Il mangialibri/ Rinascita

 

di Michele Stursi

Scendo le scale di corsa, facendo scivolare velocemente le dita sul passamano gelido e unto. Mi ritrovo in pochi secondi per strada, alzo gli occhi al cielo e giro su me stesso più volte con le braccia allargate, come per abbracciare il mondo. Sento le urla dei bambini che si rincorrono e a un tratto mi accorgo che qualcuno cerca di aggrapparsi ai miei pantaloni. Abbasso lo sguardo e vedo una bambina con i capelli ricci e biondi raccolti in due enormi trecce, che stringe una bambola di pezza tra le mani.

«Signore, signore,» – mi urla – «la mia bambina ha fame».

Mi guardo intorno impacciato, nella speranza di trovare qualcuno che mi aiuti a cacciarmi da questa situazione abbastanza inusuale per me. Poi senza farmi prendere dal panico le chiedo: «Come ti chiami?».

«Maria» – mi risponde.

«Ti va un gelato?».

Indugia un attimo e poi timidamente, con la testa china sul petto, fa cenno di sì. Mi lascia la bambola e si mette a correre; poi con uno scatto si ferma, si precipita dentro una vecchia casa rustica e dopo pochi minuti ne esce con i capelli sciolti e indossando un vestitino bianco con una farfalla ricamata sul petto. Mi raggiunge in un batter d’occhio, si riprende la bambola e con l’altra manina mi stringe il dito medio.

«Possiamo andare, sono pronta» – mi dice con un tono conciso e allo stesso tempo eccitato. Percorriamo via Osanna e dopo pochi secondi siamo già in via Castello. Sento il calore emanato da quella gracile manina, le dita piccole e delicate come fuscelli al vento avvolgermi le falangi callose e una sensazione di benessere mi riempie i polmoni. Maria non parla, sembra ascoltare il mio silenzio ricco d’imbarazzo. Ogni tanto però alza la testa, mi guarda e sorride.

Arriviamo vicino alla fontana e spaesato mi guardo intorno. Alla luce del sole la decadenza del palazzo baronale è ancora più marcata: la facciata è lesionata, scrostata e offesa da scritte e cartelloni pubblicitari abusivi. L’enorme portone ligneo, tarlato ed espanso a causa delle infiltrazioni d’acqua, è semiaperto. La curiosità mi spinge ad avvicinarmi, ma Maria mi strattona dall’altra parte e sono quindi costretto a rinunciare. Non posso fare a meno di meditare su quell’increscioso scenario, eletto all’unanimità simbolo dell’incuria e della dimenticanza.

Sono appena le dieci del mattino e già davanti al bar gli anziani giocano a carte, bevono vino e birra e urlano, ingiuriano e bestemmiano, direi quasi amichevolmente. L’impressione è di gente che puntualmente, ogni giorno, s’incontra e in compagnia trascorre gli ultimi giorni della sua vita, bevendo per dimenticare. Qui si conoscono tutti, si chiamano per nome, o meglio, per soprannome. Passando tra quei tavoli, tra il nauseabondo odore di alcool e fumo di sigaretta, gli occhi vetusti di quei signori si posano interrogativi su di me. Mi scrutano con la coda dell’occhio, mentre fanno finta di sistemarsi le carte napoletane tra le dita, di studiarle e di pensare alle possibili strategie da adoperare, ma sottecchi si guardano tra di loro, come a domandarsi chi sia questo forestiero. E il tutto lasciando trasparire un’impressione di totale indifferenza.

Il baccano tuttavia si attutisce mentre io e Maria sfiliamo tra quella gente. Nel silenzio cercano di riconoscere il mio odore, il mio passo, il mio battito, qualunque indizio capace di identificarmi.

Mi sento in disagio e in forte soggezione. Aumento il passo per porre quanto prima fine a questo supplizio e arrivo di fronte alla porta del bar. Mi fermo e cerco di guardare dentro, ma un buio pece mi impedisce di mettere a fuoco. Prendo coraggio e mi addentro in quello strano luogo, lentamente, senza fare rumore; sento pulsare forte il cuore nelle tempie. L’ambiente è intriso di un forte aroma di caffè e di umidità, lo spazio è molto ridotto: camminando in un stretto corridoio di circa un metro di larghezza riesco a focalizzare sulla parete alla mia sinistra un telefono a gettoni e subito accanto un freezer a vetrina con del gelato artigianale.

Una voce flebile mi fa sobbalzare: «Prego, ce cumandi?[1]».

Ripesco qualche elemento di dialetto nohano nella mia memoria e interpreto le parole della signora come un “desidera?”.

«Vorremo del gelato artigianale, cortesemente» – mi affretto a rispondere.

Dall’oscurità si materializza una donna magra, dinoccolata, con un viso allungato condito da innumerevoli rughe, i capelli grigi raccolti in uno chignon. Si fa avanti a passi lenti protendendo le mani verso di me, come per farsi strada tra la penombra. Indossa un lupetto nero che le fascia le giugulari rattrappite e scheletriche, una giacca di lana nera abbastanza grande da nascondergli le mani e coprirle i fianchi, una gonna lunga e un paio di pantofole nere.

«Ce gusti?[2]».

Nonostante l’ambiente cupo la donna sorride e quella fronte increspata, quelle labbra sottili e livide, quegli occhi plumbei trasmettono serenità e pace nell’animo del cliente.

«Pistacchio e fior di latte» – mi affretto a risponderle.

«E pe’ sta beddhra piccinna?[3]».

Maria mi guarda come per cercare consenso, io la incoraggio con una pacca sulla spalla e lei si affretta a dire i suoi gusti tutto di un fiato.

La donna dopo averci consegnato il gelato mi fissa, poi abbassa lo sguardo, ma pochi secondi dopo ritorna a fissarmi. Ho l’impressione che voglia chiedermi qualcosa, ma la sua timidezza glielo impedisce. Mi faccio avanti: «È una bella giornata oggi».

Non ricevo alcuna risposta. La donna si siede su una seggiola dietro la cassa e si mette a lavorare della lana ai ferri, come se si fosse dimenticata di me. Seccato da quello strano comportamento decido di andarmene, ma la donna mugugna: «Giovane, sienti ‘na cosa![4]».

Io mi volto non capendo bene a chi si stia rivolgendo.

«Ma tie nu sinti de quai o sta me sbaiju?[5]».

«Cosa?» – le chiedo, non afferrando appieno quelle parole tremule. Sorride e si sforza di parlare un italiano corretto: «Non sei di queste parti?».

«No. O meglio, sono di Noha, ma è da molto tempo che vivo a Pisa».

«De Nove?![6]» – s’interroga, sforzandosi di associare la mia figura a qualcuno di conosciuto.

«De ci si fiju?[7]» – poi vedendo che indugio a rispondere mi riformula la domanda in italiano – «Di chi sei figlio?»

«I miei genitori sono morti» – mi fermo a riflettere qualche secondo, cerco di ricordare più o meno da quanto mamma e papà non ci sono più, ma mi accorgo di averci fatto caso solo ora che me l’hanno chiesto. Arrossisco di vergogna, sperando che non mi venga chiesto nient’altro.

«Dove alloggia?» – mi domanda continuando a intrecciare la lana.

Anche a questa domanda non so cosa risponderle. «In effetti sono arrivato da pochi giorni e non ho trovato ancora una sistemazione».

«Non ha parenti?».

«Sì, sì» – mi affretto a dire – «c’è mia sorella,la Dottoressa Mitri».

«Ah, allora tie lu fiju de la bon’anima de la Vicenzina e de lu ‘Ntunucciu sinti[8] – mi chiede facendosi più volte il segno della croce e mandando baci al soffitto con la mano.

Non dico nulla. Saluto e me ne esco, preso da un insopportabile senso di colpa.

tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010


[1] «Prego, cosa desidera?».

[2]«Allora, che gusti?».

[3] «E per questa bella bambina?».

[4] «Giovane, ascoltami!».

[5] «Ma tu non sei di queste parti, o mi sto sbagliando?».

[6] «Di Noha?!»; Nove è il nome dialettale del paese.

[7] «Di chi sei figlio?».

[8] «Allora tu sei figlio dei defunti Vincenzina e ‘Ntunucciu?».

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Un commento a Il mangialibri/ Rinascita

  1. E’ una storia tenera, quella raccontata, un racconto che scivola tra righe di rimpianto per un tempo troppo presto passato e anche se aleggia una pudica fantasia, pure porta ad immaginare come reale il protagonista tra le strade del proprio paese natio e potrebbe essere il passo di ognuno di noi tra odori noti di muffa e di stantio.

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