Il castello di Ugento e le decorazioni pittoriche che ornano le sue volte (seconda parte)

La “sciarada estetica” dei d’Amore nel salone del castello di Ugento (seconda e ultima parte)

di Daniela De Lorenzis

Ugento, palazzo d’Amore, particolare degli affreschi sulla volta del salone (Venere e Cupido), (foto A. Bonzani)

… Cultura, tenore di vita e intento autocelebrativo dei nuovi insediati si evincono dalla lettura degli affreschi che ornano le volte del palazzo, ma soprattutto da quelli presenti nel salone ubicato nell’“Appartamento antico”.

In questo ambiente, «la lamia gaveda dipinta a fresco»[i] esibisce una complessa impalcatura iconografica, interessante non tanto per la resa pittorica piuttosto modesta (fatta eccezione per gli stemmi che presentano una fattura meno approssimativa)[ii], quanto per i significati che sottende: è evidente, da una parte, l’intento di celebrare la lucida politica matrimoniale dei d’Amore – volta a evitare l’estinzione del casato, ma anche un eccessivo frazionamento dei beni patrimoniali – dall’altra di rendere in chiave mitica un tributo alla virtus della stirpe, o di singoli membri, quali dispensatori di benessere e prosperità per il feudo.

Al centro della volta campeggiano le figure di Mercurio, Venere, Cupido e, probabilmente, Giove[iii], fra loro collegate dallo svolazzo di un lungo e sinuoso drappo rosso, simbolo della natura passionale dell’Amore.

Il leit-motiv che informa le decorazioni pittoriche sembrerebbe essere dunque il tema amoroso con evidente allusione al cognome d’Amore, ma anche alle vicende familiari dei marchesi[iv]: negli stessi anni in cui sono realizzati gli affreschi, infatti, Francesco e Nicola d’Amore impalmano rispettivamente Anna Maria Basurto e Camilla d’Amore, ossia la vedova e la figlia del defunto marchese Giuseppe d’Amore, erede del maggiorato.

Gli affreschi del salone celebrano dunque queste doppie nozze, avvenute tra il 1695 e il 1697, ma i cui capitoli matrimoniali erano stati stipulati già nel 1691.

Non è un caso, del resto, che i due stemmi della famiglia al centro della volta sono posti in asse con le raffigurazioni mitologiche che sono per eccellenza l’esaltazione dell’amore, proponendo in successione le figure di Venere e Cupido, del primo stemma dei d’Amore sul quale Venere depone una corona, del secondo stemma dei d’Amore sul quale Cupido depone un’altra corona e, infine, di Venere e Adone.

La sequenza autorizza pertanto a ritenere che ci si trovi di fronte a una sorta di sciarada estetica non solo allusiva al cognome della famiglia, ma volta ad esaltare quell’amore alla base delle unioni matrimoniali bene assortite, in quanto generatrici di prosapia.

Quanto argomentato sembra trovare un’ulteriore conferma nelle rappresentazioni poste al centro dei lati lunghi della volta dove, ad affrontarsi simmetricamente, sono le due scene che ritraggono  Venere e Cupido, e Venere e Adone. Come due facce della stessa medaglia, i due miti sembrano vertere sul duplice tema dell’Amor sacro e dell’Amor profano, essendo Venere una figura ambivalente che può personificare tanto il piacere sensuale, quanto la sacralità del vincolo matrimoniale.

Ugento, palazzo d’Amore, particolare degli affreschi sulla volta del salone (Gea, Saturno, Cerere), (foto A. Bonzani)

In conformità con quanto tramandato dai mitografi rinascimentali, nella prima scena Venere è ritratta distesa seminuda a simboleggiare il duplice rischio nel quale incorre colui che si abbandona al piacere sensuale: essere spogliato di ogni bene, ed essere scoperto nelle proprie trame amorose.

Fedele compagno della dea è Cupido – simbolo della forza dell’amore che dona la vita – raffigurato con arco, frecce e faretra insieme ad un altro putto alato, mentre si librano al di sopra di una veduta della città di Ugento che, in questo contesto narrativo, assurge a vero e proprio locus amoenus, scenario deputato alla rappresentazione dell’amore.

Nel riquadro antistante sono raffigurati Venere e Adone. La favola di Adone – giovane cacciatore amato da Venere che, non ascoltando i consigli della dea di cacciare solo animali piccoli, viene ucciso da un cinghiale – è narrata nel X libro delle Metamorfosi di Ovidio (vv. 710-739). L’epilogo della favola è noto: Venere, addolorata per la perdita dell’amante, fa nascere dei fiori rossi (anemoni) dal sangue sgorgato dalla ferita di Adone. Con le sue preghiere ottiene inoltre da Proserpina che Adone, ogni anno, possa trascorrere sei mesi sulla terra, e così ogni anno la trasformazione del sangue del giovane in anemone celebra l’anniversario della sua morte e rinascita per volere della dea. La favola di Adone simboleggia, dunque, il mistero della fecondità della natura e del suo perpetuo morire e rifiorire. La trasformazione in fiore assume qui il significato di una metamorfosi positiva, poiché sta a simboleggiare la rinascita e dunque la resurrezione: il giovane cacciatore muore, ma per volere di una divinità rinasce a nuova vita grazie alla metamorfosi in fiore, e con questo espediente potrà vivere per sempre[v].

. Ugento, palazzo d’Amore, particolare degli affreschi sulla volta del salone (Nettuno con due divinità marine), (foto A. Bonzani)

Stringente è l’accostamento del mito in oggetto con le vicende familiari dei marchesi. Giuseppe d’Amore, dedito all’arte venatoria, muore il 9 dicembre 1690 per aver contratto la malaria a seguito di una battuta di caccia in contrada “Mammalie”, nel feudo di Ugento. è proprio la sua scomparsa prematura a dar luogo a una complessa vertenza giudiziaria. Il marchese Giuseppe era infatti morto senza lasciare eredi maschi, ma solo due figliolette – Camilla e Antonia, ancora in età “pupillare” – nate dal matrimonio con Anna Maria Basurto. In ossequio con le disposizioni del capostipite Pietro Giacomo, Giuseppe lascia testamentariamente il feudo e il maggiorato al cugino Nicola come primo maschio della linea collaterale di Giovan Battista d’Amore. A questa disposizione si oppone Anna Maria Basurto, che propone di dichiarare nullo il testamento del marito Giuseppe al fine di favorire la figlia Camilla immettendola nella successione.

Il contenzioso tra le due parti si risolve con la sentenza del 1° febbraio 1691 che stabilisce che tutti i beni feudali e burgensatici del defunto marchese Giuseppe spettano al cugino Nicola il quale, a sua volta, si obbliga a corrispondere a Camilla e ad Antonia d’Amore la “legittima” di 22.000 ducati ciascuna con l’impegno di impalmare Camilla, mentre i fratelli Giacomo I e Francesco avrebbero sposato rispettivamente Antonia d’Amore e Anna Maria Basurto. Il passaggio di consegne da una linea all’altra è così portato a compimento: in questo modo il ramo dei marchesi di Ugento, estinto con la morte di Giuseppe, rifiorisce nella progenie nata dal ramo collaterale attraverso questo triplice matrimonio tra consanguinei.

Anche le figure mitologiche, disposte in gruppi di tre, che affiancano le due scene principali sono in qualche modo legate al tema di fondo: così, a fiancheggiare Venere e Cupido, abbiamo da una parte il riquadro con Vesta (protettrice del focolare domestico che aveva il compito di santificare la casa), Vulcano (dio del fuoco metallurgico rivolto verso le potenze ostili, che forgia le armi di Amore) e Mercurio (messaggero degli dei che aveva il compito di proteggere dal male e di propiziare una buona sorte, oltre che di “svelare” i misteri d’Amore); (Fig. 5) dall’altra la triade raffigurante Gea (dea madre della terra, simbolo della natura e della forza creatrice, è colei che costruisce la falce adamantina con la quale il figlio Saturno evira il padre Urano), Saturno (divinità legata allo scorrere del tempo e all’agricoltura, personificazione della prosperità, del benessere e della ricchezza) e Cerere (dea della fertilità, dei campi e del grano, dedita alle storie familiari).

Ugento, palazzo d’Amore, particolare degli affreschi sulla volta del salone (Aurora tra le muse Tersicore e Talia), (foto A. Bonzani)

A queste divinità fanno da contrappunto, sul lato opposto, quelle che fiancheggiano la scena di Venere e Adone: nel primo riquadro campeggia Nettuno (dio del mare dall’aspetto ctònio, infernale, in quanto aveva il potere di scatenare o di placare le tempeste) accompagnato da due divinità femminili prive di attributi (forse due ninfe, delle quali una indica la scena con Venere e Adone, probabile allusione alla nascita della dea dalle spume del mare); nel secondo riquadro, invece, è raffigurato il trio costituito da Giunone (antica divinità del matrimonio e del parto, simbolo della fedeltà coniugale, sotto la cui protezione si ponevano le unioni matrimoniali e le nascite) e Diana (dea vergine per eccellenza, simbolo di castità e per questo protettrice delle giovani fanciulle sino al momento del matrimonio) insieme ad un’altra divinità femminile non bene identificata[vi].

Dunque, alla base di ognuna delle quattro triadi allegoriche sembrerebbe esserci un significato sotteso volto a propiziare i migliori auspici per una felice unione matrimoniale e consortile: fortuna e protezione per il casato (rappresentati da Vesta, Vulcano e Mercurio) contro la mala sorte (personificata da Nettuno e dalle due divinità marine); castità prematrimoniale e fedeltà coniugale (incarnate da Diana e Giunone); forza creatrice, prosperità e fecondità (simboleggiate dal trio Gea, Saturno, Cerere).

Completano l’impalcatura iconografica della volta le figure contrapposte di Minerva (dea saggia e accorta che rifugge le passioni amorose) e di Aurora (simbolo di speranza e di rinascita) stagliate al centro dei lati brevi e coronate ciascuna da una coppia di tritoni e una coppia di nereidi poste a mo’ di elementi decorativi di raccordo con la parte soprastante della volta.

Agli angoli sono invece raffigurate quattro muse (accompagnate, non a caso, dagli attributi di Giove) la cui presenza – oltre a costituire un motivo ornamentale di repertorio nella strutturazione degli apparati decorativi barocchi – è contemplata soprattutto in occasione di importanti celebrazioni, affinché cantassero le gesta eroiche o le imprese di un casato.

Non appare casuale, infatti, che delle nove muse sono raffigurate solo Erato (poesia amorosa), Euterpe (poesia lirica), Tersicore (poesia leggera e danza) e Talia (poesia pastorale), ognuna in atto di suonare uno strumento musicale (triangolo, flauto, lira, viola), probabile allusione alla transitorietà delle passioni terrene, ma soprattutto al dualismo dei sessi; prova ne sia che le muse che suonano gli strumenti a fiato e a percussione (come il flauto e il triangolo, simboli del maschile) si trovano sullo stesso lato dei motivi decorativi con i tritoni, mentre le muse che suonano gli strumenti a corda (la lira e la viola, rappresentativi del femminile) campeggiano sul lato opposto, al di sotto delle nereidi.

L’apparato celebrativo e propiziatorio allestito nel salone dalla famiglia marchesale non valse, tuttavia, a scongiurare la continua minaccia di estinzione e di débâcle economica cui il casato andò incontro negli anni successivi. Tant’è vero che alla scomparsa di Nicola e Francesco d’Amore – deceduti entrambi nel 1702, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro – l’ascesa della famiglia subisce un arresto improvviso e relativamente precoce, causa il salasso subito dai beni patrimoniali a seguito dei ripetuti contenziosi feudali volti ad assegnare il maggiorato ai diversi pretendenti alla successione.

 

Bibliografia essenziale

L. Antonazzo, Guida di Ugento. Storia di una città millenaria, Galatina 2005, 51-55.

A. Cassiano, Simboli e allegorie nei cicli pittorici, in V. Cazzato, V. Basile (a cura di), Dal castello al palazzo baronale. Residenze nobiliari nel Salento dal XVI al XVIII secolo, Galatina 2008, 294-307.

A. Cassiano, Decorazioni scenografiche nei palazzi aristocratici del Salento, in Atlante tematico del Barocco in Italia. Residenze nobiliari. Italia meridionale, Roma 2010, 281-286.

V. Cazzato, Dèi, Virtù ed eroi nei palazzi baronali, in V. Cazzato, Il Barocco leccese, Bari 2003, 65-66.

V. Cazzato, Dal castello al palazzo baronale: fenomenologia degli interventi nelle residenze nobiliari del Salento, in Atlante tematico del Barocco in Italia. Residenze nobiliari. Italia meridionale, a cura di M. Fagiolo, Roma 2010, 182-194.

M. Cazzato, La Galleria: storia e sviluppi nella Puglia meridionale, in V. Cazzato, V. Basile (a cura di), Dal castello al palazzo baronale. Residenze nobiliari nel Salento dal XVI al XVIII secolo, Galatina 2008, 326-333.

F. Corvaglia, Ugento e il suo territorio, Galatina 1976-87.

D. De Lorenzis, Forme di potere e dimensione spaziale: i d’Amore a Ugento e la ristrutturazione del castrum in palatium, in Atlante tematico del Barocco in Italia. Residenze nobiliari. Italia meridionale, Roma 2010, 227-236.

B. Guthmuller, Il mito e la tradizione testuale (le Metamorfosi di Ovidio), in C. Cieri Via (a cura di), Immagini degli dei. Mitologia e collezionismo tra ‘500 e ‘600, Milano 1996, 22-28.

W. Prinz, Galleria: storia e tipologia di uno spazio architettonico, a cura di C. Cieri Via, Modena 1988.

E. Ricca, Discorso genealogico delle famiglie d’Amore e Leoni estratto dall’Istoria del feudo di San Mango, Napoli 1872, 3-33.


[i] ASN, Giustizia, Processi Antichi, Pandetta Corrente, atto del 1761, fascio 926, volume 5217/20, cc. 22v-23r. Il salone nell’«Appartamento antico» è così descritto nell’Apprezzo del Feudo di Ugento rogato il 1761 dal tavolario regio Luca Vecchione: «l’Appartamento antico, consistente in un’anticamera coverta di lamia gaveda dipinta a fresco, tiene balcone con pettorata di pietra del Paese verso lo largo della Porta del Paradiso, e Camino alla Romana […], con picciol camerino coverto di lamia botte verso del detto largo, situato sopra la conserva dell’orzo, con fenestra verso lo largo sudetto, e balcone corrispondente dalla sudetta anticamera nella loggia scoverta della sala».

[ii] In proposito si legga quanto scrive Antonio Cassiano: «In periferia i modelli importati dalle capitali riconosciute, Roma e Napoli, erano tradotti da artisti locali che […] non apparivano di grande talento e soprattutto non riuscivano a dare una connotazione che collegasse il loro operato alla linea di una scuola locale»; cfr. A. Cassiano, Decorazioni scenografiche, cit., 281.

[iii] Gli affreschi presentano numerose lacune che, spesso, rendono ardua l’identificazione delle divinità raffigurate. Particolarmente problematica è l’identificazione del presunto Giove, del quale tuttavia si intuiscono le folgori impugnate nella mano. La sua presenza è comunque coerente con il tema amoroso, vista la notorietà delle sue frequenti avventure erotiche extraconiugali. Inoltre, gli attributi del dio (aquila, folgori, toro) sono raffigurati, insieme alle muse, agli angoli della volta.

[iv] Anche nel palazzo ducale di Seclì, appartenuto ai d’Amato, gli affreschi di soggetto mitologico celebrano i fasti del casato attraverso il gioco di parole Amore/d’Amato esemplificato nel verso virgiliano «Omnia vincit amor et nos cedamus Amori» (X Egl., v. 69) che campeggia al centro della volta del salone; cfr. V. Basile, Famiglie nobili e committenze artistiche a Seclì, Pisignano e Surbo fra ‘500 e ‘700: i d’Amato, i Severino, i Pepe, in «Kronos», n. 5-6/2003, Periodico del DBAS, Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia, Università di Lecce, Facoltà di Beni Culturali, 59-99; V. Basile, Dei, virtù e imperatori nel palazzo ducale dei d’Amato a Seclì, in M. Fagiolo (a cura di), Atlante tematico del Barocco in Italia. Residenze nobiliari. Italia meridionale, Roma 2010, 202-205. Per un’analisi approfondita sui contratti matrimoniali in età moderna cfr. M.A. Visceglia, Linee per uno studio unitario dei testamenti e dei contratti matrimoniali dell’aristocrazia feudale napoletana tra fine Quattrocento e Settecento, in «Mélanges de l’Ecole francaise de Rome – Moyen Age, Temps Moderne», n. 95, anno 2003, 393-470.

[v] Sull’influenza delle Metamorfosi di Ovidio sulle arti figurative cfr. B. Guthmuller, Il mito e la tradizione testuale (le Metamorfosi di Ovidio), in C. Cieri Via (a cura di), Immagini degli dei. Mitologia e collezionismo tra ‘500 e ‘600, Milano 1996, 22-28. Non si può negare che, oltre alle Metamorfosi di Ovidio, anche l’Adone del Marino (Parigi 1623) abbia potuto ispirare la scena in oggetto.

[vi] Ogni divinità raffigurata sulla volta è riconoscibile in virtù dei propri attributi: l’arco, le frecce e la faretra (Cupido), le colombe (Venere), la folgore (Giove); il falcetto (Gea), il bastone (Saturno), le spighe (Cerere), la fiaccola (Vesta), l’incudine (Vulcano), il caduceo, il petaso e i calzari alati (Mercurio), il tridente (Nettuno), il pavone (Giunone), l’arco (Diana), l’egida e la spada (Minerva), la fiaccola, le ali e la ghirlanda (Aurora); cfr. J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983; L. Impelluso, I Dizionari dell’Arte. Eroi e dei dell’antichità, a cura di S. Zucchi, Milano 2002; M. Battistini, I Dizionari dell’Arte. Simboli e allegorie, a cura di S. Zucchi, Milano 2004.

la prima parte è in:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/20/il-castello-di-ugento-e-le-decorazioni-pittoriche-che-ornano-le-sue-volte/

 

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