Il paraclausìthyron di Nardò

di Armando Polito

Non vorrei che il benevolo lettore, suggestionato dall’assonanza dell’unica parola strana che compare nel titolo, pensasse, tanto più che io vivo, si può dire da sempre, a Nardò, che voglia prenderlo in giro o abbia messo in atto il consueto espediente del gioco di parole per attrarre l’attenzione.

Per fugare il suo sospetto e recuperarne integralmente la benevolenza dirò, perciò, senza perdere tempo che  paraclausìthyron è parola greca che fino a qualche decennio fa avrei potuto comodamente tradurre con serenata, o, alla lettera, lamento presso la porta (chiusa), dal momento che essa è composta da parà=presso+klàysis=pianto+thyra= porta.

Oggi le serenate non si usano più e nell’era digitale basta, tutt’al più, un file mp3, mentre la porta da tempo, ormai, è rimasta perennemente aperta lasciando ad altri dettagli il compito di scandire l’eterno gioco non ci sto/ci sto ripensando/ci stooo!!!… e viceversa.

Eppure, quella porta chiusa per millenni è stata ispiratrice di poesia, tanto da diventare un topos letterario. La mia breve carrellata comincerà dalla letteratura greca con Asclepiade di Samo (V-IV secolo a. C.): Lunga è la notte,  è inverno, e declina in mezzo alle Pleiadi; ed io, grondante di pioggia, cammino davanti alla sua porta, trafitto dalla brama di lei, l’ingannatrice. Non un amore Cipride1, ma un dardo doloroso di fuoco mi ha gettato (traduzione di Gennaro Perrotta).

Se l’innamorato di Asclepiade si muove sia pure in uno spazio circoscritto e si esprime in toni narrativi, altri dalla porta non li spostano neppure le cannonate (si fa per dire, considerando la cronologia…).

E nel Curculio di Plauto (III-II secolo a. C., siamo già passati agli autori latini) la serenata ancora una volta non è dedicata alla donna amata, ma alla serratura della porta: Chiavistelli, chiavistelli, io vi saluto volentieri, vi amo, vi voglio, vi cerco e vi scongiuro: fate un favore a me innamorato, amabilissimi, diventate per me selvaggi ballerini! Saltate, vi scongiuro, e fate venir fuori colei che ha bevuto il sangue all’infelice innamorato! Ma guarda un po’ come dormono queste chiaviche di chiavistelli2 e non si smuovono per farmi questo favore!3 (la traduzione, questa volta, è mia e mia sarà anche quella dei brani che seguiranno).

La situazione non cambia con Catullo (I secolo a. C.): Una crudele custodia è stata posta alla mia ragazza e la porta è chiusa, sbarrata da un insensibile chiavistello. O porta spietata con la mia signora, ti sferzi la pioggia, ti colpiscano i fulmini mandati per ordine di Giove! O porta, apriti ormai a me solo, commossa dal mio lamento e non far rumore quando furtivamente il tuo battente si apre!4

Alla porta Properzio (I secolo a. C.) dedica un’intera elegia e la fa parlare in prima persona: Io che un tempo mi ero aperta ai grandi trionfi, porta nota all’onestà di Tarpea5, le cui soglie calcarono i carri cinti di alloro, bagnate dalle supplichevoli lacrime dei vinti, ora io, ferita dalle risse notturne degli ubriachi, spesso mi lamento toccata da mani indegne; e turpi corone non mancano sempre di essere appese e fiaccole, segno di un innamorato respinto, di giacere a terra. Né posso difendere le notti dell’infame padrona, io nobile sommersa da canti osceni. Nè tuttavia essa si guarda bene dall’onorare la sua reputazione e di non vivere come una svergognata nel libertinaggio del (nostro) tempo. Nel frattempo sono costretta presa dalla tristezza a piangere le ahimè lunghe veglie di un pretendente che supplica. Egli non lascia mai in pace i miei battenti intonando canti di un’arguzia carezzevole: “Porta, più crudele anche della padrona che sta dentro, perché non mi parli chiusa nel tuo impervio passaggio? Perché mai aperta non accogli il mio amore, incapace di tener conto commossa delle (mie) furtive preghiere? Nessuna fine sarà concessa al mio dolore? E il mio sonno sarà triste e sulla tiepida soglia? Hanno pietà di me che giaccio le mezzenotti, le stelle che calano e la fredda brezza col suo gelo orientale. Tu sola, mai impietosita dei dolori umani, rispondi coerente con i muti cardini. Volesse il cielo che la mia flebile voce passando attraverso uno spiraglio entrasse nelle orecchie della padrona dopo averle raggiunte! (Così) sia per quanto essa sia più dura dell’Etna, (così) sia per quanto sia più dura anche del ferro e dell’acciaio: non potrà tuttavia chiudere gli occhi ed emetterà un sospiro mentre piange controvoglia. Ora giace avvinta dal braccio felice di un altro mentre le mie parole si perdono nella brezza notturna. Ma tu sola, o porta, sei la più grande causa del mio dolore, mai vinta dai miei doni. Nessuna petulanza della mia lingua ti offese, quelle parole volgari che suol dire lì per lì un adirato. Come puoi tollerare che io con la voce affievolita per un lamento così lungo vegli soffrendo su una strada? Eppure spesso ti dedicai canti dal verso nuovo e stampai baci prostrato sulla tua soglia. Quante volte, ingrata, mi volsi ai tuoi battenti e ti feci le dovute offerte senza che gli altri se ne accorgessero!”. Questo mi dice e, se qualcosa sapete voi amanti infelici, lo va strepitando pure agli uccelli mattutini. Così io ora a causa dei vizi della padrona e dei pianti di chi è sempre innamorato sono oggetto di eterna impopolarità.

La serenata è indirizzata dall’innamorato non alla porta ma allo schiavo portinaio in Ovidio (I secolo a. C. – II secolo d. C.): O portinaio, cosa indegna!, legato alla dura catena, apri questa porta ostile facendo ruotare il cardine! Ciò che ti chiedo è poco: fa’ che la porta semiaperta con uno stretto varco consenta al mio fianco di passare di traverso! Un lungo amore a tale scopo fece dimagrire il corpo e col peso ridotto rese le membra adatte; esso mostra di procedere leggermente tra le veglie dei custodi, esso dirige i passi silenziosi. Ma un tempo temevo la notte e i suoi fantasmi e suscitava in me stupore chiunque si accingesse a uscire. Rise Cupido con la tenera madre perché io sentissi e lievemente disse: “Anche tu diventerai forte”. Senza indugio venne l’amore; non temo le ombre che svolazzano di notte, non temo le mani in agguato contro di me; temo te troppo indifferente, a te solo mi rivolgo amorevolmente; tu hai nelle mani il fulmine col quale potresti distruggermi. Guarda, per vederlo socchiudi i crudeli battenti, come la porta è diventata madida delle mie lacrime. Certo io, mentre tu stavi con la veste abbassata a ricevere le frustate, dissi alla padrona parole a favore di te che tremavi. Dunque, quell’intervento che un tempo valse pure a tua difesa, che peccato!, ora vale poco a mio favore? Restituiscimi il favore, è lecito ad uno riconoscente che avvenga ciò che il benefattore desidera. È notte; togli la sbarra dalla porta, toglila! Così, dico, possa tu affrancarti dalla lunga schiavitù e da te non sia bevuta per sempre l’acqua dei servi! Ma tu, portinaio, ascolti invano col cuore di ferro la mia preghiera: è resistente la porta rinforzata con dure tavole di quercia. Alle città assediate giova la difesa della porta chiusa: con la pace in atto perché temi le armi? Che farai al nemico tu che così tieni lontano uno che ama? È notte, togli la sbarra dalla porta! Io non vengo accompagnato da soldati e armi: sarei solo se non ci fosse il crudele Amore; non potrei per nulla, se lo volessi, mandarlo via, prima vorrei essere separato dal mio corpo. Dunque con me è Amore e poco vino attorno alle tempie e una ghirlanda scivolata dalle madide chiome (è reduce da un banchetto). Chi avrebbe paura di queste armi? Chi non verrebbe loro incontro? È notte, togli la sbarra dalla porta! Sei indifferente oppure il sonno, che ti mandi in malora!, sparge al vento le parole dell’innamorato respinte dal tuo orecchio? Ma, ricordo, innanzitutto, quando volevo nascondertele tu eri sveglissimo nel pieno della notte. Forse anche con te ora giace la tua amante: ahimè, quanto è migliore la tua sorte della mia! Purché sia così, passate a me, dure catene! È notte, togli la sbarra dalla porta! Mi sbaglio o i battenti cigolarono sul cardine in movimento e la porta scossa ha mandato un roco segnale? Mi sbaglio: la porta è stata colpita dal vento impetuoso. Ahimè, quanto lontano il vento porta la mia speranza! O Borea, se sei memore a sufficienza del ratto di Orizia7, vieni qui e col tuo soffio colpisci queste sorde porte! Tutto tace in città ed è il tempo della notte madida di vitrea rugiada; togli la sbarra dalla porta, oppure io ormai alquanto risoluto assalirò la casa superba col ferro e col fuoco che reggo con la fiaccola! La notte, l’amore e il vino non invitano ad un comportamento moderato: essa è priva di pudore, Bacco e Amore di paura. Ho tentato di tutto e non ti ho spostato di un millimetro né con le preghiere né con le minacce, o portinaio più duro della tua porta. Non ti sarebbe convenuto vigilare le soglie di una bella ragazza, ma saresti stato degno di un carcere di massima sicurezza. E già Lucifero8 prepara il cielo pieno di brina e il gallo sveglia gli infelici alle loro occupazioni. Ma tu, senza esserti tolto la ghirlanda dai tristi capelli, giaci per tutta la notte sulla dura soglia! Tu (rivolto alla ghirlanda) sarai testimone alla signora, quando al mattino ti vedrà gettata a terra, del tempo così malamente speso. Chiunque tu sia, addio, e senti la dignità di chi si allontana, tu indifferente e ripugnante per un innamorato non accolto, addio! Anche voi, stipiti crudeli insieme con la rigida soglia e voi duro legno, porte compagne di schiavitù, addio!9         

       

E un distico tratto dalla stessa opera (Amores, I, 8, 77-78) compare in un graffito pompeiano (CIL IV, 1893) a riprova della grande popolarità del tema e di un malcostume antico che non risparmia neppure l’amore (?): Surda sit oranti tua ianua laxa ferenti/audiat exclusi verba receptus amans (La tua porta sia sorda a chi supplica, aperta per chi porta (doni), l’innamorato accolto ascolti le parole di quello respinto). E sempre a Pompei, graffito (CIL IV, 1894), un distico di Properzio (IV, 5, 47-48): Ianitor addantis vigilet si pulsat inanis/surdus in obductam somniet usqu[e] seram (Il portinaio resti sveglio in presenza di qualcono che offre, se bussa uno a mani vuote dorma sordo senza interruzione presso la serratura chiusa)10.

Passeranno i secoli e nel 1981 Eduardo De Crescenzo in Ancora di Migliacci-Mattone canterà: È notte alta e sono sveglio/e mi rivesto e mi rispoglio,/mi fa smaniare questa voglia/che prima o poi farò lo sbaglio/di fare il pazzo, venir sotto casa,/tirare sassi alla finestra accesa, prendere a calci la tua porta chiusa, chiusa…

– Paraclausìthyron,  autori greci, latini, graffiti pompeiani, canzoni. Ci mancano solo i crateri lunari; – mi pare di sentir dire spazientiti i pochi lettori che hanno fin qui retto -e Nardò?-.

Nel secondo volume di Canti popolari delle provincie meridionali (che fa parte del secondo volume della collana Canti e racconti del popolo italiano, a cura di D. Comparetti e A. D’Ancona, Loescher, Roma, Torino, Firenze, 1871) Antonio Casetti e Vittorio Imbriani raccolsero passim e in modo continuato alle pagine 296-332 alcuni canti di Nardò. In due, in particolare, si sente l’eco del paraclausìthyron, anche se diluito nell’invocazione di quello che sembra essere più un generico ammiratore che un vero e proprio innamorato di una donna che, tutto sommato, mi appare meno libera di quella di epoca greca e romana.

A pag. 149: Aprite, porta, ci stai sempre chiusa,/aprite, porta, lu friscu cu trasa;/aprite cu ssi vida ‘sta carusa;/dice ca nc’ete lu splandore a casa./Alla soa canna nu’ tene catina,/de perle nu’ l’ha fatta la furtuna; e lu sou camenatu è de Rrecina,/e po’ stare a paraggiu culla luna. (Apriti, porta, se stai sempre chiusa, apriti, porta, perché entri il fresco; apriti perché si veda questa ragazza; dicono che c’è lo splendore in casa. Al collo non reca catenina, la fortuna non l’ha fatta di perle e il suo incedere è di Regina e può stare alla pari con la luna).

E, con sostituzione del muro alla porta, a pag. 305: Crudelissimu muru, empiu e spietatu/voi chi la beddha mia chiusa tinete,/sinti di duru marmu fabricatu,/ti prego ar piantu mmiu cu bi muvete,/ca do’ grazie ti cercu a ‘n caritate,/una di queddhe doi farmi potete:/o date alla mmia beddha libirtate,/ o mme cascate sobra e mme ‘ccidete (Crudelissimo muro, empio e spietato, voi che tenete chiusa la mia bella, sei11 fabbricato con duro marmo, ti prego di commuoverti al mio pianto, perché due grazie ti chiedo per carità; una delle due potete farmela: o date alla mia bella libertà o cascatemi sopra ed uccidetemi).

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1 Appellativo di Venere, che era particolarmente onorata nell’isola di Cipro.

2 Traduco così per conservare il gioco di parole dell’originale pessuli pessumi, che alla lettera sarebbe chiavistelli pessimi.

3 Pessuli, heus, pessuli, vos saluto lubens,/vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro:/gerite amanti mihi morem, amoenissumi,/fite causa mea ludii barbari./Sussilite, obsecro, et mittite istanc foras,/quae mihi misero amanti ebibit sanguinem./Hoc vide, ut dormiunt pessuli pessumi/nec mea gratia commovent se ocius!

4 Elegie,  I, 2, vv. 5-10: Nam posita est nostrae custodia saeva puellae,/clauditur et dura ianua fulta sera./Ianua difficilis dominae, te verberet imber,/te Iovis imperio fulmina missa petant./Ianua, iam pateas uni mihi, victa querelis,/neu furtim verso cardine aperta sones.

5 Figlia di Spurio Tarpeo, custode della rocca capitolina.  Secondo una tradizione, pur di impossessarsi dei bracciali d’oro dei Sabini, Tarpea chiese al re Tito Tazio quei gioielli in cambio del passaggio alla rocca, ma i Sabini, una volta penetrativi, invece di darle il premio prommesso la uccisero con i loro scudi e la fecero precipitare dalla rupe. Secondo un’altra tradizione Tarpeia sarebbe tutt’altro che una traditrice perché in cambio dell’apertura della porta avrebbe chiesto ai soldati sabini di darle ciò che portavano al braccio sinistro, lo scudo, così che potessero essere sopraffatti dai soldati romani avvertiti da un messaggero. Quest’ultimo però tradì e i Sabini per vendicarsi soffocarono Tarpea con i loro scudi.

6 Elegie, I, 16: Quae fueram magnis olim patefacta triumphis,/ianua Tarpeiae nota pudicitiae,/cuius inaurati celebrarunt limina currus,/ captorum lacrimis humida supplicibus;/ nunc ego, nocturnis potorum saucia rixis,/pulsata indignis saepe queror manibus;/et mihi non desunt turpes pendere corollae/semper, et, exclusi signa, iacere faces. Nec possum infamis dominae defendere noctes,/nobilis obscoenis tradita carminibus./Haec inter gravibus cogor deflere querelis/supplicis ah longas tristior excubias./Ille meos numquam patitur requiescere postes,/arguta referens carmina blanditia:/”Ianua, vel domina penitus crudelior ipsa,/quid mihi tam duris clausa taces foribus?/Cur numquam reserata meos admittis amores,/nescia furtivas reddere mota preces?/Nullane finis erit nostro concessa dolori?/Tristis et in tepido limine somnus erit?/ Me mediae noctes, me sidera prona iacentem,/frigidaque eoo me dolet aura gelu./Tu sola humanos numquam miserata dolores/respondet tacitis mutua cardinibus,/O utinam traiecta cava mea vocula rima/percussas dominae vertat in auriculas!/Sit licet et saxo patientior illa Sicano,/sit licet et ferro durior et chalybe:/non tamen illa suos poterit compescere ocellos,/surget et invitis spititus in lacrimis./Nunc iacet alterius felici nixa lacerto;/ at mea nocturno verba cadunt Zephyro./ Sed tu sola mei, tu maxima causa doloris,/victa meis numquam, ianua, muneribus./Te non ulla mear laesit petulantia linguar,/quae solet iratus dicere trita loco: ut me tam longa raucum patiare querela/sollicitas trivio pervigilare moras./At tibi saepe novo deduxi carmina versu,/osculaque impressis nixa dedi gradibus./Ante tuos quoties verti me, perfida, postes,/debitaque occultis vota tuli manibus!”./Haec ille, et si quae miseri novistis amantes,/et matutinis obstrepit alitibus./Sic ego nunc dominae vitiis, et semper amantis/fletibus, aeterna differor invidia.

7 Figlia del re di Atene Eretteo; rapita da Borea e da lui sposata ebbe i figli Zete e Calai.

8 O Venere, stella del mattino.

9 Amores, I, 6: Ianitor, indignum!, dura religate catena,/difficilem moto cardine pande forem!/Quod precor, exiguum est, aditu fac ianua parvo/obliquum capiat semiadaperta latus./Longus amor tales corpus tenuavit in usus/aptaque subducto pondere membra dedit./Ille per excubias custodum leniter ire/monstrat: inoffensos derigit ille pedes./At quondam noctem simulacraque vana timebam;/mirabar, tenebris quisquis iturus erat./Risit, ut audirem, tenera cum matre Cupido/et leviter “fies tu quoque fortis” ait./Nec mora, venit amo, non umbras nocte volantis,/non timeo strictas in mea fata manus./Te nimium lentum timeo, tibi blandior uni;/tu, me quo possis perdere, fulmen habes./Adspice -uti videas, inmitia claustra relaxa-/uda sit ut lacrimis ianua facta meis!/Certe ego, cum posita stares ad verbera veste,/ad dominam pro te verba tremente tuli./Ergo quae valuit pro te quoque gratia quondam/- heu facinus! – pro me nunc valet illa parum?/Redde vicem meritis! grato licet esse quod optas./Tempora noctis eunt; excute poste seram!/Excute! sic, inquam, longa relevere catena,/nec tibi perpetuo serva bibatur aqua!/Ferreus orantem nequiquam, ianitor, audis,/roboribus duris ianua fulta riget./Urbibus obsessis clausae munimina portae/prosunt; in media pace quid arma times?/Quid facies hosti, qui sic excludis amantem?/Tempora noctis eunt; excute poste seram!/Non ego militibus venio comitatus et armis;/solus eram, si non saevus adesset Amor./Hunc ego, si cupiam, nusquam dimittere possum;/ante vel a membris dividar ipse meis./Ergo Amor et modicum circa mea tempora vinum/mecum est et madidis lapsa corona comis./Arma quis haec timeat? quis non eat obvius illis?/Tempora noctis eunt; excute poste seram!/Lentus es: an somnus, qui te male perdat, amantis/verba dat in ventos aure repulsa tua?/At, memini, primo, cum te celare volebam,/pervigil in mediae sidera noctis eras./Forsitan et tecum tua nunc requiescit amica/heu, melior quanto sors tua sorte mea!/Dummodo sic, in me durae transite catenae!/Tempora noctis eunt; excute poste seram!/Fallimur, an verso sonuerunt cardine postes,/raucaque concussae signa dedere fores?/Fallimur, inpulsa est animoso ianua vento./Ei mihi, quam longe spem tulit aura meam!/Si satis es raptae, Borea, memor Orithyiae,/huc ades et surdas flamine tunde foris!/Urbe silent tota, vitreoque madentia rore/tempora noctis eunt; excute poste seram!/Aut ego iam ferroque ignique paratior ipse,/quem face sustineo, tecta superba petam./Nox et Amor vinumque nihil moderabile suadent;/illa pudore vacat, Liber Amorque metu./Omnia consumpsi, nec te precibusque minisque/movimus, o foribus durior ipse tuis./Non te formosae decuit servare puellae/limina, sollicito carcere dignus eras./Iamque pruinosus molitur Lucifer axes,/inque suum miseros excitat ales opus./At tu, non laetis detracta corona capillis,/dura super tota limina nocte iace!/Tu dominae, cum te proiectam mane videbit,/temporis absumpti tam male testis eris./Qualiscumque vale sentique abeuntis honorem;/lente nec admisso turpis amante, vale!/Vos quoque, crudeles rigido cum limine postes/duraque conservae ligna, valete, fores!

10 A tal proposito mi viene in mente il neretino tuzzàre cu lli pièti (bussare con i piedi, perché le mani sono occupate…).

11 Da notare il passaggio repentino dal voi al tu; ma è una continua altalena perché più avanti s’incontra: bi movete, ti cercu, farmi potete; ma alla fine è il voi a prevalere: date, cascate, ‘ccidete.

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3 Commenti a Il paraclausìthyron di Nardò

    • Caro Angelo, tu fai il malizioso, ma hai trovato pane per i tuoi denti…
      Premesso che in tutti i testi citati, antichi e moderni, i dettagli non lasciano spiraglio, secondo me, ad un’interpretazione metaforica della porta e dei suoi battenti, la mia fantasia e la mia tendenza ad “attualizzare” (pur nel rispetto, nella misura in cui ne sono capace, del rigore scientifico) l’antico, nel post ho scritto, quasi all’inizio, “la porta da tempo, ormai, è rimasta perennemente aperta lasciando ad altri dettagli il compito di scandire l’eterno gioco non ci sto/ci sto ripensando/ci stooo!!!… e viceversa”.
      E in quel “stooo!!!”, fra l’altro, puoi riconoscerci pure l’inizio di un orgasmo, anche se ora correrò il rischio di apparire come un maniaco più sessuale che sensuale…

      • aNGELO HAI RAGIONE, tuttavia la nostra epoca in cui il sesso è spiegato e raccontato senza alcuna remora, è ben più pudica della lingua romana all’epoca di Catullo in cui ben si distingue l’osculum dal Basium ” …. mihi basia mille…..” Noi diciamo Bacio per qualunque interpretazione! Anch’io Angelo

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