Fiabe salentine/ La rosa

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

La casetta di Emilia sorgeva nel mezzo dei campi, collegata alla strada maestra da un sentiero costeggiato da cespugli spinosi. Una siepe fitta, intricata, che, curvando, continuava sino a un bivio rallegrato da un’edicola a forma di chiesetta: all’interno, protetta da una grata leggera come merletto, un’immagine della Vergine protendeva le mani verso i passanti, i quali, conquistati da tanta materna dolcezza, vi sostavano a pregare, a posare fiori e accendere lumini.

Anche la mamma di Emilia, nell’andare e tornare dal paese, vi si fermava, ogni volta sospingendo in avanti la sua figlioletta per meglio sottoporla allo sguardo della Madonna.

Nata sordomuta, Emilia non poteva udire le parole che la madre indirizzava alla Vergine, ma dal muovere convulso delle labbra, dal contrarsi delle mani intrecciate e più ancora dalle lacrime che vedeva sgorgare dai suoi occhi, capiva che stava chiedendo grazia, per cui si teneva pronta a ubbidirla allorché, a gesti, la sollecitava a raccogliere le mani a coppa, deporvi un bacio e offrirlo alla Madonna.

Un esercizio quotidiano che, col passare del tempo, l’aveva convinta essere quell’edicola l’abitazione di una donna estremamente buona, amabile e bella, l’unica alla quale potere andare a chiedere aiuto in caso di bisogno. Considerazione che le infondeva tanta sicurezza e che pensò di mettere in pratica quando, nel calare di una sera di maggio, dall’affaccendarsi di più persone accanto al letto della madre, capì che qualcosa di insolito – e per lei preoccupante – stava accadendo nella sua casa.

Perplessa e piuttosto impaurita, non oppose resistenza alla premurosa vicina che, presala per mano, l’accompagnò in un casolare poco distante, mettendola a dormire accanto alle sue figlie; ma appena fu sicura di non essere vista, sgusciò fuori dal letto e rivestitasi alla meglio si allontanò tagliando i campi in direzione dell’edicola.

Non uno, ma dieci, venti, cento baci occorreva offrire a quella bella Signora, tanto più che il suo volto, rischiarato dai lumini, sembrava aprirsi a un sorriso invitante: Sì, dammi i tuoi baci, figlia mia, perché è dall’amore come il tuo e quello della tua mammina che ha bisogno il mio cuore…Sapessi quante più grazie farebbe il Signore se tutti mi amassero come voi due!…

disegno realizzato in tenera età da Giulietta

Raccolte a coppa ambedue le mani, Emilia affannosamente cominciò a sommare baci, ogni volta aprendo e chiudendo la boccuccia per darsi più forza.

La ritrovarono all’alba, addormentata a ridosso della grata, con nelle mani, mantenute a coppa, un fiore sconosciuto, composto da innumerevoli petali, ognuno dei quali aveva la forma di una boccuccia aperta, col margine superiore sagomato a cuore, appunto come le labbra.

– Meraviglia! Meraviglia! – gridarono le donne alla vista del nuovo fiore; esclamazione subito convertita  in dichiarazione di “Miracolo! Miracolo!” non appena si accorsero che Emilia, fino a quel momento sordomuta, si era messa a parlare, guardandosi attorno felice e come inebriata dall’udire finalmente i mille suoni della natura che il sole nascente chiamava al risveglio

Fermento di vita anche nella sua casetta, dove, appena giunta, aveva potuto ascoltare i vagiti del fratellino appena nato: si spandevano nella campagna in sintonia col pigolio degli uccelli, molti dei quali avevano nido nei cespugli del sentiero che conduceva all’edicola e sui cui rami spinosi, al passaggio della bimba, il fiore che questa portava in mano si era prodigiosamente innestato, via via moltiplicandosi sino a coprire l’intera siepe.

La fede della piccola Emilia, sostenuta dall’affettuosa intercessione della Vergine Maria, aveva infatti talmente commosso Dio che non si era limitato al miracolo della guarigione, ma aveva anche perpetuato l’innocente susseguirsi di baci creando la Rosa, insuperabile simbolo di amore che da quell’anno, ad ogni riproporsi di maggio, si ripete inghirlandando tutte le edicole e gli altari dedicati alla Sua Santissima Madre.

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5 Commenti a Fiabe salentine/ La rosa

  1. che bel racconto da “libro Cuore”!!! mi ricordo delle elementari quando il maestro quasi quotidianamente ci faceva leggere a turno racconti di questo tipo e i ragazzi si formavano anche con queste letture… Non credo che oggi avvenga più……peccato.

  2. Le cose che tu rievochi, Franco, sembra appartengano ormai al Vecchio Testamento. No, che io sappia non avvengono più, anche se per tua a mia consolazione mi sono ricordato che negli anni Sessanta la formazione etico-educativa dei bambini nelle scuole avveniva secondo questo vecchio stile.
    Mi spiego: in quegli anni, sul filone de “LA ROSA”, Giulietta pubblicò un libretto di fiabe dal titolo “QUANDO I FIORI RACCONTANO”, ed io sono in possesso – e tu me li hai fatto scartapellare dal più profondo degli archivi – di 38 temi di una quarta elementare di una scuola di Ostia (Roma), dove l’insegnante, il noto poeta Rocco Cambareri, nostro collaboratore,nel 1967 lesse o scrisse – non ricordo – sulla lavagna una di queste fiabe, per l’appunto “Il Fiordaliso e il papavero”, facendo fare in classe il riassunto e addirittura le riflessioni che, credimi, sono da studio. Stupenda anche, in una pagina a parte del riassunto, l’illustrazione a colori che ogni bambino fece sviluppando la sua fantasia.
    Sarebbe interessante, a distanza di quasi cinquant’anni, proporre la stessa fiaba ai bambini di oggi e vedere – a fini di studio – le differenze d’interpretazione e di proposizione. E la parte figurativa come l’avrebbero impiantata oggi?
    Voglio dire grazie anche a Pietro Gigante, che ha testimoniato di essere una persona sensibile ai temi più ostici.

    • grazie Nino, ho letto ora questa tua nota ed esulto di gioia per tutto quello hai scritto e sottoscrivo anche il consiglio di Sandro. Un caro saluto.

  3. “Non uno, ma dieci, venti, cento (…)” di questi racconti ci devi offrire!
    Non aggiungo altro … solo grazie Nino!

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