Contadini e colonìa. Il matrimonio con la terra

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO DI FINE OTTOCENTO

LA PRESA DI POSSESSO DI UNA COLONIA VISSUTA ALLA STREGUA DI UNO SPONSALIZIO

LA NSURATA CU LLA TERRA (IL MATRIMONIO CON LA TERRA)

 

di   Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) I contadini che ottenevano in colonia un pezzo di terreno credevano di entrarne in legittimo possesso non al momento che apponevano il loro segno di croce in calce al contratto, ma solo quando davano di mano a dissodarlo. Nella loro atavica diffidenza (per molti aspetti giustificata), venivano infatti a male interpretare la dicitura contrattuale che stabiliva i termini di affidamento annuale “dalla prima dissodatura effettuata a raccolta ultimata”, scorgendovi non l’onestà di una puntualizzazione, bensì un furbo raggiro del padrone: se nel frattempo avesse trovato un colono migliore, avrebbe potuto rescindere il contratto, appigliandosi al fatto che non c’era stata ancora un’effettiva presa di possesso. In sostanza alla colonìa attribuivano le stesse regole del matrimonio, che se pure contratto a ccarta tenta sobbra’a lla comune e a ccampanieddhru sunàtu intra’a lla chésia, ci no ppassà a ffuécu ti saccone no ccuntàa pi ffattu (a carta scritta [ufficialmente] al Comune e a suono di campanello [celebrato] in chiesa, se non passava a fuoco di materasso [se non veniva consumato] non contava per fatto [poteva essere sciolto]). Per cui, pur di non trovarsi in simili circostanze, erano capaci di ammazzarsi di fatica, sicuri che, di fronte a un qualsiasi ripensamento da parte del padrone, potevano mintìre annànti spittànza ti zappa (avanzare il diritto colonico acquisito con la zappatura).

E poiché nel parallelismo con la prima notte di nozze insorgeva l’immagine del mitico panno, valido non solo a testimoniare la verginità della sposa ma anche l’avvenuta consumazione del matrimonio, per una sorta di consequenziale adeguamento si era giunti a figurare l’avvenuto possesso della colonìa incentrandone la prova in quelle tracce di terra e sudore che la zappatura imprimeva e sul viso e sui panni del coltivatore. Incrostazioni che erano quotidiano imbratto di mestiere, cioè di normale amministrazione per uno zappatore, ma che per l’occasione venivano vissute e quindi esibite a livello di tatuaggio iniziatico. Prova ne sia che, contravvenendo alla regola civile di cambiarsi d’abito prima di recarsi in piazza, il neocolono muoveva incontro agli amici con ancora addosso gli abiti da lavoro, e ciò come mezzo di comunicazione (vanteria), non privato, naturalmente, dal sostenimento verbale: “Pirdunàtime, ma osce m’à ttuccàtu scrucìcchiu ti nsuràta!”  (“Perdonatemi, ma oggi m’è toccato rompermi le ossa per sposarmi con la terra [per prendere possesso di una

colonìa]”).

Né diversamente si comportava la moglie, la quale, pur di vantarsi con le vicine di casa dell’ottenuto privilegio, la buttava sul vittimismo, trovando modo di lamentarsi maliziosamente mentre insaponava un pantalone o sciorinava al sole una camicia: “Ah, santa pacénzia ti Ddiu… Uàrda bbì ce nni tocca a lli pore mugghéri… anu llàre puru li ncucchiàte fore casa ti lu maritu!…”  (“Ah, santa pazienza di Dio… Guarda  un po’cosa tocca fare alle povere mogli… sono costrette a lavare anche le tracce delle unioni [leggi

copule]  che il marito si concede fuori casa!…”). (…)

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA” , Culti Magico-Religiosi nel Salento fine          Ottocento,  con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, 1994.

Lo stesso brano è stato pubblicato sul quotidiano “LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”, martedì 11 novembre 1997

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3 Commenti a Contadini e colonìa. Il matrimonio con la terra

  1. il ritorno alla natura celebra come nelle antiche mitiche tradizioni, il matrimonio tra il dio fecondatore e la madre Gea!

  2. Al di là del brano antropologico sopra riportato, nel cui contesto il matrimonio del contadino con la terra è simbolicamente limitato alla presa di possesso della colonìa, penso, caro Gigi, che il nocciolo del tuo commento possa trovare conferma anche nella convinzione della stessa Giulietta, espressa nella lettera in versi che trascrivo qui di seguito traendola dall’epistolario manoscritto “Bigliettini per Nino”:

    Carissimo Nino,

    a quale prete posso confessare
    che mi è dispiaciuto più della morte di Pippinu Ggiòsa*
    che del crollo delle Torri Gemelle di New York?
    A quale prete posso andare a dire
    che forse è morto l’ultimo contadino,
    che forse è morta
    l’ancestrale figura dell’uomo di Dio?

    A piangere quest’uomo**
    ormai non restano
    che le nenie vedovili delle zolle,
    struggenti nel rievocare
    i vigorosi e giovanili amplessi con la zappa.

    A celebrare quest’Uomo
    non resta che la tenerezza della luna,
    svelta ad ogni ciclo a lucidare la sua falce
    nell’attesa che qualcuno gliela chieda
    per ornare la statua
    eretta a monumento di un silenzioso eroe.

    Giulietta
    15 settembre 2001

    *All’anagrafe: Giuseppe Greco (1922 – 2001)
    ** L’ancestrale figura dell’uomo di Dio = contadino

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