La torre del Serpe

di Gianni Ferraris

La torre del Serpe domina Otranto. Quel poco che ne è rimasto è stato ristrutturato per tenerlo in piedi. Perché ha una storia importante. Era un faro ad olio che indicava la punta di Otranto ai naviganti. Segnalava la via.

particolare del pavimento della cattedrale di Otranto

Da quella torre, quando il tempo è limpido, quando lo scirocco non crea foschia, si vedono le alture albanesi. Dice la leggenda che i turchi stavano arrivando a Otranto per prenderne possesso. E che una serpe mandata da Dio, forse dagli dei, si bevve tutto l’olio della riserva. La luce si spense, i turchi persero la via e l’invasione fu rimandata ed attaccarono la vicina Brindisi.   Sarebbero poi tornati e sarebbe stata strage. Gli 800 che non si vollero convertire all’Islam furono trucidati. I loro corpi lasciati esposti perché si capisse dove stava la forza e dove la ragione. Oggi le loro ossa, i loro crani, sono lugubramente esposti nella cattedrale che ha un magico mosaico   per pavimento.

Di Pantaleone, autore dell’opera d’arte, non si conoscono i dati anagrafici ma si ipotizza che fosse un chierico, lui stesso si firma Pantaleonis presbiteri, probabilmente un Monaco Basiliano di origine greca. I basiliani che occuparono per lungo tempo le grotte naturali fra gli scogli del Salento.

“Opera, originale e perfettamente conservata, offre uno spaccato della cultura dell’alto Medioevo abbastanza fuori dagli schemi e ci presenta un enigmatico percorso in un labirinto mentale di cui, spesso, sfugge la vera interpretazione iconologica.

Infatti accanto alle più ovvie scene dell’Antico Testamento (mai del Nuovo) come: la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden, la storia di Caino e Abele, la costruzione della Torre di Babele, Noè e l’arca, Sansone e Giona; vengono raffigurati anche storie e personaggi della cultura pagana come Diana cacciatrice, Atlante che sorregge il mondo sulle spalle, il Minotauro e Alessandro Magno.

Nella parte centrale della navata si stende un Albero della vita e sulla destra (guardando verso l’altare) dodici medaglioni rappresentano i mesi e lo Zodiaco (un tema sviluppato anche in altre chiese medievali). Nel pavimento altre scene sono ispirate dalla cultura cavalleresca con le storie di Re Artù (Rex Arturus per Pantaleone) e Parsifal.

Non mancano il Paradiso e l’Inferno dove si agitano dannati fra i tormenti e un grosso Satana incoronato è a cavallo di un drago. Molto interessante è una delle poche rappresentazioni del Diavolo nero (Puer niger) ancora con le ali bianche da angelo, ben presto sostituite da quelle da pipistrello dei demoni cinesi.

Al centro della navata ci sono altri medaglioni, tredici dei quali formano un classico Bestiario medievale nel quale si riconoscono: un basilisco, una lonza, un centauro, un liocorno e un’antica iconografia della sirena rappresentata mentre regge tra le braccia due code.

Altre simbologie che numerose affollano il mosaico sono ancora oggetto di studi e di dispute soprattutto sul messaggio teologico di Pantaleone o di chi ha redatto il programma di questa opera musiva così complessa.” (il virgolettato è tratto da wilkypedia)

facciata della cattedrale di Otranto

Incredibile opera d’arte. Quella volta, però, la serpe salvò gli Otrantini. E l’Albania, quando hai la possibilità di vederla, pare di poterla toccare. Mi sono seduto ai piedi della torre del serpe. Ed ho a lungo guardato il mare là sotto. Ed era esplosione di profumi di menta, origano, timo ed altre erbe spontanee. E’ un autunno con temperature primaverili questo.   Poco sotto un gregge al pascolo. Quando cammini su quelle alture ed hai il mare sotto, l’orizzonte è aperto. I confini sono lontani , come impalpabile è l’orizzonte.  Non solo io, il mondo non inizia e non termina con me. Però a volte rinasce la voglia di esserci, di fare, di parlare, di capire.   Qui è tempo di raccolta di olive. Da secoli il Salento vive di olio. Molti frantoi ipogei  sono ancora visitabili. Erano sotterranei, perché la temperatura sotto è costante, come l’umidità. In quegli scantinati ci sono enormi macine e il camminamento del cavallo o dell’asino che le faceva girare. Era un animale vecchio o non idoneo ad altri lavori quello utilizzato nel frantoio. Perché una volta sceso non avrebbe mai più visto la luce del sole. Gli si bendavano gli occhi perché non si rendesse conto di girare tutto attorno venti ora al giorno e non impazzisse.  E gli addetti al frantoio passavano giorni e notti là sotto. Arrivavano dalle campagne per fare la stagione della frantumatura delle olive. Non uscivano per non spendere il poco che guadagnavano. E nel tempo libero si riposavano e vegliavano come potevano. Trasformando quel microcosmo nel loro mondo intero per il tempo necessario e terminare il lavoro. E si costruivano pipe ed altri attrezzi. Così, per passare il tempo. Mentre il cavallo continuava incessante a girare attorno e a far ruotare quella enorme macina di pietra. E le olive venivano triturate e ripremute, per ricavarne l’olio fino all’ultima goccia nel caso del lampante. Più raffinato quello commestibile.

Oggi ci sono reti sotto gli ulivi. Servono per trattenere le olive che cadono. E subito dopo la raccolta vengono portate al frantoio che immediatamente le macina, così non muta l’acidità. Terra rossa come ossido di ferro. Dura da coltivare. Muretti a secco delimitano le proprietà, fatti con i sassi raccolti nei campi. E in molti casi i campi sono colmi di altri sassi. “Perché la campagna rende poco e pochi ormai la coltivano ” Mi dice un signore che produce olio e vino. E’ strano vedere sassi che racchiudono altri sassi. La proprietà delimitata, anche se apparentemente inutile ed improduttiva.  Terra di profumi, e di colori il Salento. Il cielo è azzurro intenso, il mare passa dal verde al bianco, al nero. E la campagna ha il rosso della terra e il verde intenso della vegetazione. In queste terre ho mangiato per la prima volta nelle mia lunga vita i corbezzoli raccolti dall’albero (rusciuli in dialetto), ed ho raccolto rucola spontanea. Ne trovi ovunque qui. Ed ho visto ballare la pizzica. Pizzica e taranta, ritmi simili che hanno contaminazioni africane con l’ossessivo suono dei tamburelli. E i ballerini usano in molti casi le nacchere. Perché anche gli spagnoli hanno lasciato il segno. Molte pizziche hanno una partenza lenta che accelera sempre più. E i danzatori, ragazzi e ragazze del luogo, uomini e donne non più giovanissimi, tutti non professionisti, si lasciano prendere da questi ritmi e ballano una danza che è la “pizzica d’amore”. Sono vere e proprie coreografie, la base dei passi è simile, ma ogni coppia ci mette molto di suo. E’ corteggiamento con lui che si avvicina e lei che ammicca e si nega, nasconde il suo volto dietro l’immancabile fazzoletto e si avvicina e allontana. E’ di una sensualità incredibile. E’ musica che prende e coinvolge anche chi, come me, non ha dimestichezza alcuna con il ballo. Molti testi arrivano dai canti delle “tabacchine”.   Raccoglievano tabacco. Erano tutte donne. Ed hanno anche condotto lotte epocali, molte ci hanno rimesso la vita.  Spontaneo il parallelo con le mondine. Ma questi non sono canti di lotta, molto spesso sono intrisi di doppi sensi. “Femmine femmine che andate al tabacco, ve ne partite in due e tornate in quattro…” .

centro storico di Otranto

E le donne erano le più colpite dal morso della tarantola. “O Santo Paolo mio della taranta, che pizzica le donne tra le gambe… ” Le tarantate erano sollevate dalla   frenesia del veleno del ragno solo da una musica ossessiva fatta con tamburelli che ritmavano a velocità sempre crescente i loro movimenti. E si contorcevano in terra in preda a convulsioni da musica e al ritmo di quella danza. Ed è altra pizzica, quella delle tarantate.  Ritmi simili a quella d’amore, ma finalità diverse. Ogni anno il giorno di S. Paolo a Galatina c’è il giorno delle tarantate. Perché S. Paolo era il protettore contro tutti gli animali velenosi.  Si trovano nella piccola cappella e per tutto il paese  ci sono tamburellisti ed altri suonatori. Oggi, oltre ai tamburelli e violini, si sono aggiunti organetti e altri strumenti. Si narra di tamburelli conservati dai tempi antichi con macchie sulla pelle. Erano macchie di sangue. Perché le tarantate dovevano essere seguite per ore e la musica doveva aumentare di ritmo sempre. Fino, appunto, a far sanguinare la mano del suonatore.   Quel che colpisce è l’attaccamento a queste tradizioni, una rappresentazione tangibile di “appartenenza” a questi luoghi e alla loro storia. L’emigrazione ha strappato molte persone da queste terre . Ancora prima da qui sono passati saraceni, il regno di Napoli, Piemontesi, spagnoli, normanni e molto altro ancora. Quindi la salentinità è sentita come un bene prezioso da difendere da ogni invasione, anche se contaminata da culture diverse. E la lontananza delle istituzioni è molta. E si sente e si tocca con mano questo distacco. In questo pomeriggio domenicale di caldo sole d’autunno, davanti a quel mare a ai piedi di quella torre,  mi sono lasciato andare a questi pensieri.  E ancora una volta mi sono convinto che occorre rendere più solidi i legami fra queste terre e il  nord meno caldo e meno profumato e con colori meno intensi. Perché solo la trasversalità può contro l’imbarbarimento. Perché abbiamo molto da imparare da queste tradizioni e soprattutto abbiamo legami che ci uniscono. In tempi di federalismo, quando si sente parlare di autonomie in molti qui pensano alla sanità scassata, ai trasporti che non ci sono, alla scuola abbandonata a sé stessa. E viene da pensare che gli italiani ora sono fatti, e qualcuno pone come discrimine l’appartenenza a inesistenti padanie, guardando con altezzosità il resto d’Italia. Mentre altri vogliono tracciare nuovi confini lo sforzo dovrebbe essere quello di eliminare barriere.

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