Te ci si fiju (di chi sei figlio)

Thomas Eakins (1844-1916)

di Vincenzo Ampolo

“Te ci si fiiu?”. Filippo non se lo era mai sentito chiedere. La gente sapeva a chi era figlio e non ne faceva mistero. Gli sguardi dei paesani lo avvolgevano come una corazza.  Nessuna domanda diretta sulla sua identità poteva infrangere quell’aura che illuminava il suo passaggio.

Filippo era figlio di don Raffaele, un uomo d’affari d’altri tempi.

Don Raffaele era proprietario del frantoio più importante di un paese del Capo di Leuca e uno dei maggiori azionisti della banca locale.

Riverito, rispettato, temuto, don Raffaele aveva un unico figlio, Filippo, un ragazzo perennemente annoiato, che aveva portato a termine gli studi classici grazie al nome di suo padre ed alle amicizie influenti della sua famiglia.

Figlia di contadini, Letizia, con grandi sacrifici da parte dei genitori, aveva frequentato lo stesso Liceo Classico di Filippo, risultando la prima, non solo della sua classe, ma dello stesso Istituto Superiore di Casarano.

A lei sì che la gente chiedeva di chi fosse figlia. Lei rispondeva timidamente dando, in seconda battuta, quello strano soprannome che la faceva tanto vergognare: “Si, la figlia di Giovanni Capodimulo”.

Alla sua risposta gli interlocutori si chiudevano in un silenzio imbarazzante, cambiavano discorso o correvano a sbrigare faccende dichiarate come improrogabili.

Inutile dirvi che Filippo e Letizia, frequentando insieme gli ultimi due anni della stessa scuola, si amarono,  lei con tutta la passione e l’ingenuità di un adolescente e lui con il suo bagaglio di noia, appena contrastato dal richiamo ormonale dei suoi giovani anni.

Finito il liceo e trascorsa un’estate fatta di fugaci incontri pieni di promesse e di speranze, lui partì per Padova a continuare, o a fingere di continuare, gli studi e lei rimase nel piccolo paese di Matino, a rovinarsi le mani e gli occhi a furia di cucire scarpe per conto di una fabbrica del luogo.

Letizia, dopo quell’unico amore, vissuto a dispetto di tutto e di tutti, non volle più allacciare rapporti con nessun altro uomo. Fedele, sola e triste finì per morire in un pensionato pieno di odori sgradevoli e di operatori-aguzzini.

Filippo, dopo una vita nel segno del  nonfarnulla, si sposò con una ricca vedova e si fece mantenere fino alla fine dei suoi giorni.

Ma si sa, il tempo porta con se ricordi, amarezze, rimpianti…

Già vecchio e stanco, passeggiando per i viali della sua villa, in un giorno di sole, scorse tra l’erba alta un fiore di cui non ricordava il nome. Lo raccolse e ne sentì il profumo e, per un attimo, ritornò ad un giorno della sua giovinezza. Era primavera e lui era con Letizia. La strada di campagna era in salita e tra loro fiori e sorrisi.

Il sole cominciava a calare quando le loro labbra si sfiorarono, per un attimo o per un’eternità.

Quel giorno, il mitico prof. Storace, aveva letto in classe il contenuto di una tavoletta del IV secolo A.C. proveniente da un sito non troppo distante dai loro paesi d’origine:

“Io sono figlio della terra

e del cielo stellato,

e la mia razza è celeste.

Ma voi lo sapete.

Sono stanco e sto morendo di sete.

Presto, datemi la fresca acqua

che proviene dal lago dei ricordi”

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2 Commenti a Te ci si fiju (di chi sei figlio)

  1. E’ sorprendente scoprire pochi righi scritti con accuratezza e riferimenti essenziali capaci di dare un quadro della situazione ricchissimo e coinvolgente. Vincenzo Ampolo ne è l’autore e a lui rivolgo la mia sincera ammirazione.
    Filippo e Letizia sono le due facce del racconto: agiatezza, passività e pigrizia sentimentale nell’uno, povertà, impegno e ingenua passionalità nell’altra.
    C’è chi si immola in nome della patria e della libertà e c’è chi si immola in nome dell’amore: Letizia è un’eroina triste che non trova porte aperte per la sua intelligenza senza mezzi economici e origini rispettabili nè per il suo sentimento senza ricambio e responsabilità da parte dell’amato.
    Filippo è invece il niente, ovvero colui a cui in paese chiedono addirittura di chi sia figlio, tanto la noia lo sbiadisce nei suoi contorni fisici; il ragazzo, unico rampollo di una famiglia ricca e potente, non è portato per lo studio, sostanzialmente non ha voglia di fare niente come se l’ambiente che l’ha generato e nutrito sia privo di sostanze. Eppure il giovanotto segue la strada già segnata dai suoi e passa dal liceo classico all’università.
    A questo punto Filippo e Letizia, innamorati maleassortiti, si dividono: la ragazza, novella Giulietta, costretta per miseria a rinunciare alla sua realizzazione personale, rimane in paese vivendo nel ricordo del suo primo amore e consacrandolo a giorni di solitudine fino alla morte in un ospizio; l’amato, un ‘Romeo al contrario’, parte indifferente al vuoto lasciato nel cuore della fidanzata, e continua a lasciarsi vivere fino a farsi sposare e mantenere dalla moglie. Arriva la vecchiaia anche per lui, la tappa che non perdona, quella fase che se da una parte rapisce la mente al presente, dall’altra la sveglia riattivando il cuore al passato. Vincenzo Ampolo usa pochi tocchi magistrali per sciogliere l’insofferenza del lettore verso Filippo, fantasma di ciò che si direbbe un uomo, e d’un tratto lo innalza agli altari di un ‘Vixi’ che gli ridona colore, che gli rende l’onore perduto abbattendo l’anonimato del suo pigro scorrere nel mondo. Filippo, vecchio a passeggio sui suoi ricordi, associa infatti un fiore alla Primavera della sua vita, quella della sua giovinezza accanto a Letizia, forse l’unica bella stagione dei suoi anni, certo l’unico intervallo in cui il suo cuore ha battuto, figlio dell’amore, dandogli un motivo per credere di non essere vissuto invano. Struggente storia di esistenze per un finale emozionante di redenzione: Filippo è figlio dell’amore per Letizia.
    Non tutti i finali lieti, però, sono parenti delle favole.

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