Un pomeriggio a Poggiardo, anzi no, a Vaste!

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Da tempo mi ero ripromesso per qualche ragione che non rammento più di andare a visitare Poggiardo e quel meriggio assolato, che non volevo occupare con impegni ed incombenze varie per nulla allettanti, mi sembrò ideale per mettere in atto il mio proposito e fuggire così da ogni altra occupazione. Lasciai dunque, portandomi appresso la mia indolenza, il mio paese, Copertino, alla volta della mia destinazione con tra le labbra un toscano ammezzato (il mio inseparabile compagno di viaggio) ed in bocca ancora il gusto di un robusto caffé rigorosamente made in Salento preso al mio solito bar prima della partenza.

Dopo più di mezz’ora in auto sulla sempre deserta SS 664 (di questa solitaria strada che corre in mezzo al nulla al centro della nostra penisola dovremo tornarne a parlare prima o poi, io la trovo fantastica e devo confessare che ogni volta che la percorro mi sento come un novello Jack Kerouac maledettamente on the road!) confluii sulla Maglie-Leuca e presi lo svincolo per Poggiardo. Non ricordo più quanta strada feci una volta uscito dallo scorrimento veloce, so per certo invece che appena entrato a Poggiardo decisi di non fermarmi subito nel paese ma proseguire per iniziare la mia visita dalle frazioni. Era mia intenzione infatti fare le cose per bene, ossia con ordinato rigore logistico e completezza, onorando dunque con una visita prima le appendici di questa cittadina per poi potermi dedicare lungamente al cuore di essa.

Ebbene, vi anticipo sin da ora che le cose non andarono affatto come previsto tant’è che ancora oggi, a distanza di due anni o forse tre dal pomeriggio di cui vi parlo, devo ammettere di non aver mai visitato Poggiardo, nonostante che la determinazione con cui avevo messo in atto il mio proposito quel pomeriggio possa avervi condotto a credere il contrario.

Si sa, la vita è bella perché tocca con l’imprevisto, disordina i nostri progetti contaminandoli col l’imprevedibile e ci conduce così a vie che non avremmo altrimenti mai immaginato di percorrere, a strade che non avremmo mai conosciuto, a incontri che non avremmo mai fatto, mai ricordato, mai potuto narrare. Bisogna accogliere gli imprevisti che il caos degli eventi accidentali, erompendo con la sintassi indecifrabile dell’imponderabile e dell’indeterminato nei nostri intenti, ci dona. Il mistico san Giovanni della Croce era solito dire in proposito «per raggiungere il punto che non conosci, devi prendere la strada che non conosci»; è proprio il caos che regala gli accessi alle vie sconosciute che altrimenti secondo le nostre intenzioni non percorreremmo, così è proprio la contingenza casuale degli accadimenti che mi ha regalato gli eventi e le piccole esperienze di cui vi parlerò.

Attraversata dunque per una via esterna la tanto ambita Poggiardo, alla quale potei offrire solo qualche frettoloso sguardo sugli squarci che tra le abitazioni si aprivano verso il centro vero e proprio della cittadina, proseguii per alcuni chilometri, dopo i quali ritrovai un cartello che mi invitava a svoltare a destra, aVaste, la prima delle varie frazioni che nei miei piani avrei dovuto visitare.

reperti messapici nel museo di Vaste

Dopo duecento metri ero già a destinazione. Mi fermai subito perché sulla mia destra vi era un giardinetto pubblico con al centro un baretto ed accanto a questo un pannello informativo che non avrei sperato di trovare, uno di quelli che riportano le mappe del luogo. Parcheggiai e andai prima a prendere un caffé nel bar, dove, oltre al barista, vi erano due signori. Nella completa indifferenza di questi individui nei miei confronti bevvi frettolosamente l’amata bevanda e uscii, appostandomi accanto al cartellone informativo per dare un’occhiata ed orientarmi velocemente.

il “tesoretto” di Vaste

Non c’era da smarrirsi per la verità, ero praticamente quasi già al centro di Vaste, avrei solo dovuto percorrere i duecento o trecento metri di strada che mi separavano dal punto in cui ero per giungere fino ad una piazza che potevo da lì già intravedere e che costituiva tutto il centro vero e proprio. Realizzai che stando così le cose ci avrei impiegato molto poco a visitare quel luogo e avrei così risparmiato tempo per la visita al pezzo forte. Ma questi miei calcoli si rivelarono, come vi ho già anticipato, del tutto errati.

Fu mentre meditavo su queste cose accanto a quel cartellone che, trascinandosi chissà da dove con una pachidermica lentezza, era giunto lì anche un uomo vecchissimo che mi si avvicinò, magro, vestito con panni troppo pesanti per quella calda giornata di primavera e troppo larghi, munito persino di un cappello. Lo salutai, come si usa sempre fare in luoghi così poco affollati, ed egli mi rispose con un lungo quanto criptico monologo fatto di stanche parole biascicate e per me, soprattutto a quel primo impatto, del tutto incomprensibili. Fu così che conobbi Geremia – scoprii molto più tardi il suo nome. Dopo che quello ebbe terminato il suo monologo – nel corso del quale io ero intento solo a commiserare me stesso per l’impiccio di quell’incontro da cui non sapevo come svincolarmi senza essere brusco o maleducato –  fece una pausa di cui stavo per approfittare per congedarmi salutandolo, quando quello mi chiese, stavolta in modo sufficientemente comprensibile per instaurare un dialogo, da dove venissi. Gli risposi e quando egli udì il nome del mio paese sorrise e ricominciò a vomitare la sua tiritera di parole che non riuscivo nuovamente a cogliere. Ne avevo avuto abbastanza, così risalutai e stavolta con fermezza mi portai all’auto, in cui mi precipitai risoluto a spostarmi da lì, senza più prestare ascolto a quel vecchio. Percorsi alla guida quei pochi metri che mi conducevano alla Piazza e potei finalmente dare inizio alla mia visita di Vaste, completamente deserta ed immersa nel sole giallo di quel caldo pomeriggio.

Su un lato della piazza si affacciava un grazioso castello, le cui antiche mura correvano fino a una chiesetta costruita all’angolo che delimitava il centro. I restanti lati della piazza erano costituiti invece dal prospetto di vecchie case che lì si affacciavano con le loro corti antiche, immerse in una quiete silenziosa, talmente silenziosa che mi sentii obbligato a chiudere con garbo il portellone dell’auto cercando di non far troppo sacrilego rumore. Sulla piazza, leggermente rialzata rispetto alla strada che la attraversava e sulla quale avevo parcheggiato la mia rumorosa e sfatta carretta, vi erano nuovamente diversi cartelloni informativi che non mi sarei ancora una volta aspettato di trovare, disposti a costituire un cerchio. Raccontavano la storia di quel luogo, informavano del passato di quella piazza – oggi dedicata a Dante – che un tempo aveva rappresentato il centro cultuale di un insediamento dei Messapi. Sempre lì trovai informazioni sul castello che avevo di fronte, detto palazzo baronale, le cui sale del piano terra erano adibite a museo di archeologia. Capii inoltre, leggendo il contenuto stampato sui pannelli, che la mia visita non sarebbe più stata così breve come avevo creduto perché avrei dovuto riprendere l’auto e spostarmi verso la periferia di Vaste, nelle circostanti campagne, dove avrei trovato secondo quanto era scritto il cosiddetto Parco dei Guerrieri, ossia il parco archeologico che ospitava la ricostruzione delle antiche mura difensive messapiche di quello che fu uno dei centri più attivi e popolosi di questo antico popolo che dell’estremo lembo d’Italia – e nello specifico di Vaste – aveva fatto la sua terra millenni prima di noi. Dalle parti del Parco dei Guerrieri avrei avuto modo di visitare anche i resti di una necropoli paleocristiana costituito da tombe ricavate nella roccia, disseminate intorno ai resti delle strutture delle fondamenta di quattro chiese sovrapposte e oramai distrutte, la più antica delle quali risaliva al V secolo d.C.

Riordinai mentalmente il materiale di tante scoperte che non mi attendevo – in precedenza avevo infatti solo distrattamente visitato il sito internet di Poggiardo e non avevo colto l’importanza e la ricchezza di siti di Vaste – e decisi di cominciare la mia visita dalla chiesetta posta all’angolo della piazza, in attesa che il museo aprisse dato che, leggendo un biglietto apposto sulla porta, avevo dedotto che ero in anticipo e che avrei dovuto attendere ancora un quarto d’ora per potervi entrare.

Misi dunque in atto quanto deciso, non ricordo nulla di quanto vidi nella piccola chiesa fortunatamente aperta e fruibile, evidentemente non mi colpì particolarmente. Quando fui fuori la sorpresa però mi colse: il vecchio Geremia mi si stava avvicinando nuovamente con il suo lentissimo passo, pensate che aveva impiegato tutto quel tempo a percorre le poche centinaia di metri che mi separavano dal punto in cui lo avevo lasciato mezz’ora prima. Capii che non mi sarei liberato tanto facilmente di lui e gli diedi ancora modo di parlare con me: del resto meritava un po’ di considerazione visto che aveva fatto con le sue stanche membra tutto quello sforzo per venirmi appresso. Devo dire che stavolta non fu al principio molto originale, mi chiese infatti nuovamente da dove venissi, ed io educatamente con pazienza gli nominai ancora Copertino.

Pensai che quel minuto vecchietto dovesse essere affetto da morbo di Alzheimer visto che la stessa domanda me l’aveva posta prima, ma è possibile che mi sbagliassi. Probabilmente la verità era che Geremia non disponeva che di quell’unica strategia comunicativa per attaccare bottone con uno sconosciuto ed esprimere così il suo bisogno di contatto con l’altro: purtroppo siamo spesso portati da un pregiudizio contagiante a considerare quasi sempre la vecchiaia di per sé come una fonte di malattia e i vecchi come delle incubatrici di strani disturbi senili, nonostante la lezione di Cicerone col suo De Senectute o i tanti consigli di un Seneca che da secoli – molto prima dell’attuale medicina e dell’odierna psicologia – ci insegnano coi loro saggi che la vecchiaia è solo un processo naturale della vita, con le sue proprie virtù ed i suoi propri limiti, dunque esattamente il contrario di ciò che per definizione è una malattia, la quale è piuttosto un arresto del naturale scorrere dei processi della vita che viene deviata verso ciò che propriamente può dirsi patologico.

la cripta dei SS. Stefano a Vaste

Fui io poi a porgergli una domanda, gli chiesi quanti anni avesse. Geremia iniziò allora uno dei suoi monologhi a cui oramai mi stavo abituando, dal quale però stavolta qualcosa qua e là riuscii a cogliere. Capii che stava lodando la giovinezza che in lui era trascorsa e che ravvedeva in me, mi invitava a suo modo a godere pienamente dei miei anni; cominciò poi a biascicare una specie di filastrocca in rima di cui riuscii a cogliere solo le parole finali, benché egli la ripetesse a manetta: «…correte, venite da Geremia, solo cose buone e tanta cortesia». Intuii in quel modo che Geremia doveva essere il suo nome e quella rima una sorta di slogan pubblicitario ante-litteram che egli aveva in passato usato per decantare chissà quale mercanzia per i mercati del sud. Gli chiesi allora che lavoro avesse fatto nella vita e da un elenco di nomi di frutti con cui mi rispose capii che Geremia doveva essere stato un venditore ambulante di ciò che elencava. Pensai che quello era stato lo stesso mestiere del mio nonno paterno morto prima che io nascessi e fui tentato di chiedergli se lo avesse per caso conosciuto o incontrato per le vie dei mercatini salentini di un tempo. Ma ciò sarebbe valso a pretendere troppo dal mio vecchio compagno, benché stavolta si fosse riusciti a capire qualcosa l’uno dell’altro. Mi accorsi a quel punto che il museo era stato finalmente aperto, mi congedai così con una pacca affettuosa dal mio fortuito Cicerone di un pomeriggio assolato e percorsi i pochi metri che mi separavano dall’ingresso del museo, giunto al quale vi entrai senza ulteriori indugi.

Appena dentro incontrai un giovane seduto dietro una scrivania, evidentemente il guardiano del museo. Ricordo che appena mi scorse questo si diede cura di fingere una professionale indifferenza e un recitato distacco mentre doveva in realtà essere non poco colpito dalla mia presenza: sarò stato l’unico visitatore per quel giorno, o addirittura per quella settimana – ci scommetterei i pochi spiccioli che ho. Quando salutai, al mio accenno di procedere oltre verso le stanze del museo, egli mi chiese con un leggero accenno di disagio e qualche tentennamento nella voce due euro per poter accedere alla visita e dopo che ebbi pagato mi consegnò diligentemente, con un fare da ragioniere meticoloso, un piccolo biglietto di ingresso come ricevuta.

«Bene – pensai – a quanto pare i Messapi sono di casa qui». I Messapi, su questi si sa complessivamente tanto poco che io colmavo queste lacune archeologiche e storiografiche con dei miei personalissimi ricordi: i Messapi allora mi facevano pensare solo a certe sudate bestiali fatte un anno prima con Tamara, una mia amica, artista padovana di origine armena da trent’anni residente nel Salento, tanto cara quanto instancabile (benché ultrasessantenne), con la quale in un pomeriggio d’agosto – ella presa forse dalle prime avvisaglie di un rimbambimento senile ed io, allora ventisettenne, da un rincoglionimento congenito – avevamo traversato come novelli ricercatori per due ore i siti archeologici dell’insediamento messapico di Roca Vecchia sotto una calura che sfidava i quaranta gradi, rischiando una insolazione ed un ulteriore aggravamento delle condizioni già fragili delle nostre strambe menti. Roca Vecchia, che posto meraviglioso però!

Alle abbandonate riserve delle rovine archeologiche, circondate da una lunga e grigia rete di ferro bucata qua e là su cui compaiono ancora ogni tanto dei cartelli affissi chissà quanti anni prima dalla scuola archeologica dell’Università di Lecce, fanno da contorno le scogliere ricche di ripari, grotte e degli anfratti di mar Adriatico più strabilianti che conosca, al di là dei quali all’orizzonte si intravede nelle giornate limpide il profilo delle alture dell’Albania. E non è un caso che proprio a Roca, a coronarne lo splendore, vi sia la cosiddetta Grotta della Poesia, una conca di acqua azzurra che si apre tra gli scogli, in comunicazione col mare tramite gallerie lunghe diverse decine di metri scavate con permanente pazienza dai secoli nella roccia. Ricordo che un mio amico pittore abbastanza anziano e bizzarro anch’egli, si vantava con me di aver dato in gioventù con alcuni amici il nome a questo posto che secondo lui non ne aveva uno e che egli considerò talmente bello da meritarsi proprio quello. Non so se ciò fosse vero o fosse una delle tante panzane del mio pallonaro amabile amico, né so se sulle guide turistiche si accennerà mai a questo suo battesimo, a me però va bene credere che sia andata proprio così, del resto la Grotta della Poesia meriterebbe davvero l’appellativo che la connota proprio per la sua bellezza.

necropoli di VasteRicordo inoltre che ogni volta che mi recavo alla Grotta, durante un’estate trascorsa a lavorare nell’amena località di Torre dell’Orso posta a pochi chilometri da lì, dato l’isolamento e la relativa difficoltà a raggiungere il posto, era facile trovare i lisci massi della scogliera che circondano il luogo affollati di punkabbestia e soprattutto di giovani donne rigorosamente in topless. Non so come mai in quelle occasioni, forse lo splendore del posto, forse la chiarezza cristallina dell’acqua o l’ilarità che sempre circondava il luogo, mi hanno sempre fatto trasmutare fantasticamente le donne dai seni nudi che lì incontravo in delle ninfe che si rinfrescavano lungo i torrenti dell’Arcadia, ed in quei momenti io credevo d’essere davvero un satiro gaudente che si stava ritemprando dopo aver preso parte ad un orgiastico corteo di baccanti.

Abbandoniamo qui la frescura estiva della Grotta della Poesia e le mie fantasie ellenico-classicheggianti di quei giorni al mare ormai andati, dovute forse all’aere intonsa dei fumi di marijuana dei molti punkabbestia presenti in quel luogo più che alla sua poetica bellezza, per tornare al museo di Vaste di cui dicevamo.

Con quella mia lunga e attenta visita alle varie stanze di quella meravigliosa collezione di ritrovamenti messapici – ma anche di epoca romana e medievale – le mie curiosità sui Messapi furono ampiamente ricompensate, i miei interessi per questi nostri avi ne uscirono rinnovati, arricchiti, rigenerati. Questi, da quel giorno, non sono più stati per me il popolo sulle cui ataviche tracce avevo rischiato l’insolazione ed una morte prematura insieme all’amica Tamara, non più soltanto gli uomini che avevano popolato le bellezze delle nostre coste adriatiche dove avevano edificato i primi porti e i primi insediamenti e su cui poi si erano assestati prepotentemente i Romani: quel giorno, in quelle sale illuminate per me soltanto, potei cogliere lo splendore della loro arte, dei loro manufatti e tutta la ricchezza della loro civiltà nei segni e nei lasciti che nei millenni si erano fortunatamente preservati per giungere fino a noi.

Quando uscii dal museo, rinnovando i miei saluti al custode che era rimasto per tutto quel tempo lì dove lo avevo lasciato, mi resi conto che perduto in quell’incanto vi avevo trascorso quasi due ore.

Tutto quel lasso di tempo non aveva però ancora sopraffatto il mansueto Geremia, il quale era lì in paziente attesa, non avendo evidentemente di meglio con cui occupare la sua semplice giornata che attendere me.

Ne fui tuttavia persino lieto, rabbonito e rasserenato come ero da tutto quello splendore appena goduto che mi aveva messo di buon umore e mi ridisponeva di gran lena al contatto con il mondo, così fui io stavolta ad andargli incontro.

Mentre Geremia farfugliava qualcosa, quando gli fui accanto, cominciò a dirigersi lentamente verso un arco ricavato dalle mura del Palazzo Baronale che conduceva alla parte posteriore dell’edificio da cui ero uscito. Mi invitò in tal modo – senza inutili parole – a seguirlo ed io, che iniziavo ormai ad accettare l’idea di dover rinunciare alla visita di Poggiardo, mi avviai con quel vecchio per le vie sconosciute del suo paese. Attraversato l’arco giungemmo in un piccolo ma grazioso giardino molto curato e incastonato tra le alte mura degli edifici baronali. Chiesi a Geremia se quello fosse stato in passato il cortile interno del Palazzo ma egli si limitò a sollevare le spalle e ad aggiungere, fissandomi negli occhi, “Giardino!”. Capii quanto fosse stupido da parte mia cercare di ottenere informazioni di quel tipo da Geremia, il quale con quel suo fare bonario mi aveva fatto sentire come quegli scienziati che mettono sotto i riflettori delle proprie indagini qualcuno e quel qualcuno, lungi e avulso dagli stessi interessi scientifici che animano i primi, non può che considerarli un po’ svitati, e talvolta a ragione, almeno in quel mio caso.

Ci lasciammo il giardino alle spalle e svoltammo a destra in una viuzza tondeggiante sulla quale a un certo punto il mio compagno si fermò e si mise a chiamare a gran voce su un uscio. Pensai che dovesse essere quella la sua abitazione e stavo per andarmene quando da lì uscirono due giovani donne ed una graziosa vecchietta fortemente ricurva su se stessa ed accompagnata da un bastone.

Dalla reazione di quelle compresi che non eravamo a casa di Geremia ma stavamo facendo una visita alla vecchia. Una delle donne, che quando si rivolgeva a Geremia lo faceva in dialetto, si rivolse a me in italiano (come si usa fare talvolta nel Salento con gli sconosciuti, coi quali non si adopera la confidenziale lingua materna) chiedendomi se fossi un volontario! Beh certo, la domanda era pertinente, cosa ci faceva un ragazzo mai visto prima in quel luogo desolato in pieno pomeriggio in compagnia di un vecchio signore un po’ strambo che non era suo parente? Non poteva che essere un volontario di qualche istituto per opere pie o in servizio civile. Risposi il vero, ossia che ero lì solo per visitare il museo ed esplorare un po’ il posto.

Geremia mi sorprese molto per la lucidità che mostrò in quell’occasione. Con quella vecchietta sorridente egli parlava e si esprimeva in modo molto più chiaro e comprensibile di quanto non avesse prima fatto con me, ad un certo punto le mise persino scherzosamente e con evidente tenerezza il suo cappello in testa, ridendo e provocando il riso di tutti. Seppi dalle ragazze che stavo assistendo alla visita che una volta al mese, da tempo immemorabile, Geremia faceva a questa vecchietta, moglie di un suo defunto amico. Pensai che quella sua strabiliante trasformazione era forse dovuta alla forza di un amore impossibile e non consumato che mi piaceva immaginare nel passato tra i due, o magari, chissà, quei vecchi condividevano semplicemente un mondo di ricordi dentro cui a noi altri spettatori era precluso l’ingresso.

A quel punto però dovetti salutare perché ero deciso a proseguire nella scoperta di quei luoghi, fu quella l’ultima volta che vidi Geremia e non credo che lo rivedrò mai più. Percorsi tutto il viale su cui abitava la sua vecchia amica, svoltai a destra due volte e sbucai nuovamente nella piazza del castello, dove avevo lasciato l’auto. La mia destinazione non poteva essere più Poggiardo, benché stesse iniziando a imbrunire dovevo andare a visitare invece, a tutti i costi, quello che nei brani scritti sui pannelli era chiamato il Parco dei Guerrieri e i dintorni di cui vi ho detto: i miei progetti iniziali si erano definitivamente infranti, sgretolandosi contro gli inattesi splendori che mi stava rivelando quella che avevo creduto una frazione cui dedicare al massimo pochi minuti e che mi trattenne invece fino alle ultime luci del giorno.

Quando da lontano scorsi delle grandi figure in bronzo raffiguranti dei guerrieri, posti sui cumuli delle cinte murarie qualche anno prima, per tutto simili nelle forme a quelli dipinti sulle antiche ceramiche che avevo veduto nel museo, capii di essere giunto nel Parco dei Guerrieri.

profili giganteschi di questi antichi difensori della nostra terra, stagliandosi su un orizzonte che andava tingendosi dell’arancio di un malinconico tramonto, mi riempirono di una strana nostalgia in cui riecheggiavano le grida di battaglia delle genti che prima di noi furono, della guerra che da sempre accompagna la storia dell’umanità, i miei pensieri si tingevano del sangue che ha macchiato per molti secoli una terra martoriata ed esposta alle incursioni, si colmavano delle urla disperate di madri e dei pianti dei loro bambini.

Mi crogiolai non so per quanto in questi pensieri fino a quando ripartii per raggiungere un punto del parco posto in altura e accuratamente recintato, dove avrei potuto visitare le restanti meraviglie di quei luoghi.

Il guardiano del parco mi venne incontro prima ancora che avessi fermato l’auto e mi chiese subito se fossi venuto per conto dell’Università che evidentemente inviava lì ogni tanto qualche ricercatore, ero tentato di dirgli di sì per non dirgli la più banale verità, cioè che ero uno sfaticato pirla qualunque venuto per godersi un po’ di sole da quelle parti a me ignote. Ma me ne trattenei, mi limitai a dire che ero lì per interesse personale, e quando egli mi offrì un via di salvataggio chiedendomi nuovamente, sebbene con un po’ di delusione in viso “Ah ho capito, sei insomma uno studente di beni culturali?”- cosa che evidentemente dava ai suoi occhi un senso alla mia visita – mi ancorai a quella scialuppa e dissi «E certo, beni culturali – e incautamente aggiunsi avendoci preso gusto a mentire- indirizzo paesaggistico! Per quello sono qua» e ciò dicendo tiravo fuori la migliore espressione da studente secchione che potessi fare.

Quest’uomo risultò molto dotto e capace di appagare ogni mia curiosità su quel luogo incantevole. Lì vi avevano abitato in primis le tribù messapiche degli Iapigi e a testimoniarne ancora il loro passato vi era una capanna ricostruita recentemente con rigore scientifico dai ricercatori dell’Università di Lecce, ricalcando le tecniche di costruzione di quell’epoca così remota.

Dopo aver visto da vicino la capanna mi feci accompagnare alla cripta basiliana dei Santi Stefani, una delle tante bellissime opere di quei monaci in fuga da Bisanzio, giunti in seguito alle persecuzioni dovute alle lotte iconoclastiche a trovare un approdo nel Salento, la terra che questi antenati bizantini costellarono di tesori ipogei, spesso nascosti, inattesi, sotterranei, scavati a fatica nella roccia che come un ventre materno ha protetto per secoli le loro silenziose preghiere greche.

Le parole del mio dotto accompagnatore, mentre mi erudiva sui dettagli della meravigliosa cripta, interamente scavata nel tufo e adornata di bellissimi affreschi, mi sembravano vagamente familiari; capii il giorno dopo, riguardando il sito ufficiale del comune di Poggiardo, il perché di quella familiarità: molte delle frasi che avevo udito in quell’umido antro erano riportate nello stesso identico modo sul sito. Non che ciò inficiasse ai miei occhi la dedita professionalità di quell’uomo, doveva pur averle estrapolate da qualche fonte quelle nozioni, solo la cosa mi fece sorridere perché egli aveva cercato in tutti i modi di sembrare naturale nella sua esposizione del giorno prima, senza dare per nulla a vedere che stesse ripetendo un copione a memoria; ciò mi fa ricordare quell’uomo anche con maggiore simpatia di quanto non mi avesse ispirato a primo acchito ed in fondo questa mia scoperta successiva lo metteva solo alla pari permettendogli di saldare i conti con me, il finto studente di beni culturali a indirizzo paesaggistico!

Vi sembrerà incredibile ma sappiate che in ogni luogo del Salento in cui la coscienza del valore del nostro passato si è risvegliata e ci si è adoperati per la sua salvaguardia ho sempre trovato dei logorroici ma amabili guardiani o custodi del posto pronti a erudirvi su ogni dettaglio che concerne il tesoro cui siete giunti. È questo certamente un segno del calore del nostro popolo, un calore che a volte vi impedirà di godere in solitudine e silenzio di certi splendori ma vi ripagherà lautamente con una buona e cordiale compagnia; tutto ciò, però, ho il triste sospetto che sia anche il segno della solitudine di questi personaggi tanto desiderosi di parlarvi, di questi uomini il cui compito è custodire un passato che troppo poco gli stessi salentini si recano ad onorare, ad osservare, ad ascoltare.

Mi recai da solo infine a compiere la mia ultima visita di quel giorno, dedicata alla necropoli paleocristiana e alle piccole fosse dei nostri avi che lì avevano trovato sepoltura, tornando con la morte ad una terra che appartiene tanto a loro quanto a noi che ancora oggi la calpestiamo.

Me ne stavo lì placido mentre mi giungeva il profumo di ulivi misto a quello del mare, segno che in linea d’aria le coste di Porto Badisco e Santa Cesarea non erano poi lontane: sentivo chiaramente nell’aria espandersi le essenze marine dei flutti che si stagliavano sulle rive che un tempo Enea aveva calpestato.

In silenzio passeggiai meditabondo ancora un po’ tra quelle antiche pietre cui ero alla fine di quella giornata giunto, pietre su cui copiose lacrime in passato erano cadute. Cadeva intanto anche il sole al di là dell’orizzonte e annunciava il tempo del mio ritorno a casa.

Mi rimisi in auto per l’ultima volta, riaccesi quel che rimaneva del mio compagno di viaggio – il toscano che non avevo potuto terminare venendo – ed aprii il finestrino per permettere al denso fumo che emanava di fuoriuscire.

Da quella fessura la fresca brezza della sera ormai giunta osava ogni tanto affacciarsi e sembrava portare delle note di una musica udibile appena, una melodia ritmata, forse soltanto immaginata, cadenzata da un ritornello che mi pare facesse così : «…venite, correte da Geremia, solo cose buone e tanta cortesia…».

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3

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