e sconosciuto. A Vernole l’affissione della lista dei reclutabili provocò un tumulto popolare con grida ostili e laceramento della medesima, mentre a Gallipoli un centinaio di popolani e di pescatori, si spinse fino al palazzo municipale fra le grida: Non vogliamo la leva! Abbasso il Municipio, Viva la libertà! La guardia nazionale, prima di essere sopraffatta da una violenta sassaiola, aprì il fuoco; quando la folla si dileguò rimasero sul terreno due morti e numerosi feriti.

Furono quindi i renitenti alla leva, uniti ai soldati sbandati del disciolto esercito borbonico a costituire le prime bande brigantesche anche nel Salento meridionale. Gli ex soldati borbonici, infatti, rientrati a casa col rancore di una perduta carriera, non avevano altra prospettiva che il duro lavoro dei campi e si comprendere benissimo come la possibilità di darsi alla macchia  e spadroneggiare col pretesto della difesa del trono e dell’altare, costituisse per alcuni di loro una valida alternativa.  Fra questi,  Rosario Parata, alias lo Sturno che dopo il 1860, soldato sbandato del disciolto esercito borbonico, ritornò a Parabita. Lo Sturno era un brigante “sui generis” perché non si macchiò mai di delitti di sangue. Si faceva annunciare da uno squillo di tromba e al grido di Viva Francesco II,  irrompeva nei vari centri abitati sventolando la bandiera bianca gigliata dei Borboni e disperdendo i militi della guardia nazionale. Così invase  Supersano, Nociglia, Scorrano e Gagliano, dove prese un caffè e poi attraversò la pubblica piazza con i fucili spianati. Nel 1864, venne catturato. Processato, fu condannato a sette anni di reclusione e a due di lavori forzati. Un anno dopo, a soli 34 anni, fu trovato morto in carcere.

L’esempio dello Sturno fu seguito da alcuni renitenti alla leva di Carpignano, Borgagne e Martano i quali costituirono una banda brigantesca capitanata da Donato Rizzo, alias Sergente e il 7 agosto 1861 penetrarono in Carpignano impadronendosi dei fucili della Guardia Nazionale e ingaggiando un conflitto a fuoco con i carabinieri nel bosco del Belvedere.

Molto più pericolosa si rilevò la banda capeggiata  da Quintino Venneri, detto Macchiorru, di Alliste. Costui,  partito  militare  nel  1859,   ritornò in   Alliste  nel 1860 come sbandato del disciolto esercito borbonico e il 7 aprile 1861 prese  parte al tumulto popolare scoppiato a Taviano. Fu arrestato ed uscito dal carcere l’anno seguente, si diede alla macchia.  Attorno a lui si raccolsero una ventina di persone, fra le quali il melissanese Barsanofrio Cantoro anch’egli sbandato del disciolto esercito borbonico, il gallipolino Scardaffa, Ippazio Gianfreda, alias Pecoraro, di Casarano, Vincenzo Barbaro, alias Pipirusso, di Alliste, Giuseppe Piccinno, di Supersano, detto Mangiafarina. Questa banda, il 25 giugno 1863, penetrò in Melissano per derubare e poi uccidere don  Marino Manco, uno dei pochi sacerdoti della diocesi di Nardò favorevole all’unificazione nazionale. Ma  le azioni delinquenziali del Venneri non finirono qui perché, pochi giorni dopo l’assassinio del Manco, assaltò il carcere di Ugento per liberare suo fratello, ivi recluso; ferì un carabiniere, si rese responsabile di numerosi furti ed estorsioni. Arrestato, riuscì ad evadere dal carcere di Lecce e infine, il 24 luglio 1866, fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri,  dietro la cappella di Santa Celimanna, nei pressi di Supersano.  Il suo corpo fu esposto, come monito,  sulla piazza di Ruffano.

Nella zona di Alliste operava anche la banda di Salvatore Coi che nel 1865 arruolò soldati sbandati nei Comuni di Racale, Alliste e Felline, con la promessa di quattro carlini al giorno e di saccheggio delle abitazioni dei liberali. I briganti costrinsero quindi il sindaco di Alliste a consegnare 12 fucili e dopo aver requisito altre armi si diressero verso Melissano, ma si scontrarono con i carabinieri e si diedero alla fuga. La banda fu poi catturata dalle forze dell’ordine nei pressi della masseria “Campolusio”, in agro di Ugento.

Con la morte dello Sturno e di Macchiorru  e con la cattura del Coi,  il brigantaggio nella nostra provincia poteva dirsi esaurito; rimanevano i problemi di una terra cui occorreranno decenni per uscire dalle nebbie del sottosviluppo.

Solo un’autentica rivoluzione popolare avrebbe potuto risolvere il problema agrario, coagulando intorno al nuovo Stato il consenso delle masse contadine.  Ma nel Mezzogiorno, l’Italia nasceva per opera di una minoranza che, assediata dal malcontento, consegnò le province napoletane alla monarchia sabauda. I meridionali si rassegnavano ancora una volta alla fame e alla miseria, mentre la borghesia celebrava il trionfo della sua rivoluzione.

Lettera minatoria al sindaco di Laterza per la mancata divisione dei demani comunali.

Bari e Lecce. Psicologia di una diversità

 

Lecce, particolare della facciata di Santa Croce (ripr. vietata)

di Luigi Corvaglia

Mario Sansone, che, da critico letterario, era uso a guardare in profondità e che, da oriundo proveniente della non lontana piana dauna, poteva vedere Bari con occhi non nativi, ebbe a dire che questa è città “senza ironia e senza malinconia”. Non una critica. Una efficace, fredda, tagliente rasoiata descrittiva. Da oriundo salentino, non riuscirei a trovare maggiore sovrapponibilità fra questa fendente condensazione semantica e quanto, fino alla lettura di questa definizione, percepivo senza sapere esprimere. Un’epifania. Ecco. Questo volevo dire tutte le volte che farneticavo, sotto sguardi sempre più perplessi, di una seriosità ilare che copula con una tristezza rabbiosa. Lo so, non si capisce. Appunto. Sguardo profondo e occhi non nativi servono a vedere, non a descrivere. Sansone mi è venuto in soccorso. Fatto è che questa definizione, nel suo essere il preciso negativo della fotografia della città che nelle Puglie è il contraltare storico del capoluogo regionale, cioè Lecce, mi permette di riflettere sulle differenze profonde tra i territori di cui le due città sono riferimenti storici e amministrativi.

Lecce la sapevo descrivere molto bene anche prima di conoscere il giudizio di Sansone su Bari. La città salentina è luogo di straripante ironia e sottile malinconia. E’ riflettendo su questo che diviene immediatamente comprensibile, al di là di lingue e campanili, al di là di ripicche storiche e calcistiche, di orgogli snobistici e fierezze mercantili, la lontananza incolmabile fra Puglia e Salento. Non di distanza culturale trattasi, bensì di contrapposizione psicologica.

Questo un “forestiero” non lo capirà mai. Non capirà che la

Un antichissimo piatto salentino: cìciri e ttria

di Armando Polito

A beneficio dei lettori più giovani che non hanno probabilmente mai sentito questo nesso o avuto la voglia di conoscerne il significato (quanto alla degustazione, invece, sono certo che McDonald’s e compagni ne hanno decretato, e da tempo, la fine…) dirò che si tratta di un piatto tipico quanto semplice della nostra cucina, a base di ceci e sottili strisce di pasta fritta, un piatto contadino, come oggi si suol dire, con accezione finalmente positiva, velata, comunque dall’artificiosità che accompagna lo snobismo e che è insita in tutto ciò che è, sempre come oggi si dice, trendy.

tria

Il geografo arabo Idrisi nell’opera Kitab-Rugiar (Libro di Ruggiero) del 1154 parla della itryia (così suona la trascrizione dall’arabo) una specie di capellino molto sottile. Ancora oggi in Sicilia è comune chiamare i capellini tria. Riporto, tradotto, il passo in questione: A ponente di Termini Imerese vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli (itryia) in quantità tale da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi.

Si presume che Idrisi nell’adoperare il vocabolo itryia si riferisse ad un tipo di pasta conosciuto nel proprio paese di origine.  siciliani probabilmente nell’inventare gli spaghetti si ispirarono all’itryia, dando vita, comunque, ad un prodotto nuovo. Da questi due tipi di paste si hanno diversi piatti tipici. Uno di questi, con sicure discendenze di tradizione araba o comunque orientale, è la pasta fritta croccante di capellini, appunto tria, lessati e cosparsi di miele e cannella. Che gli arabi conoscessero i capellini è fuori di dubbio, per i loro contatti con l’oriente, tenendo presente che i cinesi da millenni cucinavano i famosi capellini di soia. Il nostro ciciri e tria non sarebbe altro, dunque, a prima vista, che una variante del piatto dolce siciliano prima descritto.

Un’ultima riflessione: comunemente si crede che a far conoscere i vermicelli sia stato Marco Polo (nato un secolo dopo l’opera di Idrisi) nel suo Milione: in realtà, nel Meridione d’Italia già si fabbricavano da tempo…

Non è finita: nel primo libro delle Satire di Quinto Orazio Flacco (poeta latino del 1° secolo a. C.) la satira 6 ai versi 114/115 contiene, a mio avviso,  un probabile riferimento al tipico piatto neritino dei cìciri e ttria: …inde domum me/ad porri et cìceris rèfero laganìque catìnum: …poi me ne ritorno a casa dove mi attende un piatto di porri, ceci e pasta sfoglia.

Ora mi soffermerò sul  precedente laganìque: esso è composto da -que enclitico (che significa e) e da làgani, genitivo di làganum. Dal nominativo plurale làgana è nata la voce dialettale làiana (vale la pena ricordare, a vanto del dialetto, che la voce latina non è sopravvissuta in italiano; quella che sembra foneticamente più vicina, lasagna, deriva da un latino *lasània, dal classico làsanum=treppiedi, in Petronio vaso da notte , a sua volta dal greco làsanon con lo stesso significato).

La làiana è la sfoglia di pasta da cui, volendo, si ricavano le lasagne. L’originario latino làganum significa frittella, in altri autori pizza; tuttavia, il vocabolo è usato da Apicio (gastronomo latino vissuto tra il I° secolo a. C. e il I° d. C.) anche come sinonimo di tractum=pasta sfoglia (da tràhere=tirare). Làganum, poi, è dal greco  làganon=dolce di farina, miele e olio; tuttavia l’espressione elkiùein làganon (in cui elkiùein, come sempre, significa tirare, stendere) ci consente di capire che in sostanza il   làganon era la sfoglia da cui si partiva per realizzare il dolce che aveva lo stesso nome: storia parallela a quella del làganum latino.

Debbo infine dire che la voce è usata in frasi di rimprovero rivolte ai bambini come sostituto ammiccantemente eufemistico di lagna.

Insomma, se Orazio avesse aggiunto a quel làgani anche il participio passato fricti (ma ho già detto che la voce làganum può significare da sola frittella), avremmo avuto la certezza assoluta di trovarci di fronte alla citazione del nostro cìciri e ttria, dal quale, e chiudo, per evidentissimo slittamento metaforico dovuto a somiglianza (quella che solo la gente semplice e i poeti sono, da sempre, in grado di cogliere), è nato il nome dialettale di una specie di narciso, il cicirittrìa.

La vera storia di papa Galeazzo di Lucugnano

di Ezio Sanapo

Difficile dire quanto i periodi felici della storia, abbiano riguardato le popolazioni del sud e in particolare di Terra d’Otranto, zona questa, così fuori mano. Ma il periodo che sta tra il ‘500 ed il ‘700, è stato la notte più fonda della storia, la vera “notte della taranta” per gli abitanti di quella zona.

Al morso della taranta e della fame si aggiungeva quello della paura e della disperazione a causa del clima inquisitorio messo in atto dal regime spagnolo, coadiuvato dal clero, per scongiurare il dissenso che nasceva dentro e fuori la Chiesa. Vengono in mente immagini di paesaggi torbidi, senza aurore né tramonti come nei versi di un’antica filastrocca salentina:

 …Cquai nu ssé canta gallu

e nnù sse vite luna.

Nuddhru fiju te mamma

camina mai a quist’ura…

Ma il Sud, che aveva risorse proprie, sopravvisse a tutto ciò, esorcizzando il proprio disagio con la superstizione e la magia e in situazioni estreme anche con l’ironia: al simbolo pagano della taranta se ne aggiunse un altro altrettanto contrapposto alla chiesa da far pensare ad una presa di distanza dalla fede: nacque in un così ostile contesto e come rimedio a tutti i mali, il personaggio di “Papa Galeazzo” del paese di Lucugnano e paludi limitrofe, a sud del Regno di Napoli, zona questa, soprannominata le ” Indie” d’Italia”.

“Papa Galeazzo”, che non ha nessuna certificazione anagrafica comprovante la sua reale esistenza, è la trasposizione in chiave ironica, di un anonimo cittadino di Lucugnano, nella persona immaginaria, di un Papa malizioso e bonario, metafora di quello che nella realtà era un inquisitore temuto e potente.

In certe situazioni può succedere dunque che ciò che è troppo temuto e potente, può essere, anche da una singola persona, esorcizzato o ridimensionato a condizione che questa abbia, una forte consapevolezza della propria identità e che tenga in dovuto conto la caducità e la transitorietà di ogni vicenda umana. La commiserazione, la tolleranza o l’ironia sono risorse conseguenti che tale persona acquisisce a completamento di tutto ciò, senza lasciare spazio a nessuna forma di violenza.

L’idea del personaggio di Lucugnano, era nata, probabilmente, a danno di un omonimo parroco,a quel tempo, realmente esistito in quel paese. Si presume che esso non fosse ben visto dalla povera gente di quel luogo, tanto da essere beffeggiato con l’appellativo di “Papa”, un Papa che però si atteggia, ragiona e vive come uno di loro. Sta di fatto che molti preti, a quel tempo, oltre alle loro funzioni liturgiche, aiutavano il Potere Temporale svolgendo compiti “polizieschi” che culminavano con la persecuzione di persone a volte anche innocue e innocenti. Anche per queste vicende la gente di quel luogo avvertiva ormai la necessità di far valere le proprie ragioni, e non potendo farlo liberamente, ha dato delega a “Papa Galeazzo”, maschera tragicomica di un personaggio creato a imitazione di un prete non al servizio di Dio ma dei potenti, nel quale si incarna e diventa tutt’una l’anima di un “cafone” o di un “picaro”, che forte della sua carica ironica e trasgressiva, mette in atto, una rappresentazione a scena aperta, delle reali condizioni di vita della propria comunità. Nella storia anonima e mai scritta di quella gente, questo tipo di “ribellione” in apparenza puerile ed insignificante non era nuovo se consideriamo che, per esempio il turpiloquio cioè l’uso di espressioni oscene ed esplicitamente sessuali nel linguaggio dialettale Salentino era motivato da una repressione sessuale, premeditata e sistematicamente messa in atto, per tanti secoli dalle stesse autorità, con tutte le devianze, le sottomissioni e le frustrazioni, che da questa ne sono derivate.

ancora un ecclesiastico dipinto da Botero

Anche l’abitudine di esprimersi con imprecazioni e bestemmie rivolte a Dio, Madonne e Santi è sempre stata una forma di disubbidienza che si è diffusa proprio in quegli anni e le stesse autorità se ne preoccuparono tanto da ricorrere a torture come la mordacchia e a leggi speciali.

Di ribellioni “liberatorie” come queste, molti anni più tardi, ne ha fatto le spese l’arma dei carabinieri. Questi, quando giunsero per la prima volta nel Salento, non furono visti di buon occhio dalla popolazione. I salentini che storicamente lavorano la terracotta, li hanno copiati e prodotti in serie come pupazzi in miniatura con tanto di pennacchio, baffoni, e un curioso fischietto attaccato al fondoschiena: Dritti sull’attenti a guardia di un popolo salentino notoriamente scettico e prevenuto ai cambiamenti. E’la riprova che tutto ciò che viene imposto dall’alto crea sempre disagio, inquietudine e quindi rigetto.

Oggi che viviamo tempi di relativa libertà di pensiero e di parola, possiamo comprendere meglio il disagio di tante generazioni, all’ombra delle quali, anonimi autori controcorrente, in quel clima di caccia alle streghe, hanno avuto il coraggio, di “inventarsi” ad ogni male, rimedi così irriverenti e irriguardosi nei confronti dei rigidi ed opprimenti costumi di allora, sapendo di rischiare l’accusa di eresia e finire sul rogo, come è capitato ai filosofi Giordano Bruno di Nola e Cesare Vanini di Taurisano, nello stesso periodo e sotto lo stesso regime.

Papa Galeazzo dunque, più che l’interprete di una volgare comicità demenziale, come oggi ci fanno credere, si distingue invece come un autorevole personaggio salentino del sedicesimo secolo nato con il diffondersi della letteratura spagnola cosiddetta picaresca, che per la prima volta raccontava la realtà nuda e cruda della gente comune e che poi si è estesa, per merito di autori, a volte non a caso anonimi, in tutta Europa con i personaggi Lazzaro da Tormes, Justine, Moll Flanders, Tom Jones, Gil Blas e tanti altri meno noti.

Nella premessa a “La letteratura picaresca: cultura e società nella Spagna del l600”, di José A. Maravall, si racconta di una società, quella spagnola, divisa in tre categorie fondamentali: Una, quella privilegiata del clero e dei nobili aristocratici, l’altra costituita dal ceto medio, che condivideva quei privilegi ma criticamente e proponendo riforme. La terza categoria infine è quella dei dissenzienti, ossia il ceto più povero in tutta la sua moltitudine: Un sottogruppo di questi, ancora più emarginato era quello dei “picari” ai quali indubbiamente si ispiravano, per dissenso o per scrupolo, intellettuali del ceto medio o elementi illuminati del popolo stesso, per dare vita a personaggi immaginari e renderli messaggeri di una denuncia che diversamente sarebbe stato impossibile fare.

Nacquero perciò da un contesto sociale così ingiustamente delimitato, i comportamenti del “picaro”, persona libera e senza regole, individualista e senza padroni, con i suoi comportamenti (non avendo più niente da perdere), al limite della legalità, abituato com’era, a vivere ai margini di una società, quella spagnola, che comprendeva nella sua più estrema periferia anche il paese di Lucugnano in provincia di Lecce.

La figura di Papa Galeazzo storicamente è collocata sotto il regime spagnolo di Filippo II, quando ormai finiti i fasti del Rinascimento, tutta l’Europa, attraversava un periodo di difficoltà economiche che ogni Stato cercava di tamponare proponendosi unito a investire in attività mercantili. In Italia questo non fu possibile per l’influenza della Chiesa cattolica che impediva ogni tentativo di unificazione del Paese. Divisa perciò in tanti piccoli stati contrapposti tra loro, l’Italia non fu in grado di far fronte alla concorrenza degli altri paesi europei e questo portò ad un suo ulteriore impoverimento.

Le precarie condizioni di vita in una realtà così difficile e incerta, furono giustificate con la teoria tutta clericale dell’esistenza terrena come periodo transitorio e di espiazione. Una realtà che, per essere accettata così com’era, aveva tuttavia bisogno di essere mitigata con un tocco di virtualità: Per ingannare l’occhio si sovrappose allora ad essa, una visione architettonica ricca, imponente e solenne a fare da facciata e come per miracolo, Chiese e palazzi signorili mutarono forme e si arricchirono di fregi ed elementi decorativi esagerati, allo scopo di ostentare maggiore prestigio e pretendere più rispetto: nacque così il Barocco che trovò il suo epicentro proprio in Spagna e Terra d’Otranto.

In questo rimarcato conflitto tra il reale e l’irreale e tra il vero e il falso, può succedere allora che nel più piccolo e sperduto angolo del Regno,un picaro o un qualsiasi cafone, delle borgate più povere e fatiscenti di Lucugnano, può diventare “Papa”. Un Papa che per descrivere le reali condizioni di vita della gente comune deve necessariamente farsi interprete della loro storia, con comportamenti e racconti di vita ironici e maliziosi, come sfogo alle loro paure, alle loro inibizioni e alla loro impotenza. Storie e racconti di vita realmente vissuta e non più censurata. Si realizzava così il sogno del “picaro”, che è quello di riscattarsi sul proprio destino, diventare qualcuno, conquistare il posto più alto della società ed essere considerato dalla storia, così come non era mai stato. Un sogno che non poteva durare e il risveglio fu tragico e amaro. Dopo il concilio di Trento, in pieno periodo di restaurazione, tutto rientrò sotto il controllo dell’ordine costituito e seppellito poi dal tempo e dall’oblio: La Taranta, simbolo pagano, passò sotto la tutela di S.Paolo protettore, furono travisate le sue ragioni e impedita la sua autonomia. Di “Papa” Galeazzo, finito lo spettacolo e calato il sipario non se ne seppe più nulla: Il suo virtuale personaggio svanì con tutta la sua carica ironica e trasgressiva. Trecento anni dopo, con l’Italia unità e liberata, Papa Galeazzo ricomparve sulla scena come lobotomizzato, senza più nessuna motivazione storica e senza parrocchia. A lui sono stati attribuiti, “cunti e culacchi” cioè volgari racconti da osteria e come un patetico e ridicolo buffone è stato consegnato ai giorni nostri.

Papa Galeazzo è invece quell’anonimo eroe popolare che crede ancora in sé stesso, perciò capace ancora di sognare, e che vive da sempre in noi sospeso tra la fantasia e la realtà. Forse, sotto le sue mentite spoglie di figura barocca, continua a battere un cuore tenero di umile contadino che sa di essere destinato a soccombere e che ride soltanto, per nascondere dentro di se, un pianto che dura dalla notte dei tempi.

 

Lecce. Curiosità sull’antica toponomastica

 

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

Nel 1869 il giudice Luigi Giuseppe De Simone, noto erudito di Terra d’Otranto, propose al Sindaco e ai consiglieri comunali di Lecce di rinnovare la toponomastica della città[1]. All’epoca vie, corti e piazze erano indicate per sommi capi, con nomignoli derivati da chiese, conventi, famiglie proprietarie di palazzi, ecc. L’opportunità gli fu data nel 1871 in occasione del Censimento Generale del Regno, quando gli fu affidato il compito di compilare le nuove tabelle denominative della toponomastica di Lecce.

De Simone decise di commemorare la storia locale, mise mano agli appunti raccolti negli anni e compilò il nuovo elenco formato da: nomi di personaggi storici (da Idomeneo a Tancredi, da Federico d’Aragona a Giuseppe Libertini, ecc.), antiche famiglie nobiliari (dai Guarini ai Carnesecchi), letterati (da Antonio Galateo a Isabella Castriota), caratteristiche del territorio (dall’Idume alle Giravolte). Furono poche le vie che conservarono il ricordo di antiche attività produttive (via dei Figuli, vico Sferracavalli, ecc.), così come quelle dedicate a edifici di culto (corte San Pietro Garzya, piazzetta San Giovanni dei Fiorentini, ecc.). Per accreditare le sue scelte De Simone redasse Lecce e i suoi monumenti, pubblicato una prima volta nel 1874 e poi riedito con le Postille di Nicola Vacca, dove sono elencate tutte le denominazioni stradali con note storiche inerenti alle singole voci[2].

All’epoca la nuova intitolazione delle vie non piacque ai nostalgici, si ritenne che fosse stata spazzata via la tradizione popolare in nome di un asettico nozionismo[3]. Per quanto meritevole, il lavoro di De Simone (sottoposto nel corso del tempo ad alcune varianti) ha cancellato varie testimonianze della storia leccese: l’ubicazione di cappelle demolite, di edifici pubblici e opifici, i cui siti oggi sono difficilmente individuabili.

Questa lacuna è stata colmata in parte dalla Guida pratica della Città di Lecce di Italo Madaro[4], uno stradario pubblicato nel 1904, dove, affianco alle nuove intitolazioni corredate da note storiche, sono riportate le denominazioni antecedenti al 1871.

Sfogliando l’opuscolo è evidente come, prima dell’elaborazione delle nuove tabelle denominative, i tracciati viari erano indicati sommariamente: alcuni erano menzionati con nomi diversi (es. l’attuale via Antonio Galateo era conosciuta come via dietro l’Ospedale, o Molini di Rusce, o Sant’Antonio di dentro); spesso una via e uno slargo ricadenti nella stessa area urbana avevano la medesima denominazione (es. largo dietro il Monastero delle Scalze – attuale piazzetta dell’Arte della Stampa -, vico dietro il Monastero delle Scalze – attuale via Francescantonio Piccinni – e largo delle Scalze – attuale piazzetta Mariotto Corso). Non mancano le curiosità come il vico dei cani nella via delle Case nuove (l’attuale vico dei Panevino).

ph Giovanna Falco

Sono importanti gli antichi appellativi derivati dai luoghi di culto (es. vico San Pantaleo – attuale via Pietro Belli -, vico San Procopio – attuale via Isabella Castriota, ecc.), che permettono, così come si accennava prima, di rintracciare il sito di queste cappelle demolite da tempo.

Riguardo alle attività produttive pubbliche e private, si viene a sapere che esisteva il Magazzino dei Sali (da cui prendeva il nome l’attuale via degli Antoglietta) e quello della Neve (la limitrofa piazzetta dei Longobardi), via Acaya era detta dei barbieri, il forno dei Bernardini assegnava il nome all’attuale vico dei Guidano. Si possono individuare anche le ubicazioni delle costruzioni di pubblica utilità: la Chiavica di San Martino assegnava nome a un vico (attuale vico dei Fieschi) e quella del Rosario a uno slargo (attuale piazzetta Giovanni d’Aymo).

Alcune denominazioni sono state tradotte dal dialetto all’italiano, come il vico delle reòte trasformato in vico delle Giravolte. Ci s’imbatte anche nella corte lunga, l’attuale vico dei Figuli: intitolazione molto interessante perché, oltre a indicare in quella zona della città quest’attività produttiva (era limitrofa alla via dei Piattàri, l’attuale via Quinto Ennio), informa della trasformazione urbanistica di questo elemento viario. Il vico Cesario dell’acquavite (attuale vico degli Alberici), può essere considerato un antenato dell’odierna strada di Pippi Nocco: via del Palazzo dei Conti di Lecce nota, appunto, per questa rivendita di alcolici.

Si nota, inoltre, come la maggior parte di vichi, corti e strade erano identificati con il nome delle famiglie che vi risiedevano, alcuni sono stati mantenuti da Luigi Giuseppe De Simone (es. le corti dei Guarini e dei Lubelli, vico dei Petti, ecc.), allo stesso modo, come si è già accennato, lo studioso ha conservato quello di alcuni luoghi di culto (vico dei Cretì – vico Chetrì -, piazzetta Chiesa greca – largo Chiesa greca (con il nome di questa chiesa era conosciuto anche il limitrofo vico degli Albanesi), vico storto Carità vecchia – vico Carità vecchia -, ecc).

Un’ultima considerazione, ma non meno importante: nella Guida pratica di Italo Madaro sono citati anche gli assi viari scomparsi a causa d’interventi urbanistici, come ad esempio il vico Luigi Ceppola, l’antico vico dietro il Sedile cancellato in età fascista per riportare alla luce l’Anfiteatro e costruire il palazzo dell’INA e, ancora, la corte Contessa Albiria (già Corte Romano, nel vico Grate di S.a Chiara), situata nell’area dov’è stato scoperto il Teatro romano.

Un attento studio della Guida pratica di Italo Madaro, dunque, permette di ricostruire l’antico assetto urbanistico di Lecce e del vissuto cittadino.


[1] Cfr. L.G. DE SIMONE, All.mo Sindaco e consiglieri municipali della città di Lecce, in «Cittadino Leccese», VIII (1869), n. 24.

[2] Cfr. L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964.

[3] L’anno successivo alla pubblicazione dell’opera di De Simone, fu dato alle stampe un opuscoletto a firma dell’avvocato Angelo Miccoli che ne contestava i contenuti (Cfr. A. MICCOLI, Cenni storici sugli antichi popoli salentini, loro città e monumenti, ossia Lecce rivendicata nella sua antichità e civiltà, Lecce 1875).

[4] Cfr. I. MADARO, Guida pratica della Città di Lecce, Lecce 1904.

Patù (Lecce). Veretum e il finis-terrae

di Stefano Todisco
 
 

Estremità dell’Italia, ultimo porto della Puglia meridionale, Finis Terrae così la chiamavano gli antichi: il confine della terra. Santa Maria di Leuca ed in particolare il santuario ivi fondato rappresenta il sommo limite di un promontorio che si getta tra due mari, l’Adriatico e lo Ionio, l’angolo di roccia che accoglie le onde da oriente e da occidente.

Il promontorio Iapigio detto Finis Terrae
Il promontorio Iapigio detto Finis Terrae

 

Un santuario messapico rupestre e l’inesplorato santuario di Minerva

Questo luogo, secoli prima di Cristo, divenne il posto ideale per ospitare un santuario marittimo, ricovero per i marinai che si spingevano avanti e indietro tra la Messapia (l’antico nome del Salento) e le coste italiche e greche. Sul capo di Leuca si trova Punta Ristola, sede di una grotta (la Porcinara) dove in tempi remoti si svolgevano riti in onore del dio Batas, nume maschile portatore della saetta. (1)

Il promontorio Meliso protegge un fianco della grotta ed accoglie, sulla propria sommità, i ruderi di un muraglione, unico indizio dell’antico insediamento dell’età del Bronzo. Suggestivo accesso alla Porcinara era un piccolo sentiero che tagliava il percorso di un’altra caverna, la Grotta del Diavolo, ove sono stati trovati vasi offerti alle divinità ctonie e marittime; da qui infatti si sente il rumore dei marosi sugli scogli. Superato questo antro si saliva la scalinata, intagliata nella roccia della grotta Porcinara, che permetteva di raggiungere l’acropoli attraversando l’area sacra. Il nome Batas (saettatore) è inciso sulla roccia ed è associato agli ex voto dei naviganti antichi.

L’equivalente di Zeus per i messapi era Zis ma l’aggettivo Batas potrebbe comunque riferirsi alla principale delle divinità, la cui caratteristica era quella di folgorare i nemici.

I fedeli appartenevano a più etnie: in base alla foggia dei vasi rinvenuti, gli attendenti erano indigeni messapi ma anche marinai greci che dedicarono vasi attici pregiati. Su una di queste offerte era incisa la parola “anetheke” (egli ha dedicato). (2)

Altre dediche a Leucotea e a Fortuna sono state rinvenute sulle pareti della grotta. (3)

Spesso si sente parlare del santuario della dea Minerva, costruito nel luogo ove ora è il santuario della Madonna de Finibus Terrae: la notizia, screditata dalle ricerche archeologiche, trova consensi grazie ad un reperto importante e ad una antica notizia.

Il primo è un’ara romana, custodita nella chiesa cristiana e che porta la scritta postuma:

“UBI OLIM MINERVAE SACRI
FICIA OFFEREBANTUR
HODIE OBLATIONES DEIPARAE RECIPIVNTUR”

(Traduzione: “Dove una volta si offrivano sacrifici a Minerva oggi si accettano offerte per la madre di Dio”)

Il secondo è un passo della Geografia di Strabone che cita:

“…dicono che i Salentini siano coloni dei Cretesi; presso di loro si trova il Santuario di Atena,
che un tempo era noto per la sua ricchezza, e lo scoglioso promontorio che chiamano Capo Iapigio,
il quale si protende per lungo tratto sul mare in direzione dell’Oriente invernale,
volgendosi poi in direzione del capo Lacinio…” (3)

Coi dati in nostro possesso è possibile identificare il santuario di Atena con quello di Minerva (stessa divinità, una con nome greco, l’altra in latino) ma non collocabile sotto l’attuale santuario. I greci chiamavano “Akra Iapygia” (estremità, capo, promontorio Iapigio) il capo di Santa Maria di Leuca e la descrizione di Strabone sembra collimare con la geografia dei luoghi in questione.

Il prof. D’Andria ipotizza, nel suo volume “Castrum Minervae”, che il famoso santuario sia da collocare tra Melendugno (fraz. Roca Vecchia) e Otranto (fraz. Porto Badisco), dove la natura dei luoghi potrebbe adattarsi alla descrizione dello storico greco d’età augustea.

 

Patù, l’antica Veretum messapica

Percorrendo per due km la strada che da Santa Maria di Leuca si dirige verso nord, a Patù, è possibile addentrarsi nei piccoli sentieri tra uliveti e vitigni per incappare nei ruderi dell’antico abitato messapico-romano di Veretum, poco noto e di scarso livello dal punto di vista architettonico-artistico ma di un certo interesse archeologico.

Citato sulla Tabula Peutingeriana, compare come estrema località del Salento a dieci miglia da Ugento e a dodici da Castra Minervae.

Veretum - Patù sulla tabula Peutingeriana
Veretum – Patù sulla tabula Peutingeriana

Distrutto nel IX secolo dai pirati saraceni giunti a razziare le coste italiane, Veretum conserva pochissime evidenze antiche ma di chiara matrice insediativa: un pavimento sul banco roccioso mostra alcuni buchi per l’inserimento dei pali di un edificio.

pavimento antico a Veretum
Pavimento antico a Veretum

La chiesetta medievale di San Giovanni Battista è il silenzioso testimone della desolazione del luogo insieme al ben più noto monumento chiamato “Le Centopietre”: si tratta di un piccolo edificio, alto 2,6 metri e misurante 7,2 x 5,5 metri di lato, realizzato con pietre rettangolari riutilizzate dagli edifici dell’abitato pre-cristiano. (4)

Centopietre, esterno
Centopietre, esterno

Centopietre, interno
Centopietre, interno

Centopietre, interno
Centopietre, interno

Centopietre, interno
Interno della Cripta del Crocefisso a Ugento

Si è incerti, ancora oggi, sulla funzione della struttura: monumento funerario messapico o tomba di un cavaliere cristiano? Infatti un tale Geminiano, secondo una leggenda, fu araldo delle milizie cristiane accorse per ricacciare i saraceni e da questi ucciso, contrariamente alle leggi dell’ambasceria.

Sempre secondo il mito, in seguito allo scontro armato che ebbe luogo nell’877 ai piedi della collina di Patù, detta Campo Re, le forze cristiane riuscirono a sconfiggere gli invasori riprendendo il corpo del cavaliere per la sepoltura che avvenne in questo piccolo santuario litico.

Unico indizio certo sono gli affreschi che labilmente si vedono sulle pareti interne, datati al periodo bizantino (XI-XIV secolo).

Entrando nella chiesa di San Giovanni Battista è possibile vedere un cippo con l’iscrizione latina:

M. FADIO M.F.
FAB. VALERIANO
POST MORTEM
FADIVS VALERIANVS PATER
ET MINA VALERIANA MATER
L.D.D.D. (LOCVM DATVM DECRETVM DECURIONVM)

[Traduzione: Fadio Valeriano padre e Mina Valeriana madre, dopo la morte, (lasciarono) il possedimento concesso tramite decreto dei decurioni, a Marco Fadio figlio di Marco e a Fabio Valeriano.]

stele dei Fadii da Veretum
Stele dei Fadii da Veretum

La sua datazione oscilla tra I e II secolo d.C. ed è un ulteriore indizio della vivacità di un centro abitato fino all’età romana, momento in cui fu elevato a livello di municipium. È plausibile pensare che l’acropoli dell’antico borgo sia concentrata nella zona sotto l’attuale chiesetta della Madonna di Vereto, punto apicale della collina che ospita il sito in questione. (5)

Quanto al nome potrebbe collegarsi al greco (6) patos (= suolo, terreno) e non a pathos (= passione, sofferenza) come vuole la leggenda.

Qualche rudere dell’antica cinta muraria si incontra tra la vegetazione che avvolge il luogo. Il modesto successo turistico di questo centro messapico deve il fatto alla mancanza di una metodica ricerca archeologica.

muri a secco a Veretum
M
uri a secco a Veretum

 

Note

  • (1) F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, p. 39.
  • (2) ibidem, pp.39, 40.
  • (3) E. GRECO, Magna Grecia, p. 204.
  • (3) STRABONE, Geografia VI, 3, 5-6.
  • (4) M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, p. 113.
  • (5) C. DAQUINO, I Messapi e Vereto, pp. 256-257.
  • (6) G. GASCA QUEIRAZZA, Dizionario di toponomastica: storia e significato dei nomi geografici italiani. p. 563.

Bibliografia

  • M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, Novara, 2009.
  • F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, Fasano, 2000.
  • F. D’ANDRIA, Castrum Minervae, 2009.
  • C. DAQUINO, I Messapi e Vereto, Cavallino, 1991.
  • G. GASCA QUEIRAZZA, Dizionario di toponomastica: storia e significato dei nomi geografici italiani. Torino, 1990.
  • E. GRECO, Magna Grecia, Bari, 1980.
  • STRABONE, Geografia, VI, 3.

 

Foto e crediti

Tutte le foto sono state da me scattate, ad eccezione di quelle delle Centopietre e della stele dei Fadii.

Per le fotografie di Veretum:
http://www.lameta.net/blogsalento/?p=294

Per le fotografie de Le Centopietre:
http://www.torrevado.info/salento/cento-pietre.asp
http://www.lameta.net/blogsalento/?p=406

Info

Per raggiungere Le Centopietre e la chiesa di San Giovanni Battista si tenga come riferimento l’area tra via Rigno e via Aldo Moro.

Note dell’autore

chi scrive ha visitato il luogo nell’agosto del 2007. Purtroppo, un po’ a causa della mancanza di segnaletica, un po’ per la scarsità di fruizione turistica del luogo, questo sito non può ancora conoscere la notorietà che meriterebbe, in virtù dell’amenità del luogo e dell’antichità che qui si respira.

Manduria/ Stucchi barocchi nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli

Altare in stucco (Sec.XVIII)(ph Agostino Quaranta. Tutti i diritti riservati)

di Nicola Morrone

Tra le chiese barocche di Manduria merita senz’altro un approfondimento quella dedicata a Santa Maria di Costantinopoli, fatta erigere nel 1718 dai padri Agostiniani (insieme all’annesso convento) e collocata nei pressi dell’attuale via XX Settembre. All’esterno la chiesa si presenta con un alto prospetto a due piani scanditi da paraste, e termina con un fastigio mistilineo. Degna di nota anche la bella cupola con mattonelle policrome, decorata secondo un motivo tipico di varie chiese dell’area salentina e, più in generale, meridionale.

(ph Agostino Quaranta. Tutti i diritti riservati)

L’interno ha pianta  a croce latina , con ampio transetto e spazioso presbiterio quadrato, ed è notevole soprattutto per la decorazione barocca a stucco, pressochè integra e resa più fruibile dai recenti restauri. Spiccano anche, tra le altre cose, il meraviglioso altare maggiore commesso di marmi policromi risalente al 1725, opera di valenti scultori napoletani, e l’organo ligneo a canne, anch’esso settecentesco.

Numerose sono le tele, tra cui si segnala un trittico dedicato a Sant’Agostino e due dipinti raffiguranti la Madonna della Cintura, che rimandano all’esistenza di una confraternita sotto lo stesso titolo, attiva certamente nel secolo XVII  e poi scomparsa. Vogliano soffermarci in questa sede proprio sulla decorazione barocca a stucco, che è senza dubbio uno dei punti che più qualificano la chiesa a livello artistico. Fatta eccezione  infatti per il marmoreo altare maggiore, tutti i restanti altari, che si distribuiscono lungo le pareti laterali ed il transetto della chiesa, sono stati realizzati tra il 1752 e il 1754 dallo stuccatore tarantino Francesco Saverio Amodei, su commissione dei

Olive Celline. Perchè questo nome?

Lu cilìnu

di Armando Polito

È una delle varietà di olivo più diffusa, e da tempi certamente non recenti, nel territorio di Nardò. La voce nel vocabolario del Rohlfs è registrata solo nel volume (terzo) che funge da supplemento all’opera, il che potrebbe far supporre che l’illustre studioso a suo tempo si concesse una pausa di riflessione perché aveva dei dubbi sulla sua etimologia o perché la voce stessa gli era in un primo momento sfuggita. Tuttavia, se si tratta del primo caso, va detto che ogni dubbio poi è svanito se leggo “ha preso il nome dal paese di Cellino”. A questo punto, direbbe l’amico Pier Paolo Tarsi, scatta la teoria di Occam. Ho già avuto occasione di contestarla e la voce di oggi mi fornisce un’ulteriore occasione per dimostrarne, quanto meno, la discutibilità. Insomma, siamo veramente sicuri che Cellino San Marco sia la patria del cilìnu? A questo punto mi si obietterà che è inutile negare l’evidenza, tanto più che proprio un albero di olivo compare nello stemma della città. È vero, ma qual è la testimonianza più antica di questo stemma? In attesa che qualche lettore cellinese cultore di queste cose si faccia vivo, io parto, al solito, da molto lontano.

Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.), De re rustica, VI: In agro crasso et caldo oleam conditivam, radium maiorem, Salentinam, orchitem, poseam, Sergianam, colminianam, albicerem. Quam earum in his locis optimam dicent esse, eam maxime serito. Hoc genus oleae in XXV aut in XXX pedes conserito. Ager oleto conserundo,qui in ventum favonium spectabit et soli ostentus erit, alius bonus nullus erit. Qui ager frigidior et macrior erit, ibi oleam Licinianam seri oportet. Sin in loco crasso aut caldo severis, hostus nequam erit et ferundo arbor peribit et muscus ruber molestus erit. (In terreno grasso e caldo [pianta] l’oliva da conservare, l’oliva lunga, la salentina, l’orchite, la sergiana, la colminiana, l’albicera. Pianterai soprattutto quella che dicono essere la più adatta al luogo. Pianta questo tipo di olivo a 25 o trenta piedi di distanza l’uno dall’altro. Sarà adatto all’impianto dell’oliveto il campo esposto al Favonio e al sole, nessun altro sarà adatto. laddove il terreno è piuttosto freddo e magro, lì conviene che sia piantato l’olivo liciniano. Se invece lo pianterai in un luogo grasso o caldo il raccolto sarà di cattiva qualità e il muschio rosso lo danneggerà).

Plinio, Naturalis historia, XV, 3: Principatum in hoc quoque bono obtinuit Italia toto orbe, maxime agro Venafrano, eiusque parte quae Licinianum fundit oleum: unde et Liciniae gloria praecipua olivae. Unguenta haec palmam dedere, accomodato ipsis odore. Dedit et palatum, delicatore sententia. De cetero baccas Liciniae nulla avis appetit. (L’italia in questo [nella produzione di olio] ha il primato in tutto il mondo, soprattutto nell’agro di Venafro in quella parte di esso dove si produce l’olio liciniano: per questo enorme è la fama dell’oliva liciniana. Hanno dato questo pregio gli oli col loro odore gradevolissimo. Lo ha dato anche il gusto col suo sapore alquanto delizioso. Inoltre nessun uccello è ghiotto delle bacche dell’oliva licinia).

Non a caso qualche decennio prima Il geografo greco Strabone (circa 64 a. C.-19 d. C.), Geografia, V, 3 aveva notato: …Venafro, dove l’olivo è bellissimo.

E c’è da meravigliarsi se l’olivo di Venafro trova la sua celebrazione anche presso i poeti?

Orazio (I secolo a. C.), Carmina, II, 6, 13-16, manifestando all’amico Settimio il desiderio di trascorrere gli ultimi anni a Tivoli o a Taranto: Ille terrarum mihi praeter omnis/angulus ridet, ubi non Hymetto/ mella decedunt viridique certat/baca Venafro (Quegli angoli della terra mi sorridono più di ogni altro, dove il miele non ha nulla da invidiare a quello dell’Imetto e la bacca gareggia col verde Venafro); Satire, II, 4, 68-69, descrivendo la composizione di una salsa raffinata:  insuper addes/pressa Venafranae quod baca remisit olivae…(aggiungici olio spremuto  dalla bacca di oliva di Venafro).

Columella (I secolo d. C.), De arboribus, 17: Optima est oleo Liciniana (La liciniana è ottima per la produzione di olio).

Giovenale (I-II secolo d. C.) , Satire, V, 80-82: ipse Venafrano piscem perfundit, at hic qui/pallidus adfertur misero tibi caulis olebit/lanternam…(…lui [Virrone, il padrone di casa] annega il pesce nell’olio di Venafro, ma questo pallido cavolo che a te viene servito puzza di olio di lanterna…).

Il lettore si starà da tempo chiedendo: “Ma questo, dove vuole arrivare?”.

Gli rispondo immediatamente con una gragnuola di domande: E se cilìnu fosse, per metatesi e abbreviazione, deformazione di liciniànu(m), cioè una varietà antica e non relativamente recente (domanda nella domanda: qual è la prima attestazione, necessariamente scritta, di cellìno?). È un caso che l’olivo liciniano (ancora oggi coltivato) e il suo frutto sono straordinariamente simili ai nostri? E le denominazioni cellina di Nardò e cellina barese1 sono veramente figlie di una varietà importata da Cellino? Come mai, in una tendenza alla geminazione delle consonanti, Cellino in dialetto fa Cilìnu?

E non è finita! In una pergamena barese del 10952 si legge, con inequivocabile riferimento ad una varietà di olivo, hocellina e in un’altra del 11593 tucellinus. Può darsi che quest’ultimo sia lettura (o scrittura?) errata del primo che potrebbe essere una forma aggettivale dal latino tardo aucèllus=uccello, con riferimento alla predilezione che l’animale mostrerebbe per il frutto, secondo un tipico condizionamento semantico delle forme aggettivali. Il che contrasterebbe con il dettaglio finale del passo di Plinio.

Se si trattasse di uva mi attenderei almeno una risposta da Albano; in questo caso me ne dovrei attendere almeno mezza da Massimo Cassano, ma credo che passerò invano molte notti insonni…

Per chiudere:  la foto di testa ed il dettaglio si riferiscono ad uno dei miei alberi di olivo che non possono certo competere con i “patriarchi” riprodotti in questi ultimi giorni sul sito per i motivi che, ormai, tutti conoscono; ma,  almeno finché vivrò io, vivranno anche loro, tutti…

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1  Estrapolando dai nomi correnti delle cultivar nazionali che contengono un riferimento sicuro al territorio di origine ottengo per le due varietà un tempo non lontano più diffuse nel territorio neretino (cilìna e ugghialòra) in esame questi risultati:

CELLINA   Cellina di Nardò, Cellina barese.

OGLIAROLA Ogliarola garganica, Ogliarola del Vulture, Ogliarola di Lecce, Ogliarola del Bradano, Ogliarola seggianese;.e per altre: Rapollese di Lavello, Oliva Cerignola, Bella di Cerignola, Cima di Bitonto, Cima di Mola, Cima di Melfi, Termite di Bitetto, Tonda di Strongoli, Dolce di Rossano, Grossa di Cassano, Grossa di Gerace, Pignola di Arnasco, Aurina di Venafro, Cerasa di Montenero, Olivastra di Montenero, Olivastra seggianese, Saligna di Larino, Nera di Gonnos, Nera di Oliena, Nocellara del Belice, Nocellara etnea, Nocellara messinese, Tonda iblea, Ascolana tenera, Nostrale di Rigali.

In tutti i nomi surriportati una parte si riferisce ad un dettaglio (colore, forma, etc.) del frutto, l’altra al luogo di origine o diffusione. Uniche eccezioni: Rapollese di Lavello e  la nostra Cellina di Nardò. È sufficiente accomunare le due reali o presunte eccezioni e concludere che le rispettive varietà vennero importate a Lavello da Rapolla e a Nardò da Cellino, considerando irrilevante la distanza minore nel primo caso (15 km.), maggiore (55 km.) nel secondo?

2 Codice diplomatico pugliese, V, 21, 18.

3 Codice diplomatico pugliese, V, 117, 23.

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