L’arte di intrecciare il giunco ad Acquarica del Capo, patria delle sporte

Fische, fiscareddhe, sporte e spurteddhe: ovvero l’arte di intrecciare il giunco (paleddhu) ad Acquarica del Capo

di Tommaso Coletta

ph Paolo Giuri

Cogliendo l’occasione dell’articolo di Armando Polito “N’era nna fiata la fesca… ecc.” e incoraggiato dall’appassionato invito di Marcello Gaballo, proverò a far venire a galla i miei ricordi d’infanzia per raccontare qualcosa sulla lavorazione del giunco e come questa caratterizzava la vita stessa del mio paese Acquarica del Capo, patria delle sporte.

Durante la mia infanzia, primi anni ’60, in quasi tutte le case del mio paese c’era la presenza di una donna giovane o anziana, mamma o nonna, che seduta per terra, su una vecchia coperta o un sacco di iuta, intrecciava lu paleddhu per realizzare una fisca, una sporta, un cestino. Gran parte delle donne acquaricesi infatti, oltre a seguire le faccende di casa, contribuivano all’economia domestica attraverso la produzione e la vendita di vari manufatti di paleddhu.

Si rimaneva incantati a seguire quelle dita che così velocemente spostavano i fili di paleddhu a sinistra e a destra, sopra e sotto intrecciandoli strettamente fra loro. Via via che si andava avanti ad intrecciare, i fili di paleddhu che si stavano lavorando diventavano sempre più corti e quindi occorreva inserirne degli altri, in maniera da costituire un continuum, un filo senza fine. Per far questo, la mano scartava di lato, prendeva un nuovo filo di paleddhu dal mazzetto posto a fianco lungo le gambe e veniva inserito nelle maglie in lavorazione e così si procedeva fino alla fine.

La tipologia di intreccio non era sempre la medesima ma variava, oltre che in funzione del tipo di prodotto che si voleva realizzare, anche in base allo stadio di lavorazione: il fondo, i fianchi, l’orlo finale. Inoltre, e questo succedeva specialmente per i prodotti di fattura più fine, non destinati all’uso quotidiano, ognuna di queste artiste, in base alla propria fantasia e maestria, creava l’articolo ricorrendo alla combinazione di diversi stili di intreccio, oppure inserendo dei fili di paleddhu colorati (di cui dirò dopo) e, a volte, impreziosendo il prodotto finale con nastri e passamanerie varie.

Terminata la fase di lavorazione che definiremo “grezza”, giusto per intenderci, si passava alla rifinitura dell’oggetto: con le forbici si tagliavano i pezzetti di paleddhu che sporgevano dalla superficie lavorata, ma soprattutto occorreva profilare l’orlo, tagliando e pareggiando i fili di paleddhu sovrabbondanti. Queste due operazioni, molto semplici, spesso la mia mamma le riservava a me perché sapeva che io mi divertivo molto.

Quando il prodotto lo richiedeva, si lavoravano a parte i manici (ricchie) e una treccia (fietta) che fungeva da finitura dell’orlo; questi elementi aggiuntivi venivano poi fissati all’oggetto tramite cucitura con filo di rafia.

Periodicamente passava da casa il commerciante per ritirare il materiale prodotto, si facevano i conti (ogni oggetto aveva il suo prezzo) e prima di andar via dava indicazioni sul tipo e quantità di prodotti che richiedeva per il prossimo giro. Di questi commercianti nel paese ne esistevano diversi, ognuno di loro aveva le sue spurtare, che producevano per lui e riservavano particolare attenzione per quelle più capaci onde evitare che queste passassero a produrre per qualche altro compratore suo concorrente.

Questo succedeva negli anni ’60, ma nel passato, quando la produzione era molto più fiorente, per iniziativa di alcuni di questi commercianti, nel paese erano sorte delle fabbrichette (oggi le definiremmo così), in genere presso l’abitazione stessa del commerciante, dove lavoravano gruppi anche di una ventina di spurtare (vedi foto) che quindi potevano inquadrarsi quali operaie sotto padrone, mentre successivamente, causa il declino della domanda, sono state costrette a trasformarsi in “artigiane – libere professioniste”.

Spurtare – foto primi anni ’50 – mia madre Fiume Francesca, “Chicchina”, è la quarta da sinistra in alto

Ma come si giunge a trasformare il giunco, pianta che cresce nelle zone paludose, in un qualsivoglia prodotto finito?

Cercherò di illustrare le molteplici fasi del ciclo della trasformazione, che per noi acquaricesi (perlomeno ai non più giovani) sono scontate, ma che possono apparire oscure a quanti sono fuori da queste vicende.

(continua)

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13 Commenti a L’arte di intrecciare il giunco ad Acquarica del Capo, patria delle sporte

  1. Da buona acquaricese continuo a regalarmi e a regalare le piccole opere d’arte che escono dalle abili mani delle nostre “spurtare”,dai più disparati oggetti per la casa alle bellissime borse di tutte le fogge. Ed ho ancora nella memoria il profumo del giunco con cui mia nonna intrecciava le più grezze “fische” in cui veniva pressata la ricotta e i formaggi (tra cui la giuncata).
    Molti anni fa si era parlato di istituire un corso per insegnare ai ragazzi questa antica arte, progetto che poi è andato a sfumare senza che se ne facesse più nulla. Il mio augurio è che, sull’onda del crescente turismo legato al Salento, ormai tanto di moda, ci sia l’impegno da parte delle istituzioni di salvaguardare e preservare questo patrimonio culturale e antropologico, prima che sia troppo tardi!

  2. Ciao fratellone, ho letto anch’io il tuo bellissimo articolo e mi sono tornati in mente tanti ricordi di nostra madre seduta a terra in garage che con le sue mani veloci intrecciava i fili e mi teneva d’occhio mentre io giocavo fuori! E ricordo quando passava Ceserino e ritirava le cose che la mamma faceva…
    ormai purtroppo ci sono solo poche persone ad Acquarica che lavorano il giunco. Dovremmo tenerci strette le cose fatte dalla mamma perchè saranno delle opere d’arte che nessuno riuscirà più a produrre. saluti.

  3. Ciao fratello mancava il mio commento! E….del particolare odore che la lavorazione de lu paleddu emanava ve lo ricordate? e quello dello zolfo che bruciava in un capiente contenitore dove le mamma sistemava i suoi prodotti per renderli più chiari? Altri tempi si! Colgo l’occasione per rispondere al commento di Anna Maria a proposito del corso sulla lavorazione del giunco, si farà prossimamente, credo siano aperte già le iscrizioni per chi è interessato, presso il nostro castello di fronte alla chiesa di S.Carlo!……..per non dimenticare e per tramandare questa bellissima e antica arte salentina! ciao fratellone!!!!!!

  4. ringrazio la redazione per aver riproposto oggi questo mio contributo di qualche mese fa.
    proprio oggi è il mio compleanno e quindi prendo la cosa come un augurio, grazie.
    tommaso coletta

    • pura coincidenza che ci fa piacere, anche perchè è l’occasione utile per porgerti gli auguri. Tra qualche giorno la seconda parte di questo bel post che ci hai voluto regalare e che rende merito alla originale virtuosità delle donne di Acquarica

  5. Ciao, sono Antonio Bortone. Anche mia madre lavorava lu paleddhu, forse c’è anche lei nella foto; le sarei grato se potesse inviarla a: tonj45@gmail.com e se potesse darmi indicazioni su dove trovare altre foto-ricordo di Acquarica del Capo. Antonio Bortone

  6. Complimenti per aver tentato di riportare in auge l’insegnamento di questa arte dimenticata. Iniziative del genere, sono un perfetto esempio di societing impiegato per sostenere le comunità locali

  7. Una zia di mia nonna, Concetta CARLUCCIO, credo nata dopo l’Unità d’Italia a Ortelle si sposò ad Acquarica. Il figlio o uno dei figli si chiamava Carmelo e ogni anno tornava a Ortelle per vendere ceste e panari alla Fiera di san Vito. Quelli che non vendeva la famiglia di mia nonna glieli riempieva do ogni. A metà degli anni ’60 partimmo con la Belvedere e la nonna per trovare qualche parente ma non ci riuscimmo. Arrivammo alle marine di Salve per fare il bagno. Sotto le piccole macchie c’erano le quaglie. In quei posti ci andavano anche i pescatori di Castro a comprare corde speciali, forse di giunco, per armare le reti.

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