Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (I parte)

A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina

(I parte)

di  Francesca Talò

Nei centri originari delle nostre città, edifici comuni ed edifici artistici coesistono, variamente collegati tra loro, a costruire quel cosiddetto ambiente che ne forma la caratteristica fisionomia  (Carlo Ceschi).

Calvario a Montesano Salentino (ph Stefano Cortese)

 

L’invito a presentare gli esiti della laboriosa ricerca di Bruno Perretti sui calvari di Puglia – certamente rara, per quel che attiene l’argomento di studio – mi consente una riflessione, sia pure amara, sul destino senza futuro che sembra incombere su tanta parte di quello straordinario patrimonio dei cosiddetti beni culturali “minori[1]”, custodi di importanti tasselli di storia municipale, che in essi si riconosce e si identifica e di cui riccamente si adorna il nostro Paese. In sostanza, queste testimonianze dal tono dimesso, rappresentano riferimenti storici e artistici di un vissuto comunitario che, ancor più dei grandi e noti complessi monumentali, esprimono la specificità di un territorio, partecipando significativamente alla sua configurazione topografica e urbanistica e la cui perdita è anche perdita di memoria delle proprie radici culturali. Eppure, tale patrimonio, immeritatamente, sembra soffrire di una mancanza di attenzione su più fronti: da parte delle Soprintendenze, perché non soggetto alle norme del vincolo, da parte delle pubbliche amministrazioni, poiché ben altri sono gli interventi che urgono sul territorio urbano e, non ultimo, da parte delle singole comunità, oggi perse in altri modelli culturali, certamente non orientati a far recepire – attraverso la presa di coscienza di simili testimonianze materiali, aventi “valore di civiltà”[2] – una più corretta e consapevole gestione della propria municipalità e delle sue potenzialità.

Nello specifico, soffrono ancor più quei modesti (solo per mero valore materiale) monumenti dei centri storici, abbandonati all’edacia del tempo e all’incuria dell’uomo; e parlo di quei preziosi segni connotativi di una specifica realtà demo-socio-antropologica, quali l’edilizia minore, le porte urbiche, le colonne con i segni del sacro, poste a protezione e a segnacolo dei limiti del centro abitato, le edicole votive e i tabernacoli, che numerosi adornavano le bianche facciate di tante, modeste abitazioni, le cappelle e i graziosi santuari urbani, una volta occasione di aggregazione devozionale dell’umile popolo di Dio; e, ancora, le variegate teorie di comignoli, oggi sostituiti da una foresta di antenne, gli avanzi di desolati opifici, figli dell’archeologia industriale, e quant’altro stava a significare l’univocità e la peculiarità culturale, sacra e profana, di una collettività. Nell’elenco di simili doleancés sono da ascrivervi – soprattutto nei centri del Mezzogiorno d’Italia –  anche gli umili tempietti dei calvari, quasi mai esteticamente significativi e avvertiti dai più come elementi architettonici neutri del tessuto urbano che li contiene, non fosse per la cura e l’affezione di un esiguo numero di pie donne.

L’Autore, nel condurre la sua intelligente indagine sui superstiti calvari[3] dell’antica Terra d’Otranto, nella bassa Puglia, metodologicamente si è avvalso di un criterio di rilevamento, messo in opera attraverso una diretta e sistematica ricognizione dell’intero territorio, al fine di offrire un concreto e valido strumento di informazione e conoscenza delle testimonianze materiali, oggetto di questa pubblicazione. La penuria e l’esilità delle carte d’archivio e delle fonti bibliografiche sull’argomento hanno reso meno agevole il suo percorso, ma certamente non meno apprezzabile, alla luce dei risultati conseguiti.

Il lavoro è stato ideato con l’intento di destinarlo ad un’utenza non necessariamente specializzata; tanto, al fine di perseguire l’obiettivo, altamente civile, di sollecitare adeguate spinte motivazionali, valide all’acquisizione di una coscienza e di una cultura delle testimonianze artistiche minori del proprio habitat, la cui valenza di beni culturali resta legata alla ristretta sfera del vissuto della comunità, che li ha generati e mantenuti.

In pratica, l’encomiabile sforzo del Perretti si è tradotto in una sorta di censimento, comprensivo di oltre ottanta calvari; tali complessi sacro-devozionali vengono presentati divisi in tre sezioni, afferenti le tre diverse aree provinciali di Brindisi (dodici), Lecce (oltre sessanta), Taranto (dieci) e singolarmente accostati nel felice binomio di scheda descrittiva e relativo corredo iconografico. Non trascurabile è la strategia di tradurre tutti i dati rilevati in termini descrittivi e non già organizzati secondo il modello tabellare, proprio delle tecniche di rilievo dei beni culturali di qualsivoglia specie.

Fatte salve queste note di metodo, vale la pena tracciare, sia pure brevemente, le linee del percorso storico, che hanno portato al farsi di queste presenze, depositarie di tradizioni antiche e legate all’esercizio di locali pratiche di pietà.

Non a caso, nei calvari, pur nella peculiarità propria della loro appartenenza geografica, si rinviene la testimonianza dei tanti segni della trascorsa religiosità popolare, leggibile (nelle tre direzioni di storia-arte-fede) unitamente anche ai rapporti con l’impianto urbanistico, quale contenitore di tali edifici, e tenendo in conto anche le diverse teorie stilistiche di cui si adornavano, perché capaci di raccontare dei fasti o della elementarità economica di quanti si sono fatti committenti di simili beni  del patrimonio sacro cittadino.

I calvari, comuni a quasi tutti i paesi cristiani dell’Occidente[4] e dell’Est[5] europeo, quali monumenti che attengono la sfera del vissuto devozionale collettivo, trovano fondamentalmente la loro ragione di essere nel devoto desiderio di rivivere in loco, in maniera concretamente visibile e sperimentabile, le suggestioni della Terra Santa.

Per quel che ci è dato conoscere, è attestata proprio in Italia, a Bologna, la più antica testimonianza di una materiale rappresentazione dei luoghi santi della Palestina, ricevuta non solo all’interno di uno spazio urbano strutturato, quale è la città petroniana, ma situata anche all’interno di una cattedrale di culto paleocristiano, che ha poi generato il noto complesso basilicale di Santo Stefano[6], entro cui si racchiudono sedici secoli di storia cristiana bolognese. Una storia che vide il suo avvio proprio con l’erezione della chiesa più illustre tra le sette che compendiavano la struttura sacra, quella del Santo Sepolcro, “il cuore antico della Bologna cristiana”, come ebbe a definirla il card. Giacomo Biffi, attraverso una costruzione ispirata ai luoghi segnati dalla vicenda salvifica, Santo Stefano è sempre stato visto – e deve essere ancora valorizzato – come la Jerusalem bononiensis[7]. La Gerusalemme bolognese fu voluta dal vescovo Petronio (431-450), al ritorno da un pellegrinaggio compiuto a Gerusalemme, impressionato anche dalla incredibile devozione per i luoghi santi, che già i cristiani bolognesi del suo tempo esprimevano nella processione della Domenica delle Palme, che si teneva nella vicina chiesa di S. Giovanni in Monte.

E non va taciuto, altresì, che sempre in Italia, si originano per prima (a partire dal sec. XV), lungo tutto l’arco alpino che incorona le regioni della Valle d’Aosta, del Piemonte e della Lombardia, i Sacri Monti-Calvario[8], intenzionalmente ubicati su un sito extraurbano ed elevato, dallo scenario naturalistico e paesaggistico, utile a restituire l’effetto della fisionomia geografica del Monte Calvario in Palestina. Divenuti monumenti paradigmatici della pietà popolare, essi rappresentano il farsi di un desiderio e del bisogno (antico e nuovo insieme) di creare occasioni e luoghi del sacro più consoni alla cultura religiosa del tempo, atti al perpetuarsi della pratica medievale dei pellegrinaggi penitenziali. E così, i Sacri Monti-Calvario – attraverso la fedeltà topomimetica dei luoghi gerosolimitani – divengono percorsi devozionali di un ideale pellegrinaggio a Gerusalemme, perché capaci di riproporre, in tempi moderni, quelle tensioni di spiritualità cristocentrica, che nel passato si esprimevano nei viaggi verso i luoghi della Terrasanta.

Simili a nuove “Gerusalemme”, essi testimoniavano, anche alla luce della devotio moderna, le nuove spinte riformatrici così come veicolate dalle riforme tridentine nelle masse popolari e dal fiorire di nuovi ordini religiosi, i gesuiti e, nel seguito, i passionisti in particolare.

Poiché motivo di eloquente e reale rivisitazione dei fatti della Passio Christi, in quanto occasioni straordinarie di un itinerarium fidei, i Sacri Monti vengono legittimati dalla Chiesa, che garantiva ai devoti visitatori gli stessi doni spirituali dei pellegrini medievali, soprattutto l’acquisto delle indulgenze plenarie, per la propria anima e per i congiunti defunti.

Il primo eloquente esempio di Sacro Monte rimane quello di Varallo Sesia, il cui nucleo si sostanzia di una basilica e quarantacinque cappelle; fu edificato, a partire dal 1486, dal francescano Bernardino Caimi, col patrocinio di Beatrice d’Este e del marito Ludovico il Moro, ut hic Jerusalem videat qui peregrare nequit (affinchè qui possa vedere Gerusalemme, colui che non può recarsi in pellegrinaggio). Si trattava, in principio, di un complesso di trentotto cappelle principali, entro cui prendeva vita, con una sorprendente potenza espressiva, l’intero ciclo della tragedia del Golgota, culminante negli eventi della crocifissione e morte di Cristo, capillarmente illustrati nell’ultima cappella, adorna di ottantasette statue in terracotta policroma, ideate a grandezza naturale.

Qui era solito venire, per i suoi esercizi spirituali, anche S. Carlo Borromeo, il cui percorso ascetico si compiva nel segno dei misteri della Croce[9], e su questo Calvario salirono – nella umile veste di pellegrini – personaggi illustri, italiani e stranieri.

Nel seguito, tra XVI e XVII sec, sorsero altri otto Sacri Monti, il cui scenario artistico-paesaggistico non ha pari in Europa e nel mondo, tanto che l’UNESCO, nel 2003, li ha posti nella Lista del Patrimonio Mondiale. Infatti, il fenomeno dei Sacri Monti-Calvario costituisce un patrimonio fatto di storia, di devozione e soprattutto di arte; arte colta e popolare, frutto del lavoro ideativo di valenti architetti e noti artisti della pittura e della scultura, della competenza di maestranze e della creazione di preziosi manufatti artigianali, figli delle tante rinomate botteghe di ebanisti, orafi, scalpellini, decoratori, fabbri, figuli e quant’altro offriva l’ingegno di una folta manodopera, estranea all’omologazione della civiltà industriale di là da venire.

Calato in simile contesto, ecco che il lavoro di Bruno Perretti si legittima e si convalida quale testimonianza di un movimento devozionale affine a quello afferente i Sacri Monti, dunque parimenti significativo ed esplicativo, pur affrontandolo, il suo Autore, nella singolare variante dei piccoli e modesti calvari urbani, come quelli esistenti nella bassa Puglia e in molte altre località del Mezzogiorno, atteso che questi luoghi di pietà non raggiungono mai la qualità strutturale e artistica, sia pure di una sola cappella, così come espressa nei Sacri Monti.

A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”. Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina, Saggio di presentazione del volume di:

 Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area Ionico-Salentina, Manduria 2011, pp. 7-15


[1] La convenzionale locuzione di bene culturale “minore”, la si evince dagli assunti riferiti nella Relazione Franceschini (1964-’66), i cui atti conclusivi valgono a declinare in termini oggettivi una sorta di radicale riforma legislativa dell’intero assetto patrimoniale culturale della nazione. Si origina, infatti, proprio dalle riflessioni della Commissione Franceschini, l’art. 4 del T.U. dell’11.1.2000 (emanato con d.lg. 29.10.1999, n. 490), in cui si legittima il nuovo e più esteso concetto di bene culturale, da intendersi non più quale cosa o bene d’arte, ma come “materiale avente valore di civiltà”.

[2] Il più recente provvedimento normativo in materia di beni culturali, in questo contesto a noi utile, è il Decreto legislativo n.42/2004, centrato sul “Codice dei beni culturali e del paesaggio”. Con l’art. 10 e, più specificamente, l’art. 9 (afferente i beni di interesse religioso, richiamando l’art.19 del T.U. del 2000 e l’art.8 della l. 1089/’39), si forniscono gli elementi di norma per la tutela dei beni culturali “minori”, entro cui, per analogia, trovano collocazione le architetture dei calvari, perché beni storico-artistici minori, ma testimoni e custodi di civiltà.

[3] I calvari, intesi com pubblici luoghi del sacro e quali straordinarie espressioni di una spiritualità cristocentrica, raccontano l’attaccamento e le espressioni di culto per il sacro dramma della Passione di Cristo, consumatosi sul Calvario o colle del Golgota, fuori Gerusalemme, al tempo dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.).

Simili comportamenti devozionali trovano testimonianza fin dal tardoantico, a partire dal 326, anno in cui l’imperatrice Elena, madre di Costantino il Grande, visitando i luoghi sacri in Palestina, rinvenne la Crocedi Cristo, la corona di spine e altri strumenti della Crocifissione. Da quel momento, nel mentre numerose reliquie del sacro rinvenimento prendevano la strada per la nascente Europa cristiana, in Palestina si creava – proprio presso e i tanti luoghi di origine della cristianità e intorno alle tre basiliche, fatte erigere da Sant’Elena – un complesso itinerario devozionale, capace di far rivivere, a folle di pellegrini, i misteri dolorosi di Cristo. Tanto viene attestano in relazioni e diversi diari di viaggio di noti e illustri visitatori della Terrasanta, primo fra tutti il narrato di san Gerolamo (347-420), che con dovizia descrive il suo viaggio in Palestina, accompagnato da Paola, figlia spirituale, e da alcune pie matrone romane (Ep. CVIII). Parimenti, meritano menzione due testimonianze precedenti, l’Itinerarium Burdingalense (333 d.C.) di un devoto di Bordeaux e il Diario di Egeria (sec.IV d.C.), una nobile vedeva galiziana. Del sec.VI, è il trattato geostorico De situ Terrae Sanctae del diacono Teodosio c.a 530 d.C.), a cui si accostano le due versioni di un Itinerarium dell’Anonimo di Piacenza (570 d.C.). Poi, il santo monaco irlandese, Adamnano (627- 704), abate di Iona, nel 698, porta a termine la compilazione, in tre tomi, del De locis sanctis, utilizzando una composita cronaca di viaggio del vescovo Arculfo, che per nove mesi soggiornò presso i sacri luoghi della Palestina. L’interesse e la straordinaria devozione per i fatti della Passione, guidò anche la penna di Beda il Venerabile (1672- 735), che, al chiuso dell’abbazia benedettina di Yarrow, portò a termine un compendioso testo sulla Terrasanta, attingendo a opere precedenti, da cui trae anche ispirazione per un corredo iconografico di certo interesse. Più tardi, il santo vescovo Villibaldo (700-787), figlio del re Riccardo d’Inghilterra, ferma le sue memorie del viaggio in Palestina, compiuto tra il 720 e il729, in un documentato Diario, che faceva regolarmente compilare al suo colto compagno di viaggio, un tale Hagenburg.

Simili opere sono i segni miliari del successivo fiorire di pratiche devozionali, prima nei monasteri e nelle abbazie della nascente Europa cristiana e poi presso tutti i popoli battezzati, al fine di tradursi, nel cammino dei secoli successivi, nei monumenti del calvario. Infatti, è a partire dall’età carolingia e per tutto il periodo delle Crociate che, nel programma di perfezione spirituale dei religiosi di abbazie e monasteri femminili e nelle basiliche e cattedrali europee, si diffuse l’usanza del realizzare, ai fianchi delle navate, in una cappella o in un oratorio, delle riproduzioni di tipo scultoreo e figurativo del Calvario, alimentando nei fedeli la devozione e la meditazione sui misteri della Passione. Dunque, il Calvario – ancor prima di mostrarsi in una autonoma espressione architettonica, all’interno di un tessuto urbano, fuori dalle chiese – era già oggetto di culto.

Bisognerà attendere il consolidarsi della presenza degli ordini mendicanti, i francescani soprattutto (che nel 1342 divennero custodi dei luoghi santi in Palestina), e poi il tempo della Riforma cattolica, all’indomani del concilio di Trento, per parlare di diffusione popolare dei calvari e, dunque, di quella fioritura di piccoli complessi sacri come rappresentazione figurativa dei dolorosi narrati degli Apostoli, san Giovanni in particolare, l’unico degli evangelisti che visse, con la Vergine, sotto la croce del Golgota, il mistero della Morte di Cristo.  Invece, il riconoscimento canonico della pratica di pietà (già da secoli oltremodo diffusa), delle quattordici stazioni della Via Crucis, legittimato nel 1742, da parte di Benedetto XIV, oltre a consentire la presenza delle tavolette votive in ogni parrocchia, nelle chiese urbane e rurali, negli oratori conventuali, determinò un’impennata del numero di calvari, che presero a sorgere su tutto il territorio dell’Europa cattolica, sia pure con una straordinaria diversificazione, determinando, nel contempo, il farsi di piccoli e grandi manufatti d’arte sacra, a cui non fu estraneo il genio di noti artisti.

[4] A esemplare l’antica presenza di simili manufatti del sacro, vi sono i tanti calvari della Bretagna. Sin dall’alto medioevo e, più insistentemente, dal XV al XVII secolo, un acceso fervore religioso caratterizzò quell’alveare di villaggi, che connota il territorio interno e costiero di questa regione francese. Le cattedrali, le chiese monastiche, le pievi e le cappelle videro allora, nel loro intorno, il farsi dei calvari, espressi in forme architettonico-scultoree, atte a offrire ricche e suggestive figurazioni della Passione di Cristo, plasticamente scolpite nella granitica pietra locale, come nell’artistico calvario di Guimiliau, composto di ben duecento statue, o quelli di Pleyben e Saint-Thégonnec, meta di intensi pellegrinaggi per tutto il periodo quaresimale. La cultura del luogo rimanda l’origine di simili presenze alla devota usanza dei primi Celti battezzati, di issare sui menhir la loro caratteristica croce, nata già in età precristiana quale potente strumento apotropaico e carica di una complessa simbologia, legata ai cicli della natura.

[5] Interessante e massiccia la testimonianza dei calvari anche in alcune nazioni cattoliche dell’Est europeo, il cui ruolo fu anche quello di sentinelle della fede cristiana presso le comunità, che vivevano a margine dei territori, occupati dall’impero ottomano. “In Polonia questi complessi diventano grandissimi, si chiamano parchi del pellegrino e possono avere settantanove cappelle, come a Kalwaria Wambierzycka (1681), o estendersi per tre milioni di metri quadrati come a Kalwaria Zebrzydowska”. (cfr. A. Tarzia, I Sacri Monti e la nostalgia della Terra Santa, “Jesus”, 5 Maggio 2009). Una simile configurazione, certamente non poteva essere di committenza privata, ma richiedeva la gestione da parte di una comunità religiosa, in genere quella francescana, domenicana o di gesuiti – come accade per il Calvario ungherese di Banska Stianvika, nella regione della Slovacchia, dove per l’erezione del sacro complesso furono chiamati a concorso tutti gli abitanti della città e le maestranze più accreditate del territorio. Nel 2006, si è svolta a Torino, a cura del Soprintendente ai Monumenti della Repubblica Slovacca, una compendiosa mostra su “Calvari e vie Crucis in Slovacchia”, con particolare attenzione al noto calvario di Bratislava (sec.XVII) e a quelli barocchi di Kosice e Presov.  Certamente, a offrire maggiore rilevanza artistico-devozionale è il calvario di Banska Stianvika. Ubicato sulla collina di Scharffemberg, fu edificato tra il 1744 e il 1751, su progetto dei gesuiti, presenti nella città, già promotori della devozione per i luoghi della Terrasanta. Inteso come strumento di catechizzazione popolare, il grandioso Calvario rappresenta, nel suo genere, uno dei più grandi monumenti architettonici a imitatio dei luoghi gerosolimitani di tutta l’Europa. Organizzato su un artistico comprensorio di ventiquattro cappelle, esibite per lo più nello stile di un tardo barocco mitteleuropeo, esso vale quale straordinaria scenografia del sacro, amplificata da una fascinosa cornice paesaggistica; da quasi tre secoli, per molte popolazioni slave è meta di pellegrinaggio e polo di aggregazione di numerose pratiche di pietà. Delle ventiquattro cappelle – che segnano il percorso della Via Dolorosa, simile a quello compiuto da Gesù sino al Golgota – tre sono erette ai piedi della collina, quattordici segnano, in salita, il succedersi delle stazioni della Via Crucis e le ultime invitano alla meditazione dei Sette Dolori di Maria. Ognuna appare di grande valenza artistica: le ricche ornamentazioni scultoree e pittoriche e gli arredi preziosi che in esse si conservano, sono di grande attrazione per i pellegrini; e incanta pure l’arte del ferro battuto degli imponenti, ma eleganti cancelli che chiudono le cappelle o la ricchezza dei motivi-simbolo della Passione, disposti da abili artigiani sui numerosi pannelli  di ferro, poste all’ingresso delle chiese.

[6] Cfr.: G. Fasoli, Stefaniana: contributi per la storia del complesso di S. Stefano in Bologna, Deputazione di storia patria, Bologna 1985; Sancta Jerusalem Bononiensis, a cura della Basilica Santuario di Santo Stefano, Bologna 2002; B. Borghi, La Gerusalemme celeste di Bologna: un viaggio verso la Terrasanta, Atti e memorie della deputazione di Storia Patria, 58 (2007), pp. 239-273.

[7] L’Arcivescovo di Bologna, in occasione del Duemila, anno giubilare, nella sua magistrale Nota pastorale, La città di San Petronio nel terzo millennio, diretta alla diocesi di Bologna, scriveva, con devota enfasi: Il complesso delle così dette “Sette chiese” è uno degli ambienti più sacri e più suggestivi: sacri per l’evocazione, nello stesso suo disegno costruttivo, dei luoghi di Gerusalemme che sono stati teatro dell’azione redentrice del Figlio di Dio e per le memorie che vi sono custodite; suggestivo per l’antica origine (che risale presumibilmente allo stesso san Petronio), per la sua storia plurisecolare che l’ha accresciuto progressivamente senza fargli perdere l’armonia dell’insieme e l’unità di ispirazione, per il sovrano incanto dell’architettura medievale; e, ancora,  …è una fortuna singolare del cristianesimo petroniano quella di possedere nel complesso stefaniano un forte richiamo agli avvenimenti che ci hanno redenti e rinnovati: alla passione, alla morte, alla risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo; cfr. Card. G. Biffi, La città di San Petronio nel terzo millennio, EDB, Bologna 2000, p. 29.

[8] Quali luoghi dell’anima, autentiche cittadelle della fede, queste oasi dello spirito, nascono in Italia dall’intento di trasporre nel vicino, all’interno e al sicuro del proprio territorio, l’imago della topografia sacra della mitica e ormai irraggiungibile Gerusalemme, stante l’avanzare dei turchi e la persecuzione degli infedeli, che rendevano critica l’esperienza del pellegrinaggio nei luoghi santi. Dopo Varallo (1491), oltre il Sacro Monte di S. Vivaldo (1500-1513) – edificato dai francescani di Montaione (FI) e noto come la “Gerusalemme della Toscana”, adorna della originaria struttura architettonica di venticinque cappelle – in Piemonte e in Lombardia, a seguire, sorsero i complessi devozionali di Crea (1598), Orta (sec. XVI, fine), Varese (1604), Ghiffa (1605), Oropa (1617), Ossuccio (1635), Domodossala (1656) e quello di Belmonte (1712). Sull’argomento, ricco di letteratura, tra gli altri lavori, cito: L. Vaccaro-F. Ricardi, Sacri Monti: devozione, arte e cultura della Controriforma, Milano 1992; G. Gentile, Le fonti dell’immaginario del Sacro Monte di Varallo, tra letteratura francescana e memorie di Terra Santa, in M.L.Gatti Perer, Terra santa e sacri monti, Milano 1999, pp. 37-51; G. Galliano, In Montibus Sanctis, Ponzano-Casale Monferrato 2003; AA.VV., Luoghi e vie di pellegrinaggio. I sacri Monti del Piemonte e della Lombardia, Milano 2004; A. Barbero, I Sacri Monti, Milano 2005; P.G.Longo, Lo itinerario de andare in Hyerusalem, Ponzano-Casale Monferrato 2007.

[9] F. Buzzi, Il tema della Croce nella spiritualità di Carlo Borromeo. Rivisitazione e confronto con la prospettiva luterana, in F.Buzzi-D.Zardin, Carlo Borromeo e l’opera della grande Riforma: cultura, religione e arti del governo nella Milano del pieno Cinquecento, Cinisello Balsamo 1997, pp. 47-58.

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Un commento a Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (I parte)

  1. Mi permetto di chiedere all ‘autore se nel suo elenco sono stati inseriti anche i Calvari esistenti nelle piccole frazioni o antichi borghi come quello ad esempio di Tutino (Tricase). Grazie

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