Metereologia salentina e celebrazione dei Santi, dall’8 settembre a Natale

 

 

CULTI MAGICO-RELIGIOSI  NEL SALENTO  FINE OTTOCENTO

 

TI LA MMACULATA L’ACQUA SERVE SULU PI LLI PUCCE

 

 Le celebrazioni dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico in una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Dal niente al troppo. Era questa la scomoda altalena della meteorologia salentina, nel cui quadro però, il “troppo” non veniva tanto rappresentato dagli improvvisi nubifragi – statisticamente rari nel Salento -, quanto dalle possibili eccedenze pluviali del tardo autunno, capaci di determinare, con l’impantanamento delle campagne, non solo la crisi economica dei coltivatori (era periodo di semine e di raccolta delle olive), ma soprattutto la disperazione dei sciurnaliéri (giornalieri) che, privati di ogni possibilità di trovare ingaggio di lavoro, soffrivano la fame.

Uno spauracchio che nella frequenza del suo proporsi aveva generato una vera e propria psicosi stagionale, a sua volta convertita, quasi a contrasto propiziatorio, in una sorta di tabella delle piogge da scandire in misura calendariale, ovverosia assumendo le celebrazioni native dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico. Riferimento che, sia pure inconfessatamente, voleva adire alla messa in orbita di un condizionamento, la cui sostanza magico-religiosa la si poteva carpire più che dalla valenza delle singole aggiudicazioni, dalla curiosa eterogeneità di significanti espressi dallo stessa scadenzario, nel quale venivano a confluire, unitamente ai sensi di affidamento devozionale, una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

Appena iniziato settembre, con ancora sulla nuca lo specchio ustorio dell’estate, i contadini cominciavano a parlare di pioggia come di un ospite che avesse già annunziato il suo arrivo, fissandone la data in concomitanza con la festa della Madonna delle Grazie (8 settembre), giorno ritenuto di stura ai doni celesti e perciò quanto mai adatto a segnare l’avvio di quello che era il ciclo di fertilità della terra:

Pi’ lla Matònna ti li razzie,

ssetta li roddhre, scupa la lliàma

e mminti lu limmu sott’a llu canàle,

scuscitàtu ca l’acqua la tiéni an capitàle.

Entro la ricorrenza della Madonna delle Grazie, / sistema i semenzai, scopa la terrazza / e metti la vaschetta sotto il canale di scolo, / sicuro di avere l’acqua già sotto il guanciale.

Pur se attinte al comune canovaccio delle consuetudini contadine e perciò ricche di una certa spontaneità nella scelta, le tre azioni da compiere in sostanza risultano ideologicamente mediate nella sovrapposizione dei simboli, ovverosia finalizzate a rappresentare il passaggio da un presente ancora in debito col passato a un presente già in commistione col futuro: la terrazza da liberare dalle scorie accumulatesi durante  il tempo dell’arsura; la presenza della conca che da vuota deve farsi piena; la sistemazione dei semenzai– momento icastico del rinnovamento nel festoso schiudersi dei germogli -, nel mentre provvedono ad assolvere a quelli che sono gli strascichi della patita sofferenza estiva, si convertono in rituale di accoglienza dell’acqua, peraltro celebrata non in quanto oggetto della speranza, ma come bene già assicurato, prova ne sia che la si dà presente sotto il guanciale, notturno posto di deposito dei risparmi contadini e quindi significante il pieno possesso del tesoro.

Non è infatti difficile notare come il tutto tenda a stabilire un magico processo di decretazione, quasi si voglia, attraverso la forza coercitiva del pensiero, vincere le leggi della fisicità facendole incappare nel tranello di una finzione che vuole dare per conclusa una stagione ancora in attivo.

Malgrado gli alberi di fico fossero ancora carichi di frutti in maturazione e si prevedesse di continuare il lavoro di essiccazione per tutto settembre, li ficalùri (i ficaioli) si imponevano l’aria del disarmo già dai primi del mese, non trascurando di far rimbalzare da campo a campo l’interessato monito:

A Mmatònna rriàta,

furnìta la spaccata…

Stà rrusce lu mmuddhràtu…

ncanìscia lu siccàtu,

ccuégghi lu siccatiéddhru

e lli littére mìntile a ccastiéddhru.

L’8 settembre, / la spaccatura dei fichi è conclusa!… / Si avverte già il crepitìo della pioggia… / ci conviene, pertanto, radunare nella canestra l’ultimo prodotto seccato, / raccogliere da terra quello appassito sugli alberi / e mettere i cannicci a deposito, sistemandoli, come si fa a ogni fine stagione, uno sull’altro a mo’ di castello.

Né diversamente si comportavano gli ortolani di Copertino: pur sapendo che avrebbero aspettato la festa ti li paisàni [1] (19 settembre) per portare al mercato li ponte ti cucùzza (le cimature delle piante di zucca), ritenute una leccornia in quanto raccolte solo una volta all’anno – in concomitanza cioè con l’estirpazione di tutta la coltura -, nell’approssimarsi della festa della Madonna delle Grazie davano già per conclusa la stagione orticola:

La tìa ti li ràzzie

no ffranca la mmuddhràta:

scigghiàmu la pagghiàra

e ffacìmu scapuzzàta.

Il giorno dedicato alla Madonna delle Grazie / non ci rinfranca dalla pioggia: / smontiamo perciò il pagliaio / e, raccogliendo gli ultimi frutti, sradichiamo le piante.

 

A quanti potranno trovare assurda tanta finzione, magari giudicandola incompatibile col rozzo semplicismo campagnolo, facciamo presente che lo spirito d’impostura non era estraneo al comportamentale  dei contadini spesso obbligati dalla necessità a prospettare ai padroni, più precisamente ai fattori, una situazione  – familiare, economica o agricola – diversa da quella reale, all’uopo mendicando la complicità dei vicini e sempre riservandosi la possibilità di cambiarne i termini allorché venivano a mutare le tangenze della loro convenienza.

Ugualmente impotenti di fronte alle forze della natura, trovavano logico ricorrere allo stesso stratagemma, credendo di poter influire sul proporsi della fenomenica meteorologica così come, imbrogliando, condizionavano le decisioni dell’avversario padrone: unica differenza  che questa volta la complicità la chiedevano ai santi, delle cui ricorrenze si servivano come di altrettante chiavi di volta in sintonia con i loro tornaconti. L’avere scelto la festività della Madonna delle Grazie a data della prima pioggia, rientrava in un loro calcolato piano di ipotetica regolamentazione degli avvicendamenti atmosferici, nella convinzione che solo attraverso lo scatto del primo passo le nuvole stabilivano il tempismo dei successivi: un partire col piede giusto, in base al quale – e proprio in virtù di quelle che erano le naturali leggi di avvicendamento fra periodi di sereno e giornate piovose -, una volta piovuto ai primi di settembre, si sarebbe avuto bel tempo durante la vendemmia, il cui travaglio aveva inizio subito dopo la festa di San Giuseppe da Copertino (18 settembre).

Va da sé che simili previsioni erano del tutto aleatorie, nessuno essendo certo che una volta ottenuta la pioggia questa non avrebbe poi continuato a cadere per giorni e giorni, miseramente fagocitando quello scampolo di sereno necessario ai vendemmiatori, nonché a quanti dovevano approntare i campi per la semina delle granaglie. Un’apprensione che, sollecitando al rimedio preventivo, faceva sì che i contadini, appena superata la festa della Madonna delle Grazie, avessero di colpo a cambiare bandiera, incentrando la loro volontà – sino a quel momento evocativa della pioggia – in uno scongiuro orientato a ottenere bel tempo. E poiché la vendemmia, come già detto, si poneva a ruota delle celebrazioni patronali, era proprio a San Giuseppe che si appellavano, coinvolgendolo in un’azione di salvaguardia comprendente festa e campagna:

Ti la paratùra e ddi lu innimàre

Sangiséppu nuésciu no ssi nni pote scirràre.

Della luminaria e della vendemmia / San Giuseppe nostro non se ne può dimenticare.

   L’associazione delle due proposte beneficiarie – luminaria e vendemmia – risultava più che pertinente ai fini atmosferici, e non soltanto perché l’addobbo stradale, per essere l’elemento più fragile della festa, offriva perfetta corrispondenza alla deperibilità dell’uva in caso di gravi intemperie, ma anche per il sottile concatenamento di incomodi che pure una semplice piovuta avrebbe provocato e ai festeggiamenti e ai vendemmiatori.

Per comprendere l’oggettività della concatenazione, occorre rifarsi all’epoca, cioè tenere presente che nell’Ottocento, essendo l’illuminazione elettrica una realtà di là da venire e non avendo il  Salento adottato quella ad acetilene – attestatasi solo ai primi del Novecento -, le luminarie venivano ancora allestite fissando alle arcate di legno – in una composizione a tappeto – dei piccoli bicchieri di vetro variamente colorato, che debitamente riempiti d’olio  e muniti di luminelli venivano accesi dai paratori con un paziente passare di stoppino.

A tanta laboriosità di accensione corrispondeva un’altrettanta precarietà di funzionamento, essendo bastevole un semplice piovasco a decretare non soltanto l’immediato abbuiarsi, ma anche l’intransitabilità delle strade addobbate: la pioggia, colmando i bicchieri, faceva infatti traboccare l’olio, macchiando i vestiti di chi si trovava a passare sotto gli archi e, quel che era più grave, rendendo pericolosamente sdrucciolevole il selciato. Un incomodo che durava anche a pioggia finita, convertendosi in vero e proprio ostracismo al passeggio, soprattutto a quello dei contadini, i quali, calzando acchétte cu lli tacce (stivaletti con le suole bullonate), nel contatto fra metallo e pietra unta facilmente finivano stesi per terra.

Analoghe conseguenze si registravano in campagna se la vendemmia si svolgeva sotto la pioggia: nel passa e ripassa fra i filari di vite, il terreno bagnato diventava estremamente viscido, non  offrendo stabile appiglio ai piedi nudi ti li scufanatùri (dei trasportatori) che, già sbilanciati dal peso delle tinéddhre (tinozze) rette sulle spalle, sommavano capitomboli con grave rischio per la loro incolumità e ovvio danneggiamento dell’uva così malamente scodellata per terra. C’è da aggiungere che all’impraticabilità dei terreni faceva riscontro quella dei viottoli e strade sterrate, per cui spesso capitava che i carri pieni d’uva s’impantanassero, richiedendo,  per il loro disincaglio, immani sforzi di uomini e bestie messi insieme.

Alla luce di tanta collimanza e soprattutto tenendo presente la stretta successione dei tempi – inizio di vendemmia a fine celebrazioni – , vien fatto di pensare che i contadini, nel basare la richiesta di protezione sull’abbinamento “paratùra-innimàre”, al di là dell’indiscusso interesse alla buona riuscita dei festeggiamenti, perseguissero un calcolo di opportunistica connessione delle due citazioni, volendo far sì che l’una (luminaria) avesse a risultare il preambolo dell’altra (vendemmia): se infatti avesse piovuto durante i giorni di festa, all’untuosità del selciato avrebbe corrisposto la fanghiglia della campagna, mentre il bel tempo assicurato ai festeggiamenti – qui rappresentati dalla luminaria – si convertiva in terreno asciutto per chi si accingeva a vendemmiare. Un esplicito sfruttamento delle circostanze, che trasferito sul piano morale veniva a configurarsi in manovra di incastro per le buone disponibilità di S. Giuseppe, il quale, dopo aver vigilato sinu all’ùrtimu scungulàre ti nucéddhre (fino all’ultimo sgusciare di noccioline [fino agli ultimi minuti di festa]), e presumibilmente soddisfatto per le onoranze ricevute, non poteva ingratamente uscirsene con un ”Sparàti li fuéchi, ccenca bbole fazza, fazza!” (“Una volta esplosi i fuochi d’artificio, quel che il tempo vuol fare, faccia!”), fregandosene della vendemmia: se per tre giorni consecutivi il paese si trasformava in un “paradiso di suoni e di luci”, lo si doveva in buona parte al contributo economico di pastori e contadini, i quali, abituati com’erano all’obbligatoria  spartizione dei prodotti cu lli patrùni ti stu munnu (con i padroni terreni), si facevano scrupolo di non concorrere personalmente e tangibilmente alla spesa per i festeggiamenti in onore ti lu  patrùnu an celu ti tuttu lu paése (del santo padrone di tutto il paese). Quasi il pagamento di una decima, il cui saldo, per i contadini avveniva proprio durante la vendemmia, quando i componenti del comitato feste patronali imboccavano i viottoli campestri sollecitando i coltivatori – così come d’estate avevano fatto con i pastori per le pezzotte di formaggio – a offrire uno o più panieri d’uva.

Nna stiddhra ti miéru pi llu Santu nuésciu!…” (“Una goccia di vino per il nostro santo!…”), chiedevano con voce stentorea fermando al margine del campo il loro traino con sopra due botti vistosamente contrassegnate da più croci dipinte con la calce; e a ogni vuotata di paniere si facevano obbligo di prendere un grappolo d’uva e sollevarlo verso il cielo, quasi volessero lasciare intendere che S. Giuseppe stava lì, affacciato a conteggiare l’entità dell’offerta. “Bbiùnnali a ccentu vussignurìa…” (“Ricompensali centuplicando, vostra signoria…”), dicevano infatti, dandone per scontata la presenza; e  rifacendosi alla necessità del momento, concludevano pressanti: “E stiénni la manu a ttiémpu ssuttu… ca topu nn’annu ti fatìa, no bbògghia Ddiu àggianu a sprangìre jastìme!…” (“E stendi la mano a trattenere il bel tempo… ché dopo un anno di lavoro, non voglia Dio abbiano motivo di snocciolare bestemmie!…”).

L’abitudine a minacciare i santi di un possibile ricorso alla bestemmia in previsione di un qualsivoglia accadimento avverso – viziosità della religione popolare, altrove messa in rilievo – in questo caso viene a spogliarsi da ogni sospetto di esagerazione nella causa, suffragata com’è dal fatto che settembre era periodo di rotture atmosferiche, facili a passare dalla semplice piovuta alla catastrofica grandinata. Un peggio che se pure scaramanticamente taciuto per non creare nell’alone evocativo dell’immagine una qualche forza di richiamo, era nel senso e nella destinazione dell’appello, implicitamente intendendo stabilire nella raccomandazione “stendi la mano a trattenere il bel tempo” il più radicale dei fermi all’evoluzione del negativo.

Non a caso fra richiesta di intervento e minaccia di ricorso all’imprecazione scatta la cognizione di causa “dopo un anno di lavoro”, pregiudiziale che nel mentre si fa consuntiva dei sacrifici affrontati, allude a una temuta vanificazione degli stessi, qualificando lo stato apprensivo in paura di completa distruzione dell’uva. Un attestarsi sul problema di fondo – quello degli interessi economici -, del resto implicito nello scongiuro iniziale, non certo esauribile agli incomodi provocati dalla banale piovuta ma chiaramente finalizzato a salvaguardare quello che era il nocciolo e della vendemmia e della festa: il guadagno, appunto.

Dietro l’ostracismo al passeggio, in sé per sé patetico – e diciamo pure alquanto comico -, scattava l’anticipato rientro dei pellegrini, decurtando, se non addirittura azzerando, l’introito dei venditori. E in quei tre giorni di festa, venditore non era soltanto il piazzista venuto da fuori a rizzare la sua bancarella, ma anche la contadina che, collocando sulla soglia di casa uno sgabello con sopra tre fichi e un grappolo di ua rosa (uva da tavola bianco-rosata), invitava i forestieri a entrare e comprare i frutti della sua campagna; o l’artigiana che, sperando di ottenere commesse di lavoro, appendeva agli stipiti della porta – a seconda se era tessitrice, frangiaia o filatrice – un lembo di tela, due fiocchetti di frangia o una matassina di cotone filato. Un intrecciarsi di piccole industrie casalinghe che venivano a saldarsi agli introiti delle improvvisate trattorie, ai contributi pro-festa, alle offerte lasciate in chiesa e – perché no? – all’accarezzata speranza delle ragazze di trovare marito, assillo che le madri fronteggiavano corredando le figlie di un vestito nuovo, magari stentatamente pagato cu ssordi pigghiàti a spiéttu (con denaro preso in prestito) e per la cui restituzione attendevano i risultati della vendemmia.

Nel malaugurato caso di una grandinata, altro che mancato pagamento del vestito! Dopo un intero anno di lavoro non retribuito in quanto svolto nel proprio campo, e privata di quella che sarebbe stata la giusta ricompensa dei sudori, la famiglia si ritrovava sul lastrico, impossibilitata non solo ad assolvere ai debiti contratti nell’attesa del raccolto, ma tragicamente catapultata nel contesto di una miseria in alcuni casi talmente nera da far dubitare circa le possibilità di sopravvivenza. Ecco perché a scongiurare simile catastrofe i componenti il comitato festa patronale si rifacevano all’uso del ricatto: furbamente menzionando il disperato ricorso alla bestemmia erano convinti che S. Giuseppe, interessato come tutti i santi a salvare l’anima dei fedeli, pur di non indurre in tentazione i contadini facendoli peccare, avrebbe soddisfatto le loro suppliche, quella preventiva e quella memorativa, che ripetevano in continuazione mentre vendemmiavano:

Sangiséppu no tti nni scirràre

mantiéni lu tiémpu

pi’ ttuttu lu innimàre.

 

S. Giuseppe non te ne dimenticare; / trattieni il bel tempo / finché tutti abbiano finito di vendemmiare.

 

Richieste che in fin dei conti si riducevano a ottenere solo una breve parentesi di sereno, essendo bastevoli pochi giorni a eseguire il taglio di tutte le uve: a parte l’abbondanza della manodopera, all’epoca il Salento non vantava le odierne estensioni di vigneto, trovando gli agricoltori pari convenienza economica in coltivazioni alternative, quali i seminativi e i ficheti, senza parlare poi degli uliveti, ai cui impianti secolari nessuno si sarebbe mai azzardato di sostituire la vite. “Cinca tàgghia nn’àrriru t’aulìa / scetta nna chésia!” (“Chi taglia [estirpa] un albero d’ulivo / abbatte una chiesa!”), dicevano i contadini a difenderne la sacralità, ben lontani dall’immaginare i sacrilegi che invece furono perpetrati subito dopo la seconda guerra, quando, col sorgere delle cantine sociali e quindi nel miraggio di una redditizia esportazione vinicola, vaste zone furono selvaggiamente disarborate.

C’è da aggiungere che, allora, si coltivavano solo ue nustràli (uve nostrane, cioè vitigni non innestati), capaci di dare qualità, non quantità di prodotto, per cui a fine settembre la vendemmia poteva dirsi conclusa o quanto meno agli sgoccioli. In verità, se qualche ritardo c’era, lo si doveva al caparbio ordine di quei padroni che, dovendo vinificare solo per uso familiare, pretendevano uva ultramatura, spesso cozzando con gli intendimenti dei coloni, il cui credo, in tempo di vendemmia, era solo quello di “manisciàmune mmanisciàmune prima ca rrìanu l’àngili”  (“sbrighiamoci, sbrighiamoci, prima che arrivino gli angeli”).

Nel loro quadro meteorologico, infatti, il 2 di ottobre (festa degli Angeli custodi) era giornata di rientro nel clima piovoso; e questo porsi nuovamente in aspettativa dell’acqua lo si poteva notare già nella mattinata del 27 settembre, quando le donne, convenendo in chiesa per la messa dei SS. Cosimo e Damiano (protettori della salute), si auguravano l’un l’altra: “La casa a mmanu a lli Santi miétici / e lli gnofe a mmanu a ll’Angili ti Ddiu” (“La casa sia affidata ai Santi medici [affinché custodiscano la salute degli abitanti] e le zolle agli Angeli di Dio [affinché non le abbiano a privare dell’acqua]”). Un buttare in avanti le mani nel timore che il bel tempo, una volta instauratosi, non avesse più a finire, in questo caso confermando lo sgradito detto:

Ci l’Angilu no ssi mmoddhra l’ale

no cchiòe fenca a Nnatale.

Se il 2 ottobre l’Angelo non si bagnerà le ali / non pioverà fino a Natale.

 

Previsione preoccupante per l’andamento agricolo, essendo ottobre e novembre gli antonomastici mesi delle piogge, periodo che i contadini, vigili traduttori delle necessità della campagna, definivano ti mpurpamiéntu (di rimpolpamento [nutritizio]), poeticamente immaginando la terra nello stadio della primissima infanzia, quando unico compito – e spettanza – è quello di dormire e succhiare. Dal canto loro avevano provveduto ad assicurare questo nutrimento, spargendo a larghe manate il letame curato nelle concimaie, ma affinché lo stesso penetrasse ingrassando le zolle e raggiungendo le radici delle piante, occorreva la collaborazione delle nuvole, ovverosia l’azione dissolvente della pioggia, in assenza della quale il processo rigenerativo non sarebbe avvenuto, mettendo in serio dubbio la sperata produttività:

Fiàcca nnata si para nnanti

ci ti tutti li Santi

la nuégghia no cchiànge

e lla gnofa no rrufa!…

Cattiva annata si prospetta / se arrivata la festività di Ognissanti / la nuvola non piange / e la zolla non tracanna!…

Situata com’era il I° di novembre, proprio al centro di quello che veniva ritenuto il periodo delle piogge, la festa di Ognissanti si poneva a data di resoconto della situazione, diciamo pure di verifica dell’ansia insorta un mese prima, cioè quando, ricorrendo la festa degli Angeli custodi, si era paventata la iattura di un asciutto protratto sino a Natale. Ormai non si era più nell’ambito delle ipotesi, bensì dei riscontri oggettivi, al di là dei quali c’erano solo urgenze, venendo inesorabilmente a restringersi il tempo giudicato utile all’impinguamento idrico della campagna. La ricorrenza di San Martino (11 novembre) era vicina e per quella data ogni acquiescenza nell’attesa si intendeva bandita, letteralmente cancellata dal montare di una fretta tradotta in perentorietà di affermazione:

Ti Santu Martinu

la gnofa s’à ttaccàre a lla menna ti la nuégghia

comu lu mbriàcu a lla entre ti la otte.

 

Di San Martino / la zolla deve attaccarsi alla mammella della nuvola / come l’ubriaco si attacca al ventre della botte.

 

     Considerando come questo era l’ultimo dei detti affermanti la necessità della pioggia e senza trascurarne il senso di voluttuosa imbibizione – già espresso nel detto riguardante la ricorrenza di Ognissanti e perciò piuttosto esasperante nella rimarcatura -, vien fatto di pensare che i contadini, nella scelta della data e  più che altro mediante la metafora comparativa terra-ubriaco, intendessero – sia pure in modo indiretto – prefigurare i termini di quella che, nella loro visuale, doveva essere la svolta meteorologica.

Decretando l’immancabilità della pioggia per l’11 novembre, in sostanza concedevano parecchio spazio al pacifico susseguirsi delle precipitazioni, ma nell’istintiva rimonta dell’atavica diffidenza prudentemente cercavano di segnarne  la cessazione ricorrendo, appunto, alla comparazione terra-ubriaco: se da una parte l’ubriachezza relazionava l’avidità del bere, per cui ne usciva esclusa l’immagine limitativa del bicchiere – controfigura dell’isolata pioggerellina -, dall’altra, proprio in virtù dell’ingordo tracannare, scattavano i limiti dell’assorbimento: continuando a bere, l’ubriaco rischiava di vomitare, così la terra, nell’esagerato intridersi, si sarebbe impantanata.

Una deduzione che potrebbe apparire frutto di arzigogolamento, se ad assolvere ogni dubbio di arbitraria interpretazione non concorresse il successivo detto imperniato sul 30 novembre, ricorrenza di S. Andrea Apostolo:

Pi’ Ssantu Ndrea ti li corde

tinne croce fatta;

ca ci nno rria jùtu ti limòne

nni tocca lu maru ti lu fele.

Il giorno di Sant’Andrea delle corde[2] / devi dire “Sia croce fatta [punto e basta]”; / perché se non viene in aiuto il limone [fermo della pioggia] / ci toccherà l’amaro del fiele [vomito, cioè tanta pioggia d’averla a nausea].

 

Ora, premettendo come questi detti, che a noi possono apparire isolati, in realtà si ponevano a tasselli di un mosaico unico, per cui, nascendo concatenati nella significazione, l’uno si prestava a complementarità dell’altro, va sottolineato che quest’ultimo riguardante S. Andrea non aveva esclusiva applicazione agricolo-meteorologica, essendo ampiamente sfruttato dai cantinieri allorché, per una certa etica professionale, si vedevano costretti a rifiutare la mescita agli ubriachi che palesemente non erano più in grado di reggere altro vino. Esortazione-imposizione che accompagnavano appunto con l’offerta di un limone (ne tenevano sempre un cesto pieno sul banco), le cui proprietà antiemetiche e astringenti venivano a rappresentare sia il rimedio pratico, sia la scansione simbolica del punto e basta.

Detto questo, al lettore risulterà chiara – e soprattutto giustificata – l’interpretazione fornita circa il ricorso alla comparazione terra-ubriaco; tanto più se riuscirà a convincersi che i simbolismi popolari – spesso esposti in accozzaglia – non erano riducibili a semplice funzione connotativa, ma erano invece condizioni della decifrabilità stessa dell’esposto, in quanto metro delle effettive denotazioni psicologiche. Un eleggere l’immagine a mezzo di svisceramento della tensione interna, e che, per quanto riguardava il 30 novembre, denunciava un vero e proprio subbuglio negli animi, venendo di lì a due giorni a scattare la ricorrenza di S. Bibiana, giornata pericolosa ai fini meteorologici, gravata com’era dalla scoraggiante affermazione:

Ci chiòe ti Santa Bbibbiana

quarànta sciùrni e nna simàna.

Se piove il giorno di S. Bibiana / pioverà per quaranta giorni e una settimana.

 

     Se in ottobre e novembre l’acqua veniva invocata, compiacentemente  tollerandone anche l’eccesso, con l’attestarsi di dicembre si reclamava un tassativo ritorno del sereno, nel timore che le granaglie già seminate avessero, per il troppo ammollo, a marcire e ponendosi la fretta di iniziare la raccolta delle olive, per la quale occorreva poter contare su un terreno agibile al via-vai dei passi. Ansia che, pur quando veniva brillantemente superato lo scoglio di S. Bibiana, non  si acquietava, tant’è che il 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, ci si impegnava a dire e ridire “Ti la Mmaculàta / l’acqua serve sulu pi lli pucce” (“Il giorno dell’Immacolata / l’acqua serve solo per fare le pagnottelle con le olive”), enucleando, nella laconicità della frase, e la tangenza del rifiuto, e la blandizie devozionale.

Essendo le pucce assurte a emblema del digiuno vigiliare, nominandole si faceva presente alla Madonna la pia disponibilità alla penitenza, implicitamente chiedendole, a contropartita, di appoggiare il rifiuto dell’acqua, peraltro espresso in una forma che oseremmo definire elegante, cioè basandolo su un simbolo privilegiato e facendolo nascere per gioco di antitesi: nel dichiarare l’acqua necessaria solo alla produzione delle pucce, ci si riferiva a quella occorrente per sciogliere il lievito e impastare, operazione per la quale si adoperava solo acqua piovana, essendo quella sorgiva di scarso sollecito alla fermentazione; nel momento però che si tirava in campo la panificazione, automaticamente si entrava nell’aura di quelli che erano i rituali domestici, sicché l’immagine mentale che ne conseguiva escludeva l’acqua piovana come contemporaneità di effetto-pioggia, focalizzata com’era sulla madre di famiglia che, scoperchiando la cisterna – sua o della vicina di casa -, religiosamente vi attingeva ripetendo ad alta voce una delle tante antiche formule di benedizione scrupolosamente trasmesse da madre a figlia. Tirando le somme e tenendo presente che in quel periodo le cisterne erano già colme, si può affermare che nel dire “L’acqua serve solo per le pucce” i contadini intendevano precisare: “La pioggia non serve affatto”.

Dal diplomatico rifiuto all’aperta provocazione il passo era breve; sette giorni appena, quelli appunto che intercorrevano fra la vigilia dell’Immacolata e la ricorrenza di S. Lucia (13 dicembre), al cui approssimarsi i contadini non si peritavano di commentare “Santa Lucia éte pisciacchiàra!…” (“S. Lucia è pisciona!…”), furbamente sperando che la santa, risentita per così irrispettoso epiteto, si impegnasse a smentirlo tenendo lontana la pioggia.

Azzardo curioso nel suo farsi chiave di convincimento attraverso l’offesa, ma non certo unico nella proposizione, poiché se ne trovava copia pressoché conforme il 16 di luglio, quando la Madonna del Carmine veniva definita “La Madonna latra ca pìzzica la ua” (“La Madonna ladra che ruba l’uva”), nell’ingenuo convincimento, appunto, di indurla a moderare i raggi solari che, battendo sui chicchi d’uva ancora troppo teneri, ne provocavano la bruciatura con ovvia decurtazione del raccolto.

E’ chiaro che, pur se anomali nella formulazione, tali detti nascevano per così dire comprovati, traendo origine dal riscontro oggettivo di quelle che erano le climatiche stagionali: se la Madonna del Carmine diventava “ladra”, era perché, essendo piena estate, bastava una giornata di sole più cocente a danneggiare i chicchi in gonfiatura; così come con  S. Lucia, alla quale si dava della “pisciona” perché piscione poteva essere il tardo autunno, spesso caratterizzato da uno snervante rincorrersi di pioggerelle che, si sapeva, erano di preludio a quelle più compatte dell’inverno ormai alle porte.

L’accanimento con il quale i contadini perseguivano lo stralcio di sereno era dovuto in  buona parte a questa consapevolezza, diciamo pure paura dei mesi a venire, a moderare la quale altro non rimaneva che aggrapparsi alla consolatoria previsione scandita a chiusura della tabella calendariale:

Ci uéi bbegna nna bbona nnata

Natàle ssuttu e Pasca mmuddhràta.

Per avere una buona annata / Natale asciutto e Pasqua sotto la pioggia.

_________

[1] Essendo la festa di S. Giuseppe da Copertino (16-18 settembre) frequentatissima da pellegrini che giungevano da tutto il Salento, gli abitanti del luogo, per un senso di ospitalità, l’avevano soprannominata “Festa ti li furastiéri”. Di contrasto, il 19, giornata ritenuta di ponte fra la stanchezza delle celebrazioni e la ripresa della normale attività lavorativa, era festa tutta per loro; festa ti li paisàni, appunto, durante la quale potevano, senza la confusione dei giorni precedenti, fermarsi con calma alle bancarelle superstiti, comprare a minor prezzo, e a sera, sia pure a luminaria pressoché spenta, assistere tranquillamente all’esibizione concertistica di una delle bande rimasta in paese esclusivamente per loro.

[2] Detto “delle corde” per agevolarne la visualizzazione iconografica che lo presentava su una croce decussata, oltre che confitto, legato con più giri di grosse funi.

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Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari 1994, pagg. 359-373

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