Un rifugio stagionale salentino: la pagghiara

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Nella prima quindicina di giugno, quando l’ingrossare delle angurie e l’inturgidirsi dei fioroni annunziavano l’imminenza ti la riccòta (del raccolto), le famiglie contadine – quelle che non vivevano stabilmente sul podere – abbandonavano il paese e si trasferivano in campagna.

Era tempo di mettere a frutto il lavoro di tutta un’annata, e se di giorno la permanenza dell’intera famiglia sul campo assicurava un maggiore rendimento lavorativo, la presenza notturna s’imponeva per sventare possibili furti. Tanto più sui fondi a mezzadria, dove il colono, al danno subìto in proprio, doveva aggiungere quello di refusione al padrone, sulla cui comprensione ed eventuale abbuono raramente si poteva contare.

Non va infatti dimenticato che in sede contrattuale il colono veniva nominato, oltre che coltivatore, custode dei prodotti della terra, della cui integrità doveva perciò rendere conto al padrone, autorizzato dalla legge a rifarsi di ogni danneggiamento (furto, incendio, incuria nei tempi di raccolta), detraendone l’ammontare dall’aliquota mezzadrile o, se la superava – in caso di danno considerevole -, mettendo in conto il rimanente sulla raccolta successiva o convertendolo in prestazioni di manodopera. Un vero e proprio scatafàsciu (disastro), ossia una perdita irreparabile che precipitava la famiglia nella miseria, privandola del sostentamento invernale.

Ben pochi però avevano la fortuna di poter disporre fra i campi una casupola in muratura, e i più dovevano industriarsi a costruire con le proprie mani un rifugio stagionale, la pagghiàra  appunto, utilizzando il materiale che la campagna stessa offriva – rami d’albero, canne, strami, steli di graminacee – e al cui recupero si provvedeva sempre all’ultimo momento, in un clima di ricerca affannosa paragonabile solo al frenetico svolazzare degli uccelli intenti a racimolare paglia per le cove.

A tracciare il cerchio, necessario ad assicurare la circolarità della pagghiàra, era sempre il capofamiglia, e lo faceva servendosi di una lunga canna che sistemava a spiàsciu (obliqua), conficcandone un’estremità nel terreno e l’altra puntellandosela al petto, in modo che, ruotando su sé stesso, anche la canna – sostenuta dalle mani – avesse a ruotare. Un compasso primitivo che obbligava a una rotazione lenta, ripetuta tre volte a meglio incidere la traccia del cerchio, e durante la quale l’uomo si metteva a cantare scegliendo uno stornello prettamente estivo, quasi sempre Lu suspìru ti la riccòta (il sospiro del raccolto):

Lu ranu bbiunnéggia e llu culùmmu mpénne

jò so’ bbissùtu a ffare la riccòta

l’aucèddhri mia stà mméntinu li penne

la manu mia no ppòte stare sota.

 

Tàtte ti fare, tàtte ti fare

centu ocche anu mmangiàre

Tàtte ti fare, tàtte ti fare!…

 

Tégnu l’aucéddhri mia c’anu ccriscìre

e ppane masticàtu nn’àggiu ddare:

lu celu nn’à uardàre e bbinitìre,

la terra m’à ssintìre e mm’à iutàre…

 

Tàtte ti fare, tàtte ti fare

centu ocche anu mmangiàre

Tàtte ti fare, tàtte ti fare!

 

Il grano biondeggia e il fiorone pende, / io sono uscito per raccogliere; / i miei uccelli stanno mettendo le penne, / la mia mano non può stare ferma. // Datti da fare, datti da fare / cento bocche debbono mangiare / datti da fare, datti da fare!… // Tengo gli uccelli miei che debbono crescere / e pane masticato debbo dar loro: / il cielo ci deve guardare e benedire, / la terra mi deve sentire e mi deve aiutare… // Datti da fare, datti da fare / cento bocche  debbono mangiare / Datti da fare, datti da fare!

Canto che l’uomo interrompeva di colpo non appena il cerchio appariva interamente e correttamente tracciato: scavalcandone il segno con un piccolo salto (per superstizione qualsiasi cerchio non andava mai calpestato) si allontanava di qualche passo, per meglio guardarlo e valutarne l’ampiezza, che doveva risultare ben calibrata al numero dei componenti la famiglia; poi, se la risultanza lo soddisfaceva, annunziava trionfante: “Lu funnu ti lu panàru ete fattu” (“Il fondo del paniere è fatto”). Al che tutti i presenti, segnandosi di croce, rispondevano in  coro: “Ddiu cu nni bbiùnna” (“Dio che ci abbondi”). Un botta e risposta che lascia chiaramente intendere come nella costruzione della pagghiàra, al di là della contingente necessità di un rifugio, si innestassero componenti di ordine propiziatorio, in base ai quali l’atto stesso della edificazione si tramutava in un accampare diritti sul raccolto, anzi in un prenotarsi all’abbondanza. Se infatti la definizione “funnu ti panàru” presa da sola potrebbe apparire come semplice riporto alla forma geometrica, nell’associazione con la risposta “Ddiu cu nni bbiùnna”, tenendo presente la peculiarità di un linguaggio perennemente allusivo, non può non essere intesa nella sua ambivalenza di significato e messa automaticamente in rapporto con i desideri – chiamiamoli pure intendimenti – che erano a monte dell’azione.

Il perseguimento dell’abbondanza era un punto fermo nella parabola contadina, si inseriva di diritto nel rapporto uomo-terra-lavoro, anzi ne era la logica derivanza, facendo sì che il frutto della terra non fosse visto soltanto come soddisfazione di una necessità materiale, ma anche come conseguenza gratificante di un culto, coronamento verticale di una dedizione orientata a riattestare il fluire delle benedizioni celesti. In tale contesto il paniere veniva a porsi come il più concreto degli elementi significanti la sperata grazia di raccolto, e non è perciò azzardato ritenere la scelta della sua immagine implicata in principi di valenza magico-religiosa, quasi una verbalizzazione dell’atto propiziatorio che si intendeva compiere, e che del resto trovava riaffermazione nelle successive fasi di lavorazione.

I quattro tronchetti che, conficcati nella terra, si facevano convergere a piramide incastrandoli e legandoli fra di loro al vertice, malgrado fossero sempre massicci e quindi non rispondenti alla comparazione, venivano chiamati ìnchjuri  ti mànicu, ossia identificati con i flessibili giunchi che, nella lavorazione dei panieri, avevano la funzione di reggere l’intreccio e farsi base del manico.

Altra definizione impropria – anche questa chiaramente adottata per non tradire  l’immagine del paniere – riguardava l’intelaiatura: perché definirla  ‘nfiettatùra (intrecciatura), quando i rametti sottili con i quali si eseguiva non venivano affatto intrecciati fra di loro come nella intessitura dei panieri, ma semplicemente appoggiati e fermati con legacci ai quattro tronchetti portanti? Libera trasfigurazione, quasi licenza poetica, imposta sì da una fedeltà alle iniziali determinazioni figurative, ma da intendersi anche come necessario supporto alla progressione del concetto, appunto a quella maggiorazione di simbolo che scattava nel momento finale della lavorazione, cioè quando tutte le fòffule ti cacchiàme (mazzetti di steli d’orzo) erano state sistemate sull’intelaiatura in un’accorta sovrapposizione di scalature (atte ad assicurare lo sgrondo della pioggia) e queste a loro volta ricoperte da manate di ristu (resta) che, facendo strato, assicuravano l’impermeabilità.

Come se, nel completamento della costruzione, i termini della sottintesa impetrazione avessero subìto un processo di lievitazione, con un improvviso quanto significativo  scavalco di limiti, l’immagine del paniere veniva infatti soppiantata da quella della canìscia, ossia cestone; oggetto ancora più adatto a significare la sperata abbondanza, poiché se il paniere rappresentava il recipiente immediato del raccolto, la canìscia rappresentava l’accumularsi della provvidenza, perché capace di inglobare il contenuto di più panieri.

A proclamare, diremmo quasi a ufficializzare, questa maggiorazione di simbolo era ancora il capofamiglia il quale, covando con lo sguardo la pagghiàra appena finita – tutta d’oro nel battere del sole sopra lu ristu -, commentava soddisfatto: “Cu lla ràzzia ti Ddiu nn’imu ppruntàta la canìscia” (“Con la grazia di Dio, ci siamo preparato il cestone”). E come stesse a compiere un rito che lasciava intendere imprecisati motivi scaramantici, la inaugurava con un triplice entrare e uscire attraverso l’unica bassa apertura ad arco, ogni volta ripetendo: “Ddiu bbinitìca sta canìscia mia”, quasi a consacrarla nella sua intesa funzione. Funzione da ritenersi duplice, poiché anche in questa ultima definizione giocava l’ambivalenza del linguaggio: se oggettivamente per canìscia  s’intendeva il più grande dei recipienti di raccolta eseguiti con giunchi e canne, contemporaneamente col nome di canìscia veniva anche ironicamente definito un posto di fortuna nel quale poter dormire. Una definizione impropria che traeva spunto dall’industriosità delle giovani madri contadine, molte delle quali, durante l’estate, impegnate com’erano per intere giornate a lavorare nei campi, approntavano una culla di fortuna per i loro lattanti, coricando sul fianco una canìscia e coprendone l’imboccatura con un pezzo di stoffa, teso a mo’ di cortina. Agevolate dalla leggerezza, le donne se la potevano trascinare dietro, da albero ad albero, da solco a solco, e il piccolo, al riparo dalle mosche e soprattutto dalle vespe, tanto pericolose nei loro pungiglioni, poteva dormire pacificamente.

Considerata nella circolarità della sua forma, soprattutto vista di fronte, così sferica nell’imboccatura, la pagghiàra poteva dare, sia pure adottando delle licenze, l’idea di una canìscia coricata sul fianco, e tenendo presente la sua utilizzazione a esclusivo rifugio notturno, non si può dire sfuggisse del tutto all’appropriazione del termine. Termine che soprattutto – lo ripetiamo – si prestava a giocare sul sottinteso, cioè ad ampliare la recondita allusione all’abbondanza.

Come i due intendimenti coesistessero e quanto si intersecassero in un’unica verità esistenziale, lo si può desumere da qualche canto popolare incentrato sulla costruzione della pagghiàra .

Quasi sempre, finito il lavoro di edificazione (che del resto veniva esplicato alla svelta, in poche ore, le prime ore del mattino), si cedeva all’euforia, e nell’intendimento di comunicare a tutto il circondario l’avvenuta realizzazione si esplodeva nel canto:

La pagghiàra imu ppruntàta

a ccantàre nni mintimu:

la bbunnànzia imu chiamàta,

       mo’ cantàmu e ppoi ccugghìmu!…

 

Il capanno abbiamo approntato, / a cantare ci mettiamo: / l’abbondanza l’abbiamo chiamata, / adesso cantiamo e poi raccogliamo!…

Gli abitanti delle casupole e pagghiàre vicine, a quell’ora già tutti a lavoro nei campi, raccoglievano il messaggio. Dopo il tramonto, finito il lavoro, sarebbero tutti convenuti ad ammirare (o criticare) la pagghiàra, a salutare i nuovi arrivati e a portare lu lotu ti lu icinàtu, cioè un  simbolico dono di benvenuto, consistente in  tre cocche ti frise t’uérgiu (tre paia di ciambelline d’orzo) o una fazzolettata di pomodori o qualche spiuréddhra (mellone spurio maturato anticipatamente); intanto non facevano i sordi, e attraverso le terse sonorità della campagna filtrava la loro strofa di saluto-risposta:

Lu postu pi ddurmìre tu nci l’ài:

ci gghéte curtu pi lla stinnicchiàta

no nci pinsàre: pàssanu li uaj…

basta ca puéti inchjre la rrancàta!…

 

Il posto per dormire tu ce l’hai: /se è corto per la stiracchiata / non ci pensare: passano i guai… / basta che puoi riempire la manata!..

Strofa che voleva essere d’incoraggiamento e augurio per quel riferimento a “inchjre la rrancàta”, cioè raccogliere a piene mani.

La strofa successiva, spesso intonata da un  gruppo diverso, magari sito nell’altro versante del campo, s’intendeva rivolta alla madre di famiglia, e nasceva scherzosa, quasi a inaugurare la serie di piccole burle e ingenui scherzi che, alternativamente ricevuti e restituiti, avrebbero piacevolmente costellato di risate le sere estive:

Statte ‘ttenta a lla pagghiàra:

gghé ccanìscia e gghé ssipàle:

ci ti mpanni, la sacàra

  ti la ttruéi an capitàle

Statti attenta al capanno: è cestone ed è rifugio di serpi: / se ti addormenti, la sacàra  / te la ritrovi sul guanciale…

Allusione scherzosa solo sino a un certo punto, essendo imperniata su un pericolo reale che ad ogni estate si riproponeva in termini di gonfiatura di rilievo statistico. Lo stesso raffronto fra pagghiàra  e sipàle conferiva peso all’avvenimento, portando alla ribalta quello che, nel caso, era l’elemento a rischio del contesto ambientale, lu sipàle, appunto.

(…)

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994 (pagg. 62 – 68)

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