La porta bronzea della basilica Sancta Maria ad Nives di Copertino

Le figure, pur nel loro vitale proporsi, non irrompono prepotenti, non asservono la loro carica alla limitazione del momento, bensì la carpiscono a un’armonia cuneiforme che le rende promanazione di un passato o, se preferiamo, concretezze riassuntive di una scenografia preesistente.

  

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

La creazione di un’opera d’arte che si trovi, già in partenza, condizionata da precisi moduli di collocazione, e quindi subordinata alle esigenze di un contesto ambientale, non può non rivelarsi complessa, se non addirittura difficile. La sua maturazione, infatti, deve scontare in anticipo la prigionia dell’orbita assegnatale, e perciò spesso si svolge in un clima di contrasti, o per lo meno in un conglobamento di motivi non sempre facilmente incastrabili fra di loro.

Per semplificare l’idea, la si potrebbe paragonare alla sorte delle antiche donzelle reali che, promesse spose fin dalla nascita, dovevano dalla più tenera infanzia adeguarsi – a volte torcersi – alle abitudini e culture del popolo che in un domani le avrebbe avute a regine. Il loro, era perciò un crescere nella messa a fuoco della cornice che le avrebbe inquadrate, e ogni giudizio sulla loro adeguatezza al ruolo andava sempre rappresentato in chiave di trapianto.

Un costante gioco di trasposizione che, tornando all’arte, non può che rivelarsi stressante per l’artista, costretto a far marciare insieme la carica creativa e le remore di ordine logistico. Considerazione questa da non dimenticare quando si accede a una valutazione dell’opera, che necessariamente deve essere giudicata nel contesto del suo inserimento, oggettivata cioè non soltanto nelle sue incidenze espressive, ma anche, forse soprattutto, nella sua maggiore o minore concordanza con l’insieme. Che se poi l’insieme è una costruzione antica come la basilica S. Maria ad Nives di Copertino, l’asserto si complica, poiché al di là dei rispetti architettonici, dei rapporti spaziali e delle eventuali fedeltà iconografiche, si impone la necessità di non generare strappi all’atmosfera stessa della costruzione, quell’atmosfera  complessa – impossedibile ma percepibile – che è propria  dei monumenti antichi e contemporaneamente sacri, e che scaturisce non tanto dalla sedimentazione del tempo, quanto da un’avvenuta permealizzazione spirituale. Elemento sottile e pur non di meno determinante per un approccio artistico che, in questo caso, deve essere condotto sul filo dell’avvertibile più che del semplice visibile.

Quasi una sintonizzazione sulle onde del sensoriale che Raffaele Del Savio deve avere bene eseguito durante le sue visite di studio alla Basilica – precedenti e seguenti all’incarico di realizzare in bronzo la porta centrale della chiesa – e intelligentemente teorizzato, tanto da riuscire poi a lievitarne la presenza nella dipanazione dell’opera, che appare appunto come patinata dal passaggio di una luce che la insegue, la raggiunge e la supera in uno stabilirsi di circuito.

Patina che peraltro potremmo definire composita, poiché al di là della luce – che è la risultanza più avvertibile, soprattutto quando si avvita sul tondeggiare delle figure – s’inseriscono delle modulazioni diaframmatiche, quasi parvenze di un tempo vissuto e perciò unificato alla porosità delle scansioni circostanti.

Le figure, infatti, pur nel loro vitale proporsi, non irrompono prepotenti, non asservono la loro carica alla limitazione del momento, bensì la carpiscono a un’armonia cuneiforme che le rende promanazione di un passato o, se preferiamo, concretezze riassuntive di una scenografia preesistente.

Che Raffaele Del Savio abbia solide esperienze scenografiche (è infatti Direttore di Scenografia al Teatro Comunale di Firenze) lo si comprende a primo acchito, e non tanto dall’armonica formulazione delle scene, quanto dall’aver saputo brillantemente risolvere il rischio di un’immanenza del fondo come piano d’appoggio, pervenendo, in virtù di ritmi spaziali ben congegnati, a un’abolizione del piano come superficie geometrica. Le figure, nascendo, già autonomizzate e quindi non soggette a schiacciature di appoggio, incrinano il piano, dissolvendone l’ingrata schematicità, sicché la porta esiste soltanto come proiezione, come orizzonte interno, quindi, ovviamente, assorbita dalla  contestualità delle immagini e felicemente mutata in spessore atmosferico.

Il rapporto diretto esistente tra figure e piano di appoggio ne esce così traslato o,  meglio ancora, incuneato in uno spazio indefinito che può essere l’interno stesso della Basilica o il punto invisibile dai quali il tutto si promana.

Fissare poi in questo punto invisibile – ma intuibile – non soltanto il “la” di una simbolica provenienza, ma anche la focalità di una corresponsione fra nucleo significante e oggettualizzazione artistica, non è, come potrebbe superficialmente apparire, un fuoriluogo; anzi questa, chiamiamola pure appropriazione di latitudine, ci riporta nell’alveo della nostra prima considerazione, quella relativa alle difficoltà elaborative di un’opera destinata in partenza a essere riflesso di un ambiente e, come nel caso, già ordita nella sua tematica.

Per non rischiare falsature di formulazione, Raffaele Del Savio deve infatti aver compiuto un necessario sforzo di immedesimazione, spingendosi indietro nel tempo a meglio recepire non soltanto le annotazioni storiche, più lineari nel loro proporsi, ma anche il clima che li aveva determinate e seguite, e che si poneva come sovrastante scaturigine, cioè come modulo di significazioni etico-religiose. Confluenze propositive, che se pure profondamente intersecate fra di loro nello storicizzarsi degli eventi, richiedevano una specificità di traduzione e quindi una appropriata assegnazione di campi. Occorreva porre delle preminenze, pervenire a una dosatura di rispetti etici che difficilmente avrebbero trovato la giusta evidenza  se – come in un primo momento era stato proposto – l’area della porta fosse stata suddivisa in pannelli autonomi nella formulazione episodica.

Manfredi

Contrario fin dall’inizio a creare inopportuni parallelismi orizzontali – che poi potevano anche tradursi in frammentarietà d’esposizione – l’artista ha trovato felice soluzione nella scelta di una verticalità narrativa che, oltre ad assicurare unicità alla rappresentazione, si attesta come dato ascensionale, cioè come simbolica elevazione di un popolo, del quale appunto interpreta la fede, riassumendone la tangenza in un corposo enuclearsi di sacre immagini. Immagini che, pur campeggiando in un loro alveo di trascendenza , formalmente non si separano dalle rappresentazioni storiche (Posa della prima pietra della Basilica a opera di Goffredo il Normanno; consacrazione della stessa  Basilica  con relativo corteo storico di Manfredi e confluenza processionale del popolo), anzi conglobano le stesse scene , quasi ponendosi a iato fra la gestione della temporalità e il progressivo instaurarsi di una sacralizzazione. E’ come se l’evocazione dell’accaduto (evento storico) trovasse testimonianza, o addirittura conferma, soltanto nell’attestato dell’impetrazione, ossia in quell’intercessione celeste che, nata a frutto dell’accadimento, l’accadimento stesso ha perpetuato, più che come retaggio culturale, come tessuto connettivo della vita spirituale di un popolo. Promessa di un intervento che si eternizza nel materno protendersi della Vergine Maria (soavemente bella nella purezza classica del suo volto), e sembra fluire in una continuità di grazia attraverso le pieghe del suo manto, teso non soltanto verso il tributo iniziale, ma anche chiaramente rivolto al fiorire di un paese, rappresentato da sparsi simboli architettonici, quali la Porta di San Sebastiano, il Castello, il Campanile e non ultimi certo, lo stemma stesso di Copertino e quello della Casa Sveva alla quale apparteneva Manfredi. Simboli rappresentanti una progressione storica, ma anche – lo ripetiamo – una crescita spirituale, che trova chiara esplicazione in un frutto di santità, ossia nella figura di un San Giuseppe da Copertino, la cui ascetica bellezza, agevolata da una positura a metà fra l’estasi e la glorificazione, è certo una delle più riuscite impaginature. Sottolineatura che peraltro non intende assolutamente declassare gli altri momenti scultorei, e meno che mai le scene di aggruppamento  (corteo storico e confluenza di popolo) dove un ritmo ininterrotto sgrava le membra da ogni inerte peso di massa, agevolando l’instaurarsi di un dinamismo vitale ben coadiuvato dall’espressività dei volti. Volti che ci piace scoprire somaticamente meridionali, salentini, precisamente paesani, e non per una malintesa compiacenza campanilistica, ma come ulteriore nota di concordanza intercorrente fra risultanze artistiche e moventi storico-geografici.

san Giuseppe da Copertino

In quest’opera scultorea, infatti, è lo spirito di Copertino tutto a essere conglobato, e non soltanto nella testimonianza di un suo retaggio, appunto, storico, ma anche in un riattualizzarsi di valori, cioè in una riaffermata professione di fede, che è insieme continuità di coscienza civile.

Non sono state proprio e sempre le opere d’arte a testimoniare nei secoli il progresso dei popoli? E nella monumentalità delle chiese non si è sempre inserito, al di là dell’ovvio riferimento al trascendentale, il lievitare stesso delle vicendevolezze umane, magari trasposto in un’istanza di grazia o in un compimento di voto?

Sì, l’arte, soprattutto l’arte sacra, è sempre nata dal binomio vita-coscienza, e quando è stata chiamata a far da pilastro al culto – magari cesellando un battistero, ingentilendo un pulpito o trineggiando un altare – ha rinforzato la sua posizione di sublime intermediaria, operando un’ideale saldatura fra gli aneliti umani e le sollecitudini divine.

Prof. Giovanni Gianese, modellatore dell’opera

Anche la porta scultorea della quale stiamo parlando assurge a tale mansione. Che se poi consideriamo trattarsi della porta centrale della Basilica, il significato si fa ancora più marcato, giacché ne nasce una simbologia decisamente connessa alla vita sociale del paese. La porta centrale di una chiesa, specie se parrocchiale, è il simbolico spazio dove la quotidianità temporale s’impatta con la realtà trascendentale, il varco di salvezza aperto al popolo di Dio, il dischiudersi delle acque del Mar Rosso oltre le quali accedere alla Terra promessa. E’ varcando la soglia di quella porta che si accede al Battistero per diventare figli di Dio; è da quella porta che entrano gli sposi per siglare cristianamente il loro amore; è attraverso quella porta che si entrano le salme per l’ultima benedizione; è sulla soglia di quella porta che durante la Veglia Pasquale si benedice il fuoco, simbolo della luce che vince le tenebre; è lì che si prepara e si accende il Cero Pasquale, simbolo della risurrezione di Cristo e, di conseguenza, della nostra resurrezione.

Prof. Raffaele Del Savio, ideatore dell’opera

Un monumento per sé stessa dunque, la porta centrale di una chiesa, monumento che forse ai più può passare inosservato, ma che pur non di meno si situa nella realtà di ognuno come inescludibile punto di confluenza per gli avvenimenti più significativi del nostro iter umano. Quando poi viene tradotta  in monumento anche visibile, la sua significazione temporale-escatologica può dirsi chiaramente rivelata, tradotta nella sintesi di un simbolico inno che, per una certa analogia di termini e di figurazioni, ci riporta alla mente l’esclamazione di Davide:

Sollevate, voi porte, i vostri timpani

                                                                     e fatevi più alte, o porte antiche,

                                                                     perché il Re della gloria entri per voi!” [1]

[1]

Sacra Bibbia, Salmo 23.7

__________

Dal volume ”La Porta Bronzea”, pubblicato dall’Arcipretura di Copertino in occasione dell’inaugurazione della stessa opera d’arte, realizzata per celebrare il nono centenario della fondazione della Basilica Sancta Maria ad Nives (1088 – 1988).

 

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3 Commenti a La porta bronzea della basilica Sancta Maria ad Nives di Copertino

  1. Non è un commento, il mio, ma semplicemente un chiarimento, quasi una propaggine conclusiva su quanto riguarda la Porta Bronzea in oggetto.
    Dalla nota a piè di pagina si evince che l’articolo è stato tratto da un volume pubblicato in occasione dell’inaugurazione dell’opera d’arte (avvenuta nel 1985, in preparazione alle celebrazioni del nono centenario della Basilica [1088-1988]), il che – denunciando la presenza di più autori – fa da delucidazione sul perché lo stesso articolo si limita al giudizio strettamente critico rinunciando a ogni riferimento informativo. In sintesi, essendo stato affidato ad ogni autore un compito a seconda delle proprie competenze o specializzazioni, va da sé che alla Giulietta sia toccato guardare alla porta dal punto di vista prettamente artistico, tant’è che il titolo originale dell’articolo in seno al volume ha connotazioni ancora più precise: “ETICA ED ESTETICA NELLA PORTA SCULTOREA DELLA BASILICA S. MARIA AD NIVES DI COPERTINO”.
    Affinché il lettore possa però avere una panoramica informativa sul perché, come e quando della realizzazione della Porta, trascrivo qui di seguito un altro articolo – tratto sempre dallo stesso volume -, a firma del geometra Ninì Verdesca:

    “LA PORTA DI BRONZO DELLA CHIESA MATRICE DI S. MARIA AD NIVES”

    Per rendere più decorosa la nostra Chiesa Matrice con una porta in bronzo, il Rev.do Mons. Parroco Don Giuseppe Marulli, d’intesa coi primari cittadini di Copertino, stabiliva di emanare un bando di concorso, che scegliesse il bozzetto più adeguato e più convincente al comune desiderio dell’intera cittadinanza.
    Diamo qui il resoconto del lungo itinerario fino al felice compimento dei lavori.
    Il 23 aprile 1978, fu costituito un comitato per l’esecuzione del migliore progetto, previo invio del Bando di Concorso ai Licei Artistici e agli Istituti d’Arte della Regione Puglia e agli Artisti della Provincia di Lecce.
    Detto comitato era composto da: Arciprete Don Giuseppe Marulli, Dott. Fernando Verdesca, Geom. Ninì Verdesca, Dott. Mario Martina, Prof. Elio Nestola, Prof. Cosimo Esposito, Dott. Ciro Trono, Ins. Corradino Cordella, Geom. Renato Calasso, Sig.na Amalia Cordella.
    Il 24 luglio 1978 pervennero al Comitato, nel tempo stabilito, numero quattro bozzetti; e il 15 novembre subito fu nominata una Commissione giudicatrice del migliore bozzetto, nelle persone del Prof. Carmelo Faraone, scultore, dell’Ing. Pantaleo Baffa, del geom. Ninì Verdesca, della Prof.ssa Vittoria Petito e dell’Arciprete Don Giuseppe Marulli.
    Intanto, già dal 29 novembre 1978 la predetta Commissione, ritenne, da un primo scandaglio, non esauriente la tematica del Bando di Concorso, da parte dei primi concorrenti, perché poco in armonia con l’ambiente esterno della Chiesa.
    Si fecero altre ricerche e si esaminarono altre proposte, finché si giunse al nome del Prof. Raffaele Del Savio, Direttore di scenografia al Teatro Comunale di Firenze, che subito contattato e di comune intesa riceve il mandato di realizzare un bozzetto della Porta, formato da 6 a 8 formelle. Questo dopo qualche tempo, venne presentato in grandezza naturale, ma, per la verità, non piacque, perché solo allegorico e non storico.
    Si arriva, così, al novembre del 1980 – Scrive il Del Savio che, “purtroppo non sono ancora approdato a un risultato veramente valido” per cui rinuncia all’incarico.
    Si riscrive al Professore perché continui ad impegnarsi e a tradurre “figurativamente” (come Egli preferiva) il tema non più a formelle, ma in una scena unica, come appunto la sentiva.
    Giunge, infatti, nel giugno ’81, un bozzetto in gesso della Porta. Questa volta è approvato dal Comitato Parrocchiale, dall’Ordinario Diocesano del tempo, il Vescovo Mons. Antonio Rosario Mennonna – era il 13 giugno 1981 -, dalla Commissione Edilizia Comunale e, poi, dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali Architettonici e Storici, della Regione in data 5 settembre 1981.
    Nello stesso anno, il 6 dicembre, nello studio dell’Arciprete, si firma il contratto per l’esecuzione della Porta col Prof. Raffaele del Savio e lo scultore Giovanni Gianese, da Roma, presentato dallo stesso Del Savio.
    Nel gennaio dell’82 si definisce il prezzo con la fonderia Fratelli Salvadori di Pistoia, sempre tramite il Prof. Del Savio. Il bozzettone del Gianese, tranne qualche correzione, viene approvato a Roma, sotto la guida dell’Arciprete, del sottoscritto e di Del Savio.
    Nel marzo dell’83 vengono spedite da Roma le forme della Porta, nella fonderia Salvadori di Pistoia.
    Le cere vengono fatte nel maggio dell’83.
    L’11 gennaio 1984 vengono spediti i disegni degli stemmi da mettere nel retro della porta e l’epigrafe latina.
    Gli stemmi sono quelli del Papa, del Vescovo Mons. Aldo Garzia e del suo predecessore Antonio Rosario Mennonna, più quello del Capitolo Collegiale di Copertino.
    Il 26 aprile 1984 sono approvati dalla Commissione il telaio e i relativi cardini della Porta; e, nel giugno successivo, si approva il contratto con l’officina per la struttura in ferro.
    Nel novembre 1984, il sottoscritto si reca con l’Arciprete a Pistoia, alla fonderia Salvadori, e insieme al Prof. Del Savio si ammirano i bronzi della Porta, ormai quasi ultimata; si stabilisce la sicurezza della chiusura della stessa e le modalità per l’installazione della medesima.
    Infine, il 22 febbraio ’85 si iniziano i lavori murari nella nostra Chiesa Parrocchiale di S. Maria ad Nives per il consolidamento della struttura che dovrà reggere il peso di Bronzo.
    Tutto sommato, dunque, il lavoro è stato meticoloso e piuttosto lungo; com’è giusto che fosse in vista dell’opera delicata e significativa, che doveva riuscire (come oggi siamo certi) di gradimento all’intera cittadinanza.
    Lo scopo evidente di tutto il lavoro, era quello di lasciare un esplicito segno di devozione e di onore alla Madonna SS.ma della Neve, con la sicurezza che ne sarebbe aumentata la fede e la devozione di tutti i concittadini di S. Giuseppe.
    Per ciò che mi riguarda, posso sicuramente affermare di essere rimasti, per l’intenzione e l’impegno, nella scia della più sentita devozione verso la SS.ma madre di Gesù, e in quella di un lavoro ben fatto che esaudisse le tradizioni e il gusto artistico dell’intera cittadinanza.
    A questo ha guardato sempre tutta la commissione in tutto il decorso dei lunghi sette anni, dall’inizio dell’impresa, alla fine della esecuzione felice. Ad Majorem Dei Gloriam.

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