Ricordo della madre

di Giorgio Cretì

(Inedito)

Un tempo in una di quelle vecchie case della via del Foggiaro abitava una donna buona di carattere e mite d’indole che si chiamava Eleonora ed era detta Nona, De Luca per via del suo patronimico. Vestiva all’antica con sempre indosso il suo vecchio e liso sciuppareddhu(1) nero, stretto in vita da una cinta pure nera e sempre coperto da uno strato visibile di peli di gatto.

Il marito indossava una camicia di fustagno grigio con la pistagna un po’ sfilacciata ed un paio di calzoni di tela domestica un po’ larghi per la sua corporatura, tanto da doverli reggere con un paio di bretelle di corda incrociate. Si chiamava Raffaele ed era conosciuto come Rafeli, Della Luna per via del suo cognome. All’apparenza era un bonaccione anche lui: quando camminava era di una estrema lentezza, al punto che qualcuno sosteneva scherzando che gli ci voleva mezz’ora soltanto per muovere un passo.

Poveretti, marito e moglie, vivevano così soli in quella casa con dietro un piccolo orto sempre ben ordinato e lavoravano come servitori mezzadri per Giuseppe D’Aprile: Rafeli si occupava anche della stalla e lei infilava il tabacco che coltivavano nel terreno intorno all’aia situata proprio dentro al paese. Non avevano amicizie particolari e non avevano più i genitori ch’erano morti da molti anni.

Dall’altra parte della via abitava Giacomino Vattino che, nella cantina cui si accedeva dalla strada, allevava sempre un paio di mucche che poi vendeva per la macellazione. Immancabilmente si incrociavano più di una volta al giorno e si scambiavano l’amichevole saluto dei vicini di casa.

Una mattina Nona, com’era sua abitudine giornaliera, si era fermata sul portoncino del cortiletto di casa con il fazzoletto in mano e si asciugava gli occhi bagnati dal pianto continuo.

Giacomino, che aveva rigovernato le sue mucche, l’aveva osservata a lungo e salendo sulla via le aveva detto “cara”, ch’era come dire “ciao”.

“Nona?”, l’aveva interrogata guardandola in faccia.

“Che dici Giacomino?”, aveva detto lei un po’ sorpresa.

“E’ da un po’ che sono giù in cantina con le bestie e ti ho visto piangere. Dimmi, perché piangi?”

“Eh Giacomino, perché piango? Tu lo sai perché”.

“No, Nona, non lo so. Come posso sapere perché piangi sempre!”.

“Perché ogni volta che mi viene in mente, ogni volta che mi ricordo della mia mamma non posso fare a meno di piangere”.

“Ma chi era più vecchio, tu e lei?”

“Come, Giacomino, ma se era la mia mamma, era lei più veccchia!”

“Nona” la Investì Giacomo, “e non ringrazi Dio che t’ha liberata della sua presenza? Ormai era vecchia, l’età sua l’aveva fatta. Non è passato un anno ch’è morta e nemmeno due o tre, son passati vennt’anni”.

“Ma la mia mamma era una santa donna”.

“E le altre che cosa sono state, Nona?”, insistette e le voltò le spalle.

Scese di nuovo in cantina dove la temperatura era più calda e la lasciò impietrita sul portoncino con ancora in mano il fazzoletto. Per qualche giorno lei gli tolse il saluto. E lo tolse anche a qualche altro vicino di casa.

Fino quando, una notte più fredda del solito Nona e Rafeli si erano chiusi in casa vicino al camino dove stavano al caldo davanti ad un fuoco di legna di fico che non bruciava proprio bene. Si erano preparata una mezza pentola di pan cotto al profumo di alloro ed erano pronti per andare sotto le coperte; il loro gatto bianco leccava la pentola non ancora lavata. Molta gente per le notti del genere faceva ricorso alla monaca(2), che messa con la brace sotto le coperte un po’ prima di coricarsi scaldava le lenzuola e toglieva un po’ di umidità. Poi veniva tolta ed il letto rimaneva caldo finché il suo calore non accoglieva i corpi infreddoliiti che si tenevano caldi poi per tutta notte uno con l’altro. Ma loro non possedevano nessuna monaca e, come tante altre volte, misero un bel po’ di brace nello scaldaletto di rame e con quello scaldarono le loro lenzuola.

La sorte volle, però, che una piccola scheggia di brace cadesse sul saccone di paglia d’orzo senza che se n’accorgessero e rimase a covare anche dopo che i due ebbero preso sonno.

Ma quasi subito dovettero svegliarsi di soprassanto a causa del fuoco che aveva iniziato a bruciare la paglia. In preda al panico altro non seppero fare che spalancare la porta che dava nell’orto: la cosa più sbagliata perchè soffiava aria di tramontana. All’istante tutto il saccone avvampò ed il fumo invase la stanza. Allora si buttarono nella piccola corte che dava sulla strada  e si misero a urlare per chiedere aiuto ai vicini.

Corsero per primi Pippi Ruju  e  con la sua Nichetta cominciarono a buttare acqua sul fuoco. Subito arrivarono anche Giacomino e gli altri vicini e piano piano con aperte le porte dell’orto e della strada e la corrente che si era subito creata, con l’acqua della cisterna comune il fuoco fu spento completamente. Poi i vicini si ritirarono nelle loro case e Nona e Rafeli dovettero riaccendere il fuoco e passare il resto della notte seduti davanti al grande focolare a biasimarsi l’un l’altro per la disattenzione.

(1) Sciuppareddhu. corpetto tessuto al telaio con filo di lana o di cotone, con ampie maniche che si restringevano ai polsi; si chiudeva posteriormente con una serie di bottoni; era indipenndente ma veniva coperto dalla gonna.

(2) Monaca. Attrezzo di legno, formato da due coppie di assicelle ricurve, unite agli estremi, poste lateralmente sopra e al di sotto di una gabbia protettrice che evitava fuoriuscite di faville e teneva sollevate le coperte mentre scaldava le lenzuola. Così si riduceva il tasso di umidità di coperte e di materassi di cui erano pregne nella stagione invernale le case. In altre zone l’attrezzo era detto prete.

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2 Commenti a Ricordo della madre

  1. Nona è una donna sola, tanto riservata da tendere perfino all’autoisolamento. Una vita tranquilla, un po’ anonima, una grande bontà. C’è però nella sua solitudine un forte richiamo all’amore primario, quello materno, il sentimento che mai svanisce e sempre riscalda.
    Forse Eleonora non ha figli o comunque non ne ha vicino a lei, perciò il suo stato emotivo e affettivo è rimasto a quello di figlia, orfana di una madre anziana ma senza tempo. Giorgio Cretì ha riportato alla nostra attenzione un caso universale di sentimento, il cordone ombelicale che mai viene reciso e sempre ci fa nutrire delle cure e dell’immenso affetto di chi ci ha generato. Splendido modo di illustrare il complesso concetto di eternità:
    la donna che genera figli è infinito, amore che vince sulla morte perchè culla prodigiosa di vita.
    E’ naturale che non tutte le sensibilità umane sono affinate al punto di inglobare verità come questa, ed ecco infatti l’ingresso di Giacomino, vicino di casa della protagonista poco avvezzo ad argomenti lontani dalla praticità del sopravvivere e del far di conto: la vita è per lui simile a una delle mucche che alleva e quindi nasce, cresce e, quando arriva il momento, è naturale e giusto che finisca.
    Eleonora rimane ferita dalla brutalità di questo modo di pensare e, di tutta risposta, toglie il saluto all’amico. Sarà lo scampato pericolo dell’incendio di casa, evento che richiamerà l’aiuto di Giacomino come di tutti i vicini, a marcare ancor più il confine tra le diversità umane e la loro invocata armonia: sia per chi crede che per chi non crede, per chi è sensibile e per chi è rude, la vita continua e può farlo solo grazie alla solidarietà di tutti.

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