L’arte di intrecciare il giunco ad Acquarica del Capo (II parte)

di Tommaso Coletta

La raccolta

Che il giunco sia un’erba palustre dovrebbe essere noto un po’ a tutti, se non altro per averlo notato sulle dune o nei terreni a ridosso delle nostre spiagge. La pianta è formata da steli filiformi più o meno sottili, alti da un metro a un metro e mezzo, allo stato vegetativo di colore verde.

La raccolta, essendo un lavoro molto duro e all’epoca anche pericoloso per via della malaria, è stata da sempre riservata agli uomini. Questi, nel periodo estivo, partivano di notte, in bicicletta o con i traìni, per recarsi alli paduli che, se andava bene, erano situati nelle vicine attuali marine di Torre Mozza o Lido Marini, ma il più delle volte la destinazione era per i paduli molto più estesi e quindi abbondanti di materia prima, situati ad Avetrana, Laghi Alimini, Le Cesine. Quindi si trattava di fare dei viaggi da 100-150 km. considerando poi che al ritorno, dopo ore e ore di duro lavoro sotto il sole, portavano sulla bicicletta un carico fino a un quintale di paleddhu, si comprende benissimo la fatica bestiale di questi uomini.

Cestinaie all'opera, tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria
Cestinaie all’opera, foto tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria”

A tal proposito riporto un aneddoto che spesso mi raccontava mio padre il quale durante il ritorno da uno di questi viaggi in bicicletta, di notte, dovendo affrontare una lunga salita, staccò la dinamo dalla ruota per rendere meno faticosa la pedalata. Caso volle che quasi al culmine della salita fu fermato dai Carabinieri che gli contestarono il fatto di procedere sulla strada a luci spente e che pertanto dovevano fargli la multa. Mio padre cercò di chiarire i motivi della sua trasgressione spiegando che lui normalmente viaggiava con i fanali accesi ma che, dovendo affrontare la salita con un quintale di paleddhu sul portapacchi e stanco com’era, aveva fatto la furbata di disinserire la dinamo. I Carabinieri compresero la situazione (bontà loro) e lasciarono andare mio padre con la raccomandazione di riaccendere i fanalini una volta finita la salita !

Oggi i pochi che ancora si dedicano a questa attività utilizzano (e vorrei vedere!) quanto meno il mitico Apu. Le operazioni di raccolta potevano durare giorni e anche settimane; la raccolta vera e propria – in rapporto alla qualità del materiale, più o meno fine – poteva avvenire a mano, per estirpazione, oppure a taglio con l’ausilio di appositi falcetti. Per chi volesse approfondire lo specifico argomento, suggerisco il sito

http://www.bpp.it/apulia/html/archivio/2005/I/art/R05I151.htm

La bollitura e l’essiccazione

Arrivati al paese con la bicicletta o il traìnu, si procedeva a scaricare il raccolto, si slegavano i grossi fasci facendone dei mazzetti più piccoli che venivano poi immersi in un grande recipiente pieno d’acqua dove bollivano per circa un quarto d’ora. Quindi si toglievano e venivano adagiati per terra dove lentamente raffreddavano. Successivamente, in genere l’indomani, si riprendeva il tutto e lo si stendeva su un terreno oppure sulla terrazza (liama) dove lo si lasciava per una quindicina di giorni fino a che, da verde che era, lu paleddhu diventava color paglia. A questo punto si raccoglieva in fasci più grossi e veniva conservato in un luogo asciutto.

Cestinaie alla Fiera dell’Artigianato che si tenne a Lecce nel 1956 (foto tratta dal libro “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria). La prima ragazza a sinistra è la madre dell’Autore, di 19 anni d’età

La zolfatura

Man mano che serviva lu paleddhu per lavorare i cestini, si doveva procedere prima alla zolfatura dello stesso, allo scopo di ingiallire e rendere più malleabile il filo.

Per prima cosa occorreva far rinvenire nuovamente, tramite immersione in acqua di circa mezz’ora, lu paleddhu secco quindi, dopo averlo sgocciolarlo, se ne facevano dei mazzetti che venivano disposti lungo le pareti della “stufa” (una sorta di minuscolo stanzino di circa un metro). Intanto, in un recipiente metallico, in genere una vecchia pentola, si mettevano i carboni ardenti sui quali veniva versato lo zolfo.

Devo confessare che questa operazione mi affascinava moltissimo. Se ero presente durante queste fasi, dovevo per forza essere io a buttare lo zolfo sulle braci: subito si innescava una modesta fiammata, poi si sviluppava un fumogeno e tutta l’aria era infestata dal forte odore pungente dello zolfo.

Il recipiente così fumante lo si metteva al centro della stufa, quindi si chiudeva lo sportello di legno avendo cura di sigillare tutte le fessure intorno con stracci umidi. Si lasciava così fino all’indomani, a questo punto lu paleddhu era pronto ad essere lavorato.

Per piccole quantità di paleddhu, al posto della stufa, si utilizzava, con lo stesso procedimento, un grande recipiente di terracotta lu cofunu, (sorta di grande vaso utilizzato anticamente anche per il bucato).

Il processo di zolfatura poteva essere ripetuto anche sugli articoli già realizzati e finiti per renderli ancor di più di un bel colore giallo paglierino.

Cartolina di Aquarica con vedute e i caratteristici cestini

La tintura

Il processo di tintura non è fondamentale all’interno del ciclo di trasformazione, infatti lo scopo di questa procedura è quello di disporre di fili di paleddhu colorato in maniera da abbellire con motivi ornamentali di colore diverso i vari articoli di cestineria. Si arrivava perfino a inserire dei caratteri in modo da comporre un nome, una dedica e altro.

Con lo stesso procedimento che le nostre nonne adottavano in passato per tingere di nero i pochi capi di vestiario a disposizione in occasione di lutti, si coloravano i fili di paleddhu. In un pentolone pieno d’acqua bollente si versava una bustina dell’apposita polverina colorante, rossa, verde, viola; la si scioglieva e poi si immergeva un piccolo mazzo di paleddhu già secco che, dopo una quindicina di minuti di bollitura, era diventato del colore desiderato. Quindi si toglieva dall’acqua e lo si stendeva ad asciugare per poi essere utilizzato nella lavorazione.

Ho raccontato i miei ricordi legati alla lavorazione del paleddhu, ho descritto le principali fasi del ciclo di produzione, non mi resta che riportare alcuni cenni storici tratti dalla pubblicazione realizzata dagli alunni dell’Istituto Comprensivo Statale di Acquarica del Capo edita nell’anno 2001 da PrintLeader editrice di Tricase; il volume ha per titolo “Acquarica del Capo, percorsi nel territorio e nella memoria”.

Non si sa quando gli Acquaricesi abbiano scoperto il giunco e iniziato a lavorarlo. La prime notizie documentate ci sono fornite da G. Arditi, nel 1879. L’autore scrive che le donne acquaricesi, oltre che collaborare con gli uomini ai lavori agricoli, si dedicano anche “all’industria speciale di tessere sporte, cestini e fiscelle di giunco (iuncus et fusus), che chiamano volgarmente Pileddu”.

Il giunco palustre, raccolto nelle paludi dell’Avetrana e in quelle di Ugento e Acaja, opportunamente trattato, veniva lavorato per ottenere “quelle utili e svariate fatture, alcune delle quali meritarono di stare all’Esposizione mondiale di Vienna nel 1873”.

Cosimo De Giorgi nel 1882 conferma la notizia dell’esposizione dei cestini acquaricesi a Vienna dove, aggiunge l’autore, “meritarono un premio”.

Successivamente i cestini furono esposti alla Mostra Nazionale di Torino, in seguito alla quale si ebbero numerose commissioni. La mancanza nel paese di un opificio organizzato non consentì tuttavia un’adeguata risposta.

Una Casa londinese, che aveva ammirato i cestini nell’esposizione di Vienna, manifestò il suo interesse inviando un suo rappresentante in Acquarica. Questi, “raggruppando quelle poche lavoratrici del giunco in un solo centro, giunse a far rifiorire questa industria del panieraio. E i prodotti furono spediti in Inghilterra ed in Germania, e per tutto furono accolti con favore, anche per la tenuità del loro prezzo”.

Sul finire dell’800 l’industria decadde; continuò tuttavia la lavorazione del giunco a conduzione familiare. I cestini prodotti dalle spurtare (cestinaie) di Acquarica erano molto usati nella vita quotidiana della civiltà contadina del tempo ed erano venduti nei mercati paesani di tutto il Basso Salento da piccoli commercianti del luogo. Periodicamente arrivavano in paese anche rivenditori delle province di Bari e di Brindisi per ritirare i cestini ordinati.

Spesso, per le precarie condizioni i vita della maggior parte della popolazione e la limitata circolazione del denaro, i cestini venivano barattati con prodotti alimentari (legumi, formaggio, farina, olio, vino, taralli,…).

Nella prima metà del ‘900, il commercio dei cestini cominciò a rifiorire. A partire dal 1926 nacquero e si svilupparono piccoli opifici per iniziativa di alcuni imprenditori, come Vito Palese ed Eugenio Zonno col figlio Salvatore. Questi chiamavano a lavorare, presso le proprie abitazioni, le cestinaie, in gruppi di 15- 20. La giornata lavorativa iniziava alle 7 del mattino e terminava la sera.

Quando si dovevano preparare spedizioni urgenti, si lavorava anche la notte per terminare i cestini e apporre le etichette sui prodotti da imballare. Questi venivano spediti oltre i confini salentini (Bari, Rimini, Riccione, Milano, Firenze) e all’estero (Inghilterra, Svizzera e perfino in America).

Gli stessi imprenditori, durante l’estate, si recavano personalmente a Rimini e a Riccione per vendere lungo le spiagge borse e cestini vari, paglie e scarpe. Alcuni cestini venivano spediti all’isola d’Elba presso l’Istituto di pena dove i carcerati li usavano per portarsi il pranzo quando andavano a lavorare fuori dalle carceri. I lavori più belli, esposti presso le fiere nazionali e internazionali, ottennero vari riconoscimenti e venivano richiesti, su ordinazione, da commercianti del Nord Italia.

A partire dagli anni ’60, la lavorazione del giunco cominciò a subire un lento e graduale declino. Le cause di tale declino sono molteplici:

Prima fra tutte l’avvento dei materiali plastici che duravano di più ma soprattutto costavano meno, poi il ridursi dei territori paludosi via via bonificati, ed infine il fenomeno massiccio dell’emigrazione che a partire dagli anni ’50 ha spinto molti acquaricesi alla ricerca di un lavoro più redditizio nel nord Italia e all’estero.

Cestini Acquarica esposti Ecomuseo della civiltà palustre Villanova di Bagnacavallo

informazioni finali

Il 27 dicembre 2008 ad Acquarica del Capo è stato inaugurato il Museo del Giunco Palustre, per valorizzare un’arte che è peculiare della storia sociale ed economica di questo paese.

Il museo ospita una sezione dedicata alle varie fasi del ciclo di trasformazione, dalla raccolta al prodotto finale. Inoltre si possono apprezzare numerosi manufatti in giunco realizzati dalle spurtare di Acquarica che ancora oggi continuano ad intrecciare lu paleddhu. Di particolare interesse è poi la presenza del Presepe di Giunco, e di varie foto storiche di lavoratrici del giunco.

I prodotti delle spurtare di Acquarica possono essere ammirati anche all’ Ecomuseo della Civiltà Palustre di Villanova di Bagnacavallo in provincia di Ravenna (vedi mia foto 2) dove, oltre a innumerevoli oggetti di produzione locale realizzati con materiale derivato dalla vegetazione palustre, sono presenti analoghe testimonianze di varie civiltà provenienti da tutti i continenti.

 

La prima parte può leggersi cliccando il link in basso:

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/08/larte-di-intrecciare-il-giunco-ad-acquarica-del-capo-patria-delle-sporte/

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4 Commenti a L’arte di intrecciare il giunco ad Acquarica del Capo (II parte)

    • Riferendosi al paleddhu, che è molto più sottile del giunco propriamente detto.come descritto nell’articolo, la zolfatura conferisce una maggiore duttilità al filo in maniera da poterlo intrecciare senza spezzarsi.

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