Lettera a mio cugino residente a Taviano

di Ezio Sanapo

PRIMA GENERAZIONE

 

Caro cugino,

Lo scorso mese di giugno 2004, sono stato, per vari motivi nel nostro paese di origine e ho chiesto di te. Mi hanno detto che ora risiedi a Taviano presso una nuova e confortevole casa di cura per disabili e malati mentali e che lì tutti ti vogliono bene. Così ci siamo rivisti, dopo non so quanti anni a Taviano.

In tutto questo lungo periodo, credimi, ho potuto riflettere meglio per capire queste nostre due esperienze di vita, vissute agli antipodi, come i due lati della stessa medaglia, ma simili tra loro.

Noi, ti ricordi, siamo cresciuti insieme per tutto il periodo della nostra infanzia fino all’età di sei anni. Poi ti hanno rinchiuso in un orfanotrofio e lì hai potuto studiare. Io invece come tu sai, sono rimasto in paese e lì ho dovuto inventarmi un lavoro molto riduttivo e con quello ho potuto lavorare mentre aspettavo il tuo ritorno per le festività di Pasqua, Natale e poi tutta l’estate.

Durante quei periodi e per gli anni che scorrevano, abbiamo ragionato molto sul mondo così com’era e come lo immaginavamo. Era come qualcosa che ti sfugge di mano e ti accorgi poi che non hai più. Quel mondo stava radicalmente cambiando, con le contraddizioni e le conseguenze che ne sono derivate.

Era il 1960: il consumismo e il miraggio del benessere economico, l’abbandono del paese, l’emigrazione e la disgregazione di una intera comunità. Intanto, grazie ai tuoi studi, noi avevamo scoperto e condiviso un reciproco interesse per i classici: la musica, la poesia, la letteratura, il cinema, il teatro e tutto ciò era bastato a preservarci da un imbarbarimento sempre più diffuso. La nostra generazione non aveva potuto, nè voluto continuare a tramandare i valori di un modello culturale, quello nostro di origine, ritenuto non più credibile. Noi però in quegli anni abbiamo vissuto quei brevi periodi, molto intensamente ed in maniera diversa. Grazie alla nostra fervida fantasia ci siamo creati uno schema esistenziale approssimativo ma tutto nostro, basato su valori e principi controcorrente, una specie di ’68 molto anticipato che però non rinnegava niente del proprio passato.

Un ’68 che poi è arrivato ma, per noi, non aveva più senso. Fu l’anno del nostro ‘primo esodo: tu in Germania per ragioni economiche, io in Svizzera per incomprensioni familiari. La gente in quel periodo viveva con entusiasmo un clima di festa e di rinascita, di entusiasmo. Tutto questo sarebbe sfociato poi in più impegno nel sociale, in politica e quindi nelle lotte per la conquista di diritti fondamentali.

Tanta volontà, passione, ma anche ingenuità e utopia. Nessuno si aspettava una così feroce e violenta controffensiva conservatrice che da lì a poco, con un nuovo clima di tensione e paura, avrebbe determinato la fuga di ognuno nel suo privato (la comunità non c’era più), la caduta di ogni certezza acquisita (quelle d’origine le avevamo rinnegate) e da tutto ciò ne è scaturita una crisi d’identità che ha causato danni in ogni singola famiglia. Noi tutto questo l’abbiamo visto col senno di poi.  Alla ricerca delle nostre radici negli anni ’70, io ero tornato in paese e tu con il tuo bravo diploma acquisito in orfanotrofio, hai trovato lavoro all’ltalsider di Taranto, dopo un breve periodo in una fabbrica tedesca. Le tue esperienze in fabbrica, Germania prima e Taranto dopo, ti hanno fatto scoprire la realtà cruda e cruda che sicuramente ignoravi.

Hai avuto un ripensamento, uno sbandamento e hai tentato anche tu una fuga a ritroso, ma indietro, nel tuo passato, come un chiodo dolorosamente piantato nella memoria, c’era l’orfanotrofio con tutti i suoi orrori. Ricordo allora quando mi confidavi che nell’orfanotrofio i bambini più malinconici smarriti e provati fisicamente, venivano fotografati e fatti pubblicare sul giornalino da mandare a tutte le famiglie, insieme al vaglia per le offerte […] I più carini invece, scelti in mezzo a tanti, erano privilegiati e coccolati. A questi, i padri educatori manifestavano certe attenzioni, nessuno avrebbe reagito, nessuno avrebbe saputo. Ognuno di questi bambini pensava di essere il solo, il fortunato, magari prescelto da un disegno divino”.

Tra questi c’eri tu, Sergio, all’anagrafe Salvatore, nato il 25 dicembre, notte santa di Natale. Mi raccontavi che il padre educatore che abusava di te, ti leggeva il Vangelo, quello di San Matteo che racconta di Gesù Bambino, Salvatore e nato la stessa notte come te, morto poi sulla croce per scontare tutti i nostri peccati. Successe allora così, un corto circuito improvviso nella tua mente, pesante come una croce, la tua.


SECONDA GENERAZIONE

Come tu sai, io sono invece cresciuto in mezzo alle insidie quotidiane e questo mi ha preservato dal male che ti ha colpito. Ho avuto credimi molta forza d’animo per continuare anche da solo a far valere le ragioni tutte ideali, dei nostri principi. L’ho fatto anche per te.

Quello che ho potuto fare è sicuramente servito a preparare il terreno a quanti sarebbero ritornati nel nostro paese: Quelli che partivano per cercare lavoro e quelli che invece per studiare alle università del nord. Quelli partiti per lavoro non sono più tornati, gli studenti, invece (li abbiamo aspettati tanto) sono puntualmente arrivati: medici, ingegneri, avvocati, professori. Appena arrivati diventavano esattamente come quelli che c’erano già, lo stesso opportunismo, la stessa arroganza e secolare mentalità borbonica che ancora oggi fa comodo e si tramanda.

Allora ho capito che la realtà lì non sarebbe cambiata anzi riceveva rinforzi. La maggior parte dei medici di famiglia si alternano a spadroneggiare con metodi feudali i paesi del sud come il nostro, questo perché la gente lì, più che altrove, ha due chiodi fissi: la morte e la malattia. Su queste paure medici e preti senza scrupoli hanno sempre speculato sui risvolti emotivi della gente strappando loro i consensi necessari per il controllo del territorio. Per questo, nelle competizioni elettorali di quei paesi i medici sono sempre primi e al comando di ogni lista, con tutta la loro ipocrisia ideologica. Di riempimento e a seguire tutti gli altri, le loro pretese in base al titolo.

Era il periodo degli arrampicatori sociali, arrivisti e furbi di ogni genere, gli ideali erano il loro tormento. Quel periodo ha segnato il nostro ‘secondo esodo’: tu a Taviano e io a Parma. Come tu sai, il mio impegno ha sempre avuto una motivazione ideale, un’esigenza caratteriale che ho pagato a caro prezzo, niente per interessi personali. Gli ideali ti portano a fare scelte di vita che non puoi barattare con un posto di lavoro, una licenza edilizia, una strada asfaltata che ti arriva fino a casa e lì la strada finisce.

Gli ideali non si barattano con un parcheggio contornato di verde, fatto costruire d’autorità accanto alla propria casa con la scusante dell’interesse pubblico. Chi non ha ideali non può avere scrupoli e anche questo è un dato caratteriale che può esplicitarsi e avere ragione solo in un basso della storia, perché come tu sai la storia è fatta di alti e bassi e questi livelli valgono per tutti, nessuno è escluso. Cambia solo il valore di cosa si rimette o si guadagna.

Il compito che ha la storia è quello di quantificare, soppesare e discernere inesorabilmente. Lo so, caro cugino, cosa hai provato quando hai capito che crescere significava subire una trasformazione, accettare l’ipocrisia, la furbizia e la mediocrità come regole di vita e su queste regole, misurarsi con gli altri: sopraffare per non essere sopraffatti. Hai accettato la pazzia perché questo ti permetteva di restare bambino, ti sei rifiutato di crescere.


TERZA GENERAZIONE

Ma noi intanto siamo cresciuti e il mese di giugno scorso ci siamo ritrovati a parlare per la prima volta da adulti ma con le stesse idee, perché le idee non muoiono, non invecchiano, e restano giovani per sempre. Nel nostro paese ho conosciuto gente che ha tanto bisogno di speranza e di credere che il peggio è passato.

Oggi ci tengo a dirti che sul grafico della storia siamo ad una risalita: c’è forse un’altra generazione che avanza. Non parlo della nostra, ingenua e bidonata, né di quella attuale, fredda e calcolatrice, ti parlo di una generazione nuova, con più orgoglio e dignità: una terza generazione, forse quella ideale. Con questa occorrerà costruire un dialogo, stabilire un contatto (di questo lo gente ha bisogno)e tu puoi farlo da Taviano, io da Parma e di seguito tutti gli altri mille, duemila paesani sparsi in tutto il mondo.

Un’intera comunità che si ricompone. Non è l’annuncio di una speranza messianica nè tanto meno di una rivoluzione. Ti lascio con il progetto, forse l’unico possibile, di un sogno infantile interrotto tanti anni fa, così sarai tranquillo per un po’. Sono tanti anni che non dormi più e finalmente potrai farlo ora; abbiamo un intero millennio davanti, alla fine di questo faremo un bilancio, io sarò lì ad aspettarti.

Ciao, tuo cugino Parma, 20 luglio 2004

“Andrò a chiedere a Dio

La mia antica anima di bambino

Con il cappello di carta

E la spada di legno”

(F. Garcia Lorca)

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5 Commenti a Lettera a mio cugino residente a Taviano

  1. “Gli ideali ti portano a fare scelte di vita che non puoi barattare con un posto di lavoro, una licenza edilizia, una strada asfaltata che ti arriva fino a casa e lì la strada finisce”.
    E’ vero, l’unica scelta che ti consentono gli ideali è quella di rimanere un puro di cuore. Ma non è una sconfitta, anzi è una vittoria sugli affanni del mondo, in questo caso sull’esistenza corrotta e distruttiva di quanti sono stati malamente protagonisti del periodo storico qui intelligentemente e (con ragione) dolorosamente rappresentato dall’autore.

    • Una vita vissuta nell’impegno di restare se stessi è una vita spesa bene. Grazie Nino per il commento. Cordiali saluti da Ezio Sanapo.

  2. Ho incrociato quest’uomo in una casa di cura per anziani e malati psichici (quale connessione?). Mi aveva colpito la sua colta follia.
    Non so come mia sorella (Emanuela Tenuzzo) ha trovato questa lettera. L’ho letta e ho pianto, ho pianto tanto.
    La sua storia, raccontata con una delicatezza ed un rigore davvero toccanti, parla di lui, Sergio, dei due cugini, Sergio ed Ezio Sanapo ma anche delle mie origini meridionali, del mio paese, Taviano. Quella storia parla di me.
    Dovrò regolare i conti, prima o poi, con Taviano, nel bene e nel male.

    Grazie davvero, Ezio, per la sua storia.

  3. Sembra un film, un romanzo questa lettera che parla della storia di “Sergio” e della vita vera con le speranze, i desideri, le illusioni e le disillusioni di due cugini emigranti. Sergio l’ho conosciuto per caso nel 2003 quando frequentavo una casa di cura per anziani in cui era ricoverata una mia prozia. Aveva attirato la mia attenzione con le sue citazioni dotte e quindi aveva suscitato la mia curiosità sulla sua storia personale della quale, però, non avevo il coraggio di chiedere informazioni. Ringrazio Ezio per aver ricostruito la storia di Sergio permettendogli così di essere riconosciuto per il suo essere Persona e non solo una persona con problemi psichici.
    La ricostruzione, poi, delle vostre vite vissute con passione, orgoglio e coerenza, i continui balletti tra il desiderio di tornare e la disillusione di una realtà meridionale sempre uguale ed immobile, con i suoi privilegi e le sue ingiustizie è magnifica, realistica, cruda e poetica al tempo stesso.
    Grazie Ezio e grazie “Sergio”, mi avete commossa.

  4. Leggo questa lettera e mi sembra il sunto di due vite in una sola. Chi ha vissuto il ’68 a casa mia conferma ogni umore, ogni speranza e delusione qui descritta. Gli ideali sono i fertilizzanti della mente, la fanno esplodere in avanguardie coraggiose e resistenze eroiche. Con quest’ultima definizione ‘da trincea’, mi riferisco naturalmente a tutti coloro che, come i nostri protagonisti, hanno subito la dolorosa mortificazione di vedere ogni loro sforzo e fede sprofondare nell’immobilismo sociale, soprattutto nel Sud Italia, e dileguarsi nella restaurazione di vecchi principi saprofiti che prevedono il forte sovrastare il debole e il comodo polverizzare l’utile. In questa chiave di lettura, questo documento epistolare ci parrebbe una coinvolgente testimonianza dell’evoluzione politica e sociale, meridionale e nazionale, attraverso due generazioni sperimentate da Ezio e Sergio, usciti malconci, e la proiezione verso una terza generazione, promettente e carica di speranza. Il tutto finirebbe qui, dicevamo, se non ci fosse il dramma umano di chi, in quella battaglia, ci ha rimesso la pelle. No, signori miei, morire non è sempre finire sotto metri di terra in camposanto, ma è a volte perdere l’anima, la mente, la speranza. Sergio, alla ricerca delle sue origini per contrastare la vertigine dell’ingiustizia presente, le trova seppellite da coltri di ricordi terrificanti. L’orfanotrofio diventa, in piccolo, la ricostruzione della politica sociale di ogni tempo: i più deboli propaganda, i più forti e belli, predatori e prede. E’ al momento degli abusi dei padri educatori che la mente di Sergio subisce i primi assalti mortali trasmettendoli di rimando anche alla vita del cugino Ezio, ignaro. Quest’ultimo, infatti, dopo anni di attese, di lotte e ancora di attese, si ritroverà solo, costretto a non poter più camminare fianco a fianco col suo amato compagno di viaggio, ma a scrivergli lettere in un istituto per disabili mentali. Ezio e Sergio accomunati da una sconfitta, dalla solitudine, dall’amarezza, uno ancora in campo, l’altro a difendersi con la resa. La testimonianza delle sorelle Chiara ed Emanuela Tenuzzo, accorte e gentili scopritrici della realtà di Sergio, eccentrica per cultura, drammatica per sorte, conferisce a questa pubblicazione ancor più passione e voglia di condivisione. Se solo quel padre educatore avesse impostato la sua miserabile vita sul versetto del Vangelo più illuminante per lui, forse non avrebbe avuto molte scusanti per evitarsi la retta via:
    “Ma se uno sarà di sacandalo a uno di questi piccoli che credono in me, è meglio per lui che gli sia legata al collo una mola asinaria e sia precipitato nel fondo del mare.” (Matteo 18, 6)

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