Un occhio alla Madonna ed una gamba a Mussolini

 

di Alessio Palumbo

 

Renato Marra sedeva stancamente sulla seconda panca posta sul lato destro della piccola navata. Respirava con leggero affanno e rivolgeva il suo sguardo al viso bianco di una Madonna di pietra, che lui stesso aveva scolpito cinquant’anni prima.

Lo faceva tutte le sere. Terminata la funzione pomeridiana, spazzava il marmo lucido della navata, cambiava l’acqua ai pochi vasi da fiori, se c’erano fiori, e spegneva la rare candele accese. Nel buio pieno dell’odore della cera che si raffreddava, sedeva lì, stendendo la stampella di legno sulla panca e fissando con l’unico occhio ancora aperto quella statua paffuta di Madonna. Da quel momento in poi tutto ciò che lo circondava spariva e, se qualcuno fosse entrato per chiamarlo o chiedergli qualcosa, avrebbe faticato non poco a scuoterlo.

Dalle piccole finestre della chiesa, la luce del sole calante penetrava di traverso e il pulviscolo vorticava in fasci luminosi che andavano assumendo tonalità rossastre. Seduto sul suo scranno, oramai immerso nella zona d’ombra del tempio, Renato non pregava. Non lo faceva da tanto. Si limitava solo a fissare in silenzio quel viso che aveva modellato con scalpello e raspa quando aveva poco più di vent’anni. Un bel viso tondo, bianco, con due occhi grandi racchiusi nelle palpebre abbassate. Tra lui e la vergine si svolgeva tutte le sere un dialogo fitto, ma privo di suoni. Solo di tanto in tanto si lasciava sfuggire una frase, che era poi sempre la stessa: “Questo a te e questa a Mussolini” e indicava prima l’occhio completamente chiuso e poi la gamba, tagliata all’altezza del ginocchio ed avvolta in pesanti pantaloni di fustagno cuciti a formare una sorta di sacco largo.

In quella sera d’estate del ‘71, con la luce che sembrava voler indugiare ancora un po’ sulla statua bianca, il pensiero tornò proprio ai giorni in cui aveva cominciato a scolpirla. Si rivide ventenne, con martello e scalpello, a sgrossare un grande blocco di pietra leccese nel cortile dietro la chiesa.

Vent’anni. Gli ritornava spesso quell’espressione alla mente. La legava ad un senso di vigoria fisica, di energia che oramai aveva abbandonato il suo corpo mutilato. Sin da ragazzino si era dedicato a tutte le attività ginniche consentite dal poco tempo libero. Era stato un ottimo corridore, sia al passo che  in velocità, e aveva vinto pure qualche gara nei paesi vicini. Nella cucina della sua casa di via Napoli, dove aveva abitato con i genitori e dove continuava ad abitare, si era montato una traversa di legno duro per fare le trazioni. Quella traversa era ancora lì; nonostante il suo corpo gli impedisse oramai qualsiasi movimento fluido, costretto com’era a trascinarsi con una stampella sotto l’ascella. Da giovane aveva avuto un fisico d’atleta, un po’ lo sport, un po’ per il lavoro da muratore che svolgeva col padre. Di quel fisico ora, a settant’anni precisi, non gli rimaneva che una certa grossezza sproporzionata nelle braccia prive di muscoli.

A quindici anni suo padre era morto e per questo non aveva fatto il militare, in quanto figlio unico di madre vedova. Aveva vissuto quella faccenda come un trauma. Mentre i ragazzi più grandi di lui erano da poco tornati da una guerra e i suoi coetanei partivano per le varie caserme del nord Italia, lui era rimasto lì a fare il muratore e nel tempo libero lo scalpellino. Non era né un reduce né un militare.

Aveva deciso di riscattare quella sua condizione aderendo al fascismo. Nei primi anni, insieme ad altri amici, aveva manganellato e purgato. Dopo, non si era perso un sabato fascista, un’adunata o una visita di gerarca nel raggio di cinquanta chilometri.

Quando scolpendo quella statua aveva perso un occhio a causa di una scheggia schizzatagli in faccia inaspettatamente, non pochi avevano provato una notevole soddisfazione e per un’intera settimana in chiesa le candele ed i fiori erano aumentati a dismisura, con grande compiacimento del parroco nei confronti della rinnovata fede dei propri parrocchiani.

Lui non se ne era dato certo pena. Anzi, al momento dell’incidente non aveva emesso un fiato ed era andato da solo dal medico, col viso coperto di sangue, per chiedere cosa avesse dovuto fare con quell’occhio lì. Il medico non aveva potuto che indirizzarlo in ospedale.

Sta di fatto che l’occhio non lo poté più utilizzare e l’infezione che si era creata nel frattempo glielo chiuse del tutto. Anche a questo non ci badò poi tanto e continuò a lavorare come muratore al mattino e come scalpellino il pomeriggio, finché non finì quella statua dalla Madonna Immacolata, che firmò con un bel Dux, sulla base di leccese. Di quel periodo non aveva altri ricordi particolari. Aveva una ragazza, ma più per non dare adito a critiche o a battute, che per altro.

L’altro ricordo nitido, che puntualmente ritornava alla mente, risaliva al 1934.

Era andato a Lecce insieme al podestà Barra e ad altri del paese per acclamare il Duce in stazione. Erano partiti la mattina presto, gli altri in macchina, lui in bici. In stazione la calca della folla sulla banchina non gli aveva impedito di giungere ai limiti del binario per vedere arrivare Mussolini. Fu proprio mentre il treno frenava e Mussolini si affacciava impettito dal finestrino, che si sentì spingere con violenza alle spalle, andando a rovinare sotto il treno con la gamba in mezzo alle ruote, che gliela tranciarono di netto.

Lo avevano estratto di lì che gridava come una bestia al macello e portandolo via gli avevano messo anche una mano sulla bocca perché il Duce non sentisse quella voce che niente aveva di umano. Probabilmente Mussolini non lo avrebbe sentito ugualmente, tra quel frastuono di sbuffi, grida e applausi. Ricordava di essere svenuto e di essersi poi risvegliato in ospedale, senza la gamba.

Negli anni successivi, il ricordo della visita di Mussolini gli aveva sempre provocato un certo rammarico. Non certo per la gamba, ma per il fatto di non aver potuto vedere il Duce. Per il resto non provò mai rabbia o dispiacere per l’accaduto: il governo gli aveva concesso un buon sussidio per la sua invalidità e, non potendo fare più il muratore, gli venne anche affidato il posto da sagrestano.

Neanche ora, dopo quasi quarant’anni dal fattaccio, provava rabbia. Il resto della vita era stato solo un susseguirsi di giorni sempre uguali tra di loro, un continuo ripetersi di gesti, ormai meccanici. Forse solo durante la guerra aveva provato qualche nuovo sussulto, la voglia di menare le mani, di fare qualcosa, ma poi aveva lasciato perdere, non volendo rendersi ridicolo a se stesso e agli altri. Ricordava l’arresto di Mussolini nel ‘43. L’aveva vissuto come un tradimento e per questo non era andato a salutare il re, quando era passato dal paese diretto a Brindisi.

Non si era mai sposato. Viveva da solo, non aveva amicizie vere, ma questo non gli creava nessun rammarico o rimorso. Parlava sempre poco con tutti, anche perché aveva ben poco da condividere con i suoi paesani. Solo di sera si rivolgeva con la mente, più che con le parole, alla sua Madonna. Del resto con lei qualcosa da condividere ce l’aveva: le aveva pur sempre donato un occhio.

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3 Commenti a Un occhio alla Madonna ed una gamba a Mussolini

  1. Racconto bello, intenso, educato nella sua semplicità e nel suo contegno. La raffinata penna di Alessio Palumbo non si smentisce mai. L’autore di questa scheggia di passato riesce a coniugare la personalità del protagonista “…senza rabbia, senza rammarico e senza rimorso”, con la storia, con l’istintività primitiva di un popolo povero di cultura e d’istruzione, ma non di senso artistico. Per un manganellatore degli squadroni fascisti di paese, che senso poteva avere scolpire una statua della Madonna? Contraddizioni dell’animo umano, quello che non si cura di pezzi di corpo immolati a forme di adorazione adolescenziali, ma che si compiace dei suoi vent’anni, della parte migliore di sè attraverso un blocco di pietra modellato dalla propria sensibilità più nascosta. La statua della Madonna da lui scolpita in gioventù, infatti, più che racchiudere il più alto valore religioso della nostra fede cristiana, sembra conservare i ricordi bianchi di Renato, bianchi come il suo aspetto, custodisce l’occhio che lui ha perso, è padrona di una gamba che lui stesso ha sacrificato all’altare del rancore guadagnatosi presso i compaesani per crudeltà cieca nell’agire. Riciclaggio di solitudini ‘sporche’ e di cattive azioni attraverso il simulacro della Madonna? Potrebbe essere un’originalissima via di redenzione inconscia: grazie, Alessio, per avercela suggerita.

  2. Per quel che può valere il mio giudizio: bello il racconto, stupendo, tanto più per uno refrattario alle recensioni ufficiali quale io sono sempre stato, il commento di Raffaella (non è il primo che apprezzo, anche se solo ora esco allo scoperto). Non è un caso, infatti, che un poeta sia, forse, l’unico autorizzato a far coincidere, bene che vada, la sua interpretazione con quella dell’autore e, male che vada, a sovrapporla in modo credibile. E in questo, secondo me, Raffaella è una buona discepola del mio poeta preferito, il Foscolo, la cui attività di critico continua a restare, purtroppo, sconosciuta ai più e, sempre secondo me, sottovalutata dagli addetti ai lavori. Se qualcuno di questi ultimi ha qualcosa da dire si faccia avanti…

    Armando Polito

  3. Ringrazio entrambi per le splendide parole: sono onorato. Condivido con Armando l’apprezzamento per la recensione di Raffaella, come sempre sensibile alle sfumature del racconto e capace di fornire letture sorprendenti per lo stesso autore. Grazie ancora ad entrambi

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