Racconti/ Tonino della lettera

di Salvatore Magno

Si chiamava Antonio Carollo, ma per tutti era Tonino: “Tonino della lettera”. Faceva il pescatore. Tozzo e duro come un pezzo di pane nero raffermo, dava l’impressione di essere appena uscito dalle bocche dell’inferno e invece, a guardare bene in fondo a quegli occhi castani ci si trovava una dolcezza che forse neppure in Paradiso. Aveva passato la sua esistenza tra reti, palamiti e nasse; remando sul mare e cercando di strappargli quel poco che serviva per tirare avanti. Aveva visto la sua vita scorrere via quasi come se non gli appartenesse, come un film girato neanche tanto bene. Una moglie, che non aspettava altro che vedere la sua barca sparire dietro il molo del porto: “Per dare una mano a tirare avanti la giornata” come amava dire, mentre giocava tra le lenzuola e si faceva pagare per questo. Lui lo sapeva, ma non se ne lamentava più di tanto. “Brutto come sono – pensava – dove la trovo un’altra? E poi si sa, l’uomo è cacciatore e la donna traditora”. Quindi non se ne impicciava più di tanto.
Tutto questo era nella natura delle cose.
La vita non era stata generosa con lui: avida di gioie e soddisfazioni. Perciò Tonino se ne usciva tutti i giorni in mare. La sua barca non era più solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma il modo per sfuggire a quel mondo che lo opprimeva. Era l’isola deserta sulla quale potersi rifugiare, lontano dalle amarezze e dalle delusioni, il luogo dove le onde del mare potevano cullare tutti i suoi rimpianti, i suoi desideri, i suoi sogni.
Quattro figli aveva avuto e da loro si era aspettato quelle soddisfazioni che lo avrebbero dovuto liberare da quel cappotto di piombo che gli opprimeva la vita e innalzare al di sopra di quel mare per fargli vedere finalmente un po’ di sole.
Invece, Francesca, la primogenita, era scappata con un tipo di città che le aveva promesso chissà cosa. Aveva saputo, poi, che viveva in città, dove faceva il mestiere. Simona, la seconda – quante speranze aveva riposto in quel batuffolo morbido la prima volta che l’aveva presa tra le braccia – non era scappata, no, ma il ragazzo se lo era portato in casa, e lì gli aveva scodellato tre nipotini, uno dietro l’altro, con il risultato che, anziché una, ora si trovava con quattro bocche in più da sfamare. Antonella, la più piccola, era rimasta incinta del figlio del farmacista e quando aveva capito
che per lui non era niente di più che un piccolo passatempo, una triste
mattina d’ottobre, aveva deciso di lasciarsi abbracciare dalle onde del mare.
Poi, c’era Sergio, l’unico figlio maschio che era emigrato in America dieci
anni prima. Di tanto in tanto gli scriveva per dirgli che prima o poi sarebbe
riuscito ad ottenere il visto per portarlo al di là dell’oceano. “Chissà com’è
l’oceano”, si chiedeva spesso. Sergio glielo aveva descritto come un mare
grande, con onde così alte che nemmeno a metterne insieme dieci di quelle
che conosceva si arrivava a farne una alta la metà.

E lui aspettava. Aspettava il giorno in cui sarebbe arrivata quella lettera, piena di timbri e chiusa con la ceralacca. Quella lettera sarebbe stato il suo lasciapassare per la felicità! Certo, in quel momento era un po’ difficile che potesse accadere: c’era la guerra. Ma dopo, pensava, tutto si sarebbe risolto in fretta e finalmente Giovanni, il postino, avrebbe bussato alla sua porta con la lettera in mano. Era per questo che nessuno lo chiamava più col suo vero nome. Per tutto il paese era diventato “Tonino della lettera”.
Ogni sera, tornato a casa, prendeva da sotto il letto la scatola di scarpe dove custodiva le cose più care: la foto della moglie, morta di dolore per il suicidio della figlia, quella di Antonella – come sorrideva in quella
foto! Come era bella! – e i soldi, quei quattro soldi che gli sarebbero serviti
per il viaggio. Si sedeva allora sulla sedia accanto al letto, posava la scatola
sulle ginocchia e mormorava che solo quella avrebbe portato in America.
Niente altro che quella voleva portare nel nuovo mondo, come ricordo di
quella vecchia vita che voleva lasciarsi dietro. Poi riposta la scatola, apriva il vecchio armadio posto di fronte al letto ed ammirava il vestito nuovo e la
coppola che aveva comprato alla fiera del paese tre anni prima. Li avrebbe
indossati quel giorno, quando, con la lettera in mano, sarebbe partito per
l’America. Ogni giorno sognava di indossare il vestito nuovo e la coppola,
mentre attraversava il paese sventolando la lettera come una bandiera. E
come ridevano gli amici, contenti per la sua felicità. Si complimentavano
con lui, gli chiedevano di mandare una cartolina dalla “Merica” e di non
dimenticarsi di loro. E lui felice prometteva a tutti. E che spettacolo il giorno
dello sbarco a “Nova Iork”! Vestito come un vero signore, con tutti i
passeggeri intorno che ammiravano la sua coppola nuova mentre il figlio lo
attendeva al molo con la moglie americana e i nipotini. Tutti gli saltavano al
collo, lo baciavano e lo abbracciavano parlando una lingua a lui sconosciuta.
Lui non capiva neanche una parola, ma non gli importava niente, e rideva,
rideva, perché finalmente si sentiva felice. Tutto questo sognava ogni giorno, ogni giorno che Dio manda in terra. Un giorno, pensava, certamente il sogno sarebbe diventato realtà.
Una mattina si svegliò poco prima dell’alba. Si sentiva intontito perché la sera prima aveva esagerato un po’ con il vino. Si massaggiò le braccia indolenzite per il freddo, andò alla finestra e fu quasi contento quando vide il mare in tempesta. Non aveva molta voglia quel giorno di uscire a pesca, perciò se ne ritornò a letto e riprese a dormire come se niente fosse.
Sognava? Non ne era certo. Sentiva però lontano un campanello suonare.
Più cercava di non ascoltarlo e più quel suono stridulo diventava forte. Si voltò dall’altra parte ma il campanello continuò a suonare. Infilò la testa sotto il cuscino, ma il risultato non cambiò. Anzi, sembrava che il suono si fosse infilato tra le lenzuola e gli arrivasse sempre più nitido e forte nelle orecchie. Alzò la testa e capì che non era un sogno.
Qualche burlone certamente – pensò – si era attaccato al campanello di casa e suonava, come se volesse avvisarlo che era iniziata l’apocalisse. Balzò giù
dal letto bestemmiando e, saltellando su una gamba sola mentre con l’altra
cercava di infilarsi i pantaloni, arrivò all’uscio. Fu in quel modo che aprì la
porta, intenzionato a mandare al diavolo quello scocciatore. Ma tutto gli
passò quando si trovò davanti un uomo dal grande naso sul viso rotondo e
con la borsa appoggiata come al solito sull’enorme pancione. Era Giovanni,
il postino, che continuava a suonare il campanello e strillava con tutta la
forza che aveva: “E’ arrivata compare Tonino! E’ arrivata” e gli agitava
davanti al viso una lettera, piena di timbri e con tanti strani segni. Tonino
l’afferrò e la rigirò a lungo tra le mani. Sì, era proprio quella che attendeva
da tanto tempo, c’era anche la ceralacca. Non mancava proprio niente di
quello che gli aveva detto suo figlio.
Quanto tempo aveva aspettato quel momento! Quante volte lo aveva desiderato, sognato! E ora la lettera era lì nella sua mano! Attutita
dalle sue emozioni gli giunse come in un sogno la voce di Giovanni. Dal
professore? Che diceva quello stupido del postino? Come dal professore? Ma
sì, come aveva fatto a non pensarci! Il professore era l’unico in paese che
conosceva l’inglese perché era vissuto per tanto tempo in America. Sì,
sarebbe andato dal professore a farsi tradurre la lettera. Salutò velocemente il postino e ritornò in camera. Prese la scatola delle scarpe da sotto il letto, tirò fuori le foto della moglie e della figlia e le appoggiò una accanto all’altra sul materasso. Tenendo la lettera con entrambe le mani la mostrò a quelle due foto e parlò come se lo potessero ascoltare: “E’ arrivata, vedete?
Finalmente è arrivata. Ce ne andiamo di qui, ce ne andiamo alla Merica! Ce ne andiamo da Sergio!” Ripose poi velocemente le foto e la scatola e si precipitò nel bagno. Tirò fuori il vestito nuovo, lo appoggiò sul letto e, con calma, lo indossò. Si guardò nello specchio e controllò che tutto fosse a posto. Infine, prese la coppola e se la sistemò sulla testa come se fosse una corona. Con la lettera in mano aprì la porta e si fermò un attimo come abbagliato dalla luce del giorno. Per strada c’era riunito tutto il paese; vecchi, donne, bambini.
Anche gli uomini, saputo il fatto e lasciato il lavoro ora erano lì, con il fiato
sospeso, aspettando che uscisse. Qualcuno aveva persino fatto venire la
banda che non appena fu uscito aveva intonato “Stars and Stripes”. Si
incamminò allora verso la casa del professore tra due ali di folla. Tutti si
complimentavano con lui; chi lo baciava, chi lo abbracciava, chi gli
stringeva la mano. Tutti, proprio tutti, volevano complimentarsi con lui. Al
suo passaggio altri si accodavano con il risultato che si era creato un
variopinto corteo che rumoroso si avviava verso la casa del professore.
Questi udendo quel frastuono si affacciò alla finestra e guardò incuriosito
quella moltitudine festosa che si avvicinava alla sua abitazione. Qui giunto
Tonino alzò le braccia per far tacere tutti. Quindi, rivolgendosi al professore,
cominciò a parlare: “Professore, la lettera …” Ma non riuscì a proseguire.
Un groppo alla gola, un insieme di felicità e commozione, gli impedì di
continuare. Il professore che conosceva perfettamente la storia della lettera
non stette a pensarci neanche un secondo e immediatamente aprì la porta per farlo entrare. La folla si fermò fuori in attesa ma nessuno andò via. Tutti
rimasero lì fuori ad aspettare che Tonino uscisse per ricominciare la festa.
Il professore, un uomo alto, dall’aspetto imponente, con i lunghi capelli bianchi e la folta barba anch’essa bianca, incuteva rispetto al solo guardarlo. Prese la lettera che Tonino gli porgeva con mani tremanti e si sedette alla scrivania. Con la coppola tra le mani, Tonino non stava più nella pelle per la curiosità di sapere cosa ci fosse scritto. Una ridda di domande gli si affollavano nella mente: Cosa doveva fare per andare in America? Quando sarebbe potuto partire? Gli sarebbero bastati i soldi che aveva messo da parte? Dove doveva andare per comprare il biglietto? Quale bastimento doveva prendere? E da quale porto sarebbe dovuto partire? Non vedeva l’ora di conoscere le risposte a quelle e a tutte le altre domande che gli giravano nella testa. Tonino rimase in piedi. Il professore aprì la busta con il tagliacarte e lesse la lettera in silenzio, poi guardò Tonino e la rilesse
daccapo sempre silenziosamente. Quindi alzò di nuovo lo sguardo verso
Tonino, trasse un profondo sospiro e lo invitò a sedersi. Al suo rifiuto, ribadì la richiesta che questa volta non suonò come un invito. Tonino capì che era un ordine e obbedì. Il professore iniziò a parlare: “Non so proprio come
cominciare … quindi vi leggerò la lettera così come sta scritta”. Con gli
occhi imploranti Tonino sporse il capo in avanti annuendo, chiedendogli che sì, la leggesse, che facesse come gli pareva, ma che gli togliesse tutti quei
dubbi dalla testa. Il professore iniziò a leggere: “Gentile Signore, siamo
spiacenti di comunicarle che l’8 giugno 1944, a Saint Mary Eglise, suo figlio Sergio è caduto da valoroso. Vada orgoglioso del suo ragazzo.”
Tonino rimase un attimo silenzioso, immobile sulla sedia, come se non avesse capito bene quello che il professore aveva appena letto.
Poi si riscosse e chiese dov’era Saint Mary Eglise. Il professore prese dalla sua libreria un atlante e, apertolo alla pagina della Francia, gli fece vedere dove si trovava quel piccolo villaggio sperduto della Normandia dove suo figlio aveva lasciato la vita. Tonino allora si alzò, riprese la sua lettera e
ripiegatala con cura se la rimise in tasca. Prima di uscire chiese ancora al professore se poteva spiegargli perché a un ragazzo italiano era venuto in testa di andare a perdere la propria vita in Francia, combattendo per gli
americani contro i tedeschi. Il professore non rispose, non trovando le parole adatte per consolare un uomo che ha perso l’unica sua ragione di vita.
Quando Tonino uscì dalla casa del professore la folla si aprì per lasciar passare quell’uomo curvo che, con i pugni stretti, il capo chino e le labbra serrate, nascondeva la sua voglia di urlare dal dolore. La banda ammutolì tra sfiati e stonature. Nessuno parlò. A qualcuno scappò una lacrima.
Il tragitto verso casa gli sembrò interminabile. Per la prima volta nella sua vita si sentiva inutile, vecchio e stanco, mentre la voglia di piangere ed imprecare gli serrava la gola. Sentiva che solo dentro le mura amiche sarebbe stato libero di dare sfogo a quell’insopprimibile dolore.
Perciò accelerò il passo ed accolse l’arrivo a casa come una vera e propria liberazione. La sua casa! Quante storie, quanti segreti conoscevano quei vecchi muri bianchi e scalcinati! Solo allora, dopo tanti anni, si rese conto di quanto li amasse. Appoggiò le dita ad una parete, sfiorandola dolcemente come se stesse accarezzando una persona cara. Quindi andò in camera da letto. Trasse dal suo nascondiglio la scatola di scarpe, l’aprì e guardò con tenerezza le foto della moglie e della figlia: “Era tutto così bello – disse – Tutto come lo avevo sognato.” Poi, come se potessero ascoltarlo continuò: “Che ci volete fare? Era solo un sogno. Voi sapevate già tutto, eh! Sergio lo avete visto prima di me … e senza andare in America!” Prese allora la lettera dalla tasca e la mise insieme alle foto. Quindi si distese supino sul letto
stringendosi la scatola al petto. “Però è stato un bel sogno” – pensò. E
mentre una lacrima gli scendeva sul viso, chiuse gli occhi e si addormentò per sempre.
 
pubblicato su Spicilegia Sallentina
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2 Commenti a Racconti/ Tonino della lettera

  1. Io di questo racconto sono innamorato! Lo lessi due anni fa, se non erro, su Spicilegia e ne rimasi profondamente toccato. Ricordo ancora gli occhi di mia moglie quando lo lesse e mi disse: S T R A O R D I N A R I O!
    L’ho fotocopiato e dato ai miei amici.

  2. L’ho trovato finalmente, dopo settimane e settimane di ricerca, è salito in superficie, stamattina, nel mare largo e profondo di Fondazione di Terra d’Otranto, questo meraviglioso e commovente racconto, che avevo letto con emozione una sola volta e poi smarrito.
    Lo rileggo e torno a emozionarmi ancora. Solleva echi letterari, Verga senz’altro ma anche Hemingway de Il vecchio e il mare, e Tolstoj…Lo condivido immediatamente.

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