La Maddalena in gloria del Lanfranco in San Pasquale a Taranto

 

di Nicola Fasano

La sacrestia della chiesa San Pasquale di Baylon di Taranto conserva numerosi dipinti di autori importanti quali Cesare e Francesco Fracanzano, Leonardo Antonio Olivieri e una tela attribuita a Luca Giordano. Con questo mio articolo voglio fare luce su un dipinto di alta qualità, sfuggito alla critica, raffigurante la “Maddalena in gloria”, ascrivibile ad uno dei più importanti artisti del Seicento, Giovanni Lanfranco.

Il pittore, esponente di primo piano della pittura seicentesca e della decorazione barocca, fu allievo di Agostino e Annibale Caracci e si ricorda come autore di importanti cicli pittorici nelle chiese di Roma e Napoli, oltre ai molti quadri conservati nei musei più importanti del mondo tra i quali il Louvre.

Tornando alla tela tarantina, la Maddalena è raffigurata mentre sale

Il chiostro di S. Francesco di Paola a Grottaglie e il pittore Bernardino Greco da Copertino

 

IL CICLO BIOGRAFICO DI S. FRANCESCO DI PAOLA NELLE LUNETTE DEL CHIOSTRO DEI PAOLOTTI DI GROTTAGLIE

 

di Rosario Quaranta

 

Il chiostro dei Paolotti non è l’unico in Grottaglie; altri ve ne sono, infatti, nei diversi complessi conventuali dei Carmelitani, dei Cappuccini e delle Monache di S. Chiara. Di questi però solo quello annesso al maestoso convento del Carmine risulta degno di particolare nota, sia per la struttura che per le interessanti pitture e decorazioni. Quello dei Cappuccini, molto semplice e di modeste dimensioni, è ormai irriconoscibile come quasi tutta l’imponente struttura conventuale sita, peraltro, in un sito altamente suggestivo sullo spalto  nord della storica gravina del Fullonese, da tempo abbandonata allo scempio e alla distruzione ed ora in fase di recupero e restauro. Il minuscolo chiostro delle Clarisse, in aderenza alla peculiare severità ed estrema semplicità del monastero, non presenta interesse artistico o architettonico. Il chiostro del Carmine appartenente strutturalmente al secolo XVI e completato nelle decorazioni nel secolo XVIII, rappresenta sicuramente un elemento di notevole interesse artistico e architettonico del territorio. Nonostante le modeste dimensioni, si presenta all’occhio del visitatore snello, elegante e ricco, come quello dei Paolotti, di un ciclo pittorico di tutto rilievo.

Il chiostro di S. Francesco di Paola, annesso alla chiesa e al grandioso convento dei Frati Minimi, qui introdotti nel 1536 dal grottagliese  P. Girolamo Sammarco. è di sicuro il più importante di Grottaglie, e tra i più interessanti e significativi dell’Ordine dei Minimi, sia per la struttura che per il richiamo del ciclo pittorico quasi completo della vita del taumaturgo calabrese. La struttura architettonica risale, perciò alla seconda metà del  secolo XVI, mentre le lunette  vennero  completate nel 1723, con fresca e originale vena popolaresca, dal pittore salentino Bernardino Greco da Copertino, il quale per le varie scene si ispirò abbastanza fedelmente a una serie di incisioni di Alessandro Baratta stampate con didascalie poetiche a Napoli nel 1622: La  vita e miracoli del gloriosissimo Padre Santo Francesco di Paola, con le rime di Don Oratio Nardino Cosentino, dato in luce per Ottavio Verrio genovese, Napoli 1622 (altra edizione a Napoli nel1627 a cura di Giovanni Orlandi).

1723 FIRMA DELL’AUTORE BERNARDINO GRECO DA COPERTINO

Nelle lunette di Grottaglie vengono proposti, senza un vero e proprio ordine, episodi della vita miracolosa del  santo di Paola, insieme con figure e personaggi legati alla storia dell’Ordine dei Minimi. Ogni scena è illustrata da una didascalia poetica (quattro quartine sono del celebre letterato minimo del Seicento Francesco Fulvio Frugoni)  e riporta i nomi e gli stemmi delle famiglie grottagliesi che commissionarono l’opera, tra le quali quella dei feudatari principi Cicinelli.

Il chiostro, in parte restaurato, è un monumento studiato e giustamente decantato in diverse pubblicazioni da P. Francesco Stea; in particolare nel suo Un monumento barocco (Fasano, 1979): Ecco come ne parla: “Al centro del convento si allarga il chiostro: costru­zione ad ampio respiro, quadrilatero perfetto, che si articola in venti arcate a tutto sesto, rette da colonne doricheggianti di carparo locale. Su tre lati — sud, est, ovest — esse sono quadrate e sormontate da brevi capitelli; a nord sono ottagonali a diretto sostegno dell’arco. A somiglianza del tempio dorico, poggiano, senza base, sullo stilobate, «come albero che spunta direttamente dal terreno»; la loro base è un unico rialzo perimetrale, con due cuscinetti accennati a dop­pio ripiano; il fusto è senza scanalature, assottigliato, per accentuare l’energia di tensione verso l’alto. Il ca­pitello si compone d’un cuscinetto a linea curva — echino — e di un parallelepipedo — abaco — sul quale poggia un semicatino con foglie ai lati; un’ampia cor­nice a più ripiani, inizia il pie’dell’arco. Nella parte superiore del lato nord, i pilastri ripeto­no motivi analoghi a quelli del piano inferiore: echino ed abaco più evidenziati e fregi ai quattro lati. Corre sull’orlatura la “sima” con le docce per l’acqua piova­na; il tetto, infine, è a terrazze lastricate. Le volte sono a vela; al centro una pigna, di forma quasi sempre diversa, fa da chiave di volta. Sei ampi finestroni luminosi del corridoio di sog­giorno soprastante l’atrio si affacciano sul lato nord, in proiezione prospettica, conferendo eleganza e son­tuosità (…) Oltre all’equilibrio architettonico e alla simmetria dell’intero corpo di fabbrica, pur nel continuo variare dei diversi elementi, in mirabile armonia tra loro ad accrescere fascino e bellezza concorrono gli affreschi sotto le vele. Sono trentadue le lunette, comprese quattro dell’ ingresso, di cui una è andata completamente perduta, l’altra è visibile solo per metà. Di fronte, nel vestibo­lo, si apre l’albero genealogico dell’Ordine; le altre si snodano come in un interessante diorama storico: la vita del Santo Fondatore dei Minimi e la sua azione prodigiosa, lungo tutto l’arco dei suoi novantuno anni. Tra l’una e l’altra, dove si allarga l’angolo della vela, sono inseriti dei medaglioni di illustri personalità: re, regine, duchi, arcivescovi, vescovi, benefattori insigni, terziari dell’Ordine con i loro stemmi e blasoni: venti in tutto (…) Ove meglio le pitture si conservano, è sul lato nord, a ridosso di tramontana; qui non hanno perduto nien­te della loro primitiva freschezza, come la canonizza­zione del Santo, affollatissima di alti dignitari pontifici ed ecclesiastici di ogni rango. In un’altra, il Santo appare circonfuso di fulgore nella gloria della sua apo­teosi, con i lembi della tonaca che sembrano toccare terra, come per assicurare i suoi devoti, dal cielo, che egli continua a guardarli e proteggerli. Importanti, per l’araldica grottagliese e di qualche famiglia di paesi forestieri, i nomi di chi ne ordinò l’esecuzione; alcuni sono tuttora esistenti: Marra, Lo Monaco, Serio, Ciracì, Lillo, Finto, Maranò, Caforio, Bucci. Di ventisei lunette conosciamo il committente, de­gli altri il nome non è riapparso dopo i restauri; sei della famiglia Pinto; sei del Principe di Cursi e Duca di Grottaglie; sei di sacerdoti grottagliesi; una del Viceduca Antonio Damiano; una del Barone Tommaso Basta di Monteparano; le rimanenti di altri de­voti. Pitture fatte eseguire senza finalità specifiche o particolari riferimenti ai soggetti raffigurati: alcuni com­mittenti avevano il nome “Francesco”, evidente la de­vozione al Santo; i sacerdoti erano quasi tutti del locale Capitolo Collegiale; anch’essi vollero in tal modo manifestare l’attaccamento al Paolano, oltre che all’Ordine dei Minimi, orgogliosi del decoro e del lustro che il monumento conferiva al paese. I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gu­sto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza (…) Negli affreschi domina sovrana la figura del Santo, attorniato da alcuni suoi religiosi o seguito da ammi­ratori e devoti. Gli spazi sono pieni, qualche volta, di immagini senza vita e movimento, che balzano all’oc­chio dell’osservatore, non senza un fascino alla luce del giorno, suggestiva e piena di mistero nella penom­bra della sera. Le scene conferiscono una sacralità a tutto il chiostro, e non pochi sono coloro, che, en­trando, in ore vespertine, vengono presi da religioso rispetto e timore: sembra che il Taumaturgo di Paola, dipinto nelle lunette, abbia, operato qui, tali pro­digi. La storia, così varia, di oltre quattro secoli, svoltasi sotto queste arcate e nell’intricato dedalo dei lunghi corridoi del convento, la severità e la ieraticità di tanti personaggi dicono che «ora, veramente, questo luogo è santo», specie se si considera il forzato abbandono da parte dei religiosi, quando, tristi e foschi episodi ne hanno profanato la sacralità.”

L’Autore delle pitture murali: Bernardino Greco

Per quanto riguarda l’autore, gli unici dati certi derivano dalla sottoscrizione e dalla data che si possono ancora  leggere, inserite in un cartiglio nel vestibolo del convento: “Bernardino Greco di Copertino dipingeva nell’anno del Signore1723”.  Di sicuro sappiamo che egli dipinse pure il ciclo pittorico sul santo di Paola del convento di Monopoli (Bari): 20 lunette corredate, come a Grottaglie,  da didascalie, ritratti di personaggi illustri, stemmi nobiliari e decorazioni. Si  tratta di una serie di episodi dipinti con una vena leggermente più sommaria e semplificata.

Il pittore copertinese, di certo su indicazioni dei religiosi grottagliesi, dipinse gli episodi della vita del santo su 28 lunette del chiostro e su tre lunette del vestibolo; sull’intera quarta parete del vestibolo, ed esattamente quella posta di fronte all’ingresso, raffigurò l’albero dell’Ordine dei Minimi (Arbor Religionis Minimorum). Quindi in tutto 31 episodi biografici, dei quali, però, quello raffigurante probabilmente la morte del Santo è andato completamente perduto, e altri tre sono cancellati per oltre la metà (Il Santo che ripara la fornace ardente, l’asinello restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco e l’episodio dei pesci arrostiti fatti tornare in vita). Diversi altri, poi, versano in uno stato di progressivo deterioramento che nel volgere di pochi anni ne rovinano vistosamente i tratti; è il caso degli episodi riguardanti il passaggio dello stretto di Messina, il miracolo dell’uomo assiderato da tre giorni e tornato in vita, del guerriero miscredente e dello stesso Albero della Religione del vestibolo ormai irriconoscibile per oltre la metà. Una vera iattura da fronteggiare al più presto se si vuole salvare questa testimonianza di religiosità e di cultura.

Per buona fortuna, ad eccezione della lunetta del tutto perduta, siamo in grado di identificare e riconoscere tutti gli altri episodi grazie al modello che il pittore tenne presente abbastanza fedelmente, tratto, come si è detto, dalla serie delle tavole realizzate nel primo Seicento dal pittore-incisore Alessandro Baratta.

Il lavoro del pittore si protrasse per un certo tempo prima di concludersi nel 1723 che, evidentemente, è la data di conclusione dei lavori fissata nel cartiglio del vestibolo; una prova di ciò si può intravvedere nella mancanza di un preciso ordine nella sequenza degli episodi e dei medaglioni dei personaggi. Probabilmente si dovette procedere in base agli interventi finanziari di coloro che commissionarono le pitture con gli episodi miracolosi scelti da loro stessi tra quelli che maggiormente li avevano colpito e corredandoli con didascalie poetiche e con la raffigurazione dei propri stemmi o blasoni nobiliari. Spiega ancora P. Stea: “I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gu­sto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza: evidente il fine di magnificare ed esaltare la potenza taumaturgica del Santo.

Ecco l’oro del cor fatto assassino

Spander punito i sanguinosi umori;

Perché succhiò le vene a tanti cori

Rende il sangue rubato il ladro fino.

Nella reggia di Napoli, dove Ferdinando d’Aragona non si fa scrupolo d’angariare e di vessare le popo­lazioni, l’Eremita di Paola tuona con la forza del suo animo contro i soprusi che immiserivano la povera gente.

A stupir qui, natura, Egli t’invita

Informe volto a disegnar s’accinge;

Ad immagine sua qual Dio, lo pinge,

Sputo è il color, e son pennel le dita.

Pittura e poesia si fondono mirabilmente: non sap­piamo dove l’una cominci e l’altra finisca. La fresca vena popolare, è componente unica nella cornice architettonica di colore.

Questo sincronismo ci induce a ritenere il chiostro un’opera degna di nota tra le altre della nostra regio­ne; giudicarlo diversamente sarebbe voler obliare ogni espressione d’arte minore e limitarsi alle mag­giori.”

Gli episodi della vita del Santo

La biografia del Paolano viene perciò efficacemente illustrata con una sequenza consistente di episodi che così si possono riordinare:

  1. Un bagliore nel cielo di Paola nella notte in cui nacque il Santo
  2. Nascita del Santo (27 marzo 1416)
  3. Il giovane Francesco si consacra a Dio coi i 4 voti (ubbidienza, povertà, castità e vita quaresimale)
  4. Il giovane Francesco riceve dagli angeli le insegne dell’Ordine (il cappuccio e lo stemma CHARITAS)
  5. Un capriolo scampa ai cacciatori rifugiandosi presso il Santo
  6. Con l’applicazione di erbe il Santo guarisce il barone di Tarsia da una cancrena alla gamba
  7. Il Santo accetta una generosa offerta da un nobile cosentino per la costruzione di un convento
  8. S. Francesco entra nella calcara ardente per ripararla (nel vestibolo, in alto, sul portone)
  9. Risana un religioso che si era tagliato il piede nel fare legna nel bosco
  10. Richiama in vita dalla fornace ardente l’agnellino divorato dagli operai
  11. Fa tornare in vita un morto assiderato nella neve da tre giorni
  12. I soldati inviati dal re non riescono a catturare il Santo
  13. E’ sorpreso in estasi davanti alla Trinità con una triplice corona sul capo
  14. Guarisce un lebbroso
  15. Ordina all’asinello di restituire gli zoccoli al maniscalco avaro (vestibolo, in altro a destra)
  16. Guarigione di forsennati e furiosi
  17. Ridona sembianze umane  a un bambino deforme servendosi delle dita come un pennello
  18. Risuscita il nipote Nicola D’Alessio che poi diventerà frate
  19. Passa miracolosamente lo stretto di Messina
  20. Consegna ai soldati del conte d’Arena la candela benedetta per la guerra contro i Turchi
  21. Un soldato rifiuta la candela benedetta dal Santo; per questo egli non fece ritorno dalla guerra contro i Turchi
  22. S. Francesco di Paola spezza le monete d’oro davanti a Re Ferrante d’Aragona a Napoli
  23. Ridona la vita ai pesci arrostiti che il re gli aveva fatto portare (rovinata)
  24. Il Santo è ricevuto a Roma dal Papa Sisto IV. In alto a destra egli profetizza il pontificato a Giovanni dei Medici che poi lo canonizzerà nel 1519 (Leone X).
  25. La nave che aveva portato il Santo in Francia, al ritorno, scampa al naufragio grazie agli zoccoli del santo gettati in mare
  26. Il re di Francia Luigi XI accoglie il Santo
  27. Profetizza a Luigia di Savoia la nascita di un figlio.
  28. Luigia di Savoia presenta al Santo il figlio avuto per sua intercessione (Francesco I di Francia).
  29.  (Perduta: probabilmente raffigurava la morte del Santo)
  30. Canonizzazione del Santo in S. Pietro (1 maggio 1519)
  31. Il Santo Taumaturgo guarisce i malati di ogni sorta (vestibolo, in alto a sinistra)
  32. Albero dell’Ordine dei Minimi (vestibolo, di fronte)

Il vestibolo del convento appare oggi molto diverso da come si presentava nei secoli scorsi. L’incuria degli uomini e lo scorrere inesorabile del tempo ne hanno irrimediabilmente compromessa la bellezza: la parete che si trova di fronte all’ingresso, una volta interamente ricoperta dalla pittura murale raffigurante l’Arbor Religionis, oggi conserva solo una parte di questo interessante soggetto iconografico e per giunta in condizioni pietose. Delle tre lunette sovrastanti, solo una (e cioè l’azione taumaturgica del Santo) si può ancora osservare nella sua interezza, mentre le altre due (e cioè l’episodio della fornace ardente e l’asinello che restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco) risultano perdute per oltre la metà. Anche la volta, interamente decorata, è molto rovinata; nonostante tutto è ancora possibile leggere sui due cartigli il nome dell’Autore e la data di realizzazione:

BERNADINUS GRAECUS   [CO]PERTINENSIS  [PINGE]BAT

[……………………………………… ]   A. D. MDCCXXIII

Il significato allegorico dell’albero che, partendo alla base dal corpo del Fondatore, si innalza maestoso nella storia della Chiesa e  che porta i suoi buoni frutti di virtù e di santità, viene espresso in maniera alquanto diversa e semplificata rispetto a una nota incisione del 1622.

Comunque , si può ancora vedere in alto, “ il Fondatore S. Francesco di Paola; sul suo capola SS.ma Trinità; intorno, un coro di angeli festanti e uno stuolo di venerabili martiri, confessori, dottori e vergini, re, regine, personalità illustri, alti dignitari, ecclesiastici, religiosi del primo Ordine, suo­re e terziari d’ambo i sessi; sotto, si diramano maesto­si e folti i rami di questo albero secolare, che «diede fiori e frutti santi», al dir di Dante.”

Il progressivo deterioramento sta gradualmente cancellando dal basso verso l’alto, numerosi personaggi al punto  che alcuni di questi già riportati nella monografia di P. Stea, sono ormai scomparsi. La stessa sorte sta interessando purtroppo molte altre lunette.

Recentemente sono state restaurate le due lunette relative al fausto presagio della notte in cui nacque il santo e al miracolo della nave in tempesta, salvata per intercessione del santo. Si attende anche per le altre un intervento sollecito per salvare questo significativo monumento di spiritualità di arte e di cultura del nostro territorio.

Lecce. Il Sedile: note storico – descrittive

Lecce, piazza S. Oronzo, Il Sedile e la chiesa di S. Marco (ph Giovanna Falco)

di Giovanna Falco

Le recenti polemiche inerenti al restauro del Sedile in piazza Sant’Oronzo a Lecce, amplificate dalla scioccante illuminazione rosa fucsia (ormai spenta) e concentrate sulla rimozione di vari elementi storicizzati (la piastrella in maiolica recante l’antico numero civico 1674, le vetrate, il lampadario, il camino)[1], così come sul nuovo impianto illuminotecnico e le vetrate antiriflesso fissate da crociere di acciaio, fanno tornare alla mente un altro dibattito – anche questo riportato dai giornali – che ha riguardato sempre questo monumento.

Nel 1897, per dar risalto al Sedile, si pensò addirittura di abbattere la chiesetta di San Marco, che gli sorge di fianco. All’epoca – a differenza di oggi, fu proprio il Regio Ispettore dei Monumenti di Terra d’Otranto – Prof. Cosimo De Giorgi -, ad appellarsi alla cittadinanza dalle pagine del Corriere Meridionale, ricordando come la chiesetta testimoniasse la presenza secolare della potente colonia veneta, e sottolineando l’importanza del piccolo monumento: rara dimostrazione incontaminata dell’arte cinquecentesca. Da qui nacque un acceso dibattito che per più di un anno riempì di polemiche i giornali locali. Dalle pagine della Gazzetta delle Puglie, ad esempio, si criticava la troppa attenzione di Cosimo De Giorgi per «una cappelluccia corrosa e di

Trottole e antichi giochi di fanciulli salentini

Gioco di abilità e intelligenza

 LU CURUDDHRU

Anche i figli degli antichi romani mandavano il “turbo”

di Piero Vinsper

“Costruire delle casine, attaccare i topi ad un carrettino, giocare a pari e caffo, cavalcare una lunga canna” sono per Orazio i primi giochi infantili: giochi di ragazzi romani e giochi dei nostri.

A pari e caffo (par impar) si giocava così: uno teneva chiusi nel pugno alcuni sassolini (noci, ecc.) ed invitava il compagno a dire se erano in numero pari o dispari. Apriva poi la mano, e si vedeva se l’interrogato ci aveva dato giusto.

Si usava anche giocare capita et navia, cioè, come diciamo noi, “a testa e croce”, e nel dialetto galatinese “a capu e litthri”, gettando in alto una moneta e cercando di indovinare, prima che cadesse, se sarebbe rimasta in alto la parte con la testa o la parte con la nave.

E si giocava alla morra (digitis micare), si mandava la trottola (turbo) con lo spago o con la frusta, o il cerchio (orbis, trochus), servendosi di un bastoncino diritto o ricurvo (clavis).

Molto giocavano con le noci, tanto che Persio dice “lasciate le noci” volendo significare “passato il periodo dell’infanzia”.

Da allora ai nostri giorni il gioco non è cambiato affatto: si mettevano su delle capannelle con tre noci sotto e una sopra, e se uno riusciva a farle crollare, colpendole con il “bocco” (boccus = corpo rotondo, la nostra “paddhra”), le noci erano sue.

Va detto che, nel periodo posteriore all’invasione della cultura greca, tutti i giochi infantili greci divennero abituali in Roma: come, per esempio, l’altalena sospesa alle funi (αίώρα) o su di un’asse in bilico (πέταυρον),l’aquilone (άετóς) e il fare ad acchiappino (άποδιδρασκíνδα, il nostro zzaccarreste) e a mosca cieca.

Mosca cieca in greco si dice mosca di rame (χαλκή μυΐα); un ragazzo con gli occhi bendati brancolava cercando di afferrare uno dei suoi compagni e diceva:”Darò la caccia alla mosca di rame”; e i compagni, ronzandogli intorno con un bastoncino:”La caccerai e non l’acchiapperai”; e giù botte.

Ora prendiamo in esame il gioco del turbo latino, della trottola, cioè, nella nostra κοινή διάλεκτος, de lu curuddhru.

gioco11

Curuddhru deriva dalla forma tardo-latina currulus, che si rifà al verbo curro e sta a significare una cosa che corre, che scappa, che ti sfugge di mano.

Tre sono i tipi di curuddhri: curuddhru propriamente detto, mathrecòcula e pinnetta.

Lu curuddhru ha forma conica, la base del quale è sormontata da un cerchietto rotondo, la chìrica, il vertice termina con una punta d’acciaio.

Per far fitare (da φοιτάω: vado qua e là, su e giù, avanti e indietro, corro, giro, ecc.) lu curuddhru è necessario avvolgere, a partire dal vertice, intorno alla sua superficie, una cordicella; l’abilità del giocatore consiste, appunto, nel far aderire perfettamente questa corda in modo che, lanciandolo, e facendo presa sull’estremità della corda che si tiene in mano, si possa imprimere una forza tale da fargli acquistare un’accelerazione che duri un certo periodo di tempo.

La mathrecòcula è ‘nu curuddhru schiricatu, un po’ più panciuto, mentre la pinnetta, dalla forma più snella e slanciata, ha al vertice una punta d’acciaio ben più spessa.

Due sono i tipi di gioco cu llu curuddhru: sotta manu e a morte e si devono svolgere su terra battuta. Sia nell’uno che nell’altro gioco il numero dei partecipanti è illimitato; la differenza consiste nel modo di far fitare lu curuddhru.

Sotta manu: dopo aver avvolto intorno a llu curuddhru la corda, tenendo fra le dita il capo dell’altra estremità della corda e facendo attenzione che lu curuddhru che si ha in mano abbia il vertice rivolto verso l’alto, lo si lancia in senso orizzontale sulla superficie da gioco. Vince il giocatore che fa fitare lu curuddhru in un tempo maggiore rispetto agli altri.

A morte: sempre la solita operazione. Però in questo caso lu curuddhru viene lanciato a picco, in senso verticale, sul terreno da gioco.

La cosa si complica se subentra la mathrecòcula; e qui è messa a dura prova l’intelligenza del ragazzo, perché, in breve tempo, deve calcolare traiettoria, distanza, tempo e raggio d’azione per poter colpire il bersaglio.

Si traccia allora per terra un cerchio, ed il gioco diventa più difficile se il cerchio è più piccolo di diametro. Dapprima si fa fitare nel cerchio la mathrecòcula, poi ogni giocatore deve colpirla tirando a morte la pinnetta o lu curuddhru. Se l’una o l’altro riesce a colpire in pieno la mathrecòcula accade spesso che quest’ultima si spacchi in due.

Ed il momento più opportuno per cercare di centrare la mathrecòcula è quando questa rotea su se stessa con una velocità tale da sembrare che stia ferma. Naturalmente risulta vincitore chi colpisce la mathrecòcula.

(in “Il filo di Aracne”, n°1 – 2006)

(Lu curuddhru = la trottola)

Le origini della chiesa Matrice di Manduria: un mistero non ancora chiarito

di Nicola Morrone

Quello circa le origini della chiesa Matrice di Manduria  è uno dei tanti problemi relativi alla storia della nostra citta’ a tutt’oggi non ancora definitivamente risolto. A questo proposito, una tenace tradizione storiografica (mancando i documenti) concorda su un assunto: prima che nel sec. XVI (1532)  sorgesse l’attuale  chiesa Madre, dedicata alla SS. Trinità, al suo posto esisteva  una cappella  di epoca normanna, sorta intorno al 1090, al tempo cioe’ della fondazione di Casalnuovo ad opera dell’intraprendente Ruggero Borsa , figlio  del duca di Puglia Roberto il Guiscardo.

Questa ricostruzione si scontra  però, come è noto, con due dati di fatto inoppugnabili, e cioè con la  mancanza di un documento che faccia esplicito riferimento alla fondazione della primitiva chiesetta, e, parimenti, con l’assenza di emergenze artistiche o architettoniche che possano farci ragionevolmente ipotizzare l’aspetto della chiesetta stessa.

Secondo gli studiosi, comunque, parrebbe sussistere  almeno un elemento riconducibile alle vestigia della cappella dell’XI sec., e cioè i due leoni in pietra calcarea  che adornano attualmente il magnifico portale rinascimentale della nostra chiesa Madre ( la cui iconografia complessiva, del resto,  attende ancora di essere debitamente studiata).

A nostro avviso, però, anche da una semplice occhiata risulta alquanto problematico riferire questi due bei manufatti, di epoca certamente medievale, al corredo decorativo di una chiesa del sec. XI o XII. Difficilmente questi due leoni, maestosi “guardiani” della soglia della più importante chiesa manduriana, possono appartenere, anche solo per ragioni schiettamente stilistiche, alla primitiva cappella normanna di Casalnuovo.

Confrontando infatti le due sculture con prodotti simili dei secc. XI-XII ancora superstiti in area salentina, e in particolare con i mostri dell’Episcopio di Oria, con i leoni stilofori della chiesa di San Giovanni al Sepolcro a Brindisi,

Origine e discendenza dei carmati ti Santu Pàulu

ELSHEIMER ADAM, S. Paolo a Malta

 

RELIGIONE E MAGIA NELLA CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

ORIGINE E DISCENDENZA DEI
CARMATI TI SANTU PAULU

 Necessaria precisazione linguistica per evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Negli Atti degli Apostoli, in riferimento al viaggio di S. Paolo da Gerusalemme a Roma, dopo la descrizione della tempesta nelle acque di Creta e il successivo naufragio, si legge:

“Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: certamente costui è un assassino, se anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio”.

Su questa succinta nota degli Atti, la fantasia popolare ci aveva ricamato sopra, e stando all’ampliata versione assunta come testo tradizionale, S. Paolo non aveva scosso il braccio e fatto cadere la vipera nel fuoco, bensì l’aveva afferrata delicatamente con due dita e dopo averla compassionevolmente rimproverata chiamandola “fìgghia spinturàta ti lu piccàtu” (“figlia sventurata del peccato”) le aveva ingiunto di fare il giro dell’isola, chiamando a raccolta tutte le vipere e facendole convenire in massa accanto al fuoco. Torcendosi in spire precipitose la vipera si era allontanata, per poi riapparire pochi minuti dopo seguita da centinaia e centinaia di vipere che si erano fermate a pochi metri dal santo sibilando la loro minacciosa presenza.

Issùte ti lu ‘nfiérnu parìanu
e llu ‘nfiérnu purtànu intra lla occa
mpéssime an core loru si ticìanu:
ilénu tinìmu, uai a ccinca nni tocca!

Uscite dall’inferno sembravano / e l’inferno portavano nella bocca / cattive in cuor loro si dicevano: / veleno teniamo, guai a chi ci tocca!

Ma S. Paolo era ben più potente di loro. Fra gli urli di terrore dei suoi compagni di naufragio si era avvicinato sin quasi a toccarle, e tracciando un segno di croce aveva loro imposto, nel nome di Dio, di avvicinarsi al rogo e sputare nelle fiamme il dente velenoso.

Miràculu ti Ddiu istu e ttuccàtu
la zzoca ti lu male s’ìa spizzàta,
lu tiàulu si nn’ìa sciùtu scunfunnàtu,
la facce ti li sierpi ja cangiàta.

No cchjùi ssassìne cu ll’uécchi ti la morte,
ma criatùre ti Ddiu senza piccàtu,
criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte,
mmansùte comu àunu ‘mpena natu.

Miracolo di Dio visto e toccato / la corda del male s’era spezzata, / il diavolo se n’era andato confuso, / la faccia delle serpi era cambiata: // non più assassine con gli occhi della morte, / ma creature di Dio senza peccato, / creature incantate per una buona sorte, / ammansite come agnello appena nato.

Fatte appunto docili come agnelli, le vipere avevano obbedito: dopo avere strisciato in tondo ai piedi di S. Paolo per rendergli omaggio, a una a una si erano avvicinate al fuoco sputando denti e veleno. Commosso da tanta obbedienza, il santo le aveva benedette, e a simbolo delle stabilita alleanza

La tìpara cchiù rrossa ja zziccàta
tuttu cundùtu si l’ìa mpisa an cuéddhru
tànnule ssiéttu, bbona ncummitàta
la cota amm’occa, sistimàta a nniéddhru.

E cquannu poi pi’ mmare s’ìa ‘mbarcàtu
si ll’ìa purtàta a rretu, ca sapìa
quiddhru ca nn’ìa ffare, ja pinzàtu
pi cquale ràzzia ranne lli sirvìa.

La vipera più grossa aveva acchiappato / tutto compiaciuto se l’era appesa al collo / dandogli assetto, buona accomodata / la coda in bocca, sistemata ad anello. // E quando poi per mare si era imbarcato / se l’era portata dietro, perché sapeva / quello che ne doveva fare, aveva pensato / per quale grazia grande gli serviva.

Con la vipera attorcigliata al collo, S. Paolo era arrivato a Galatina, suscitando l’immediata ostilità degli abitanti, atterriti dalla poco rassicurante presenza della serpe. Pur essendo gente ospitale, pronta a fraternizzare con i forestieri, nessuno gli aveva rivolto la parola, anzi al suo passaggio se ne erano discostati precipitosamente, e tutte le volte che aveva fatto mossa di avvicinarsi a un uscio, questo gli era stato sbattuto sul muso.
Dopo aver percorso tutto il paese chiedendo invano la carità di un alloggio, sul calare della notte si era ritrovato in periferia, dove fra il diradarsi delle case s’incuneava il verde della campagna. Adocchiato un orto pieno di alberi, vi si era inoltrato, andandosi a rannicchiare sotta’a nn’àrvilu ti mbrufìcu (sotto un albero di caprifico) il cui fitto fogliame prometteva bbuénu ‘mbràcchiu a lla muttùra (buon riparo all’umido della notte).
A poca distanza dall’albero sorgeva una casa, nella cui muraglia s’inseriva un pozzo a due bocche: una prospiciente il caprifico per chi voleva attingere dall’esterno, e l’altra all’interno della casa per l’uso familiare. Sicché quando S. Paolo allo scoccare della mezzanotte si era messo a salmodiare, la sua voce, passando dalla bocca esterna del pozzo a quella interna, aveva svegliato gli abitanti, che allarmati erano corsi a spalancare l’uscio. Nel vedere con quanta fede quell’uomo pregava, si erano pentiti di non avere accolto la sua domanda di ospitalità e, superando ogni diffidenza e paura per la presenza della vipera, lo avevano voluto loro ospite per tutto il tempo che si era trattenuto a Galatina.
Grato per tanta carità, il santo aveva pensato di disobbligarsi, e poiché ranne era la ràzzia ca tinìa (grande era la grazia che teneva), prima di ripartire aveva operato tre miracoli. Per prima cosa aveva accarezzato i rami del caprifico, che da quel momento, alla produzione di profichi fòrniti, buoni solo per la caprificazione, aveva aggiunto una successiva maturazione di frutti commestibili; prodigio che, a quanto si raccontava, si era protratto per secoli e che, una volta seccato l’albero galatinese ed estinta la ‘progenie’ dei suoi polloni, sporadicamente e limitatamente a uno o due frutti per albero, e non del tutto commestibili, si riproponeva nelle campagne salentine. Un fenomeno botanico normalissimo, ma che naturalmente veniva attribuito alla benevolenza di S. Paolo, anzi a un rinnovarsi del miracolo, sicché il contadino che all’alba avvistava fra i rami di un caprifico un frutto edulo si sentiva in dovere di farsi il segno della croce e comunicare ai confinanti del campo: “Sta notte Santu Pàulu è bbinùtu acquai cu ppassìa e ss’à ffirmàtu sott’a llu mbrufìcu!” (“Questa notte S. Paolo è venuto qui a passeggiare e si è fermato sotto il caprifico!”).

dal libro di Brizio Montinaro “San Paolo dei serpenti”, Sellerio, Palermo 1996

Del secondo prodigio era stata protagonista la vipera: il santo, dopo averle raccomandato di moltiplicarsi, l’aveva buttata nel pozzo, dove, miracolo dei miracoli, anziché annegare si era trasformata in biscia acquatica. Da quel momento l’acqua del pozzo aveva assunto virtù particolari e chi, essendo morso da bestie velenose – serpi, tarantole, scorpioni – ne beveva nnu ursùlu curmu (un boccale colmo) vomitava subito il veleno ottenendo la guarigione. Dulcis in fundo, il santo aveva riunito tutti i componenti maschi della famiglia e “ll’ìa carmàti a nno ppatìre ilénu e a zzziccàre siérpi, sia iddhri ca lli fili ti li fili ti li fili”, cioè li aveva incantati trasmettendo loro il dono di essere invulnerabili al veleno e di potere catturare i serpenti, sia loro che i figli dei figli dei figli.

San Paolo
S. Paolo in un’antica stampa. Coll. priv. Nino Pensabene

 

Nasceva così la definizione “Carmàti ti Santu Pàulu”, che, pur se a volte sostituita da quella più sommaria di “Sampaulàri”, si intendeva la più ufficialeo quanto meno la più rivendicata dagli interessati, in quanto chiariva l’origine dei loro poteri. Se all’appellativo carmàti, che già di per sé li attestava iniziati magicamente, si aggiungeva il fatto che a trasmettere tali virtù soprannaturali era stato S. Paolo, la loro quotazione – è il caso di dirlo – saliva alle stelle, tenendo anche conto della misura quasi ontologica che il popolo dava alla parola carmàre, la cui valenza oggettiva era però sempre in stretto rapporto con la figura di chi carmàva, o per meglio dire con le qualità spirituali che questi possedeva.
E qui ci sia consentito di sottolineare che ci stiamo riferendo a una significazione inerente l’antico dialetto e la cui derivazione è da ricercare nell’altrettanto arcaico termine dialettale “carma” (carme), valevole qui per incanto, parola magica, influsso attuante una dotazione spirituale. Precisazione necessaria ora che il dialetto non ha più cittadinanza nel vissuto linguistico e ha perso la sua originaria identità. Anche là dove affiora è ormai memoria incerta, spesso e volentieri imbastardito sia nella costruzione che nella resa fonica; soprattutto nella significazione, giacché si tratta di una lingua nata e sviluppata per esprimere un contesto di vita a noi ora completamento estraneo: venendo meno la misura oggettiva di quel particolare codice di comportamenti, peraltro determinati da un complesso patrimonio psicologico, anche l’atto verbale risulta sradicato e quindi difficile a reperire nella sua accezione effettiva.
Fin troppo abituati alla sintesi, non riusciamo a possedere il dialetto nella sua peculiarità di sfumature, e ciò porta a una frettolosa omologazione di termini, spesso espunti da un’arbitraria traduzione dall’italiano.
In seguito allo spopolamento delle campagne, in margine a un processo di urbanizzazione vissuto come rottura dello stato di subalternità e quindi non esente da uno spirito di globale rinnegazione del passato, soprattutto a causa di un condizionamento mentale determinato dai mass media, il dialetto si è trovato, direttamente o indirettamente, sotto processo, quasi che dal suo perdurare dipendesse la scomoda patina di retrività e ignoranza. E poiché non si poteva di colpo cancellarlo, in quanto non si era ancora padroni dell’idioma nazionale, si è cercato via via di modificarlo, di ingentilirlo, col risultato di creare una parlata che è misero compromesso tra la storpiatura dell’italiano e la falsazione del dialetto. Imbastardimento che, come già detto, ha oltretutto implicato una falsazione di significati, in quanto le parole più arcaiche, ritenute per questo più rozze, sono state del tutto cancellate e alle altre, oltre alla plasmatura ammodernatrice, si è insistito a dare significazioni in linea con il nuovo contesto di vita nonché con i termini italiani che si è creduto ne fossero gli equivalenti.
Ciò è accaduto appunto con il vocabolo “carma”, completamente abbandonato per ciò che concerneva la sua originaria significazione e arbitrariamente riassunto come equivalente dialettale dell’italiano “calma”. Sicché oggi carmàtu lo si fa bellamente derivare dal verbo calmare, chiamato ad assolvere indifferenziatamente a tutti gli stati o le proposte di acquetamento, e dimenticando così che anticamente il vocabolo dialettale non veniva svilito in semplice convenzione onnivalente, ma posto nel discorso in misura di appropriazione circostanziale. Ne conseguiva una nomenclatura lessicale caratterizzata da un largo uso di sinonimi, a ognuno dei quali si dava una valenza specifica, ossia un’applicazione differenziata: per comunicare che un dolore di denti o reumatico in genere si era calmato si usava dire “Lu tulòre m’à llintàtu” (“Il dolore mi si è allentato”); ma se lo stato dolorifico riguardava la sfera digestiva si passava a una diversa formulazione: “Lu ngruppu s’à ssuétu” (“L’ingorgo si è sciolto”). Il calmarsi di un accesso febbrile veniva focalizzato con “La frèe m’à scisa” (“La febbre è scesa”), ma se a calmarsi era il vento si diceva “Lu jentu è ccalàtu” (“Il vento è calato”). E continuando in questa minuta frastagliatura di appropriazioni, la bonaccia era “mare cuietàtu” (“mare acquetato”), un giorno senza alito di vento “sciurnàta sota” (“giornata immobile”) e il calmarsi del freddo “aria ndurcinàta” (“aria addolcita”).
Oggi, nel processo evolutivo di cui dicevamo, si è dato un colpo di spugna alla molteplicità delle aggettivazioni, e nel seguire la lingua italiana, in “calmare” si è trovata la scorciatoia per addivenire a una polivalente significazione: se carmàtu si dice in rapporto al dolore, carmàtu vale anche per il vento, e carmàta è la febbre, carma la giornata e carmu il mare. E ciò avviene anche in sede di dialogo evocativo, poiché rivolgendosi a una persona agitata non le si dice più come anticamente “Cuiétate, cuiétate” (“Acquietati, acquietati”) o se l’agitazione era esclusivamente spirituale “No tti mbilinàre” (“Non ti avvelenare”), ma si adopera un generico “Statte carma, statte carma” (“Statti calma, statti calma”). “Statte carmu” (“Statti calmo”) lo si dice anche al ragazzino irrequieto al posto del tradizionale “Statte sotu” (“Statti immobile”), raccomandazione che là dove nasceva preventiva, cioè in vista di una visita da compiere o di una permanenza in chiesa, veniva sostituita da un altrettanto tassativo “Sisci mansu” (“Sii mansueto”). Allo stesso modo, per mettere in evidenza la posatezza di un ragazzo che aveva superato l’aggressività dell’età puberale o un periodo di nervosismo in genere, non si diceva “S’à ccarmàtu” (“Si è calmato”) ma “S’à mmansùtu “ (“Si è ammansito”).

San Paolo
S. Paolo Apostolo. Cartapesta del 1800 custodita in Galatina nella “cappeddhra ti li tarantate”

La contrapposizione tra mmansùtu e carmàtu, o più esattamente la sostanziale diversità di significato che anticamente si dava ai due vocaboli, la ritroviamo evidenziata nello stesso testo poetico riguardante la leggenda di S. Paolo, dove, proprio in uno degli stralci che abbiamo riportato, si puntualizza il processo di trasformazione delle vipere, scandito nella successione di due tempi, o per meglio dire chiarito nel suo andare dalla causa all’effetto. L’intervento del santo, in prima istanza, punta a rendere le vipere “criatùre carmàte pi’ nna bbona sorte”, ossia le incanta, le strega, e poiché ciò avviene “pi’ nna bbona sorte” è chiaro che non si intende alludere a un fenomeno transitorio, a una temporanea sospensione della naturale aggressività delle serpi, ma a una totale trasformazione valevole per tutta la vita e perciò implicante l’azione di un influsso magico, tanto potente da riuscire a svellerle dal loro primiero stato di “figghe spinturàte ti lu piccàtu”.
La successiva connotazione, che ci presenta vipere mmansùte comu àunu ‘mpena natu”, non può perciò essere intesa come elemento rafforzativo del precedente concetto – il che renderebbe equivalenti i vocaboli carmàte-mmansùte -, bensì come consequenziale effetto di un processo in sé e per sé già concluso e che non viene maggiorato ma solo confermato dal comportamento. Pur nella concatenazione verbale, che a prima vista sembra unificare la formulazione del pensiero, la separazione dei due campi è netta, e quello che è ragguaglio fisico, o materiale che dir si voglia, subentra ma non si confonde col preavvenuto influsso spirituale.
Ci rendiamo conto che parlare di influsso spirituale in rapporto a delle serpi è semplicemente assurdo, ma propria o impropria che sia la definizione, riteniamo sia l’unica adatta a esprimere fedelmente la specificità che il popolo dava al vocabolo carmàre. E per convincersene basta riaffidarsi a quell’insuperabile chiave di lettura che è il referente antropologico, ossia osservare a quale dinamica di applicazioni il vocabolo sottostava nell’azione verbale del quotidiano.
L’occasione più emergente e più vincolata all’uso era la cresima, un sacramento al quale il popolo attribuiva grande importanza, tanto da giungere a reclamarne l’amministrazione subito dopo il battesimo, soprattutto quando le condizioni fisiche del neonato non lasciavano troppo sperare nella sua sopravvivenza.
In quel tempo, l’alto indice di mortalità infantile era realtà scottante, e ciò determinava non solo un’estrema sollecitudine da parte della Chiesa nell’amministrare i sacramenti, ma anche un senso di scrupolosa responsabilità nei genitori, che ritenevano loro stretto dovere provvedere tempestivamente e nella misura più larga possibile alla sorte eterna dei figli.
Il conferimento del battesimo si poneva come l’atto più urgente da compiere, e perciò quasi mai procrastinato oltre gli otto giorni dalla nascita; ma pur se vissuto con senso liberatorio, in quanto ipso facto assicurava la salvezza, questo non acquetava del tutto l’ansia di arricchire al massimo l’anima del figlio. l’aldilà beatifico, il popolo lo concepiva in una misura oseremmo dire dantesca, immaginando un paradiso sistemato a piani, la cui raggiungibilità veniva determinata dalle credenziali che l’anima poteva esibire al suo arrivo. Per gli infanti, queste si concretizzavano, oltre che nella loro innocenza, nel numero dei sacramenti ricevuti: ne conseguiva che un neonato semplicemente battezzato non avrebbe mai goduto quanto uno attisciàtu e ccrisimàtu.
A questo accaparramento di esclusivo ordine spirituale riguardante l’aldilà, faceva riscontro un’altrettanta premura di ordine temporale, sempre collegata al desiderio di un arricchimento interiore del cresimando ma che trasbordava dalle linee portanti della fede – più che altro si discostava da quelle che erano le intenzionalità ecclesiali nel conferire il sacramento.
Mentre la Chiesa basava il rituale sull’invocazione dello Spirito Santo e affidava l’opera trasformatrice unicamente all’azione della grazia santificante, il popolo dava molta importanza anche all’imposizione delle mani da parte dei padrini, visti non come li voleva la Chiesa in veste di garanti della fede, ma come ministranti chiamati a dispensare virtù a stretto appannaggio terreno. Se la mano consacrata del vescovo propiziava le benedizioni divine richiamando grazie “pi’ ricchjmiéntu ti l’ànima e ccutimiéntu ti l’eternitàte” (“per arricchimento dell’anima e godimento nell’eternità”), la mano del padrino catalizzava doni “pi’ ndutazziòne ti sta ita ti munnu a ddonca l’ànima camina cu lli piéti ti lu cuérpu, e ti la furtùna no nni pote fare a mmenu” (“per dotazione di questa vita nel mondo, dove l’anima cammina con i piedi del corpo, e della fortuna non può farne a meno”).

San Paolo
S. Paolo in un’antica stampa. Coll. priv. Nino Pensabene

Religione e magia, come sempre, andavano a braccetto: all’esuberanza di fede, riscontrata nel desiderio dei sacramenti per il completamento dell’essere cristiani e in virtù di un interesse escatologico, si innestava l’inconfessato riemergere di pregnanze arcaiche, che sia pure in termini sfumati si ritrovavano in parallelismo con il rituale della cresima, imperniata sull’imposizione delle mani, gesto che per se stesso riportava ad ancestrali riti di iniziazione o trasmissione di poteri. Di qui la premura di scegliere come padrino o madrina di cresima una persona ricca di doti spirituali, virtù che proprio attraverso l’imposizione delle mani avrebbe trasmesso al figlioccio (o figlioccia), riplasmandolo a sua somiglianza.
Era ferma convinzione che per il cresimato, subito dopo il rito, iniziasse una fase di trasformazione caratteriale che lo avrebbe portato gradatamente a diventare la controfigura del padrino e quindi ad assorbirne anche la intùra, ossia ad avere un destino uguale al suo. Non a caso nella scelta del padrino ci si orientava prevalentemente verso una persona anziana: al senso di maggiore affidabilità o di più ampia panoramica circa la correttezza di vita nonché la fortuna che aveva avuto, si aggiungeva, fattore non trascurabile, la cospicuità degli anni, attestante il dono della buona salute. E ciò valeva soprattutto quando si trattava di cresimare un neonato in pericolo di vita, anzi in quel caso più che un anziano si cercava una persona addirittura vecchia, e alla quale non ci si peritava dal chiedere esplicitamente “Ncòddhrane puru l’anni ti ssignurìa”, ossia “Trasmettigli anche la tua longevità”. Postulazione che se per caso veniva seguita da un reale miglioramento fisico del neonato malato, assurgeva a incontrovertibile testimonianza dell’avvenuto assorbimento, immettendo i genitori in una sfera di assoluta tranquillità circa l’avvenire del figlio. Tanto è vero che a chi si rallegrava con loro per l’avvenuta guarigione usavano rispondere con sicurezza: “Nùnnusa éte écchiu e ll’à ccarmàtu an curmu”.
Si noti come anziché dire “l’ha cresimato” si preferisce dire “l’à ccarmàtu”, il che non va semplicisticamente inteso come banale sostituzione di termine, bensì come voluto scavalco della causa in favore dell’effetto, reso ancora più emergente dalla precisazione “an curmu” che dà misura quasi visiva dell’avvenuto travaso. Interpretazione che ritroviamo confermata dalla frase che si pronunciava allorquando si invitava qualcuno a far da nunnu (padrino) e che, nel riporto di ambedue i termini, annulla ogni sospetto di sostituzione puramente linguistica, attestando che crisimàre stava come azione o rito da compiere e carmàre come risultato da ottenere: “Aggiu ffare crisimàre fìgghiuma e ci nni ll’ài a ppiacìre nci tinìa mutu cu mmi ll’aggi a ccarmàre ssignurìa” (“Devo fare cresimare mio figlio, e se lo hai a piacere ci terrei molto che l’abbia a dotarlo vossignoria”).
Del resto non meno illuminanti risultano altre frasi di più ordinaria occasione, giacché era nell’uso comune sfruttare l’incontro di una persona anziana o particolarmente saggia per presentarle il bambino e, al contrario di quando si incontrava un sacerdote dal quale si pretendeva una semplice benedizione, chiedere specificatamente: “Mpòggiane la manu an capu ssignurìa ca sinti bbiunnàtu ti Ddiu e ccàrmamilu a ccore chinu” (“Poggiagli la mano sulla testa vossignoria che sei abbondato da Dio e trasformalo con tutto il cuore”). Né da tanta petizione venivano esentati li signùri (i signori), ai quali più esplicitamente si chiedeva: “Sulamente ssignurìa mi lu puéti carmàre pi’ nna bbona furtùna” (“solamente vossignoria lo puoi incantare per una buona fortuna”).
Varianti che danno ulteriore conferma all’intendimento della ‘trasmissione’, e che potremmo proporre e analizzare in tante altre sfumature se ormai non fosse del tutto superfluo. Il nostro discorso è nato all’unico scopo di fornire una precisazione ed evitare che, alla luce del nuovo dialetto, gli agguerriti carmàti ti Santu Pàulu vengano identificati non più come i fortunati discendenti di una famiglia magicamente dotata, bensì come persone ammansite da S. Paolo.

 

GIULIETTA LIVRAGHI VERDESCA ZAIN, “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento (pagg. 27 – 36)
con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994

Il convento di Santa Maria del Tempio a Lecce, ricordo di un monumento scomparso

Il convento di Santa Maria del Tempio a Lecce, ricordo di un monumento scomparso…

 Che c’era in Piazza Tito Schipa?

 

di Valerio Terragno

 

Pochi mesi fà, durante gli scavi effettuati per la creazione di un parcheggio sotterraneo in piazza Tito Schipa, nel cuore di Lecce, sono  venuti alla luce i resti di colonne e di ambienti sotterranei, forse tombe.

In questo luogo, sorgeva il convento di Santa Maria del Tempio, una delle principali dimore francescane del Salento, divenuto caserma nell’ottocento, a seguito dell’abbandono da parte dei religiosi.

Il convento, in origine tenuto dai Francescani Osservanti, fu costruito nel 1432 per volontà del barone di Corigliano d’Otranto Nuzzo Drimi e di suo figlio Lorenzo.

Sorto al di fuori delle mura di Lecce, verso sud- est, per volontà del barone Nuzzo Drimi esso venne ampliato ed abbellito grazie alle offerte dei fedeli leccesi, molto legati alla figura del fraticello d’Assisi e della Vergine, desiderosi così di avere un nuovo punto di riferimento religioso.

Questo complesso sorse accanto ad un’ antica chiesa, in stile tardo-gotico, dedicata alla Presentazione della Madonna al Tempio detta della Candelora eretta al tempo dei Principi angioini di Taranto.

Il primo rifacimento

Nel corso del 500, gli Osservanti, diramazione dell’ordine francescano, demolirono l’originario convento e lo ricostruirono, ampliandolo, in stile gotico – rinascimentale, su disegno di Padre Riccardo Maremonti ministro provinciale dei Francescani Osservanti. Frate Maremonti progettò la sacrestìa, le cucine, il refertorio ed il bel chiostro costituito da una fuga di archi ogivali sorretti da colonne con capitelli di tipo ionico.

Dopo padre Riccardo furono i suoi parenti Silvia e Filippo Maremonti ad interessarsi dell’ampliamento del chiostro e dell’arricchimento della residenza monastica.

Nel 1591 i Francescani Osservanti donarono il Convento ai Riformati, altra diramazione monastica dell’ordine, per farne la sede di noviziato in cui poter istruire tutti i fanciulli che volevano diventare frati.

Grazie alla presenza dei Francescani Riformati, Santa Maria del Tempio accrebbe sempre di più il proprio prestigio, fino a diventare la prima sede conventuale della provincia minoritica di San Nicola, che nel 600 comprendeva gran parte dei conventi della Terra d’Otranto.

Tra le sue mura sorsero una biblioteca ricca di importanti testi e documenti, un’infermerìa, un dormitorio ed una scuola di teologìa e di pittura. Nel Convento del Tempio dipinsero fra Giacomo da San Vito e fra Giuseppe da Gravina, il quale affrescò il chiostro con scene della vita di San Francesco d’Assisi, a somiglianza di quello della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina. In questo convento fiorì la scuola teologica leccese nella quale operarono molti insegnanti prestigiosi.Tra i nomi dei francescani illustri vissuti nella dimora di Santa Maria del Tempio spiccano  Padre Gregorio Scherio, il poeta Serafino d’Alessandro da Grottaglie, Giacomo da Lequile, l’architetto Nicola Milelli o da Lequile che costruì il santuario barocco del Crocifisso a Galatone e Bonaventura da Lama, famoso storico-teologo.

La chiesa

La parte più bella di tutta la dimora conventuale doveva essere la chiesa, realizzata ad una sola navata, sulla quale si affacciavano un coro, i matronei e le cappelle laterali, appartenute a nobili famiglie leccesi e salentine come i Condò , i Lecciso, i Maremonti, i Di Giorgio ed i D’Andrea.

Questa chiesa custodiva al suo interno preziose opere d’arte, come l’affresco mariano proveniente dal primitivo edificio, la statua di Sant’Antonio da Padova scolpita da Gabriele Riccardi, la tela dell’Immacolata attribuita a Francesco da Martina Franca, una tavola bizantineggiante raffigurante la Vergine, un Crocefisso opera di fra Angelo da Pietrafitta, la statua di Santa Lucìa attribuita a Francesco Maria Palmieri, la pala conla Presentazione della Vergine al Tempio  ed il meraviglioso tabernacolo eseguito da Frà Giuseppe da Soleto. Molte di queste opere, disperse a seguito della soppressione risorgimentale del convento, sono oggi collocate in alcune chiese salentine come quelle di San Lazzaro, di Santa Maria della Grazie e la Parrocchiale di Merine.

Il soffitto ligneo fu commissionato dal devoto Lelio Bozzi che si fece raffigurare inginocchiato nel quadro raffigurante la Presentazione della Madonna al Tempio, collocato al centro della volta.

Nella chiesa di Santa Maria del Tempio si conservavano alcuni oggetti venerati dai fedeli come reliquie, quali un pezzo di legno della Croce ed una spina della Corona di Cristo.

L’attigua sacrestìa era provvista di alcuni armadi realizzati in legno d’ulivo, completamente istoriati e al cui interno si custodivano preziose suppellettili. La chiesa fu pure luogo di sepoltura non solo per i frati ma pure per parte dei cittadini leccesi.

Nel 1811, al tempo del governo napoleonico, il convento fu soppresso e chiuso per la prima volta, venendo adibito ad ospedale per accogliere i malati di tifo petecchiale. Qualche anno più tardi, nel 1822, su interessamento dell’attivo frate Angelo da Lecce, Santa Maria del Tempio ritornò nelle mani dei Francescani Osservanti . Intorno al1850, inquesto convento fu impiantato lo Studio Generale dell’Ordine, ma la dimora non raggiunse, dal punto di vista culturale, l’originario prestigio culturale religioso. A seguito della seconda soppressione, quella sabauda, il complesso smise, definitivamente, di essere un convento, venendo trasformato in caserma nel 1872.

Chi era Oronzo Massa?

Il primo nome di questo distretto militare fu quello di ” Caserma Tempio”, sostituito poi, nel 1905, con l’intitolazione ad Oronzo Massa, ufficiale salentino che partecipò alla rivoluzione partenopea del 1799, fucilato nell’agosto di quell’anno nel carcere del Carmine a Napoli, per aver sostenuto la causa repubblicana, rivelandosi così ostile e nemico della monarchìa borbonica.

Negli anni 40 e 50 del 900, l’ex convento fu adibito sia a scuola media che abitazione di militari; i suoi ampli e rigogliosi giardini e frutteti scomparvero per dar posto a nuove costruzioni.

Poco fuori l’edificio si trovava inoltre un monumento eretto in onore dei Caduti del ’95 Reggimento Fanteria, realizzato, in pietra di Ostuni, dallo scultore Angelo Cocchieri.

Nel febbraio 1971, iniziarono i lavori di demolizione di tutta la struttura, per realizzare l’attuale piazza sulla quale sarebbe dovuta sorgere una struttura tesa a divenire punto di riferimento per la vita pubblica e culturale della città, opera tuttavia ancora non realizzata.

In questo modo Lecce ha perso uno dei suoi monumenti più belli ed importanti del XVI secolo, la cui esistenza oggi è rappresentata soltanto da sbiadite fotografìe in bianco e nero ed è custodita nei ricordi dei pochi anziani leccesi che ebbero l’opportunità di vivere una testimonianza di cultura e di arte, oramai  inesorabilmente scomparsa.

 

pubblicato su Paesenuovo del 2 luglio 2011. Si ringraziano il direttore della testata Mauro Marino e l’Autore per la gentile concessione.

Potenza della fame

di Giorgio Cretì

In illo tempore, e anche dopo, la gente lavorava una giornata intera per due chili e mezzo di farina, appena per dare da mangiare ad una piccola famiglia; oppure, se aveva di che sfamarsi e possede­va qualche gallina, per dieci chili di cru­sca. Un salario in moneta non era previsto.

Così quando era stata tagliata la roc­cia per allargare la strada di San Vito, così quando era stata alzata la piazza del paese.

Prima la chiesa di San Giorgio era ad un livello più alto di quello della piazza, come tutte le chiese, e per entrarvi si sa­livano tre gradini di pietra di Cursi con­sunti dall’uso secolare. Quei gradini Buonafede Martano saliva di corsa con lo stendardo di San Giorgio che teneva inclinato fino a farlo passare dalla porta e innalzava subito dentro la chiesa, con la forza dei muscoli delle braccia. Uno stendardo che aveva l’asta lunga sei me­tri e che nessun altro era capace di por­tare in processione con il drappo spiega­to al vento. C’era stato, invero, un altro più forte di lui, un certo Giorgio detto Cocculo, che riusciva a sollevare lo stendardo da terra da solo, addirittura con uno sgabello legato alla punta dell’asta, ed era entrato nella leggenda.

La piazza era stata riempita con pietre trasportate da specchie(1) di Cazzafarri, Vignaudhia e delle Urle, con traìne(2), per giorni e giorni.

Di fronte alla chiesa, addossate al ma­gazzino(3) dei Rizzelli, erano ammucchia­te alcune vecchie costruzioni e lì c’era stato l’ufficio postale, nonché un’aula per la scuola. C’era stata anche la bot­tega di mastro Raffaele Ncoppe, vi­naio, e poi quella di mastro Umberto che aggiustava biciclette.

Ora noi conosciamo la piazza così com’è, squadrata e con un marciapiede in mezzo, ma era molto diversa una vol­ta. A fianco delle vecchie case, vicino al cortile di Toitoi, c’era una cisterna con un ampio puteale in unico blocco di pietra, che spesso serviva da scivolo ai ragazzi.

Era una cisterna posseduta in comu­nione da cui più famiglie attingevano ac­qua; trasformata poi in pozzo perdente, ora raccoglie le acque del tombino

A proposito di panìri/panièri

di Armando Polito

Nel post di Emilio Panarese del 29 u. s. si rivendica per panìri (la variante neretina è panièri) come etimo il greco moderno πανηγύρι. La paternità di tale attribuzione spetta al solito (quanto affetto e stima in quest’aggettivo che, riferito a qualcun altro, assumerebbe una sfumatura spregiativa!…) Rohlfs, che la ribadisce ai lemmi panaìri e panìri, rispettivamente alle pagine 446 e 447 del suo vocabolario. Io non so cosa abbia indotto il maestro tedesco ad attribuire alla voce un’origine relativamente recente, anche se  egli sembra aggiustare il tiro in Scavi linguistici nella Magna Grecia, Congedo, Galatina, 1974, dove a pag. 83 leggo: “leccese panìri, panièri, festa popolare in occasione di una fiera=otrantino panaìri, panìri, idem, dal greco volgare πανηγύρι(ον)”.   Dunque, prima il “greco moderno”, poi il “greco volgare” per una voce con un chiaro suffisso diminutivo (-ιον), normale nel greco classico, del quale, poi, sarebbe caduta la parte finale (ον). Proprio nel greco classico, oltre che in alcuni intermediari latini, esistono secondo me degli  elementi che potrebbero retrodatare di molti secoli la nostra voce, almeno rispetto a quel “greco moderno”1 e allo stesso, artificioso, “greco volgare” .

Un ruolo di protagonista assume , sempre per me, il greco, classico, πανηγύρις, evidente genitore di πανηγύρι (senza, peraltro, scomodare un presunto diminutivo πανηγύρι(ον), e va subito detto che non è certamente l’assenza della consonante finale ad essere prova determinante di un’origine più moderna per panìri/panièri.

Preliminarmente va detto che πανηγύρις ècomposto da due parole delle quali sarò costretto a riportare la trascrizione fonetica perché alcuni caratteri

Presentato il logo per le celebrazioni del seicentenario della Cattedrale e della Città di Nardò (1413-2013)

Come già annunciato in precedenti comunicati nel 2013 ricade un’importante ricorrenza, il seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425), e contestualmente dell’elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

Tale ricorrenza rappresenta senza dubbio una singolare e preziosa occasione per trarre dalla memoria storica elementi sicuri per un rilancio del desiderio di futuro, sia sul piano sociale che su quello pastorale.

L’anniversario ricade l’11 gennaio 2013, data in cui fu emessa  la relativa bolla dal pontefice Giovanni XXIII nell’anno 1413, documento che si conserva in originale presso l’Archivio Storico della Diocesi di Nardò-Gallipoli.

Il Comitato che organizza le celebrazioni da tenersi nel prossimo anno, formato dal parroco della Cattedrale di Nardò, Mons. Giuliano Santantonio, don Eugenio Bruno, il sindaco di Nardò Avv. Marcello Risi, il presidente del Consiglio Comunale Dott. Antonio Tiene e il Dr. Marcello Gaballo, presidente della Fondazione Terra d’Otranto, sta definendo il calendario manifestazioni da tenersi nel corso dell’anno. Intanto ha definito quello che sarà il logo ufficiale delle celebrazioni, allegato alla presente, messo a disposizione della Fondazione Terra d’Otranto e realizzato da Sandro Montinaro.

Domina la croce patriarcale, che ricalca quella antichissima scolpita sulla facciata della Cattedrale neritina, alla cui base sono opportunamente innestate le due lettere NC, compendiando alla perfezione la valenza nello stesso tempo laica e religiosa dell’evento, essendo abbreviazione N di Neritonensis e C di Cathedralis e di Civitas. Nell’ambito della seconda lettera trovano allocazione le due date 1413 e 2013.

Dalla stessa bolla papale è tratto il motto “Ecclesiam in Cathedralem, Terram in Civitatem Neritonensem” che è parte integrante del logo.

Il logo sarà affisso nei prossimi mesi sugli edifici civili e religiosi della città.

 

La cattedrale e la città di Nardò verso i 600 anni (1413-2013)

Cavallo in cucina ovvero la preistoria a tavola

di Massimo Vaglio

G.D. Ferretti (1692-1766), Arlecchino cuoco, olio su tela, Sarasota (Florida), The John & Mable Ringling Museum

E’ notorio come le carni equine non siano apprezzate univocamente in tutta la penisola italiana, bensì, come il loro uso, sia circoscritto a piccole aree sparse a macchia di leopardo, tanto a Nord, quanto nel Centro-Sud.

Una delle più estese, è senza dubbio il Salento, ove il consumo di carni equine o ferrate, come vengono localmente denominate, è quantitativamente paragonabile a quello delle carni bovine e suine.

Nessuno azzarda a ipotizzare una continuità storica, ma è un dato scientificamente comprovato, che le carni di un piccolo equide: l’Asino Idruntino (Equus asinus hydruntinus), fossero qui, già cospicuamente consumate, sin dal Paleolitico Medio e Superiore, come una grande mole di reperti, ritrovati in molte grotte del Salento testimoniano. Forse, ma è sempre un’ipotesi, l’estinzione di questo simpatico asinello dalla testa di mulo, sopravvissuto persino alla terribile glaciazione wurmiana,

Mauro Manieri e l’altare di San Michele Arcangelo nella chiesa del Carmine in Lecce

di Giovanna Falco

A Lecce, nella chiesa di Santa Maria del Carmine in piazza Tancredi, è custodito l’altare di San Michele Arcangelo, realizzato nel 1736 da Mauro Manieri e le sue maestranze. È una delle opere più interessanti per la storia dell’arte leccese, perché il suo artefice l’ha progettata e realizzata nella sua totalità.

L’altare in pietra leccese è situato nella prima cappella a destra entrando nella chiesa. Sui due pilastri laterali che delimitano la nicchia, sono murate due epigrafi inneggianti a San Michele Arcangelo[1]. Vi si ascende da due gradini, sul piano di calpestio si apre una botola coperta da una pedana di legno. Il sarcofago bombato, decorato con volute, è delimitato da due busti di angelo.

La mensa si articola in tre gradi finemente intagliati. L’ancona convessa è contenuta tra due stipiti costituiti da brevi pilastri, scolpiti con decorazioni barocche, e sormontati da capitelli con foglie di acanto. Su questi poggiano le cariatidi scolpite a tutto tondo, raffiguranti a sinistra la Superbia e a destra l’Ambizione. Le due figure, incatenate, sono abbigliate con una semplice tunica, forgiata con panneggi molto movimentati, e indossano un copricapo che funge da appoggio ai capitelli sovrastanti. Questi ultimi presentano le stesse decorazioni dei capitelli delle paraste che racchiudono l’edicola ovale con San Michele Arcangelo: foglie di acanto sormontate da rosette. Alla base delle paraste, articolate verticalmente in tre gradi, due coppie di putti innalzano armature vuote, complete dei loro accessori e sormontate da croci.

L’edicola è racchiusa, alla base da tre testine di putti, due laterali e una centrale, in alto da due decorazioni angolari, formate da una rosetta contornata da foglie. Sui capitelli è posata una cornice mistilinea che funge da elemento di raccordo tra i due ordini dell’altare: al centro sono seduti due putti separati da due palme che s’incrociano. Il fastigio, più stretto e arretrato rispetto al settore sottostante, termina con una breve cornice mistilinea, composta da un elemento centrale curvo e sormontata da una testa di angelo. Al di sotto è ubicata un’edicola, cinta da una composita cornice che racchiude un dipinto raffigurante il Redentore. Ai lati dell’edicola sono presenti due sculture a tutto tondo raffiguranti angeli seduti e rivolti verso di essa. La composizione è delimitata da due volute, le cui estremità inferiori sono forgiate a guisa di busto di angelo. L’edicola centrale ospita la pala ovale con l’altorilievo di San Michele Arcangelo, racchiusa in una cornice lignea. Sotto la scritta“QUIS UT DEUS”, è ritratto il Santo con la spada sguainata, nell’atto di trafiggere il drago. Il manufatto è stato descritto nel Settecento come un’«effice di creta cotta e messa in argento che sembra di argento in pietra, opera degna del signor D. Mauro Manieri»[2]. Le analisi di laboratorio, eseguite durante il restauro dell’opera, hanno rilevato un «assemblaggio di vari materiali, dal sughero alla terracotta alla cartapesta»[3].

Per quanto le sculture siano scolpite con uno stile riconducibile al barocco romano e risalgono al 1736, l’apparato iconografico dell’altare si rifà a una concezione già riscontrata a Lecce nella facciata della basilica di Santa Croce, dove Marcello Fagiolo e Vincenzo Cazzato suppongono che le decorazioni alludano alla vittoria della Fede sugli infedeli [4]. Nell’altare del Carmine, la Superbia e l’Ambizione sono incatenate e spogliate delle armature simboleggianti il loro potere. Queste ultime sono state conquistate dall’Autorità celeste, rappresentata dai putti che le sostengono e dalla croce sovrastante. Così come nel Carmine le due statue sorreggono la sezione superiore dell’altare, destinata al Redentore e ai suoi messaggeri, in Santa Croce sui telamoni (allegoria degli infedeli) ricade tutto il peso della Fede, rappresentata negli ordini superiori della facciata. È la stessa foggia che si riscontra nelle due coppie di cariatidi, poste ai lati del portone di palazzo Marrese, in piazzetta Ignazio Falcomieri a Lecce. Nel Carmine, inoltre, si nota il forte contrasto tra la posizione scomposta delle figure inferiori e la serafica tranquillità degli angeli di fianco al Redentore. Un altro elemento già riscontrato nel Cinquecento a Lecce, in porta Napoli e sul Sedile, è l’armatura vuota, da interpretare come trofeo delle vittorie conseguite da Carlo V. Questo elemento ricompare in seguito su porta Rudiae, realizzata nel 1703 e attribuita da Michele Paone a Giuseppe Cino[5]. Nel Carmine potrebbe rappresentare la vittoria dell’Arcangelo Michele sulle debolezze umane. Il tema della vittoria è trascritto anche nel testo delle lapidi inneggianti al Santo, da cui si rilevano le varie facoltà attribuitegli nel Settecento, e, allo stesso tempo, il monito nei riguardi di chi non lo venerava, già rappresentato dalle due cariatidi incatenate.

L’apparato iconografico dell’altare denota una regia unitaria, che non tralascia nulla al caso. L’unico elemento di difficile lettura è rappresentato dai due putti con le palme incrociate, poiché non è dato sapere se alludano al culto di San Michele o al committente dell’altare. Dalle fonti consultate, infatti, non è stato possibile evincere se l’altare fu commissionato dai frati, da una famiglia nobile o da uno dei due pii sodalizi che avevano sede nella chiesa: l’Oratorio degli Artisti e la Confraternita del Carmine. Sono riconducibili al committente gli autori del testo delle epigrafi: «pantal: diac:» e «d: laurent: iust».

San Michele Arcangelo, è ritratto nell’atto di trafiggere il Male, rappresentato dal drago. E’ la stessa iconografia con cui usualmente è rappresentato il profeta Elia, raffigurato anche nell’altare di fronte a quello di San Michele nel Carmine. Qui l’ovale racchiude la pala dipinta da Gian Domenico Catalano tra Cinque e Seicento. A differenza dell’altorilievo attribuito a Manieri, Lucifero è ritratto con sembianze umane. Si potrebbe leggere nella decisione di ubicare i due altari di fianco all’entrata della chiesa, un monito ai fedeli contro le forze del Male, o, viceversa, per chiunque entri nel pio luogo, la protezione dei difensori della Cristianità dal Maligno. Potrebbe, altrimenti, indicare l’importanza del culto dei due Santi nella comunità carmelitana. La centralità della figura del profeta Elia nell’Ordine Carmelitano è nota[6], non è altrettanto facile comprendere la devozione dei padri nei riguardi di San Michele. Nello specifico, per la comunità carmelitana leccese, è giunta testimonianza di un’immagine dell’Arcangelo Michele di legno indorato, acquistata, nel 1614 a Napoli insieme con altre cinque statue, per adornare l’altare maggiore[7]. Nella chiesa del Carmine si trova un’altra immagine del Santo: è un dipinto riposto nell’edicola superiore del sesto altare intitolato a Sant’Anna, ubicato nel transetto a destra[8].

La venerazione per San Michele Arcangelo si diffuse in Italia a causa della lotta iconoclasta che ebbe luogo nell’Impero d’Oriente tra il VII e il IX secolo: molti religiosi si rifugiarono in Occidente e trasmisero la loro dottrina alla popolazione che li aveva accolti. Il culto di San Michele Arcangelo, inoltre, fu imposto nei domini bizantini durante l’impero di Niceforo Foca (964-969), tra questi era annoverata Otranto, la cui diocesi era alle dirette dipendenze della chiesa di Costantinopoli. Riguardo alla situazione leccese, non ci sono giunte testimonianze dirette che attestano la situazione dell’epoca. Le uniche tracce pervenuteci risalgono al 1300 e riguardano la consacrazione a San Michele Arcangelo della chiesa degli Agostiniani, già dedicata a Santa Maria di Costantinopoli[9]. Tra Cinque e Settecento, inoltre, furono realizzate svariate effigi dell’Arcangelo Michele, riscontrabili sia su edifici privati, sia all’interno e all’esterno di alcune chiese[10]. Sono attribuite a Mauro Manieri altre quattro sculture raffiguranti San Michele Arcangelo: sono ubicate sulla colonna angolare di palazzo Panzera in via degli Ammirati; nella mensola centrale del portale di palazzo Marrese in piazzetta Ignazio Falconieri, dove due coppie di cariatidi, abbigliate come quelle del Carmine, sono scolpite ai lati del portale; sul fastigio, a sinistra, della chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo degli Olivetani (1716) e nella nicchia a sinistra del portale della chiesa di Santa Maria della Provvidenza delle Alcantarine[11].

Il motivo per cui molte immagini di San Michele Arcangelo risalgono ai primi anni del Settecento e ben quattro, oltre a quella nel Carmine, sono state attribuite a Mauro Manieri, verosimilmente dipende dal fatto che nel 1688 il Santo fu proclamato protettore generale del Regno di Napoli.

L’altare di San Michele Arcangelo è il frutto della maturità acquisita da Mauro Manieri nel corso degli anni. Il suo ingegno derivò da un’approfondita preparazione classica. Il diciannovenne Mauro Manieri fu definito dall’abate e letterato Domenico De Angelis, un «giovane di elevatissimo ingegno, e di molte aspettazione nelle lettere latine»[12]. Nell’atto di matrimonio, celebrato a Nardò nel 1710 dal vescovo Antonio Sanfelice, è scritto: «Clericus Maurus Manieri Utriusque Juris Doctor Lyciensis»[13]. Ulteriori notizie si apprendono da Nicola Vacca: fu «censore, dottore e matematico»[14]. Ricoprì la carica di censore, infatti, per l’Accademia degli Spioni, cui si aggregò giovanissimo producendo tre componimenti poetici in latino[15]. Mauro Manieri fu membro anche dell’Accademia dei Trasformatori e della colonia leccese della napoletana Arcadia, presso la quale assunse il nome di Liralbo[16]. Completò la sua formazione un soggiorno a Roma, dove conobbe personalmente i capolavori dei grandi protagonisti del barocco, tracciandone gli schizzi, cui s’ispirò al momento della progettazione delle sue opere[17].

Quest’assunto è facilmente riscontrabile mettendo a confronto il San Michele Arcangelo del Carmine con l’angelo posto a sinistra della Cattedra di San Pietro nella Basilica Vaticana, realizzata tra il 1657 e il 1666 da Gian Lorenzo Bernini e i suoi aiuti[18]. L’angelo berniniano è ritratto in un atteggiamento di scarto: posato su una nuvola, reca in mano una palma. Nell’opera di Mauro Manieri gli attributi iconografici cambiano, ma si riscontrano la posizione simile delle gambe, così come la stessa impostazione dell’ala a sinistra di chi guarda. Mutano le torsioni della testa e del braccio destro e non compare il braccio sinistro nascosto dal mantello. Riguardo alla scelta dell’altorilievo, e non di un gruppo scultoreo a tutto tondo, è evidente l’ascendenza dalla tipologia delle pale d’altare tipiche della produzione di Alessandro Algardi, ripresa in seguito, oltre che dai grandi artisti romani, da scultori di tutta Italia.

Il San Michele Arcangelo nel Carmine di Lecce, può essere considerato la summa di tutto il sapere del grande architetto e scultore settecentesco. Ai suoi tempi, il «signor D. Mauro Manieri» era considerato «eccellentissimo nel modello e architettura»[19]. Il cronista Francesco Antonio Piccinni, lo definì «Mastro celebre singolare (in) tal mestiere di modellare»[20].

Oltre alle tante opere architettoniche, realizzate a Lecce e in molti centri pugliesi, a Mauro Manieri è stata attribuita una vasta produzione scultorea lapidea, in cartapesta e in terracotta[21], ma non è dato sapere se fu realizzata direttamente dall’artista o su suo disegno. Si nota, infatti, una differente resa plastica tra le statue in pietra e le altre, così com’è evidente ad esempio, confrontando, nella chiesa del Carmine, l’altorilievo del San Michele Arcangelo e la statua, abbigliata con la medesima foggia, posta a destra dell’altare del profeta Elia, entrambi attribuiti a lui e datati 1736, e, ancora, con gli angeli dell’altare maggiore.

Si è scritto tanto su Mauro Manieri e le sue opere, ma ci sarebbe tanto altro da rintracciare e studiare, come, ad esempio: il soggiorno a Roma, il rapporto delle sue opere con la cultura napoletana e romana, i committenti, i rapporti con gli esponenti della cultura dell’epoca, il ruolo che ricoprì nelle accademie leccesi. Sta di fatto che è stato una figura fondamentale per la storia dell’arte salentina. In lui s’incarna il passaggio dal vecchio al nuovo modo di “fare arte”: l’artista non è più solo esecutore materiale di un disegno altrui, ma lo concepisce, lo progetta e lo realizza.

Rocco Serra emigrato salentino

 di Lucio Causo

   Rocco Serra era tornato in Italia per votare e vi aveva trovato la morte. Questa la drammatica vicenda di un emigrato salentino, il cui cadavere venne rinvenuto sui binari della ferrovia per Lecce, ad una diecina di chilometri dalla stazione. La macabra scoperta era stata fatta dal personale ferroviario, in transito nella zona.

A conclusione delle indagini, i Carabinieri dissero che il poveretto, dopo aver votato, si era messo in viaggio per riprendere il lavoro a Berna. Forse aveva aperto per errore uno degli sportelli del vagone nel quale viaggiava ed era precipitato nel vuoto battendo la testa sui “cozzi” che affioravano lungo la ferrovia. Era morto sul colpo.

Al momento della scoperta, Rocco indossava un paio di pantaloni a righe blu e una maglietta rossa. Nel suo portafoglio, oltre al passaporto, furono trovati due biglietti da centomila lire, sessanta franchi ed alcune monete. Dal documento di riconoscimento i Carabinieri erano giunti all’identità dello sfortunato emigrato. La notizia fu presto comunicata a parenti ed amici ed in paese non si parlò d’altro.

Rocco non aveva neppure 17 anni quando emigrò in Svizzera per trovare un lavoro più redditizio. Il padre era malato e non poteva lavorare in campagna, con gli altri contadini del paese.

Il giovane periodicamente lavorava sulla terra di don Antonio Catanese, portando a casa poche migliaia di lire, appena sufficienti per comprare il pane e la farina e per sopravvivere in seno alla famiglia. Non essendo contento di quello che guadagnava, decise di partire con lo zio Vito per lavorare all’estero.

Dopo sette anni trascorsi in Svizzera, si sposò con una giovane di origine tedesca che lavorava nella ristorazione. Non erano ancora passati due anni dal matrimonio quando la moglie rimase incinta. La nascita di Erika, una bimba che si rivelò molto aggressiva e scontrosa, non allietò il già difficile ménage famigliare. Dopo tanti sacrifici e tanta sopportazione, prevalsero le incomprensioni ed i rancori: Erika, all’età di diciotto anni, abbandonò la casa paterna ed andò a vivere con un tedesco separato dalla moglie.

Rocco, col lavoro di giardiniere che svolgeva nelle ville e nei parchi, fuori città, aveva messo da parte un piccolo gruzzolo ed era intenzionato a rientrare definitivamente in Italia, anche da solo, perché la moglie non voleva lasciare la città dov’era nata e cresciuta e dove lavorava da molti anni. E poi in un borgo non lontano da Berna viveva la figlia con i nipotini che andava a trovare ogni fine settimana e durante le vacanze.

Rocco, ogni tanto, nel periodo delle ferie, tornava in Italia per fare i bagni al mare con parenti ed amici. Era sempre triste e non amava parlare del suo lavoro e della sua famiglia, né voleva ricordare i tempi della sua infanzia. Nessuno conosceva la moglie e la figlia, neppure in fotografia. Rocco non ne parlava e se qualcuno chiedeva notizie cambiava discorso. Però guardava ammirato le donne del paese e i ragazzini che giocavano felici nella piazzetta, in campagna e al mare.

La partenza per lui era un momento difficile; soffriva molto quando doveva allontanarsi dalla sua terra e dai suoi compaesani  per tornare in Svizzera. La mattina presto si recava alla stazione da solo perché non voleva farsi accompagnare dai parenti; saliva in silenzio sul piccolo treno locale che lo avrebbe portato in città; poi, dalla stazione di Lecce, sarebbe partito di filato verso il nord, per tornare in quel paese straniero che non aveva mai amato.

Durante la breve permanenza in casa della sorella più piccola, Rocco aveva sottoscritto un compromesso per l’acquisto di un pezzo di terra nella zona del mare. Poveretto, chissà quanto l’aveva desiderato, ma, ormai, non gli serviva più!

Il letame ci ha fatti, il letame ci sta affossando

raccoglitore di letame (da union3.le.it)

di Armando Polito

Detto così sembra una contraddizione, una sorta di maledizione o, per chi ha smanie intellettualistiche, una nemesi storica all’inverso.

Probabilmente e paradossalmente ha ragione proprio quest’ultimo (che magari avrà buttato quel nemesi storica a caso…senza aggiungere all’inverso) ma non è da dimenticare che bisogna sempre fare i conti con la metafora, cioè con quella figura retorica che l’intelligenza umana (te la raccomando…) ha creato. Bisogna che tutti (anche parecchi degli addetti ai lavori…non agricoli) sappiano che letame è dal latino laetàmen, a sua volta da laetus=grasso, rigoglioso, fiorente, propizio, allegro. Poi a letame si affiancò come sinonimo concime, ma già la sua etimologia (da conciare, dal latino  *comptiàre, a sua volta da comptus participio passato di còmere=adornare) annunziava il distacco dal ciclo naturale, come dimostrano le multinazionali, chimiche, del settore, sicché concime oggi, in concreto, è un dannoso orpello1.

Sembrava che l’originario letame avesse toccato il fondo, ma una fine ancora

Cavatelli di grano bruciato

di Gustavo Braceria

Forse qualcuno di voi ne avrà sentito parlare, ma la sua origine riflette una cultura davvero lontana da noi, oggi. Il Tavoliere delle Puglie (l’estesa pianura che circonda Foggia) è stata da sempre coltivata a grano. Grano duro, per lo più.La piovosità limitata e la mancanza di risorse idriche hanno indotto la gente del posto a coltivare l’unica pianta che vi si pot…esse adattare: il grano. E per antica e ancor oggi non del tutto scomparsa cultura agricola, a fine mietitura, le basi degli steli del grano non venivano rivoltate nel terreno, ma date alle fiamme.Provate a immaginare la scena dantesca di centinaia o anche migliaia di ettari di campi già mietuti, che prendevano fuoco, nelle giornate già torride di fine giugno, col fumo che scuriva il cielo per chilometri e chilometri fino a nascondere il sole o che di notte baluginava e si avvistava anche a decine e decine di chilometri. Un gioco della mia infanzia era quello di gareggiare con mia sorella a chi contava più incendi intorno a noi, sulla pianura o sulle colline circostanti.Finita la bruciatura delle stoppie, i proprietari terrieri autorizzavano, per tradizione, la gente povera di quei posti a spigolare.La spigolatura era un lavoro davvero ingrato. Ore al sole torrido, sui campi ancora caldi dell’incendio, chini a raccogliere le poche spighe di grano sfuggite alla mietitura e rimaste sui campi, bruciate dal fuoco.Con quelle spighe si otteneva una farina particolare, la farina di grano arso.Era davvero l’estrema risorsa per quella povera gente. A volte la scambiavano con la farina bianca (riservata ai ricchi): un kg di farina di grano arso per un pugno di farina bianca. Altre volte veniva usata per panificare o per fare la pasta.Le tagliatelle di farina di grano arso costituiscono una tradizione tutt’affatto locale e sconosciuta in quasi tutto il resto d’Italia.

La tostatura dei chicchi di grano, dovuta al fuoco, dona a questa farina un sapore particolarissimo, qui ancora molto apprezzato e oggi considerato eccezionale per la rarità del prodotto. Tant’è che un mulino di queste zone, ha preso a tostare il grano per recuperare un sapore e un gusto che molti rimpiangono.

In onore a quella gente dura e piena di risorse, ho intenzione di procurarmi questa farina e domani mattina andrò a comprarla.

La moderna tostatura è ben diversa dal fuoco delle stoppie e offre garanzia di omogeneità e sicurezza alimentare.

Rosa, oltre il fiore c’era una donna

Albert Ritzberger

di Elio Ria

Ora che non c’è più è come se il paese fosse stato privato di qualcosa. Un paese del sud, come tanti, con tanta gente di fatica, con i colori del sole e il grigio perla della luna.

Rosa era una donna del sud, tutti in paese la conoscevano.

Aveva i capelli neri ondulati, abbandonati alla bizzarria del vento. Il rossetto sulle labbra carnose ne risaltava l’indole trasgressiva. Amava passeggiare con il ventaglio nero con sottili righe di color rosso. I suoi abiti rigorosamente neri con il profilo di merletto, come a significare l’eleganza di altri tempi. I suoi occhi erano accesi di simpatia e fermezza.

La sua bellezza di gioventù consumata troppo in fretta per miseria viveva nel suo cuore e amava parlarne con discrezione come solitamente sapevano fare le nobildonne.

Il paese non badava alle sue stravaganze, ai suoi giochi di parole, alle continue burla e risate: preferiva tenerla a debita distanza, non godeva della stima degli altri, di coloro che in fondo erano sì brave persone ma non potevano accettare il suo modo di essere donna diversa.

Il suo viso beffardo congelava le maldicenze e all’occasione sapeva imporre la

La più antica fiera di Maglie: lu panìri

di Emilio Panarese

Tra le cinque fiere annuali di Maglie lu panìri era la più antica, essendo stata istituita nell’ottobre del 1819 dal re di Napoli Ferdinando I di Borbone. Cadeva nei giorni 27, 28 e 29 giugno, giorni dei festeggiamenti in onore dei SS. Pietro e Paolo. Posteriori le altre fiere: S. Oronzo, 1834;  S. Nicola e Addolorata, 1860; SS. Medici, 1891. Oggi l’unica sopravvissuta è quella dell’Addolorata, che si svolge nel viale omonimo il venerdì precedente la Domenica della Palme.

Il panìri dal neogreco πανηγúρι vuol dire “riunione di gente in occasione di particolari festività”. La parola neogreca fu in seguito usata estensivamente e genericamente nel senso di “mercato” oppure “dono che in particolari festività si faceva alla fidanzata o a parenti ed amici”: lu panìri de san Pietru; lu paniri de san Nicola ecc..

A Maglie il mercato boario del panìri, che era esente da imposte, si svolgeva la mattina del 29 al Largo Cuti sul piazzale dei SS. Medici; la sera, per sicurezza di ordine pubblico, era prescritta l’illuminazione di tutti i fanali a petrolio. Gremitissimo il mercato in piazza, che attirava molti acquirenti dei paesi vicini.

I due santi erano venerati nella chiesa di san Pietro (una delle tre esistenti in piazza), che, delle antiche chiese medievali di rito greco, fu quella che resistette di più per le sue buone condizioni statiche. Solo agli inizi dell’800 cominciò a mostrare grosse crepe. Venne abbattuta nel 1880 e trasformata in palazzo (oggi vi è la sede dalla Banca Popolare Pugliese). Nell’interno si vedevano sulle pareti molte immagini di santi e  sull’altare due grandi statue di

La fine dei Vinti. Giovanni D’Avanzo: da gendarme a brigante,

di Rocco Biondi

 

Il romanzo tratta del processo che si tenne davanti alla Corte d’Assise di Santamaria Capuavetere (Caserta), dal 24 febbraio al 13 marzo 1864, contro i fratelli Cipriano e Giona La Gala, Domenico Papa e Giovanni D’Avanzo. I reati che vengono loro addebitati si riferiscono a fatti avvenuti nel 1861.

Il 1861 è un anno in cui in tutto il Mezzogiorno d’Italia è in atto una grande ribellione contro l’invasione operata dai Savoia piemontesi nel Regno delle Due Sicilie. Molteplici erano le bande brigantesche in azione: in Basilicata quella di Carmine Crocco, nelle Puglie quella di Pasquale Domenico Romano, in Terra di Lavoro quella di Luigi Alonzi. Franco Molfese nella sua fondamentale “Storia del brigantaggio dopo l’Unità” individua ben 388 bande.

In questo grande sommovimento nell’ex Regno delle Due Sicilie rientrano le azioni dei fratelli Cipriano e Giona La Gala, nati a Nola, il primo nel 1834, il secondo due anni dopo. Nel 1855 i due fratelli erano stati condannati a 20 anni di carcere per un furto, durante il quale vi fu un morto. Nel 1860 i due fratelli La Gala fuggirono dal carcere di Castellamare e si diedero alla macchia diventando briganti. Cipriano formò una sua banda, che contò fino a 300 uomini.

Nel gennaio 1862 raggiunsero Roma, dove incontrarono il re in esilio Francesco II Borbone, che voleva mandarli a Marsiglia e a Barcellona per reclutare gente per una guerra di riconquista dell’ex Regno delle Due Sicilie. Si imbarcarono a questo fine sulla nave francese Aunis. Ma nel porto di Genova furono arrestati dai piemontesi. Ne nacque un incidente diplomatico, che si concluse con la restituzione dei La Gala ai francesi in un primo tempo e con l’estradizione poi dalla Francia all’Italia. Portati a Napoli per il processo, vennero condannati a morte. Condanna poi tramutata all’ergastolo.

La forma che assume il romanzo è quella diaristica, con anche una raccolta di corrispondenze giornalistiche per il giornale “L’Osservatore Romano”. Autore del diario e delle corrispondenze è Paolino Amato, avvocato napoletano e corrispondente appunto dell’Osservatore Romano. Sono raccolti il racconto di nove giornate del diario e nove corrispondenze da Napoli.

La prima data del Diario di Paolino Amato è quella del 20 febbraio 1864. Vengono raccontati i preparativi della partenza da Roma. Cosa che poi prosegue nei tre giorni successivi fino all’arrivo a Napoli. Per capire lo spirito del romanzo leggiamone un brano: «Conoscere la versione del popolo m’intriga e confido possa essermi di aiuto per comprendere cos’è veramente accaduto a questa gente, cos’è che hanno reso “briganti” campagnoli tranquilli e pacifici, armato la mano di canonici e zappaterra, fatto di don Giovanni D’Avanzo un fuorilegge».

La prima corrispondenza da Napoli di Paolino Amato (che è la personificazione di Fiore Marro, l’autore del romanzo), per rendere conto del processo contro i quattro briganti dell’Aunis, è del 24 febbraio 1864. Viene interrogato il brigante Giovanni D’Avanzo. Viene fuori che i giudici hanno già deciso a priori la colpevolezza degli imputati.

Nel processo si narra anche di un presunto episodio di cannibalismo. Noi siamo certi che si tratta di una falsa accusa inventata dai piemontesi per screditare al massimo i briganti.

Il giornalista Amato sta dalla parte dei vinti ed è sicuro che prima o poi sarà fatta giustizia, si saprà la verità. «Ingiustizia è fatta», con queste parole inizia l’ultima corrispondenza.

Al titolo del romanzo a me piace dare un significato positivo. E’ finito il tempo in cui i briganti e i meridionali debbono essere considerati dei vinti. I vinti non sono più vinti, stanno per diventare vincitori.

Rocco Biondi

 

Fiore Marro, La fine dei Vinti. Giovanni D’Avanzo: da gendarme a brigante, Società Editrice L’Aperia, Caserta 2011, pp. 64, € 10,00.

 

Sabato 29 settemdre 2012 – Ore 18.00
Sala Consiliare Comune di Villa Castelli (Brindisi)
Piazza Municipio


Associazione

Settimana dei Briganti – l’altra storia”
Villa Castelli (Brindisi)

in collaborazione con
Associazione Euclidea
Villa Castelli

nell’ambito de
I SABATI BRIGANTESCHI

organizza
la presentazione del volume

La fine dei vinti. Giovanni D’Avanzo: da gendarme a brigante
di Fiore Marro

 

 

PROGRAMMA

Introduce: Vito Nigro
Coordina: Rocco Biondi

Presentazione di

Francesco Laricchia
Nato a Bari nel 1955. Dirigente medico presso l’Ospedale di Castellana Grotte. Responsabile della Rete Sud. Coordinatore per la Festa della Vittoria di Carlo di Borbone a Bitonto (BA). Fondatore del Premio “L’Alfiere del Sud”. Consigliere e componente della Commissione Cultura del Comune di Casamassima (BA).

Relazione dell’autore
FIORE MARRO
Nato a Cervinara (Avellino) nel 1963, vive a San Nicola La Strada (Caserta). Si ispira per le sue campagne meridionalistiche a Guido Dorso. E’ presidente nazionale dei Comitati Due Sicilie. E’ autore di romanzi e testi teatrali. Ha allenato alcune squadre di calcio. Fonda, con altri leaders del meridionalismo, la Confederazione Duosiciliana.

Evento musicale

 


Archivio digitale degli antichi manoscritti della Puglia

 “ARCHIVIO DIGITALE DEGLI ANTICHI MANOSCRITTI DELLA PUGLIA”

IL 29 SETTEMBRE L’INCONTRO DI CHIUSURA DEL PROGETTO

 

 

Si svolgerà sabato 29 settembre 2012 alle ore 10 nell’aula “Ferrari” di Palazzo Codacci Pisanelli (piazza Rizzo, Lecce) l’incontro di chiusura del progetto ADAMaP – Archivio digitale degli antichi manoscritti della Puglia, diretto dal professor Rosario Coluccia, preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università del Salento e Accademico della Crusca.

 

Dopo i saluti del Rettore Domenico Laforgia, del Presidente della Provincia di Lecce e del CUIS Antonio Gabellone, del Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia Antonio Castorani, del vice sindaco e assessore ai Beni culturali della Città di Cavallino Gaetano Gorgoni, e del direttore del Dipartimento di Studi umanistici Giovanni Tateo, sono in programma gli interventi di:

 

  • professor Rosario Coluccia

Preside della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università del Salento, Accademico della Crusca e Direttore scientifico del progetto ADAMaP

  • professor Claudio Ciociola

vice direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, ordinario di Filologia italiana e valutatore esterno del progetto ADAMaP

  • dottor Antonio Montinaro

assegnista di ricerca UniSalento, coordinatore generale del progetto ADAMaP

 

La presentazione della struttura informatica sarà a cura dell’ingegner Diego Bergamo, analista, progettista e sviluppatore Ict.

 

Il progetto ADAMaP (Archivio Digitale degli antichi manoscritti della Puglia) è finalizzato alla costituzione di una biblioteca in formato digitale che permetta la ricomposizione virtuale, la visualizzazione e la descrizione dei manoscritti in italoromanzo vergati in Puglia tra il secolo XIII e il secolo XV. Questi codici, attualmente dispersi in varie biblioteche italiane e straniere (quasi nulla è rimasto in sede), per la maggior parte sono riconducibili all’iniziativa di signori locali che promossero l’uso del volgare nell’àmbito di un progetto di valorizzazione politica e culturale del territorio pugliese; non mancano inoltre testi e documenti provenienti dall’universo religioso e dalla cultura cittadina.

 

Tramite la biblioteca digitale è possibile visionare i manoscritti e consultare le schede descrittive, che forniscono indicazioni dettagliate sui codici e sulla tradizione testuale delle opere da essi tramandate: nel loro insieme costituiscono una componente fondamentale del patrimonio culturale, scientifico e artistico della Puglia medievale.

Alla biblioteca digitale e interattiva si affiancano una banca dati, che consente di eseguire ricerche specifiche sui manoscritti e sulle schede descrittive, e una sezione dove è possibile consultare studi dedicati alla produzione manoscritta meridionale, non solo pugliese. La consultazione è gratuita, libera e non richiede registrazione.

 

Frutto di ricerche e studi pluriennali condotti da un gruppo di lavoro guidato dal professor Rosario Coluccia, direttore scientifico, il progetto ADAMaP è stato ideato e sviluppato assieme ad Antonio Montinaro, coordinatore generale. La sua realizzazione si basa su finanziamenti PRIN ottenuti negli anni passati e su più recenti finanziamenti erogati dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Puglia e dal Consorzio Universitario Interprovinciale Salentino, all’interno di un’iniziativa che vede coinvolti il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università del Salento e la Città di Cavallino.

 

A partire dalla presentazione di sabato 29 settembre i risultati del progetto saranno consultabili, gratuitamente e senza registrazione, sul sito www.adamap.it.

Dai sedani di Corinto a Luciana Littizzetto. Il sedano selvatico nei secoli

Il sedano selvatico

  

 

di Armando Polito

Nome italiano: sedano selvatico

nomi dialettali: lacciu crièstu, murlu, murùddhu

nome scientifico: Apium graveolens L.

famiglia: Ombrelliferae o Apiaceae

 

Il nome italiano (sedano) è dal greco sèlinon1; la prima parte del nome scientifico (àpium) è il latino àpium2=sedano, la seconda (gravèolens) è un aggettivo che significa dall’odore acuto. Il primo nome della famiglia (Ombrelliferae) significa portatrici di ombrelle, con riferimento alla forma dell’infiorescenza, il secondo è dal citato àpium.

Passo ai nomi dialettali: lacciu è dal citato latino àpium con normale passaggio -api->-acci- (come in sàcciu=so, da sapio); da àcciu per agglutinazione dell’articolo (l’àcciu>làcciu>lu làcciu) è nato làcciu. Per murlu e murùddhu il Rohlfs non propone alcuna etimologia; io partirei da murùddhu, in cui la ricostruzione  dell’originario –ll– (sviluppatosi normalmente in –ddh-) mi porta ad un murùllu che potrebbe essere un diminutivo del greco muron=profumo, diminutivo che qui, però, avrebbe un significato quasi dispregiativo, come nel gravèolens prima citato. La variante murlu, infine, sarebbe da murùllu per sincope della vocale tonica, retrazione dell’accento e naturale scempiamento –ll->-l-.

L’attestazione più antica del sedano, nella valenza quasi esclusiva di componente primario del paesaggio,  è in Omero (probabilmente IX° secolo a. C.): ”Intorno verdeggiavano teneri prati di viole e di sedano: là poi anche se un immortale si fosse accostato ne sarebbe restato ammirato e si sarebbe rallegrato in cuore3”; “…i cavalli poi stavano ognuno vicino al suo carro a pascere il loto e il sedano palustre…4”: “[parla un topo rivolto ad una rana] Non mangio ravanelli o cavoli o zucche né mi nutro di porri freschi né di sedani; questi infatti sono i vostri cibi nella palude5”.

Qualche secolo dopo godeva di grande prestigio se Pindaro (V° secolo a. C.) lo ricorda più volte quale premio in vittorie sportive: “…quando nella gara del rimbombante Nettuno (la gara col tridente) fiorì dei sedani di Corinto…6”; “Nettuno dopo aver donato nei giochi istmici questa vittoria nella gara dei cavalli a Senocrate gli inviò una corona di sedani dorici con cui si cingesse la testa”7; “…egli che ottenne la vittoria ai giochi istmici dai sedani dorici…8”; “Due corone di sedani ornarono lui che si era distinto nei giochi istmici…9”.

L’abitudine di piantarlo al limitare dei giardini aveva dato luogo al proverbio di Aristofane (V°-IV° secolo a. C.): “La tua situazione non sta né al sedano né alla ruta10”, cioè neppure all’inizio11. E qualche secolo dopo in Plutarco (I°-II° secolo d. C.) il nesso “ha bisogno del sedano12” cioè sta per morire è in riferimento all’abitudine di ornare col sedano non più la testa del vincitore ma le tombe.

Fu protagonista anche nella toponomastica se la città di Selinunte deve il suo nome all’abbondanza che di questo vegetale trovarono in situ i colonizzatori greci e, se così non fosse stato, forse la sua raffigurazione non sarebbe comparsa, prima da sola poi insieme col nome  degli abitanti o della città (e in forme via via più stiizzate), su monete datate (in sequenza nella foto in basso) la prima alla metà del VI° secolo,  le altre del V° a. C.

didracma
tetradracma
tetradracma
tetradracma
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La costante presenza nel verso di tutte le monete, meno la prima, di Apollo e della foglia di sedano trova giustificazione nella testimonianza di Plutarco: “Mentre così si discorreva camminamavo. Nel tempio dei Corinzi mentre guardavamo una palma di rame, che è l’unica superstite dei doni, lì attorno

Otranto e l’albero di Pantaleone

da Wikipedia

Dedicato a Don Grazio Gianfreda il volume «Note di storia e di cultura salentina» (2)

Nel volume «Note di Storia e Cultura Salentina» (Argo Editrice), annuario a cura di Fernando Cezzi, ed organo della Società di Storia Patria per la Puglia una miscellanea di Studi dedicati a Mons. Grazio Gianfreda. Il volume è introdotto da un ricordo di mons. Grazio Gianfreda di Maurizio Nocera riprodotto qui nella sua seconda parte.

« (…) il mondo basato sulle grandi visioni sintetiche e interculturali, come quelle raffigurate sul Mosaico, si è frantumato. / La programmazione informatica, da parte sua, più che mettere ordine in tale universo, rappresenta con i suoi archivi computerizzati solo una difesa disperata, mossa dalla consapevolezza che i frantumi sono diventati cocci, pezzi ormai inutili»

« (…) Nel Mosaico c’è l’incontro tra l’integrazione culturale di Alessandro il Grande, la romanizzazione dell’Impero Romano, l’arte e la cultura dell’Impero Arabo, la Rinascenza dell’Impero Bizantino e le culture dell’Europa Occidentale: nella Cappella degli 800 Martiri, invece, c’è il risultato dello scontro tra civiltà. L’incontro produce l’“opus insegne”; lo scontro rovina, distruzione, morte»

 
 
 
da Wikipedia

L’albero di Pantaleone

Maurizio Nocera

Altro libro che mi donò Don Grazio Gianfreda, sempre con dedica, fu la sua bella e agile “Guida di Otranto” (Edizioni del Grifo, Lecce 1993), nella quale riprende l’argomento della chiesa di San Pietro, confermando alcune affermazioni e precisando alcune datazioni.

Scrive: «la Chiesa bizantina di San Pietro risale al sec. IX. È tutta affrescata. Sulla cupola dell’altare è la “Annunciazione”; nella conca sottostante è

Montesardo (Lecce). Il convento di S. Maria delle Grazie dei frati Conventuali

stemma dei francescani

di Luciano Antonazzo

Nella sua “Corografia fisica e descrittiva di Terra d’Otranto” l’ Arditi (rifacendosi ad un manoscritto di memorie antiche) riferisce che un convento di francescani era stato eretto in Montesardo da Donna Maria de Capua nel 1550.[1]

A sua volta Mons. Ruotolo, oltre a precisare che si trattava di un convento di francescani Conventuali, sostiene che in quello i frati vi “ebbero dimora dal 1610 al 1810”.[2]

In realtà però il convento fu voluto e fondato nel 1527, assieme ad altri cittadini, dalla madre di Maria de Capua, Antonicca del Balzo,[3] e la sua esistenza non durò più di un secolo.

E’ quanto si apprende da alcuni documenti appartenenti all’ex diocesi di Alessano e custoditi nell’Archivio Diocesano di Ugento.[4]

Fra queste carte si è avuta la fortuna di rinvenire proprio l’atto originale di fondazione del convento in oggetto; fu rogato in Alessano il 15 giugno del 1527 dal notaio Luigi Pedilongo di “Montearduo” che intervenne come agente e stipulante tanto in nome proprio che (come persona pubblica) in nome e per parte “Ecclesiae Venerabilis Monasteri Sanctae Mariae de la Gratia de novo costruendo ordinis Sancti Francisci Mendicantorum in terra Monteardui”.

Alla sua presenza si costituirono Donna Antonicca del Balzo, Principessa di Termoli, Contessa di Alessano e Baronessa di Montesardo ed i signori: il Rev. abate Giovanni Paolo, Don Giovanni Baldovino, Giovanni Vitali, Giovanni Carlo Romano, Marco Surracca, il Rev. don Selomu Bleve, il maestro Marco Bleve, Antonio Ingrosso, lo stesso notaio Pedilongo, Evangelista Romano, don Antonio Rizzo, Giovanni Piccinno, Giovanni Schiavone, Bernardino Blanco, Luigi Pezzuto, Bernardino Mastria, Antonio Conte, Nicola Charati, Mattia de Tommaselli, Luigi Caprarica ed il figlio Don Giulio (tutti di Montesardo) ed il sig. Mandil.

Tutti sostennero spontaneamente  di voler donare dei loro beni a suffragio dell’anima dei loro parenti ed antenati e “pro edificando dicta  Ecclesia et Monasterio ”.

Donna Antonicca promise quattrocento ducati da pagarsi in quattro anni e si impegnò anche a nome dei suoi successori a versare ogni anno venti ducati per l’acquisto delle tuniche per i frati; l’abate Giovanni Paolo assegnò 50 ducati, trenta dei quali da pagarsi in otto anni ed i restanti 20 in rate da un ducato l’anno; Giovanni Vitali donò a titolo di donazione irrevocabile tra vivi tutti i suoi beni mobili e stabili  riservandosene l’usufrutto assieme alla moglie vita natural durante ed intanto si impegnò a versare ogni anno 15 tarì. Alla sua morte e di quella della moglie i detti beni sarebbero passati in piena proprietà della chiesa e convento da edificarsi, a condizione che il procuratore della stessa avesse versato ogni anno, in perpetuo, un tarì alla chiesa dello Spirito Santo. Nel caso che la nuova chiesa ed il convento non fossero stati eretti il suo atto di liberalità era da eseguirsi in favore di quest’ultima.

Anche Don Giovanni Baldovino promise 50 ducati, ma da pagarsi in cinque rate annuali da 5 ducati l’una; Giovanni Carlo Romano di ducati ne assegnò 25 da pagarsi con rate annue di 3 ducati l’una ed in più una chiusura con olive e vigna nel luogo detto Vigniscemoli;  il Reverendo Selomo Bleve si impegnò a costruire a sue spese, entro sei anni, una cappella dentro l’erigenda chiesa, mentre il maestro Marco Bleve promise che avrebbe fatto gratis, finchè fosse vissuto e la salute glielo avesse consentito, tutti gli infissi in legno, comprese porte e finestre.

Una seconda cappella promise di farla costruire, anche questa entro sei anni, Antonio Ingrosso con l’impegno a dotarla con due ducati annui in perpetuo per la celebrazione di messe in suffragio dell’anima sua, dei suoi genitori e dei suoi figli.  Lo stesso notaio Pedilongo promise 10 ducati a condizione che gli fosse stato consentito di costruire per sé e per i suoi discendenti un altare con sepoltura.

Una cisterna sita nella pubblica via la donò don Antonio Riccio (Rizzo) che si riservò il diritto di attingere acqua e lo stesso fece  Giovanni Piccinno che assieme alla cisterna donò la chiusura in cui quella si trovava, nel luogo detto le Conche.

Un’altra chiusura, sempre alle Conche, con cisterna ed area fu donata da Luigi Craparica e da suo figlio Don Giulio.

Il sig. Mandil (per sé e sua moglie) assegnò 9 ducati, Luigi Pezzuto 5, Giovanni Schiavone 1 ducato d’oro come Nando Ciullo, mentre Polidoro Pedilongo promise 2 ducati d’oro[5] e Nicola Charati 4, da pagarsi per tutti in tempi diversi.

Con tale dote si diede inizio alla costruzione del convento da intitolarsi al pari della sua chiesa alla Madonna delle Grazie.

Non è dato sapere quando effettivamente ebbero inizio i lavori, mentre è certo che ancora nel 1547 gli stessi non erano stati ultimati; lo documenta un testamento di  detto anno nel quale è contenuto un legato in favore del convento stesso.[6]

Il quattordici marzo il notaio Angelo Securo di Montesardo si recò con i necessari testimoni in casa “egregi”Carlo Perreca, “sita  et positam intus predictam terram Montisardi”, il quale gli dettò le sue ultime volontà.

Egli nominò come sua erede universale di tutti i propri beni mobili, stabili e semoventi, ma nel solo usufrutto, la moglie (di Presicce) Gemma Adamo gravandola di diversi legati.

Innanzitutto destinò alla contessa Antonicca del Balzo un giardino con alberi comuni e con dentro un’abitazione ed un “colombaro”, ed un “clausorio” di terra e vigna con un “tigurio”ed un palmento nel luogo detto “Vigniscemoli”.

Vincolò la donataria assieme ai suoi eredi e successori a non alienare mai detti beni e li gravò dell’onere di far celebrare in perpetuo per la propria anima e di quella dei suoi defunti due messe la settimana nella cappella che egli intendeva far costruire nella chiesa del convento della Madonna delle Grazie e da intitolarsi a S. Nicola. Stabilì che qualora non fosse riuscito a farla erigere egli stesso, l’incombenza di far erigere detta cappella sarebbe stata a carico della moglie che era altresì vincolata a comprare una campana per la chiesa del convento.

Per far ciò autorizzò la consorte a vendere dei beni ereditari fino ad un valore di settanta ducati per ognuna delle due incombenze e ciò nel termine di dieci anni.

Finché fosse vissuta la moglie era tenuta a fargli celebrare una messa a settimana nella costruenda cappella e stabilì che tutti i suoi beni dopo la di lei morte dovessero andare in dote della suddetta cappella di S. Nicola e che i frati in quella dovessero celebrargli in perpetuo sei messe settimanali per la sua anima e dei suoi defunti.

E proseguì dicendo: “Si per caso lo ditto convento di S. Maria della Gratia non si compisse de edificare,& in quello non convenisse de abitare e commorare in ditto Monistero dè S. Maria de Gratia i frati preditti, & in quello servire in divinis secondo solono servire i Monasteri per quello tempo sarà viva la predetta Gemma sua universale erede per spazio di anni dieci,allora la detta cappella se abbia da edificare in lo Monasterio di S. Francesco de Alessano una con ditte robe, e si in ditto Monasterio de ditta Alessano non se edificasse ditta cappella, quella se abbia da edificare in S. Francesco della terra di Specchia”.

Precisò altresì che  la moglie avrebbe potuto godere dell’usufrutto della sua eredità solo nel caso non fosse convolata a seconde nozze, altrimenti i suoi beni erano da considerarsi in piena proprietà dei legatari.

Dispose ancora che la consorte gli dovesse far fare le esequie “secondo la sua condizione” e fargli “dire tre nove quaranta” nel suo anniversario, e che dopo morto avrebbe dovuto fargli fare un “tauto[7] ed in quello deporlo e farlo portare nella chiesa matrice e lì lasciarlo fino a quando non fosse stata completata la sua cappella con relativa sepoltura.

Per il soddisfacimento di questi due legati diede alla moglie la potestà di vendere un pezzo di terra in località “lo Piano”, precisando che dalla somma ricavata, dedotti gli otto ducati ed un tarì, il resto era da distribuirsi ai poveri.

Infine alla chiesa madre legò “tutte le case, & locore cum curtjs cisterna & orto preditto con tutti suoi altri membri riservati li due capienti grandi della sua solita abitazione siti e posti dentro la predetta terra di Montesardo in vicino ditto  la strata di S. Bartololmeo…” per adibirle ad ospizio per i poveri, ospizio il cui “governo”e “dominio” era demandato  in perpetuo al sindaco della città. Qualora detto ricovero non fosse stato realizzato o disattese le sue disposizioni, anche i detti immobili erano da assegnarsi alla sua costruenda cappella.

Legò alla stessa chiesa madre sei ducati “pro edificazione prefate ecclesie” (sic),[8] e due ducati ed un tarì lo lasciò alla chiesa della Madonna del Rosario.

E’ verosimile ritenere, stando a quanto riferito dall’Arditi, che il convento fosse stato completato nel 1550, un anno dopo la morte di Antonicca del Balzo (avvenuta il 23 aprile del 1549) per un impulso economico della di lei figlia Maria; sicuramente però non venne mai realizzata nella chiesa della Madonna delle Grazie (né altrove) una cappella sotto il titolo di S. Nicola e questo probabilmente perché Gemma Adamo  decedette prima di vedere la conclusione dell’erezione del convento.

Del nuovo convento non si rinviene più alcuna notizia degna di nota fino al 1628,  anno in cui la Chiesa Romana per “sorvegliare ed insieme promuovere l’applicazione dei decreti del Concilio di Trento nel Regno di Napoli”, inviò come Visitatore Apostolico della città di Alessano e della sua diocesi il vescovo di Venosa Mons. Andrea Perbenedetti. [9]

L’alto prelato effettuò la visita “Ecclesiae et conventus S. Mariae Gratiarum Montis Ardui Fratrum S. Francisci Minorum Conventualium” il 24 febbraio di detto anno e dalla sua relazione apprendiamo che la chiesa dipinta di bianco era decentemente costruita e con la copertura a volta; una campana era situata sul muro sopra la porta maggiore ed a fianco a questa vi era il fonte battesimale; la stessa porta era dotata di serratura e le finestre erano coperte con tela cerata.

L’altare maggiore era realizzato in forma comune con il tabernacolo dorato nel quale era custodita una pisside argentea; su questo altare i frati erano tenuti a celebrare quattro messe la settimana  per l’anima della defunta Donna Lucrezia delli Falconi,[10] baronessa dello stesso luogo, ed altre due per l’anima di due pii testatori, uno dei quali era verosimilmente il defunto Perreca.

La chiesa era adornata con altri due altari dei quali il primo era sotto il titolo dell’Assunzione di Maria Vergine ed il secondo intitolato a S. Antonio. Su questi non era stato costituito alcun obbligo di messe e le stesse vi si celebravano per devozione solo di quando in quando. La sacrestia si trovava in cornu evangelii dell’altare maggiore e vi si custodivano le necessarie e congrue suppellettili sacre.

Per quanto riguarda il convento Mons. Perbenedetti relazionò: Conventus ipsorum fratrum ante decreta postremo emanata fuerat extructus, in eoque duo tantum fratres eiusdem ordinisminorum conventualium sunt de famiglia assignati, qui oneribus paedictis missarum satisfaciunt. Vivunt secundum constitutiones regulae quam fuerunt professi in communi de redditibus ipsius conventus, qui ad summam sexaginta annorum ascendunt et ex elemosinis piis fidelium praestationibus elargitis”.[11]         

Veniamo così a sapere che il convento era stato eretto ben prima che venissero concesse le necessarie autorizzazioni, ma non ci è dato sapere quando effettivamente sia entrato in funzione e la sua chiesa officiata; conosciamo invece la data nella quale lo stesso convento entrò in possesso dell’eredità del Perreca.

E’ documentato infatti che il primo marzo del 1578 frate “Antonio de Andrata custode seu guardiano Conventus, seu Monasterii Sanctae Mariae de la Gratia”, si rivolse al notaio Lupo Antonio Mazzapinta di Montesardo asserendo che il notaio Angelo Securo aveva rogato il testamento del fu Perreca e che “antequam dittum testamentum in publicam formam reduceret ad istantiam ditti Conventus dittum Notarium Angelum, sicut Domino placuit suum diem clausisse extremum”; [12] e poiché era interesse del convento avere in pubblica forma tale documento chiese al notaio Mazzapinta di adoperarsi in tal senso. Questi, in virtù delle facoltà e poteri concessigli dalla legge, cercò tra i protocolli del suo defunto collega e rinvenuto il testamento in oggetto ne rilasciò copia al frate guardiano.

I frati del convento ebbero così garantiti gli introiti delle rendite provenienti dalla  eredità del fu Perreca, entrate che, come ci relaziona Mons. Perbenedetti, nel 1628 ascendevano a sessanta ducati, somma comunque appena sufficiente per il sostentamento dei soli due frati che allora vi dimoravano.

Data la esiguità di tali rendite è improbabile che nel convento si sia avuto in seguito un incremento dei frati, ma anche se ciò fosse avvenuto è certo che nel 1652 i residenti non raggiungevano le sette unità, numero che metteva al riparo dalla soppressione prevista dalla bolla “Inscrutabili” di Papa Innocenzo X.

Fu così che il convento di S. Maria delle Grazie dei Conventuali di Montesardo cessò la sua esistenza e lentamente andò i rovina fino a perdersene la memoria; le sue ultime vestigia infatti furono viste dal De Giorgi attorno al 1880.[13]

La stessa sorte toccò alla sua chiesa anche se per qualche anno continuò ad essere officiata per disposizione del vescovo di Leuca ed Alessano, Mons. Giovanni Granafei, il quale si trovò a dover dare seguito alle disposizioni del fu Carlo Perreca.

Come stabilito nel suo testamento, con la soppressione del convento di Montesardo, i suoi beni sarebbero dovuti infatti andare ai Conventuali di Alessano, ma il vescovo, assieme al capitolo, il 15 luglio del 1654 inoltrò una richiesta alla S. Sede tendente ad ottenere che, data la indigenza, la tenuità dei frutti e dei proventi della chiesa parrocchiale di Montesardo, fosse quest’ultima a subentrare nell’eredità del Perreca al posto dei Conventuali di Alessano, fermo restando  l’obbligo per il curato pro tempore di soddisfare al peso delle messe da celebrarsi nella chiesa del soppresso convento.[14]

La richiesta di Mons. Granafei venne esaudita il 27 agosto dello stesso anno ed il 16 ottobre successivo il notaio della Curia vescovile, don Giovanni Stivala, immise il vescovo nella “veram, realem, actualem, &corporalem possessionem” della chiesa, e l’arciprete ed il procuratore della parrocchiale di Montesardo nel possesso dei beni che il Perreca aveva legato al convento dei Conventuali di S. Maria delle Grazie di Montesardo.


[1] G. Arditi: la corografia fisica e descrittiva della provincia di Terra d’Otranto. Lecce, rist. anas. 1979, p. 369.

[2] G. Ruotolo: Ugento -Leuca – Alessano, cenni storici e attualità. Cantagalli Ed. Siena 1969 (III ed.). p.82.

[3] Antonicca del Balzo subentrò come titolare della Contea di Alessano al fratello Raimondo,  morto senza discendenza, nel 1509 e sposò il duca di Termoli Ferrante de Capua. Da detto matrimonio nacquero Isabella, che sposò lo zio Vincenzo de Capua e succedette alla madre morta nel 1549, e Maria che sposò il barone di Giuliano Filippo dell’Antoglietta.

[4] ADU: Docc. Alessano 1527-1770.

[5] Questi ultimi due non figurano tra i costituiti elencati dal notaio.

[6] Questo testamento ci è pervenuto attraverso una copia che il notaio Antonio Tasco di Alessano trasse da quello esistente nel convento dei Conventuali della città di Alessano e che a sua volta era una trascrizione del testamento originario rogato dal notaio Securo e reso pubblico solo nel 1578 dal notaio di Montesardo Lupo Antonio Mazzapinta (v. infra).

[7] Tauto (altrim. tavútu, tabbutu, chiaútu,) = cassa mortuaria (dalla’arabo tabût). V. Gerhard Rolfs: Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo Ed. 1976, vol. I, p.139

[8] Qui evidentemente il testatore si riferisce alla edificazione della stessa chiesa madre.

[9] AndrèJacob: La visita apostolica della diocesi di Alessano nel 1628 in Il bassoSsalento – ricerche di storia sociale e religiosa a cura di Salvatore Palese, Congedo Ed, 1982, pp.131 e ss. (Della realzione di tale visita una fotocopia è conservata nell’Archivio Diocesano di Ugento).

[10] Ferrante delli Falconi acquistò il feudo di Montesardo il 9 novembre del 1607 da Ettore Brayda.

[11] Trad: Il convento degli stessi  frati era stato costruito prima che fossero finalmente emanati i decreti, ed in quello vi sono assegnati soltanto due frati dello stesso ordine della famiglia dei Conventuali, i quali soddisfano agli oneri di predette messe. Vivono secondo le costituzioni della regola da quando furono professi in comune col reddito dello tesso convento, che ascende alla somma di sessanta ducati annui, e con le pie elemosine dei fedeli per le prestazioni elargite.

[12] Trad: prima che detto testamento fosse ridotto in pubblica forma ad istanza di detto convento, detto notaio, come a Dio piacque, aveva chiuso il suo giorno estremo.

[13] Cosimo De Giorgi: La provincia di Lecce- bozzetti di viaggio. Rist. anast. Congedo Ed. Galatina 1975, vol. II, p.95.

[14] ADU: fondo Vescovi –Sede vacante 1651-59.

Da “Il Bardo – fogli di culture” Anno XIX, N.2, Dicembre 2009

Il gioco delle noci

 

dal gruppo Facebook “Come eravamo”

di Rocco Boccadamo

 

Da ragazzo, a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale e quando era ancora lontano da venire il periodo cosiddetto della modernità e del boom economico, i giochi e gli svaghi conosciuti e alla portata di tutti erano invero limitati.

Consistevano, più che altro, in formule di divertimento di antica ideazione, che si tramandavano pari pari da una fascia generazionale all’altra.

Tra essi, ricordo con simpatia il gioco delle noci. Era solitamente rispolverato e praticato in settembre, in concomitanza con la maturazione, l’abbacchiatura, la raccolta, la sbucciatura e l’essiccazione al sole di tali frutti.

Già, perché in paese, allora, le noci non si trovavano sul banco del negozio di “generi alimentari e diversi” (del resto, il solo esercizio esistente), ma erano reperibili ed acquistabili unicamente dalle poche persone che ne possedevano una pianta e che, riservandosi preventivamente una porzione dei frutti ad uso familiare, vendevano la rimanenza al dettaglio, in questo caso “al minutissimo dettaglio”, riuscendo così a raggranellare qualche gruzzolo a beneficio del bilancio domestico.

Di produttori venditori, mi vengono in mente i nomi della comare L., della zia B. e della mamma C.

Ragazzi, adolescenti e giovanotti, quando avevano la disponibilità di piccole somme, si recavano nelle case o nei giardini di dette persone e comperavano modeste quantità di noci, il cui prezzo era di una lira per frutto.

Dotatisi così della materia prima, i medesimi, solitamente di pomeriggio, ma anche la sera sotto la fioca luce delle lampadine pubbliche del paese, gareggiavano nel gioco delle noci, che si teneva contemporaneamente in più posti dell’abitato e consisteva nell’allestimento di un filare orizzontale di  6 o 8 o 10 o 12 frutti, assiepati in piedi, in precedenza consegnati uno a testa dai partecipanti.

Una volta allestito il filare, da una distanza predefinita, di 10 o 15 o 20 metri, ogni giocatore mirava verso quell’insieme di frutti, lanciando nella sua direzione una noce scelta fra le più grandi, piene e pesanti, soprannominata non a caso palla, in dialetto “paddra”.

Non era per niente facile fare centro, specialmente quando era buio: l’impatto o meno con il filare della posta in palio dipendeva dalla precisione e della forza del lancio, nonché dalla qualità della “paddra”. Condizioni valide pure ai fini della quantità di frutti che uscivano abbattuti e costituivano la vincita del giocatore.

I più bravi e fortunati accumulavano apprezzabili scorte di noci che, spesso, rivendevano agli altri gareggianti, riuscendo in tal modo a recuperare le lire spese inizialmente per la provvista e realizzando anche dei guadagni.

Io, senza falsa modestia, me la cavavo bene nel gioco delle noci.

Il suono segreto del Megalitismo

ph Luigi Panico

 

di Stefano Delle Rose

L’archeologia accademica tende a relegare il fenomeno del megalitismo in un periodo che va da IV al II millennio a. C. ; in realtà, grazie alle scoperte di ricercatori indipendenti e appassionati, questa datazione si può arretrare fino al 10-15000 a. C.

Un dubbio però ancora non chiarito è come sia stato possibile che in tutto il mondo, culture diverse tra loro e senza contatti reciproci, abbiano utilizzato la stessa tecnica costruttiva, ossia l’uso di enormi blocchi in pietra, il cui peso spesso superava le 100 tonnellate; gli esempi di costruzioni megalitiche sono numerosi: dalla Bolivia, con la perduta città di Tiahuanaco che un tempo sorgeva sulle sponde del Lago Titicaca, alle Piramidi in Egitto; e ancora, i templi maya e le città fenice di Tebe, Delfi, Micene, Tirinto. A noi più familiare risultano la civiltà nuragica in Sardegna, quella Etrusca e nel Salento i popoli pre-Messapico e Messapico.

Che si tratti di templi, mura, piramidi, menhir, tutti questi popoli sono accomunati dall’uso di enormi pietre, megaliti appunto, nelle rispettive costruzioni.

La prima reazione di fronte a queste costruzioni è quella di chiedersi perchè siano stati utilizzati enormi e pesanti blocchi e non tagli più piccoli e maneggevoli e come siano stati spostati, le teorie sono molte e diverse tra loro; ad esempio si teorizza l’intervento di civiltà aliene dotate di tecnologie avanzatissime superiori alle conoscenze e ai mezzi utilizzati dall’uomo di quel periodo. Personalmente ritengo un errore continuare a teorizzare usando come parametri le conoscenze e le tecnologie oggi a noi note, sarebbe molto più utile e produttivo riuscire a ragionare in base a ciò che l’uomo dei megaliti aveva sicuramente a disposizione e cioè la natura e la sua energia.

I nostri antenati erano perfettamente in grado di sentire le diverse energie di cui era circondato come fossero informazioni ed era capace di gestirle e utilizzarle, essendo l’unico modo di sopravvivere. Oggi abbiamo perso tali capacità, avendole affidate alla tecnologia; calendari, orologi, telefoni, antenne sono le nostre energie informanti.

La fisica moderna ha ampiamente dimostrato il carattere vibratorio dell’energia, in qualsiasi forma essa si presenti. In un’ottica vibrazionale, il pensiero è facilmente rivolto al suono quale più facile e immediato strumento per creare energia e dal suono prendiamo a prestito un altro concetto che è quello della risonanza. Nell’Universo tutto risponde al principio della risonanza, ogni forma di energia è in grado di rispondere ad una frequenza simile alla propria.

Possiamo quindi affermare Energia=Vibrazione=Risonanza sulla quale si basa non solo la musica ma ogni forma di energia attorno a noi e in qualsiasi stato: solido, liquido, gassoso, quindi anche pensieri, colori, odori e naturalmente, suoni.

Numerose sono le terapie basate sull’uso di determinati suoni o musiche, sia antiche che moderne. In tutte le più antiche culture e tradizioni, a tutte le latitudini, troviamo riferimenti al suono come al mezzo di avvicinamento a Dio o all’Universo, si pensi ai mantra, al canto gregoriano, al suono di una campana.

Facciamo un passo indietro e mettiamoci nei panni di un costruttore di megaliti. Abbiamo già evidenziato come egli fosse in grado di interagire con le frequenze della natura e quindi risulta logico ipotizzare che fosse anche in grado di riprodurre tramite un suono l’esatta frequenza di risonanza della pietra con cui lavorava. Nel momento in cui la pietra riceve la giusta frequenza, inizia a vibrare liberando energia, risultando facilmente trasportabile o manovrabile.

Un aspetto poco noto e poco studiato del megalitismo è il suo rapporto con questa determinata forma di energia che è il suono, interpretando quest’ultimo come la primordiale forma di espressione energetica esprimibile dall’uomo.
Ma quale sarà la frequenza segreta del megalitismo?

Il primo approccio è legato al materiale, che nel caso del Salento è il calcare con il quale furono eretti menhir, dolmen e mura e nel quale furono scavate grotte, ipogei, chiese rupestri , attraverso lo studio delle caratteristiche chimico-fisiche dei minerali che lo compongono. Ma altrettanto importanti sono anche la forma e le dimensioni del manufatto oggetto di studio. Per quanto riguarda il suono, si sta procedendo sia con suoni espressi a voce, in particolare con il canto armonico, che attraverso suoni prodotti da tecnici specializzati nel campo della musica. Come si può capire è fondamentale un approccio multidisciplinare in cui fisica, chimica, musica e tecniche energetiche antiche, operano con l’unico obiettivo di entrare in risonanza con il megalitismo salentino.

Gallipoli. Nicola Malinconico (1663-1727) nella cattedrale di Gallipoli

Nicola Malinconico nella cattedrale di Gallipoli

Analogie artistiche

Da un bozzetto ritrovato ad una singolare congiunzione di tre artisti in rapporto con Gallipoli

di Antonio Faita

Chi entra nella cattedrale di Sant’Agata, sin dal primo sguardo, percepisce d’essere entrato in un tempio importante per la sua ricchissima decorazione pittorica. E’ una vera e propria galleria d’arte dove sono presenti opere di artisti locali e napoletani del ‘600-‘700 e tra le quali spiccano quelle di Giovanni Andrea Coppola, Gian Domenico Catalano, Luca Giordano, Nicola e Carlo Malinconico. Su questi ultimi due, e soprattutto su Nicola, mi vorrei soffermare e, in particolar modo, sul suo dipinto: “La cacciata dei mercanti dal Tempio” che sovrasta la porta centrale.

Recentemente, lo studioso napoletano Achille della Ragione ha ricostruito, cronologicamente e con più precisione, il percorso inerente l’attività pittorica di Nicola Malinconico, sulla scorta di numerosi documenti di pagamento che lo studioso Umberto Fiore è riuscito a reperire nell’archivio storico del Banco di Napoli e nell’archivio di Stato.

Ciò ha permesso di datare gran parte dei lavori del Malinconico, correggendo molti precedenti errori, tra i quali la data della sua morte, indicata da Bernardo De Dominici e riportata, successivamente, da vari biografi, al 1721 ed oggi spostata al 1727[1].

Nel 1700 la cattedrale di Gallipoli, grazie alla volontà del nuovo prelato mons. Oronzo Filomarini della casa dei teatini di Sant’Eligio di Capua[2], fu oggetto di abbellimento e di trasformazione in chiave barocca. L’artista, chiamato a completare il programma perseguito da mons. Filomarini[3], fu il napoletano, esponente di area giordanesca, Nicola Malinconico (Napoli 1663-1727)[4] il quale, per il gran numero di tele commissionategli, fu impegnato quasi sicuramente, anche se non ininterrottamente, dal 1715 fino al 1726, un anno prima della sua morte. Non è documentato infatti quel che molti sostengono, e cioè che il Malinconico abbia dipinto per la chiesa di Sant’Agata già a partire dal 1700, mentre è attestata la sua presenza in Gallipoli nel 1715. Infatti, dalla Visitatio ai locali della cattedrale che mons. Filomarini fece il primo agosto di

Libri/ Sud Est. Vagabondaggi estivi di un settentrionale in Puglia

 

Chi l’ha detto che le cronache di viaggio debbano restare esclusivamente legate al ricordo del Gran Tour che nell’800 letterati e nobili stranieri si accingevano ad intraprendere? Quei diari di viaggio, che oscillavano tra la descrizione narrativa e le divagazioni filosofiche, sono stati assai amati fino alla prima metà del secolo scorso. Poi, il giornalismo, con grandissimi cronisti, ne ha raccolto la funzione e le finalità, svecchiando un modo di raccontare il Paese che sembrava ormai dimenticato.

Ebbene, da una decina d’anni questo genere sembra nuovamente caduto in disgrazia, sia per l’onnivora presenza televisiva che ha degradato ogni narrazione, sia per l’esistenza di una certa narrativa che, attraverso (discutibili) reportage e real story, ha recuperato la sua antica consuetudine di raccontare il territorio. Marco Brando, giornalista del Corriere del Mezzogiorno, ha scritto un agile libretto, che già dal titolo,

Sud Est. Vagabondaggi estivi di un settentrionale in Puglia, rievoca la forte – ed atavica – commistione tra giornalismo d’inchiesta e racconto d’evasione.

Composto di una trentina di percorsi e di due “fuori rotta”, il libro di Brando assolve con facilità ad una duplice funzione: quella di denuncia, dettata dalla sconforto e dall’avvilimento per l’incuria e l’insensibilità di alcuni scellerati progetti di industrializzazione; e quella della fascinazione, che una terra come quella di Puglia è capace di emanare proprio nei suoi anfratti dimenticati (e quindi sottratti al degrado ambientale, ma anche alla valorizzazione turistica e culturale che dovrebbe invece esserne fatta).

Da “settentrionale trapiantato nel Sud”, Brando riesce ad evidenziare bene questa contraddizione entro cui il sud-est – come tutto il Meridione, del resto – rischia di restare fulminato, ma ne comprende anche le straordinarie possibilità di riscatto mai attuate, che la condannano in un odioso limbo nel quale sembra ormai essersi rassegnato.

 

(pubblicato sulla rivista “Gli Apoti. Quelli che non la bevono”

– link: http://www.gliapoti.it/LaRivista/Pdf/Gli%20Apoti6.pdf )

La pianta che fa tribolare

 

L’AZZAPÈTE

  

di Armando Polito

È, in dialetto neretino1, il nome di una pianta annua, ancora molto diffusa nelle nostre campagne2 che non abbiano subito il passaggio di quel novello Attila costituito dal diserbante. Il nome comune italiano è tribolo o caciarello, il nome scientifico Trìbulus terrèstris L. ed appartiene alla famiglia delle Zigofillacee.

Il primo nome italiano (trìbolo) è dal latino trìbulu(m)=trebbia, trebbiatrice (connesso con tèrere=estenuare), a sua volta dal greco trìbolos che indica genericamente una pianta spinosa e nello specifico proprio la nostra; non a caso trìbolos è costituito da tri-(radice di treis=tre) e bolos=lancio, da ballo=gettare. Trìbolos in greco era pure un ferro con quatttro punte divergenti sparso sul terreno per ostacolare il transito della cavalleria nemica, nonché la punta del morso nei finimenti  e, la voce, usata come aggettivo significa triforcuto. Il secondo (caciarèllo) pone seri problemi etimologici: la voce potrebbe essere collegata col romanesco caciàra=chiasso (forse connesso con gazzàrra, che è dall’arabo gazara=mormorio) o col toscano caciàia3=luogo in cui si fa stagionare o si conserva il cacio; nel primo caso ci sarebbe un riferimento all’effetto della puntura dei suoi frutti spinosi, nel secondo alla diffusione particolare di questa pianta in un territorio ben preciso.

La prima parte del nome latino (Trìbulus) è il padre del primo nome italiano (trìbolo), la seconda (terrèstris) si riferisce al suo portamento prostrato e nello stesso tempo funge da elemento distintivo rispetto al Trìbulus aquàticus Mat. o Trapa natans L. (Trappola che nuota), in italiano castagna di palude; per trapa vedi la nota n. 4.

A parte il toscano caciàia tutte le etimologie  fin qui proposte evocano gli effetti  spiacevoli della puntura dei frutti di questa pianta. Per chi non li avesse provati è sufficiente uno sguardo alla foto che segue, che ne mostra uno in dettaglio.

Anche i nomi stranieri confermano questa deduzione:

Saveria e le sue trecce alla “scaunizzu”

LETTERATURA GASTRONOMICA

LE TRECCE ALLA “SCAUNIZZU”

di Nino Pensabene

Le trecce alla “scaunizzu” Saveria le preparava d’inverno, vicino al camino acceso. A semicerchio intorno alla fiamma disponeva le pigne, affinché, sciolta al caldo la resina, fosse agevole recuperare i pinoli e, nel frattempo, si dava a preparare l’impasto.

Metteva in una padella, a bordo alto, un litro di vincotto al quale aggiungeva mezzo chilo di fichi secchi tritati, tre etti di mandorle pestate, due etti di noci sminuzzate, tre cucchiaiate di mostarda, una manciata di uva passa, un po’ di cedro candito tagliato a dadini e un pizzico di cannella. Faceva bollire a lungo, amalgamando col mestolo di legno, poi passava sulla spianatoia a raffreddare. A parte preparava la sfoglia con mezzo chilo di farina, due etti di strutto, una presa di sale e un pizzico di lievito sciolto in un bicchiere di marsala.

Le sfoglie le tirava lunghe e sottili, le tagliava a nastri larghi cinque dita e le riempiva del composto, chiudendole solo a tratti, a pizzicotti, come una giacca male abbottonata. Poi le intrecciava a due a due e, dove la sfoglia si allargava, lasciando intravedere l’impasto, tracciava un disegno con i pinoli. Le infornava, sorvegliandone attentamente la breve cottura. Tirate fuori al punto giusto, si presentavano croccanti, con un aroma spiccato e un gusto delizioso.

Erano in parecchi a mangiare le trecce dolci di Saveria, ma da un po’ di tempo a questa parte, è inutile attenderne l’offerta. No – afferma decisa -, non ne preparo più. Le facevo per gli amici ed era una gioia, ma ho avuto modo di constatare che oggi la parola “amicizia” è qualcosa di astratto, una parola che appartiene ad una lingua che non si parla più. Me li chiami forse veri amici gli opportunisti, i falsi, i traditori?

Una amara constatazione la sua che diviene amara meditazione per noi ogni qualvolta il profumo delle “trecce alla scaunizzu” riempie la casa di Saveria e dilaga financo sulla strada, perfido come una tentazione e pesante come una condanna.

Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1973, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma), pag. 76

Note storiche sul castello aragonese di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Le vicende storiche del castello di Nardò, oggi sede della civica amministrazione, sono soltanto in parte note, restando le sue origini approssimative e degne di essere ancora studiate.

Intanto occorre dire che il primitivo “castrum” neritino, forse eretto su una preesistente e strategica acropoli o una costruzione romana, era stato concesso nel 1271 ai francescani dal re Carlo d’ Angiò (1266-1285), tramite il suo congiunto Filippo di Tuzziaco o de Toucy, a causa delle cattive condizioni statiche in cui si trovava e quindi non più atto alla difesa dell’abitato.

Il celebre storiografo francescano Luca Wadding[1] così scrisse a proposito: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

Sui resti e su quanto avanzava dell’antico maniero, che non è dato di sapere a quale anno risalisse, probabilmente realizzato dal normanno Roberto il Guiscardo, i frati fissarono la loro dimora, a lato dell’ attuale chiesa dell’ Immacolata, rimanendovi ininterrottamente per ben sei secoli, fino alla metà dell’800, quando furono soppressi quasi tutti i conventi presenti in città.

Dell’antico castello restò solo il nome al pittagio in cui esso sorgeva, detto per l’ appunto “castelli veteris” (vecchio castello).

Se l’attuale castello è della fine del XV secolo o dei primi decenni del successivo è inevitabile chiedersi, come già altri studiosi hanno fatto, se la città di Nardò abbia o meno posseduto un castello nel periodo compreso tra il 1271 e l’epoca a cui risale il nostro. Oltre due secoli, durante i quali era impossibile che una città importante e grande come Nardò fosse sprovvista di difesa e di un castello.

particolare della facciata del castello di Nardò

Sebbene finora nessuno sia riuscito a scoprire dove fosse collocato, esiste invece certezza che Nardò aveva la sua fortezza, forse non tipicamente

Quinto Ennio, alter Homerus, tra Lecce e Roma

di Alfredo Sanasi

Chiunque si sia interessato di Ennio ha sempre sottolineato che il nostro grande conterraneo si vantasse di avere tre anime perché, come viene ricordato da Aulo Gellio, conosceva tre lingue, il greco, il latino e l’osco: Q. Ennius tria corda se habere dicebat, quod loqui Graece et Osce et Latine sciret.

In effetti la sua lingua materna non era l’osco, bensì il messapico, ma forse egli considerava il messapico quasi un “dialetto” facente parte della gente di lingua osca, che aveva espresso forme d’arte che, sia pur limitate, tuttavia erano tali da poter aspirare ad una dignità letteraria.

Che egli conoscesse bene il latino prima ancora della sua venuta a Roma è facile capirlo tenendo presenti le vicende storiche dei decenni che precedono la sua nascita. Nei Fasti Trionfali Capitolini si ricordano i trionfi dei Romani sui Salentini e sui Messapi negli anni 268 e 267 avanti Cristo, in seguito alla sconfitta dei loro grandi alleati Taranto e Pirro, che per tanti anni avevano tenuto testa ai temuti Romani. Quindi quando nasce Ennio nel 239 a.C. nel Salento era già diffusa da circa trenta anni la lingua latina dei dominatori, almeno nelle relazioni sociali e politiche e negli strati più alti della popolazione messapica. Ora è indubitato che Ennio discendesse da nobile e prestigiosa famiglia, anzi egli stesso si vantava di discendere dal mitico re Messapo. Quindi era naturale che, data la sua condizione sociale, egli stesso e tutta la sua famiglia avessero studiato e appreso bene la lingua dei conquistatori.

Quanto poi alla sua conoscenza del greco è facile individuarne l’origine. Certo Rudiae, la sua città natale, non era proprio città greca, anche se Strabone la definisce “Polis ellenìs”, ma era comunque profondamente ellenizzata. Per convincersi indiscutibilmente di questo basterebbe osservare che gran parte dei manufatti e dei materiali greci esposti nel Museo Provinciale di Lecce provengono in larga parte da rinvenimenti e scavi di Rudiae.

Il Ciaceri, nella sua splendida Storia della Magna Grecia, ritiene che già a partire dal V secolo a.C. l’egemonia dei Tarantini si fosse fatta sentire più o meno su tutta quanta la penisola salentina, prima sulle coste da Gallipoli ad Otranto e poi sulle città dell’interno, le quali ben presto risentirono fortemente l’influenza della grande colonia spartana. Quindi Ennio, data la sua alta condizione sociale, potè avere fin dall’infanzia un pedagogo greco o un maestro di lingua greca o comunque potè spostarsi durante l’adolescenza a studiare nella vicina colonia greca di Taranto, allora città ricchissima e dai notevoli fermenti culturali.

Fra gli scrittori antichi che ricordano Rudiae importanti sono Strabone, Pomponio Mela e Plinio il Vecchio, ma le indicazioni topografiche di questi tre autori, vissuti tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., dando posizioni vaghe e contrastanti sulla ubicazione di Rudiae, hanno fatto sorgere il tanto discusso problema della identificazione del centro moderno corrispondente all’antica patria di Ennio. Ricordiamo a tal proposito che gli studiosi hanno proposto vari centri moderni: Carovigno, Grottaglie, Francavilla Fontana, Ostuni, Rutigliano, Andria e persino, con molta fantasia, Rodi Garganico.

Noi, tenendo presente anche la attendibile indicazione dell’antico geografo Tolomeo, che colloca Rudiae nella zona mediterranea del Salento accanto a Neretum (Nardò) siamo convinti che la patria di Quinto Ennio fosse indiscutibilmente nella zona archeologica situata sulla strada per S.Pietro in Lama a due chilometri da Lecce, fuori dalla porta della nostra città che ancora oggi reca il nome di porta Rudiae o porta Rusce.

E’  merito del Bernardini l’aver fatto nel secolo scorso una scrupolosa planimetria di questa zona archeologica, cinta dai resti di due cerchie murarie con al centro la cavea ellittica di un piccolo Anfiteatro, arricchito da lavori scultorei, e nelle vicinanze resti di un ninfeo e un lungo tratto di strada romana a grosse lastre dalla forma di poligoni irregolari. I reperti fittili e lapidei provenienti da questa area archeologica, messapici, greci e romani, oggi conservati nel Museo di Lecce, testimoniano che in questo centro antico, forse per le sue radicate tradizioni, la cultura latina, a partire dalla metà del secolo III a.c., pur sovrapponendosi alla precedente indigena e greca, sicuramente non la sopraffece.

Tutto questo rafforza l’immagine poliedrica che Ennio da di sè quando parla di tre anime (tria corda) e quando mostra il suo attaccamento alle sue origini: anche dopo che ottenne la cittadinanza romana da Q.Fulvio Nobiliore volle in un bel verso mostrare la fierezza e la gioia dell’alto riconoscimento a lui conferito, ma contemporaneamente ricordare con orgoglio di essere nato a Rudiae nel Salento:

nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini

oggi siamo Romani noi che un tempo fummo Rudini.

Ma quali eventi portarono Ennio a Roma, ove doveva divenire il primo grande poeta epico e dare l’avvio ad una produzione poetica raffinata che sollevasse la poesia latina a vette altissime tali da competere con la grande civiltà greca?

Ciò avvenne durante la seconda guerra punica, quella guerra che vide contrapposte per il predominio sul Mediterraneo le due più grandi potenze del tempo, Roma e Cartagine.

Quella guerra impose, come ha visto giustamente il grande storico Gaetano De Sanctis, una scelta agli uomini dell’Italia meridionale: per Roma o contro Roma.

Quinto Ennio secondo la raffigurazione realizzata nel 1511 da Raffaello Sanzio nelle Stanze Vaticane

Molti, dice il De Sanctis, forse i più, Greci, Osci e anche Iapigi, scelsero la fedeltà alla tradizione locale e la riscossa contro il dominio di Roma sotto la guida di quell’Annibale che aveva sbaragliato le legioni romane proprio in Puglia, a Canne nel 216 a.C. Ennio invece, come cittadino nobile e fiero e come poeta in quella lingua latina che ormai riconosceva come propria, accanto a quella greca a lui ancora più familiare, scelse Roma. Tale scelta fu decisiva per lui e per la poesia romana. Al servizio della romanità Ennio poneva uno spirito ricco d’arte e di pensiero greco, perché la letteratura romana conquistasse un altissimo posto accanto o addirittura sopra alla greca contemporanea, ormai decaduta rispetto alla gloriosa letteratura greca più antica.

Militava dunque Ennio tra le truppe ausiliarie romane quando nel 204 a.C. s’incontrò in Sardegna con Catone il Censore, che apprezzò subito le sue alte doti d’ingegno e la fine cultura (benché fosse fiero avversario della grecità) e lo condusse con sè a Roma. Lì Ennio entrò nella familiarità degli Scipioni, grandi mecenati ante litteram, sostenitori della cultura greca, e intensificò la sua multiforme attività letteraria, che spaziò dall’epica con gli Annales, al teatro con le ammiratissime sue tragedie, sino alla satira e alla produzione filosofica. Non lasciò insomma intentato nessun settore della cultura e dell’arte e se tributò ampio riconoscimento all’aristocrazia, volle contemporaneamente proporsi come il poeta di tutta la società romana e delle sue virtù collettive.

Quinto Ennio e Omero in un dipinto, liberamente reinterpretato (coll. privata)

Si può benissimo dire che la produzione letteraria romana per almeno tre secoli sarà influenzata dalla poesia di Ennio: Lucilio sotto vari aspetti si ricollega a lui; Orazio, che pure è così aspro con gli scrittori antichi, che bistrattò Plauto e Lucilio, porta Ennio come esempio di vera e assoluta poesia; Lucrezio è imbevuto di spirito enniano;  Cicerone trova in lui sentenze da oracolo, lo imita e lo cita continuamente nelle sue opere filosofiche; Varrone e Catullo riecheggiano varie sue espressioni; Virgilio infine si rifà spesso ai versi di Ennio, anzi, talvolta, riporta qualche verso quasi di peso alla lettera, come avviene, per esempio, nel sesto libro dell’Eneide allorchè parla di Quinto Fabio Massimo, che temporeggiando salverà lo stato: “Unus qui nobis cunctando restituit rem”.

Oggi un giudizio preciso sulla poesia enniana e in particolar modo sugli Annales per noi è impossibile, dato che la sua opera ci è giunta solo attraverso poche centinaia di versi frammentari; ma perché essa non venne ricopiata e conservata per intero? Non certo, come qualche critico maliziosamente ha detto, perché nelle età successive non piacque più per la sua primitività e il suo modesto valore artistico, anzi i continui richiami dei più grandi poeti e letterati dell’età classica mostrerebbero il contrario, ma , come ha dimostrato Scevola Mariotti, grande studioso di Ennio, perché le generazioni posteriori non furono sempre capaci d’intendere e apprezzare pienamente quell’arte evoluta, spesso ardita e forse troppo intellettualistica: l’arditezza di cui Ennio dà spesso prova va spiegata alla luce del suo temperamento innovatore e originalmente creatore.

Ennio comprese d’essere un capostipite nella poesia latina: audacemente nel primo proemio del suo poema epico immagina che gli appaia in sogno l’ombra di Omero, il quale gli rivela di essersi reincarnato in lui, secondo la dottrina della metempsicosi: per Roma Ennio sarà il vivente sostituto del più grande poeta di tutti i tempi, il Novello Omero. Ennio sceglie la storia di Roma come soggetto da trattare con toni e movenze mitiche, la storia passata apparirà nell’esametro enniano come un’epica leggenda suscettibile d’essere trasformata in mito: gli Annales di Ennio saranno il capolavoro della nuova cultura romana che viene dalla Grecia.

Lucrezio rievocando nel suo poema sulla Natura il sogno fatto da Ennio, dice che Omero appare al poeta di Rudiae piangendo: “lacrimas effundere salsas coepisse”. Quale il motivo del pianto? Secondo i critici più attenti sono quelle di Omero lacrime di gioia, per aver egli potuto incontrare Ennio e rivivere in lui, erede, oltre che della sua anima, anche delle sue qualità e della sua missione poetica.

Giunti a questo punto noi vorremmo tentare di delineare il carattere e la personalità dell’uomo Ennio, molto difficilmente potremmo intravedere il suo aspetto fisico.

Ennio, il cantore aulico degli Scipioni e di Marco Fulvio Nobiliore, circondato da amicizie potenti, in stretta dimestichezza con i principali esponenti della politica romana del suo tempo, secondo quanto ci dice S. Girolamo volle vivere modestamente, in una piccola casa sul monte Aventino: dirigeva il collegium scribarum histrionumque ma si contentò di un tenore di vita assai parco e dell’assistenza  di una sola ancella. Secondo Svetonio lì, presso il tempio di Minerva, avrebbe insegnato grammatica latina e greca ai rampolli dell’aristocrazia romana, ma a tal riguardo si levano forti dubbi, perché S.Girolamo ricorda solo Livio Andronico come maestro di scuola nel tempio di Minerva: d’altra parte, provenendo Ennio da famiglia aristocratica, discendente da stirpe regale, difficilmente si sarebbe adattato ad un mestiere che allora era praticato da schiavi o liberti. Impegnato soprattutto nella versificazione di tutta la storia di Roma sino ai suoi tempi, visse lieto della sua esistenza sobria, ma allietata dall’affetto dei componenti del primo Circolo degli Scipioni, sino a settant’anni, come ci ricorda Cicerone in varie sue opere, e principalmente nel De Senectute e nel De Officiis. Ennio ci dà egli stesso un suo autoritratto spirituale in un ampio frammento del suo monumentale poema: il poeta immagina di delineare il ritratto del fedele consigliere del console Servilio Gemino, ma già gli antichi, tra cui Lucio Elio Stilone ed Aulo Gellio, riconoscevano in tale profilo tracciato da Ennio l’ideale figura di se stesso, quale compagno e confidente di Scipione l’Africano, Scipione Nasica e Fulvio Nobiliore, con cui egli trattava da pari a pari, senza alcun servilismo. Dal frammento si evince che il poeta sente che Scipione “divide con lui affabilmente la mensa e i discorsi, con lui parla confidenzialmente di affari di stato ma anche di banalità, perché il grande condottiero considera l’amico Ennio uomo accorto e fedele, eloquente, contento del suo, capace di dire la parola giusta al momento giusto, conoscitore delle leggi divine ed umane, uno che sa dire o tacere prudentemente le cose che gli sono state confidate”. Anche in un altro frammento, tratto dalle Tragedie e riportatoci sempre da Gellio, si ritiene che il poeta ritragga se stesso dicendo “Questa è la mia indole e così sono fatto: porto scritto in fronte e tutti possono leggere se amico sono ad altri ovvero nemico”.

Ennio insomma impersona la saggezza pratica e la discrezione onesta, cioè gli aspetti principali della realistica humanitas latina, che noi ritroviamo anche in un altro frammento delle sue Satire, ove testualmente dice “non aspettarti dagli amici qualcosa che tu puoi fare da te stesso (ne quid expectes amicos quod tute agere possies)”.

La ricostruzione dell’alzato della Tomba degli Scipioni. Custodiva un solo estraneo: Ennio. Secondo Livio le tre statue erano dell’Africano, dell’Asiatico e di Ennio

Se questo era l’animo e il sentimento di Ennio, ora vorremmo figurarci quale fosse il suo aspetto fisico. Esiste invero di lui tutta una tradizione figurativa, esistono indizi e notizie di statue e pitture che lo effigiavano. Cicerone, Tito Livio, Ovidio, Plinio il Vecchio ci ricordano che Ennio riposò nella tomba degli Scipioni sulla via Appia Antica accanto all’Africano, anzi Plinio precisa che l’Africano stesso ordinò che una statua di Ennio fosse collocata nel suo sepolcro (prior Africanus Quinti Enni statuam sepulcro suo imponi iussit). Dalla tomba degli Scipioni invero proviene la cosiddetta testa di Ennio (alta cm. 24) scoperta nel Settecento ed ora nei Musei Vaticani. Tale attribuzione però non è corretta, oltre che per certe considerazioni di vario ordine (la testa di un modellato essenziale ma efficace, col viso tondeggiante, dalle labbra tumide ed il naso largo, potrebbe essere più femminile che maschile, sulla testa vi compare qualcosa che somiglia più ad un fermaglio che ad una corona d’alloro), ma soprattutto perché essa è in tufo dell’Aniene, non in marmo, come indicano alcune fonti antiche.

La cosidetta “testa di Ennio” proveniente dalla Tomba degli Scipioni, oggi conservata nei Musei Vaticani

Certo è incontestabile che ritratti del poeta (una novità di assoluto rilievo nella Roma arcaica) si diffusero per tutte le province della Res Publica romana prima e dell’Impero successivamente, come testimonia tra l’altro un mosaico di Treviri del III secolo d.C. conservato appunto nel Rheinisches Landesmuseum di Treviri in Germania, sul confine con il Lussemburgo: si tratta però, almeno per i reperti giunti sino a noi, di immagini ideali o idealizzate e non di veri ritratti realisticamente eseguiti. Un tributo d’omaggio ed una attenzione particolare rivolse ad Ennio nel Rinascimento il sommo Raffaello quando in Vaticano rappresentò nella Stanza della Segnatura i poeti degni di stare sul Parnaso: accanto ad Apollo ed alle Muse egli dipinse Omero circondato dai poeti epici: Virgilio e Stazio alla sua sinistra, Dante ed Ennio alla sua destra. Il primo seduto, a sinistra di chi guarda, con in mano una penna e pronto a mettere per iscritto i versi che Omero inebriato pronuncia è appunto Ennio, come ha di recente sostenuto Giovanni Reale, appoggiandosi alle osservazioni di Giorgio Vasari e Redig De Campos: solo Ennio non ha la corona d’alloro sulla testa, ma questo perché è una reincarnazione dello stesso Omero, come il poeta latino apertamente sostiene nel proemio degli Annales. Insomma, come dice Orazio, egli è l’ alter Homerus, Omero redivivo, perché accoglie dentro di sé l’afflato del più grande dei poeti. Letta in questo modo la figura raffaellesca del giovane Ennio, che pende dalla bocca di Omero, diventa veramente toccante, di una straordinaria efficacia drammaturgica.

Lecce oggi conserva pochi ricordi tangibili del suo grande figlio, ma meritano d’essere menzionati due segni lapidei in città. Una stele in pietra di Trani, accanto al monumento antico più significativo della nostra città, l’anfiteatro in piazza S. Oronzo, fu eretta in ricordo di Quinto Ennio nel 1913 ed è opera dell’insigne scultore Antonio Bortone: ancora oggi si possono vedere di essa il basamento e la fascia in bronzo con maschere teatrali; non è invece più visibile il verso enniano che vi era scritto sopra, tramandatoci da Cicerone.

Immediatamente fuori Porta Rudiae è un’altra testimonianza che ricorda ai leccesi che qui ebbe i suoi natali il primo grande poeta epico di Roma: si leva infatti qui una colonna in granito grigio donata dal comune di Roma alla città di Lecce in occasione del bimillenario di Quinto Ennio.

Non sono mancate certo in questi ultimi anni le manifestazioni culturali in ricordo di Ennio: nel novembre del 1994 l’Associazione Italiana di Cultura Classica volle che si svolgesse a Lecce, nell’Hotel Tiziano, un Convegno Nazionale di studi classici su “Ennio tra Rudiae e Roma” con la partecipazione dei più eminenti studiosi in tale campo, tra cui è d’obbligo ricordare almeno gli insigni latinisti e grecisti Scevola Mariotti e Dario Del Corno.

Ogni anno infine si svolge a Lecce, già da sedici anni, organizzato dal Liceo Classico Palmieri in collaborazione con l’Università di Lecce, il Certamen Ennianum, gara internazionale di lingua e cultura latina, che ha lo scopo di favorire contatti e scambi culturali tra i licei del territorio nazionale ed europeo e di approfondire e continuare la conoscenza del grande poeta latino: così infatti Ennio continuerà a vivere tra noi come egli stesso si augurava e sperava, se, come ci dice Cicerone, egli personalmente sulla sua tomba, o più probabilmente sotto la sua statua dentro la tomba degli Scipioni, allorché morì nel 169 a.C., volle che si scrivesse “continuo a volare come vivo sulle bocche di tutti (volito vivus per ora virum)”.

 

Museo Nazionale di Napoli, presunto ritratto di Ennio proveniente dalla Villa dei Papiri

 

BIBLIOGRAFIA

Fonti antiche

Aulo Gellio, Noctes Atticae, Oxford 1968

S. Girolamo, Chronicon, a. Abr. 1777 e 1830

Livio, Ab Urbe Condita, Lipsia, Ed. M. Muller

Lucrezio, De Rerum Natura, I, Milano 1990

Pomponio Mela, De chorographia, Lipsia 1880

Cornelio Nepote, Liber de excellentibus ducibus, Cato, Milano 1960

Orazio, Epistole, Libro II, Milano 1959

Plinio Il Vecchio, Naturalis Historia, Lipsia 1906

Svetonio, De viris illustribus, De Grammaticis, Milano 1968

Strabone, Geographica, Parisiis 1863

Tolomeo, Geographia, Parisiis 1883

Studi

L. Alfonsi, Letteratura latina, Firenze 1968

M. Bernardini, La Rudiae Salentina, Lecce 1955

E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, Milano1928

G. B. Conte, Letteratura latina, Firenze 1988

G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, II, tomo II, Firenze 1953

Dizionario degli scrittori greci e latini, diretto da Francesco della Corte, Marzorati editore

A. Grilli, Studi enniani, Brescia 1965

Scevola Mariotti, Lezioni su Ennio, Pesaro 1951

Monaco-De Bernardis-Sorci, La produzione letteraria nell’antica Roma, I, Firenze 1995

G. Reale, Raffaello Il “Parnaso”, Rusconi, 1999

S. Timpanaro, Contributi di filologia e storia della lingua latina, Roma 1978

G. Zappacosta, Nil intemptatum, I, Firenze 1968

Da Marittima (Lecce), i quadretti di un (non) pittore senza cavalletto

 

Marittima di Diso, Torre di Alfonso e Palazzo Baronale

di Rocco Boccadamo

 

Sin dai tempi delle mitiche aste e/o delle prime vocali, R. è stato sempre accompagnato da una congenita negazione per il disegno. Più precisamente, riuscendo a malapena a salvare la faccia riguardo a quello geometrico, laddove si trattava di mettere due linee in croce o di tratteggiare un angolo o un poligono, ma rivelandosi addirittura una completa e assoluta frana per ciò che attiene all’altro genere, il cosiddetto ornato.

Così che, negli anni preadolescenziali delle medie, succedeva sistematicamente che il docente della materia, in occasione degli scrutini, finisse ogni volta col trovarsi in serio imbarazzo: insomma, l’otto segnato sulla pagella di R. era tutt’altro che meritato, ma cadeva miracolosamente dal cielo, alla stregua di provvidenziale manna, solo affinché non fosse “guastato” l’insieme dei voti eccellenti, abitualmente riportati in tutte le altre discipline.

Invece, nonostante l’anzidetta antica non predisposizione o vocazione, in virtù di una sorta di strano contrappasso, in questo caso al rovescio o meglio a beneficio, quando si tratta di “disegnare” o tratteggiare il paesello, il mare, la costa, i campi pietrosi, le distese verdeggianti e argentate degli ulivi, le facce della gente di ieri, i ricordi di una serie di vecchi mestieri e delle abitudini passate in generale, ecco che R. si scopre pittore. Senza tavolozza, né pennelli, né colori, bensì servendosi di particolari “strumenti” immateriali, ma evidentemente non meno efficaci, quali sono la memoria, i pensieri, l’interpretazione e la fantasia.

°   °   °

Nella toponomastica stradale di Marittima v’è un’arteria, fra le più lunghe, che parte da Piazza della Vittoria per terminare all’altezza del Santuario Maria SS. di Costantinopoli, con adiacente edificio già sede di un convento di monaci, e, sulla destra, in corrispondenza del piazzale del camposanto.

Il suo nome ufficiale è Via Convento, ma, da parte mia, giacché vi transitano indistintamente gli abitanti della piccola località nel loro ultimo viaggio, ho da qualche tempo preferito battezzarla con l’appellativo “Via di tutti”.

Lungo il percorso in parola, è continuamente dato di cogliere volti, emozioni, sofferenze, non solo nelle precipue occasioni dei tristi eventi, bensì tutti i giorni dell’anno.

Ad esempio, a percorrere detta strada, stamani, si trovava Nino, non a piedi, non in macchina, non in moto, bensì camminando appoggiato al manubrio della sua vecchia bicicletta.

Prossimo ai novanta, egli è solito recarsi – quasi quotidianamente – nell’area caratterizzata dai cipressi, per la visita e un saluto alla moglie che l’ha lasciato solo.

Oltre a Nino, proprio davanti al portone del luogo dei trapassati, ho scorto, ferme e intente a conversare, due sorelle, vestite rigorosamente di nero: chissà quali contenuti o argomenti erano insiti in quei discorsi, tuttavia, a prescindere da ciò, le citate figure, in un lampo, mi hanno richiamato alla memoria il triste evento di alcuni anni addietro, sottoforma di tremendo scontro stradale fra due autovetture sul nastro d’asfalto di una vicina provinciale, in cui le donne videro perire la loro sorella più giovane, due cognate e, infine, una sorella di queste ultime, l’indimenticabile comare Amalia, lei sì pittrice, ricamatrice e creatrice dotata d’inesauribile inventiva, come ho avuto modo di sperimentare personalmente attraverso la realizzazione, per opera sua, del vessillo effigiante i volti dei miei tre gatti che hanno ispirato il nome della barchetta a vela, nonché, autentica minuscola chicca, dell’indirizzo di posta elettronica rocco_b@libero.it, ricamato in fedelissime tinte sotto il coccodrillo delle Lacoste.

Insomma, è immaginabile e comprensibile che le visite di dette donne al luogo sacro siano quanto mai intrise di serti di pensieri, emozioni, rievocazioni e rimpianti.

°   °   °

Lasciata la “Via di tutti” e passando per un’altra vecchia strada di Marittima, mi è capitato, invece, d’imbattermi in Vitale C., seduto, al solito, fuori dall’uscio della sua abitazione a pian terreno.

Arrestata di colpo la corsa e spento il motore dello scooter, dopo il saluto, sono immediatamente venuto alla domanda: “Di che classe sei?”

E, Vitale, a rispondere senza esitazione: “!915”. Riflettendo, niente poco di meno che la data dell’ingresso dell’Italia nel prima grande guerra e/o, tradotto in calendari, novantasette primavere.

“Guido ancora il motocarro Ape” – aggiunge l’uomo – “ma sono autorizzato esclusivamente a portarmi dal garage qui accanto sino al mio campicello sulla strada nuova per Andrano”.

A onor del vero, da un pezzo, la campagna di Vitale si presenta incolta, pressoché abbandonata, si vede quindi che l’uomo, più che altro, non intende rinunciare, almeno nel racconto, alla vita attiva condotta sino a non molto tempo addietro.

Vitale, al pari di tutti i suoi familiari, è conosciuto con il soprannome “’u sceri” (in formula italianizzata, “dello sceri”, dove il misterioso termine rappresenta l’accezione dialettale di “usciere”.

Traendo spunto dall’incontro con il quasi centenario – nel paese, esiste solo un’altra persona più grande d’età, zio E., che ha superato i novantotto – sono stato preso dalla curiosità di scoprire l’origine del nomignolo “’u sceri”, e,a tal fine, mi sono rivolto alla sorella giovane di Vitale, cummare Mmimmi, la quale, da parte sua,  non sfigura, navigando intorno all’ottantina.

E’ venuto fuori che il loro genitore, Peppe ‘u sceri, originario di Tuglie, nell’ambito dello svolgimento della propria attività lavorativa, si rese ad un certo punto conto di aver bisogno di un animale da soma; contemporaneamente, seppe, per caso, che l’usciere (in dialetto sceri), o messo notificatore, o daziere del circondario stava per vendere il suo asino e allora, con il classico incontro della domanda e dell’offerta, Peppe rilevò la bestia, giustappunto, dallo “sceri” e, da quel preciso momento, divenne, fra i paesani, “Peppe ‘u sceri”, finendo poi col  lasciare, il bizzarro soprannome, in successione agli eredi.

Richiamando la figura del vegliardo del paese, zio E., mi piace porre in risalto la di lui piena lucidità e l’autonomia per svariati atti del vivere quotidiano, compreso il prelievo dell’acqua per bere, mediante la tradizionale capasa, direttamente dalla sua pressoché coetanea fontanella pubblica in ghisa, con impresso il simbolo del fascio littorio che contraddistinse un ventennio, ancora zampillante nei pressi della sua abitazione.

°   °   °

La villetta di Piazza della Vittoria registra, specialmente d’estate, la presenza di nugoli di bimbi e ragazzini che corrono e giocano, avvicendata e controbilanciata dalle soste pomeridiane, nelle parentesi di libertà, di nutriti gruppi di badanti e collaboratrici domestiche provenienti dall’est europeo, che hanno eletto lo slargo in questione e le relative panchine a luogo di ritrovo.

°   °   °

C. Minonne, faceva, da giovane, il manovale, o manipolo, presso una piccola impresa edile; basso di statura, ma robusto, si distingueva per la semplicità e la velocità con cui si caricava sulle spalle, talora due per volta, destreggiandosi su scale, impalcature e muri perimetrali, i conci o tufi o piezzi che, all’epoca, erano la materia prima fondamentale per la costruzione delle abitazioni.

A un certo punto, per C., in concomitanza con il matrimonio e con le accresciute necessità finanziarie, arrivò la parentesi dell’emigrazione in Svizzera, con decenni, anche lì, di duro lavoro e, infine, il momento del rientro a Marittima, ormai da pensionato, insieme con la moglie.

C., abituato a non stare mai con le mani incrociate, prese, fra l’altro, a interessarsi di un fazzoletto di terra, alla periferia del paese, lo trasformò, in breve tempo, in un vero e proprio giardino, impreziosito innanzitutto da un bel portone d’accesso di ferro battuto, piantumato con una serie di alberi da frutta e, lungo il muretto di confine della sua proprietà, arricchito da un fantastico filare di rose di colore rosa, realizzato non con il comune acquisto di germogli o talee dal negozio, ma semplicemente attraverso il prezioso e paziente trapianto di rametti di una “vecchia” pianta di rose, già coltivata dalla sua mamma nel giardino della casa natia.

Da poco, pure C. ha percorso la “Via di tutti” e, purtroppo, non anima più il giardinetto in periferia. La sua definitiva assegnazione ad altro incarico, è dimostrata chiaramente da un giovane mandorlo che, per la prima volta, è rimasto con i frutti, pronti per l’abbacchiatura e ormai rinsecchiti, appesi ai rami e, con maggiore risalto, dalla condizione in cui si è ridotto il roseto: rispetto all’abituale susseguirsi esplosivo di bellissimi boccioli e fiori, adesso fa capolino appena un esemplare, peraltro scolorito.

°   °   °

Tutto passa e ne va, recitavano antiche e tuttora valide massime, ma, in pari tempo, per fortuna, la natura ci offre e mette a disposizione innumerevoli ritorni, perlomeno nel suo evolversi e rinnovarsi: fra essi, nel corrente periodo stagionale, quello delle preziose olive, frutti che, grazie ai primi spruzzi di pioggia e le temperature miti dopo la lunga fase di caldo e secco, non mancheranno, come sempre, di evolversi verso l’ingrossamento e la maturazione.

Come augurio, ovviamente, buon olio.

“Currìu” e il suo etimo…da collera e da colera?

da style.it

di Armando Polito

Lascio immediatamente la parola a chi, ad onta del tempo  trascorso (35 anni) dall’uscita dell’edizione italiana  del suo Dizionario dei dialetti salentini, rimane imprenscindibile punto di partenza, riferimento e quasi sempre di ritorno per chi, soprattutto dilettante come me, si cimenta in questo difficile campo.

Volume I, pag. 193: “currìu…, imbronciato, stizzito, risentito… [corrisponde all’italiano corrivo=disposto a correre, facile a credere]; vedi cursu”.

A pag. 194 dello stesso volume: “stare cursu=stare imbronciato …[italiano corso=sofferto”]; vedi currìu”.

A pag. 941 del terzo volume: “cùrrere: m’aggiu cursu=mi sono offeso; stannu cursi=si trovano in cattivi rapporti; vedi currùtu, currìu”.

Intanto va detto che il neretino non usa cursu ma currùtu, participio passato di currìre usato sempre riflessivamente (sembra un dettaglio di poco conto, ma, per quanto dirò dopo, potrebbe avere la sua importanza) in espressioni del tipo cu tte m’aggiu currùtu (=con te mi sono offeso). Il Rohlfs registra a pag. 193 del volume I currùtu (ma non come voce raccolta sul campo, la qualifica come aggettivo e non propone alcuna etimologia) col significato di crucciato e  currìre solo come variante di cùrrere (anch’essa non raccolta sul campo e col significato di correre, stillare, gemere). I rinvii tra cùrrerecurrutu, cursu e curriu nonché la corrispondenza con corrivo fanno pensare

Quando s’incontrano foto e poesia. Stefano Crety e Agostino Casciaro

 

VIAGGIO SALENTINO

di Agostino Casciaro*

 

Dagli anfratti ascellari


di un’antica mappa muschiata,


acri sapori diffusi


si elargirono,


fino ad eclissarne


le ombre felpate dei passi lenti


intrisi di etniche danze…

 

Sul crocevia delle regioni proibite


fermai il tempo,


quand’egli, ormai nutrito


nelle lande dell’ attesa,


definitivamente si spogliò


degli ultimi suoi, futili grovigli;


ed or dinanzi al ventre di licheni,


l’acqua sorgiva del miraggio


setacciava un teso terso tepore statico,


e tra ammalianti dirupi,


finalmente parve tangibile


dissetare un desiderio mai smorto…

 

 

Agostino Casciaro nato a Vignacastrisi (Lecce), vive e lavora nella propria “Officina d’Arte” di via S. Francesco “dove si occupa di cartapesta e terracotta artistica, di vagabonderia poetica e altre meraviglie.
Nel 1975 dopo un accurato viaggio di ricerca tra la gente del proprio territorio scrive “Delitti del Salento” , autoprodotto. Nel 1976 scrive “ La Passione di Vignacastrisi “, testo teatrale tratto dagli Evangeli che mette in scena fino al 1978, dov’egli interpreta la figura del Nazareno. Nel 1980 fonda e dirige fino al 1987 “La Lira” gruppo di teatro sperimentale. Nel 1995 fonda e dirige il gruppo culturale “Arti e Mestieri “. Nel 1996 fonda e dirige il premio poesia “La Saga dei Curli “, cura il testo dello stesso premio, Gino Bleve Editore, 1997. Nel 1998 fonda e dirige la piccola casa editrice “Officina d’Arte di Via S.Francesco – Centro Promozione Cultura”. Nello stesso anno e fino a giugno 2000 fonda, dirige ed edita “ Il Cocchiere dei Sogni”, rivista mensile di narrativa.
Nel 2000 scrive “Pioggia non fermarti mai”, raccolta di scritti poetici, prefazione di Luigi Chiriatti a cura di Maurizio Nocera , Gino Bleve Editore (da http://www.musicaos.it/)

 

Libri/ Puglia bizantina

La più orientale fra le regioni d’Italia, bizantina per vocazione storico-
culturale, la Puglia riscopre le sue antiche radici e la tradizionale
appartenenza identitaria ed etnica nel cuore del Mediterraneo, sulle sponde del Bosforo, nella mitica capitale dell’altra parte del mondo, Costantinopoli, da cui le vennero date lingua, culti, costumi, merci, letteratura, arte,
tradizioni e feste. E come lucente specchio, essa riflette tuttora quel mondo
antico, paesi, cattedrali, chiese rupestri, affreschi, avori, smalti,
oreficerie, codici miniati, pergamene, reliquie di santi e stauroteche,
custodite gelosamente, come faville di un fuoco sacro – il fuoco greco –
alimentato perennemente dalla comune consapevolezza di conservare l’afflato di una civiltà e cultura insuperate, che incorona, con l’oro di Bisanzio, la
regione dall’uno all’altro promontorio, dal Gargano adriatico a Leuca ionica ed egea.

 

L’Autore
Nino Lavermicocca è nato a Bari il 16.10.1942. Laureatosi in Lettere classiche presso l’Università di Bari, ha frequentato la Scuola Speciale per Archeologi Medievali dell’Università di Pisa e  l’Ecole Pratique des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Ha anche trascorso 1 anno presso il Dumbarton Oaks Center for Byzantine Studies di Washington. Dal 1967 al 1980 ha svolto attività di ricerca e di didattica tenendo seminari, lezioni ed esercitazioni presso l’ Istituto di Storia dell’Arte e l‘Istituto di Letteratura Cristiana Antica dell’ Università di Bari collaborando  a scavi ed esplorazioni e partecipando con comunicazioni e relazioni a numerosi convegni nazionali ed internazionali.
Dall’1.10.1980 con la qualifica di Direttore Archeologo  presso la
Soprintendenza Archeologica della Puglia, è stato responsabile del settore
medievale della Regione e condotto scavi programmatici ed esplorazioni di
archeologia medievale. Promotore di Mostre allestite dalla Soprintendenza
Archeologica e dal Museo Archeologico di Bari, di attività didattiche,
Itinerari Turistico-Culturali e  numerosissime iniziative culturali,  ha al suo
attivo numerose pubblicazioni.
Attualmente svolge attività di studio e ricerca come libero professionista.

 

 

Nino Lavermicocca, “Puglia bizantina. Storia e cultura di una regione mediterranea (876-1071)”, Capone Editore 2012. Pagine 168 € 17,00,

ISBN: 978-88-8349-163-4

www.caponeditore.blogspot.com

Sul feudo copertinese di Specchia di Normandia o Cambrò e sulla masseria “la Torre”

di Marcello Gaballo

Uno dei più bei complessi masserizi dell’agro di Copertino è la masseria comunemente nota come “la Torre”, sulla strada Nardò-Copertino, a poche centinaia di metri da quest’ultima, raggiungibile mediante più tratturi. Posta al centro di un territorio coltivato ad uliveto di antico impianto, confina a nord con la masseria Li Tumi, a ovest con proprietà Licastro, a sud con la ferrovia, ad est con altra proprietà Licastro.

La singolarità e la peculiarità della sua forma, pur nella varietà delle tipologie masserizie della Puglia, è data nel nostro caso dall’imponenza del torrione, che rinvia al mastio e alle torri angolari del cinquecentesco castello copertinese e particolarmente allo stile delle torri costiere a pianta quadrata della “serie di Nardò”. Se queste ultime avevano prevalentemente funzione di avvistamento, la nostra masseria possiede più i connotati di una residenza signorile, fortificata per la difesa patrimoniale del bestiame, dei prodotti agricoli e delle suppellettili. Attorno ad essa si sono man mano aggiunti, e sino a pochi decenni addietro, locali di lavoro e di deposito, inevitabile segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, che hanno alterato la struttura originaria, che tuttavia non ha risentito delle grandi trasformazioni agrarie tra Otto e Novecento.

Una prima testimonianza architettonica della masseria, anch’essa singolare ma più tarda, è a meno di 200 metri. Si tratta di una vera e propria dimora in tufi, aperta su tutti i quattro lati, con due archi laterali per parte ed uno, più alto, avanti e dietro. Al centro ospita il pozzo, il cui boccale è delimitato da blocchi di pietra piuttosto voluminosi.

Il prospetto della masseria è rivolto a mezzogiorno, verso Copertino, e su di esso spiccano l’unica caditoia, localizzata al centro della facciata, a sbalzo su mensoloni lobati, in corrispondenza dell’ingresso originario (ancora raggiungibile con scala in muratura), il cordolo marcapiano, la cornice a beccatelli, la base quadrata con leggera scarpa, che ricordano ancora i tempi in cui i pirati degli stati barbareschi rendevano insicure le nostre terre.

Evidente come essa sia stata concepita quale difesa passiva, vista la possente muratura, e come difesa piombante, basata sul lancio dalla terrazza di pietre o liquidi contro gli assalitori. Sulla restante cortina muraria, anche questa in blocchi squadrati di pietra locale a faccia vista e di buona fattura, nel corso dei secoli sono state arbitrariamente aperte diverse finestre, più grandi a pianterreno, ed un secondo ingresso, resosi necessario per essersi in essa stabilito un ulteriore proprietario. Tale divisione ha comportato anche all’interno della struttura molte variazioni architettoniche, certamente utili e funzionali per l’attività lavorativa, purtroppo deturpanti nella maggior parte dei casi, come è dato dal voluminoso corpo aggiunto adibito a forno.

Dell’impianto originario interno, anche questo caratterizzato da una architettura essenziale e priva di ogni ornamento, sopravvive il collegamento tra i locali superiori e gli inferiori, un tempo consentito dalla rimovibile scala in cordame. Il recinto, ottenuto con antichissime pietre pazientemente incastrate “a secco”, delimita l’ampio cortile col suo frantoio ipogeo, stalle e granai, cui si sono aggiunti nel corso dei secoli locali voltati usati ad abitazione e depositi, immaginando di aver potuto ospitare almeno trenta-quaranta persone. La distanza dalla strada carrozzabile, ma non dalla ferrovia che passa vicinissima, ha permesso all’ambiente circostante di conservarsi nella sua fisionomia e ancora oggi agli uliveti si alterna l’incolto, dove un tempo erano prevalenti la coltura granaria e l’allevamento del bestiame.

L’antichissimo feudo in cui il complesso è ubicato è quello denominato Cambrò o Specchia dei Normanni, compreso tra quelli di Castro, Puggiano, S. Barbara e Mollone, che nel 1316 possedeva Nicola de Buggiaco, per eredità del padre Roberto . Nel corso dei secoli la distinzione tra il feudo e la masseria fu sempre meno netta, tanto che nei documenti spesso veniva citato l’uno per l’altro, perché coincidevano i proprietari: nel 1550 i terreni e l’abitato sono del barone Carlo Balsamo e nel 1564 è detta la “masseria del defunto Antonio Bove” . Nel 1567 il nome è variato, ritrovandosi come “la massaria de li Troyali”, derivata dal nome del nuovo proprietario di Copertino, Giorgio Troyali alias Arenito , che nel 1570 l’ha ceduta, con l’annessa chiesa di S. Martino, al concittadino Organtino Verdesca, da cui ad Angelo Lombardo nello stesso anno.

Il feudo invece nel 1568 appartiene al nobile Lucantonio Sambiasi di Copertino che vende, per poi ricomprare nel 1583, diversi appezzamenti di terreno al barone neritino e suo congiunto Lupantonio Sambiasi per 1300 ducati . L’omonimia fu ancor più evidente negli ultimi anni del secolo XVI e nei primi del successivo quando del feudo non si fa più menzione negli atti notarili, né tantomeno nei secenteschi Cedolari di Terra d’Otranto, forse perchè integrato col confinante feudo di Castro, che detenevano i baroni Personè.

Intanto la masseria ha cambiato denominazione per la nuova proprietà passata ai nobili Lombardi e infatti nel 1577 è dei fratelli Cesare e Giacomo Lombardi, figli di Angelo. Gli stessi vendono, a beneficio dello spagnolo Giovanni de Sisegna, alla ragione del 10% per un capitale di 200 ducati, un vigneto di 10 orte ed un uliveto con casa lamiata, pila e palmento, in loco vulgariter dicto la massaria dè Lombardi, con atto del notaio Russo Antonio di Copertino del 6/5/1577. Successivamente i fratelli vendono gli stessi beni al neritino Alessio Sambiasi, il quale si impegna a versare i predetti 200 ducati al Sisegna . A distanza di una ventina d’anni la fortuna dei due fratelli dovette man mano scemare, visto che si registrano diversi loro atti di vendita dei beni ubicati nel feudo: nel 1581 vendono un uliveto di 300 alberi al monastero di S. Chiara di Copertino per 100 ducati ; diversi appezzamenti li vendono nel 1592 al barone Cesare Sambiasi di Nardò, figlio del predetto Lupantonio.

In altro atto del notaio neritino Fontò del 1588 il predetto Cesare figura signore del feudo “Specle de Normandia” e forse anche della nostra masseria, visto che da cinque anni continua ad acquisire altri appezzamenti circostanti per accorparli in una più efficiente unità poderale; alcuni dei terreni li acquista ancora da Giorgio e Domenico Troyalo , altri da Giovan Battista Imbeni e suo figlio Guglielmo . Notevoli dovettero essere i capitali investiti dal barone in questa proprietà, che nel 1598 continua ad acquisire gli ultimi appezzamenti rimasti in altrui possesso: nel 1598 Cesare Lombardi gli cede i terreni in loco la Carcara, confinanti coi beni di Cesare Imbeni e le terre dotali di Francesco Lubelli , e Giacomo Liuzzi un oliveto con 800 alberi. Questi sono gli anni in cui si affermava progressivamente il sistema di masserie in tutta la Terra d’Otranto e così cospicua proprietà, come per molte altre del territorio, da una lato assicurava la regolarità dei rifornimenti alimentari, dall’altro rappresentava una eloquente testimonianza del benessere e del comprovato status delle famiglie più ricche della provincia, tra cui anche i Sambiasi.

Numerosi atti notarili di questo decennio documentano il fitto scambio di derrate alimentari e, particolarmente, l’esportazione via mare del commerciabile e prezioso olio dall’opulenta terra salentina in ogni parte del Regno di Napoli.

Dopo un intricato sistema di vendite e ricompra dei terreni circostanti, finalmente nel 1613 la nostra masseria, chiusa di pariti di pietre, in loco Specchia Lombardia, feudo Castri, risulta di Giuseppe Sambiasi, figlio di Alessio, a sua volta erede del predetto Cesare. Tra gli altri beni essa comprende un curaturo lini, uno palmento et pilaccio dentro, puzzo seu cisterna e curtali, e numerosi appezzamenti con terre scapole, dei quali uno con arbori di olive 1000 incirca, et altri arbori communi venduto ai Sambiasi da Cesare Lombardi e dai suoi figli Angelo e Lucio per la considerevole somma di 1950 ducati.

La torre-masseria risulta finalmente realizzata nel 1625, quando, in altro rogito, il complesso viene descritto tra le proprietà del chierico Giuseppe Sambiasi, titolare anche del feudo Specle de Normandia, e consiste in terriis factitiis et machosis, olivetis, turri, capannis et ovilibus et aliis membris suis . Lo esplicita un altro atto dell’anno seguente, quando è comproprietario Bernardino, fratello del predetto chierico: vi è la torre, detta li Lombardi, ubicata nel feudo inhabitato vulg. nuncupato Specchia di Anormandia, vicina ad altri beni di Giuseppe .

L’ingente investimento da parte del facoltoso Alessio Sambiasi fu senz’altro dovuto alla disponibilità pecuniaria pervenutagli dalla dote della seconda moglie, la galatonese Vittoria de Ferraris, che gli aveva procurato ben 3200 ducati, che si aggiungevano ai beni di famiglia e a quelli ottenuti dalle prime nozze con Isabella, figlia del barone neritino De Pantaleonibus. Visto che la ratifica del secondo matrimonio avvenne nel 1618, è da pensare che la costruzione della torre possa essere iniziata dopo il 1618, per essere ultimata nel 1625. Certo è difficile sapere se si trattasse di un ampliamento ed innalzamento della domus lamiata del 1603, a sua volta magari costruita su un’antichissima sopraelevazione del suolo che dava il nome al feudo.

Si può anche ipotizzare che a metterla su furono gli Spalletta, mastro Angelo o più probabilmente suo figlio Vincenzo, che qualche anno prima aveva ultimato la costruzione della torre costiera del Fiume, oggi nota come Quattro Colonne, e che in più occasioni aveva lavorato per i Sambiasi di Nardò. Vincenzo, come il padre, era partitario Regie fabrice nuncupata de Fiume e nel 1609 riceve per quest’opera un ulteriore acconto o saldo definitivo dal cassiere dell’università neritina Donato Antonio Massa.

I proprietari della masseria però dovettero avere qualche problema finanziario e a causa di censi non pagati il complesso viene venduto all’asta e liberato da Melchiorre de Filippo di Racale, con atto del not. Palemonio del 9/10/1636. Da Melchiorre viene donata al fratello chierico Antonio, ma il pieno suo possesso risulta bloccato dalla Curia Vescovile di Nardò, in quanto la masseria era stata già venduta su istanza del monastero dell’Annunziata di Copertino che doveva esigere i predetti censi.

Rimessa all’asta la masseria viene acquistata da Bartolomeo de Magistris di Gallipoli, ma residente a Copertino, per 260 ducati, con atto not. Giacomo Panarello di Lecce del 1/8/1636. Il de Magistris la cede al citato monastero con istrumento del notaio copertinese Pietro Fulino del 3/12/1637.

Nel 1662 comunque conserva la dizione di massaria de’ Lombardi e si trova in Specchia di Normandia , di cui è feudatario il gallipolino Diego Sansonetti . Il figlio di Alessio Sambiasi, Giuseppe, nel frattempo ha saldato la quota restante dei 200 ducati dovuti a Giovanni Sisegna da suo padre nelle mani di Maddalena, per conto di sua sorella Isabella Isalas, a sua volta rappresentata dal procuratore Pietro Alvarez, hispano .

Per quasi un altro secolo la masseria passa da padre in figlio tra i Sambiasi, per ritrovarla proprietà del leccese Francesco Maremonti, come si evince dal Catasto Onciario di Copertino del 1746, cui è pervenuta per dote della moglie Maddalena Sambiasi, una degli ultimi rampolli del facoltoso ramo copertinese, figlia di Tommaso e Maria Sambiasi, eredi di Vitantonio. Il Maremonti dovette poi vendere il complesso ai baroni Personè, già titolari dei vicini feudi di Castro e Ogliastro, dei quali Giuseppe possiede la masseria “la Torre” nel 1774 .

Dai Personè probabilmente fu venduta per una parte ai Licastro di S. Cesario di Lecce, in persona di Francesco (deceduto a S. Cesario il 29/12/1937), possessore anche delle vicine masserie Cambrò e Marulli, che la cede al figlio Raffaele, da cui ai figli Roberto e Giovan Francesco Licastro-Scardino, residenti in Lecce. Questi, con atto per not. Astuto di Lecce del 3/4/1970 la vendono ai coniugi Giovanni Mele e Lucia Marinaci di Copertino, da cui al figlio Salvatore che la possiede tuttora. Tale quota è al foglio 51, part. 45, ha superficie abitativa di 350 mq. ed un terreno circostante di 55.000 mq. di cui 10.000 piantumati con ulivi e 45.000 di seminativo e alberi da frutto La restante parte, di ettari 38, are 19 e centiare 24, era di Luigi Vaglio, che la trasmise ai figli Teresa e Giuseppe. I figli di quest’ultimo, che avevano avuto anche la parte degli zii Teresa, Bartolo, Felicetta, Pasquale, Maria e Giuseppina, nel 1964 vendono la parte alla “Cassa per la Formazione della Piccola Proprietà” , che successivamente viene acquistata da Rolli, dei quali oggi Giuseppe possiede la restante parte.

Nonostante la bellezza e la vetustà del complesso, purtroppo si constata il lento dissolversi del modello originale e molti punti stanno miseramente franando per mancanza di manutenzione. Per svariati motivi il suo sistema produttivo non è più proponibile e spontaneamente nasce l’idea di una sua utilizzazione a fini turistici, sempre che le vertenze giudiziarie trovino presto risoluzione.

Sarebbe un altro esempio della civiltà contadina salentina che troverebbe giusto recupero, come timidamente si osserva in qualche altro sito della opulenta e bella provincia, che fatica a trovare il suo rilancio sul mercato internazionale del turismo, dimostrandosi incapace di valorizzare le sue risorse e, come in questo caso, il suo caratteristico paesaggio, che la benefica natura ha voluto favorire colmandola dei doni di Bacco, Cerere e Minerva.

La frisella.Tutto ciò che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere

 
ph Angelo Arcobelli

L’Eccellenza sulla tavola dei salentini: la  friseddha

di Massimo Vaglio

Friseddhe, sarebbe questa l’esatta denominazione di questa sorta di pani biscottati, che in epoca più recente nella foga italianizzatrice del lessico sono stati riappellati anche frise e friselle. La prima delle due denominazioni posticce per quanto usata e abusata, è sicuramente una forzatura linguistica. Più giustificabile l’uso del termine frisella, che trova una ratio nel sollevare i non salentini dal difficile e spesso impossibile impegno di pronunciare il ddhr, suono cacuminale (invertito), caratteristico dell’idioma salentino, la cui  verifica di una perfetta pronuncia è più efficace di un test del D.N.A., infatti per pronunciare alla perfezione questo suono bisogna arcuare all’indietro la lingua ripiegandola su se stessa, un’operazione che richiede un allenamento sin dalla primissima infanzia. Oscura la loro origine, probabilmente erano il cibo dei navigatori e dei soldati, qualcuno le vuole originarie della Grecia da dove sarebbero giunte al seguito dei navigatori che pare le usassero come gallette. Sono delle ciambelle senza buco, di farina di grano, o di orzo, cotte intere, poi spaccate e lasciate biscottare nel forno a legna.

Se la loro origine è remota quanto incerta, la loro diffusione su larga scala è invece certa, ed è iniziata quando, meno di un secolo fa, con il declino del latifondo, fu incoraggiato nel Salento la costituzione di piccoli poderi dati in beneficio o a riscatto e detti appunto beneficati o binificati. Su questi spesso aridi poderi, i conduttori oltre a coltivare e creare frutteti e oliveti edificavano delle precarie costruzioni a secco trulliformi, i furnieddhi, con tipologie e grandezza variabili a seconda del numero dei componenti della famiglia e del materiale litico rinvenibile sul luogo. In queste costruzioni, i contadini passavano insieme al nucleo familiare, tutta la stagione estiva, lavorando spesso, per un’economia di stretta sopravvivenza e con l’ambito scopo di procacciare le provviste per l’inverno.

La lontananza dai paesi, la precarietà dei mezzi di trasporto e la carenza delle suppellettili e delle strutture necessarie per preparare e cuocere il pane, imposero presto la necessità di trovare un’alternativa, alternativa offerta appunto, dalle mai dimenticate friseddhe, che potevano essere preparate e conservate per mesi nelle “capàse”, i tradizionali orci panciuti in terra cotta dal collo largo e le piccole e robuste anse.

L’impasto, costituito da farina, acqua e sale è del tutto simile a quello del pane ma con un 10 % in meno di acqua.

Per le friselle di grano duro e di orzo viene tradizionalmente utilizzato il lievito madre, in ragione di 200-220 grammi per ogni chilo di farina, l’impasto viene allungato lavorandolo sul tavoliere quindi diviso in tratti ognuno dei quali viene a sua volta allungato e riunito a cerchio in modo da formare delle ciambelle senza buco dal diametro oscillante  tra gli 8  e i 15 cm.

Queste, dopo essere state lasciate a lievitare, vengono sottoposte ad una prima cottura in forno di pietra, alla pompeiana, alimentato, secondo tradizione  con ramaglia d’olivo. Una volta cotte, vengono estratte dal forno e spaccate in due secondo l’asse mediano, orizzontale.

Questa operazione deve garantire un’accentuata rugosità nella parte tagliata, oggi i moderni panifici hanno a disposizione un’ingegnosa macchina appositamente brevettata. Un tempo, ed ancora oggi nella lavorazione casalinga o su piccola scala si effettua con l’ausilio di uno spago, cingendo le friselle e tirandone i capi, oppure utilizzando una sorta d’archetto rudimentale, attrezzato di un filo di ferro rugoso, nei vecchi forni che cocevano le friselle conto terzi, sovente si utilizzava un filo di balla di paglia (non zincato) ben teso ai bordi di un canestro di canna.

Le friselle, una volta spaccate si differenziano in friseddhre te sutta e friseddhre te susu, immediatamente distinguibili fra loro poiché la prima appare più schiacciata e dura per il contatto avuto con la chianca del forno ovvero con il piano di cottura. La friseddhra te susu, invece, più bella esteticamente, conserva ancora una mezza forma toroidale.

Per una perfetta riuscita queste devono essere spaccate appena sfornate, e poste subito a biscottare, un eccessivo ritardo in questa sequenza provoca la riuscita di fiseddhe ‘mpitruddhate, dure, che si imbibiscono d’acqua con difficoltà e in modo non omogeneo o nnuticuse, cioè che si deglutiscono con difficoltà.

La biscottatura può essere effettuata direttamente nel forno, dopo ovviamente averlo lasciato scendere di temperatura, oppure, nel caso di forni, per così dire, più professionali in una sorta di duomo, ossia un’ampia camera realizzata sopra i forni medesimi.

Dalle friselle, in tempi più recenti, sono state derivate le cosiddette friselline, queste si realizzano utilizzando farina di grano tenero di tipo 0 o 00 e vengono lievitate con lievito di birra; spesso nell’impasto viene fatta rientrare anche una piccola quantità d’olio di frantoio che dona loro un piacevole sapore e un’invitante fragranza.

ph Marcello Gaballo

Uso delle friseddhe

Il consumo delle friselle è soprattutto estivo, quando vanno a costituire un piatto fresco e facilmente digeribile. L’uso canonico, consiste nel bagnarle, incoronarle con i pomodorini freschi locali ricchi di criddhu o riddhu, che sarebbero i semi ancora avvolti nella loro gelatinosa placenta, cospargerle di origano salentino (Origanum eracleonticum), di sale e infine nell’allagarle o quasi d’olio di frantoio.

Ciononostante, la riuscita non è sempre garantita poiché, sembrerà strano, ma anche nell’espletazione di queste semplicissime operazioni si possono commettere degli errori ottenendo un risultato insoddisfacente. Facile infatti dire bagnare, ma come si bagna una friseddha doc? Alcuni la profanano direttamente sotto il rubinetto, altri la pongono in una ciotola e sommergono di acqua, altri, la bagnano a rate con piccole, timide mestolate d’acqua.

Tutte le metodiche elencate, ed altre che potrebbero aggiungersi sono implacabilmente errate e portano il più delle volte a portare in tavola un prodotto simile ad un pappone informe.

Vi dettiamo ora un preciso protocollo per eseguire questa operazione a regola d’arte: per prima cosa bisogna porre in tavola una ciotola con acqua preferibilmente fresca, poi, dopo essersi muniti di fondine, bisogna afferrare le friseddhre con tre dita, con la parte rugosa sopra e calarle e cacciarle velocemente per tre volte dall’acqua della ciotole, quindi porle nella fondina sul cui fondo, badate bene si è proceduto a versare un mestolino della stessa acqua e solo allora si può procedere al condimento. In questo modo la frisella si manterrà soda e consistente per tutto il tempo necessario a consumarla senza gonfiarsi, provare per credere.

Qualche volta vengono arricchite con altri condimenti come: rucola, peperoni, peperoncini, capperi, caruselle, finocchio marino sott’aceto…in questo caso, in alcuni paesi, vengono denominate friseddhe ’ncapunate.

Sull’argomento rimandiamo ad altri contributi pubblicati su questo sito:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/14/la-frisella-mistero-risolto/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/13/la-frisella-regina-delle-tavole-salentine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/13/indovinello-neretino/

 

La festa dei Santi Medici e quel lontano dono di uva e noci

Palermo, Museo etnografico siciliano “G. Pitrè”, antica incisione dei Santi Medici

di Rocco Boccadamo

Intorno al ventisei – ventisette settembre, anche al mio paese natio vige la secolare tradizione e devozione di festeggiare i Santi Medici Cosma e Damiano: celebrazioni, sia di carattere civile (luminarie, addobbi, fuochi d’artificio, complessi bandistici), sia d’impronta meramente religiosa (novena, processione del simulacro dei Santi per le vie cittadine, messa solenne, panegirico).

Ovviamente, sull’insieme dei riti, ha man mano inciso l’evoluzione dei tempi e la modifica dei costumi, pur tuttavia, in seno alla sensibilità collettiva, la ricorrenza resiste ancora.

A proposito dei venerati fratelli “dottori” e martiri della fede, mi piace tratteggiare, con brevi e semplici accenni, come e con quanta intensità, nelle stagioni passate, fosse vivo il trasporto e l’autentico e convinto credo nei loro confronti, e ciò indistintamente in ogni famiglia.

L’occhio di riferimento e i pensieri d’invocazione alla loro aureola e forza di santità rappresentavano in pratica una costante quotidiana, specie alla presenza di problemi o di timori inerenti alla salute e al benessere fisico, ma anche di là da questi specifici, importanti aspetti esistenziali.

Inoltre, frequenti erano i racconti e le testimonianze su apparizioni in sogno delle figure dei Santi in questione al capezzale del bisogno o dell’incertezza o del dubbio. Sì, in ciò non mancava, verosimilmente, l’influsso della suggestione

Il menhir di Monte Vergine

ph Luigi Panico

di Stefano Delle Rose (http://megaliti.fotoblog.it/)

 

Il Salento è una terra ricca di energie. Energie donate dalla Madre Terra, evidenti come le serre che attraversano il territorio in tre linee parallele, che vanno a congiungersi nel Capo di Santa Maria di Leuca; energie nascoste, come l’acqua sotterranea che, grazie al carsismo, scorre nel sottosuolo come un sistema di arterie.

L’uomo preistorico, sempre connesso sulle frequenze della natura per la propria sopravvivenza, sapeva sentire e riconoscere tali energie, al punto da considerare alcuni luoghi come sacri in virtù della divampante energia che ne scaturiva. La sua naturale capacità a servirsi della natura come di un immenso dispositivo energetico, ha fatto si che ancora oggi, laddove la mano distruttiva dell’uomo moderno non è entrata in azione, possiamo beneficiare “energeticamente” di luoghi ma anche costruzioni come menhir, dolmen, triliti e specchie, costruiti millenni addietro.

Uno di questi luoghi è situato sulla Serra di Monte Vergine. Si tratta di un complesso articolato in cui la mano dell’uomo, nel corso dei millenni, ha interagito con le forze benefiche della natura. Situata a circa 7 Km da Otranto, a 96 mt sul livello del mare, l’area si affaccia in direzione est come una vera e propria terrazza rocciosa naturale dalla forma perfettamente circolare; notevole doveva essere la presenza di acqua che dal sottosuolo e in superficie, con una rete di canali tutt’attorno, arrivava ad alimentare il bacino più piccolo dei laghi Alimini, tramite un grande canale oramai in secca.

ph Luigi Panico

In cima alla collina svetta il santuario di Monte Vergine, costituito da ben tre livelli; il più antico e sacro è rappresentato da una grotta, luogo di apparizione della Madonna; sopra si trova una cappella intermedia ed infine, a livello stradale, la chiesa di più recente costruzione. Ritroviamo quindi i tre livelli sacri che è possibile ritrovare in molte antiche culture: il mondo degli inferi, il mondo terreno e il mondo celeste.

Esternamente, in posizione sovrastante la grotta, è situato un menhir che prende il nome dal santuario. Siamo di fronte ad un vero e proprio dispositivo energetico primitivo, l’opera dell’uomo che ha scavato la grotta e costruito il menhir, si intreccia con quella della natura. L’uomo preistorico sapeva riconoscere ed utilizzare gli elementi naturali attorno a lui, sentiva che l’acqua è un potente trasportatore di informazioni e che la grotta funge, oltre che da rifugio, anche da accumulatore di tali informazioni. Costruendo il menhir in cima alla grotta, ha posto una sorta di antenna per ricevere oltre che l’energia terrestre, anche quella cosmica o celeste, arrivando così ad una più totale immersione e comprensione delle forze necessarie al proprio benessere.

Facendo un paragone con la vita e la sensibiltà dell’uomo moderno, basta immaginare il ruolo svolto dai ripetitori radio e televisivi, ormai indispensabili per raccogliere informazioni di ogni tipo.

La conformazione carsica del sottosuolo salentino facilita lo scorrere dell’acqua ed è noto che il potenziale energetico dell’acqua in movimento è sempre elevato; ma è nella grotta il vero e proprio “fulcro energetico”; essa funge da vero e proprio accumulatore energetico nel quale si mescolano le energie scaturite dall’acqua e dalla Terra con quelle cosmiche trasmesse dal menhir. L’acqua che scorre nel sottosuolo cede parte del suo potenziale energetico alla roccia e, di conseguenza, al menhir che contemporaneamente assorbe energia dal cosmo. L’incontro/scontro delle due energie, quella cosmica e quella tellurica, si manifesta proprio all’interno della grotta o anfratto sottostante, provocando un’elevata concentrazione di energia sottile. Quando nell’antichità le grotte erano aperte e accessibili, erano il vero luogo utilizzato per ricevere e utilizzare questa energia naturale. Probabilmente erano il luogo in cui lo sciamano o sacerdote di un gruppo si ritirava per svolgere riti, guarigioni e pratiche necessarie alla comunità.

ph Luigi Panico

La presenza o meno di metalli nella roccia o nel terreno circostante il complesso grotta-menhir amplifica gli effetti energetici. Grazie alla elevata conducibilità elettrica delle sostanze metalliche, la presenza di queste ultime amplifica ed allarga il raggio d’azione del benefico effetto di un dispositivo menhir-grotta e il complesso di Montevergine sorge su un’area il cui strato superficiale è costituito da bauxite.

Sembra non essere un caso che in tutto il mondo i casi di apparizioni, soprattutto mariane e miracoli, siano avvenuti all’interno di grotte in associazione alla presenza di acqua, dove si trova una notevole concentrazione di energie sottili che l’uomo moderno, con le sue “sovrastrutture” mentali, ha spiegato con eventi a lui familiari. Anche nel Salento molti dei casi di apparizioni e miracoli sono avvenuti all’interno di grotte sopra le quali si ergono dei menhir: la grotta di Montevergine in cui è apparsa la Madonna, Carpignano in cui è avvenuto il miracolo della restituzione della vista ad un contadino, San Paolo a Giurdignano, dove ogni anno si rinnovano le richieste di protezione contro il morso della taranta; laddove non si siano verificati miracoli o apparizioni, le tradizioni popolari e la chiesa li hanno “consacrati” come luoghi di protezione e i menhir sono stati cristianizzati con l’incisione o l’affissione di croci sulla sommità. Si potrebbe addirittura ipotizzare che il complesso chiesa-campanile, ma anche moschea-minareto, siano frutto di una antica, ma ormai sopita, consapevolezza del fenomeno da parte dell’essere umano. Si è infatti constatato che il già elevato livello energetico all’interno di una chiesa, aumenta considerevolmente in coincidenza al movimento delle campane, che emettendo vibrazioni che si incanalano dall’interno del campanile fino alla chiesa, incontrano energie telluriche provocando lo stesso fenomeno osservato nel complesso grotta-menhir.

Il passare del tempo e la trasformazione del paesaggio hanno causato la scomparsa di gran parte delle grotte, ma abbiamo ancora a disposizione numerosi menhir che, posti in superficie, risultano essere molto carichi di un’ energia con cui è possibile interagire non soltanto attraverso il contatto ma anche sostando in loro prossimità. La loro influenza infatti si estende nel raggio di centinaia di metri, regolando l’equilibrio energetico-naturale dell’area di pertinenza, tra cui il regime delle acque sia superficiali che sotterranee.

Nel Salento sono diversi i casi di menhir sovrastanti o a ridosso di grotte, ma quello di Monte Vergine è senza dubbio il più evidente e il più facilmente visitabile ed utilizzabile per sperimentare tecniche energetiche e di connessione con la natura.

 

Le foto del menhir e l’appello lanciato da Luigi Panico si possono vedere in:

https://www.facebook.com/#!/media/set/?set=a.210403992357012.55093.100001622386214&type=1

Ebrei nel Salento sotto i Del Balzo Orsini

ANTIGIUDAISMO SOTTO I DEL BALZO ORSINI

(1385 – 1463)

A GALATINA E A SOLETO

 

di Luigi Manni

 

A margine delle giornate della memoria celebrate in Puglia per ricordare la vergogna della Shoah, l’olocausto degli ebrei avvenuto durante il secondo conflitto mondiale, segnalo alcuni episodi di antisemitismo alimentati a Galatina e a Soleto, ma anche in altri centri, da Raimondello del Balzo Orsini (1350/55-1406), sua moglie Maria d’Enghien (1367-1446) e il figlio Giovanni Antonio (1401-1463).

Nel Quattrocento gli ebrei di Galatina erano probabilmente concentrati in Via Marcantonio Zimara, come segnala il TETRAGRAMMATON (per gli ebrei, l’impronunciabile quadrilittero nome di Dio, JHWH) inciso sulla finestra nella corte del civico 10. Quelli di Soleto erano chiusi nel ghetto di Rua Catalana.

La loro ricchezza derivava dalle attività della concia, della lavorazione delle pelli, della tintoria. Lavori altamente inquinanti e dannosi per la salute, svolti dai “diversi” del tempo, gli ebrei, gli albanesi, i levantini, così come oggi le mansioni più umili, le “più sporche”, dagli extracomunitari, rom e badanti, i “diversi” dei nostri giorni.

Tuttavia, gli ebrei della Contea di Soleto, sotto la signoria dei del Balzo, erano riusciti, grazie alla concessione di numerosi privilegi, in particolare quelli relativi al prestito di denaro, a rafforzare il loro ruolo all’interno di una comunità, quella galatinese e soletana, completamente in mano al ceto clericale italogreco.

I del Balzo, all’inizio, almeno sino agli anni Trenta del Quattrocento, ebbero grande stima degli ebrei, dimostrata nei continui rapporti con la comunità

Le “pozzelle” della Grecìa salentina

di Antonio Bruno

Il contadino salentino ha instaurato, sin dall’antichità, un rapporto sostenibile con l’ambiente naturale, realizzando una serie di manufatti rurali in grado sia di alleviargli il lavoro che di produrre profonde trasformazioni sociali e produttive ed elaborato sistemi ingegnosi ed ecocompatibili non solo di raccolta, conservazione e utilizzazione dell’acqua piovana, ma altresì di delimitazione delle proprietà agricole (muretti a secco) e di allestimento di un’ampia gamma tipologica di manufatti, tra cui trulli, masserie, frantoi e case a corte, come quelle ammirate a Martano.

Le “pozzelle” di Martignano e Castrignano dei Greci (riprodotte, rispettivamente, nelle foto) sono serbatoi ipogei scavati nelle depressioni di origine carsica (su cui le precipitazioni meteoriche ristagnavano), realizzati per soddisfare le esigenze vitali e affrontare i lunghi periodi siccitosi (da luglio a settembre, proprio quando le coltivazioni richiedono maggiori volumi d’acqua).

Tali manufatti, in larga parte scomparsi sia per l’ampliamento degli insediamenti urbani e della viabilità, sia per l’aggressione prodotta dalla vegetazione spontanea e dalle radici degli alberi , sono ricordati spesso dalla toponomastica di vie, piazzette, contrade e rioni, dalla memoria popolare locale e, ancora oggi, presenti nella maggior parte dei centri abitati della Grecìa Salentina, attualmente costituita da dieci comuni (Calimera, Martano, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Melpignano, Corigliano d’Otranto, Soleto, Sternatia, Martignano e Zollino), mentre, nel periodo della massima estensione (secoli XIV e XV), occupava una superficie tre volte superiore e raggiungeva il litorale gallipolino.

La Grecìa è l’unica isola ellenofona della provincia di Lecce (la più orientale d’Italia) – ricca di toponimi, tradizioni, elementi linguistici, gastronomici, architettonici e religiosi greci –, che, protesa nel Mediterraneo, tra lo Ionio e l’Adriatico, verso la Penisola Balcanica, ha costituito un ponte non solo per scambi commerciali e culturali, ma altresì per viandanti (greci, slavi, albanesi), militari, pellegrini e religiosi, i quali, integrandosi nel corso dei secoli con i gruppi umani locali, hanno influito ora sulla lingua, ora sulle vicende abitative, edilizia domestica, usi e costumi, ora sull’organizzazione socioeconomia e trasformazione dell’ambiente con la bonifica dei terreni, la diffusione di nuove colture grazie allo sfruttamento dell’acqua, soprattutto di quella piovana depositata naturalmente negli avvallamenti del terreno.

Tralasciando in questa sede la secolare querelle, ancora in piedi tra filologi e glottologi, sull’origine del dialetto greco-salentino, si può ragionevolmente ritenere che elementi bizantini si siano inseriti in una preesistente matrice magnogreca, attingendo dall’adstrato salentino (volgare romanzo parlato dal proletariato e, pertanto, diverso dal latino usato dagli ecclesiastici e dall’aristocrazia terriera e commerciale), anche se altri studiosi ipotizzano un’immigrazione dalle colonie grecofone calabresi e siciliane attraverso il porto di Gallipoli. Il griko ha subito un processo di evoluzione del tutto
indipendente lasciando, nel corso dei secoli – malgrado la soppressione del rito religioso greco, l’introduzione di quello latino, la scolarizzazione di massa, i matrimoni misti, la diffusione della lingua italiana, ecc. –, ampie tracce nel costume locale e sopravvivendo ancora presso gli anziani (prevalentemente in ambito domestico) e soprattutto nei nomi di vie e contrade, poesie, canti popolari (d’amore, di lavoro e di dolore), racconti, leggende, indovinelli, proverbi e nenie (Biumbò, biumbò, pame na fèrome lio nerò a to frea tu Ja Marcu cino pu lene ka è pleo kalò = Biumbò, biumbò, andiamo a prendere un poco d’acqua presso il pozzo di San Marco quello che dicono sia il migliore).

Le “pozzelle”, profonde mediamente da 3 a 6 m (a seconda della posizione dell’interstrato argilloso che impediva la dispersione del prezioso liquido nella circolazione sotterranea) e dalla tipica forma a campana, generalmente presentavano le pareti “incamiciate” con materiale semipermeabile, costituito in tempi più recenti da tufi e in quelli più antichi da pietre informi disposte a secco in cerchi concentrici – per evitare l’eventuale smottamento delle rocce friabili e consentire la compenetrazione dell’acqua che, in questo modo, si arricchiva di minerali – fino all’imboccatura (vukkali in griko, coincidente con il piano di campagna), protetta abitualmente da un blocco calcareo (dalla forma circolare o quadrangolare) forato al centro (vera) per rendere possibile l’emungimento e inciso a volte con croci a testimonianza della fervente religiosità di cui era permeata la vita quotidiana della società contadina. Ricadenti in genere nei pressi delle vie di comunicazione, potevano essere sia private e contrassegnate perciò dalle iniziali delle famiglie che non solo ne vantavano il possesso, ma curavano anche la manutenzione e la pulitura della
pareti interne, asportando il terriccio che altrimenti avrebbe ostacolato l’infiltrazione per osmosi dell’acqua – il cui livello risultava sempre costante in tutti i manufatti per il principio dei vasi comunicanti –, sia di proprietà demaniale. In tal caso erano utilizzati persino dagli abitanti dei paesi vicini, garantivano il prelievo anche ai più poveri, rappresentavano un luogo d’incontro (pame na piàkume nerò a’ to frea = andiamo a prendere acqua dal pozzo) e offrivano spesso, a numerosi cittadini, nelle calde giornate estive, l’unica possibilità di dissetarsi e rinfrescarsi (pame sta Scilò na piame nerò frisco = andiamo all’Ascilò per un sorso d’acqua fresca).

Lo stesso metodo di raccolta delle acque piovane era usato a Sternatia, dove, fra i vari invasi pubblici, ne viene menzionato uno per le sue dimensioni, detto volgarmente la Matria (la madre di tutti), che denomina la via in cui era ubicata e da cui è nato il proverbio «Chi beve l’acqua della Matria non se ne va da Sternatia» («Tis pinni to nnerò à tti mmatria e ssiete pleo apu Sternatia»).

Una grande cisterna nell’ex convento dei Domenicani del 1709 (attualmente sede del Comune), era alimentata delle precipitazioni meteoriche cadute sul tetto e piano calpestio (lastricato con materiale lapideo), attraverso un reticolo di canalizzazioni e una serie di piccole vasche di decantazione, disposte ad altezze diverse.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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