Da Marittima, un nuovo lido e vecchi, indelebili ricordi

di Rocco Boccadamo

Anche qui, ovviamente, vanno mutando i tempi, i costumi con le correlate esigenze, le strutture.

Cosicché, alla Marina, in zona Porticelli, esattamente fra il “Pizzo della Merdara”  e la “Ucca de Porticeddri” (bocca di Porticelli), è da poco sorto un lido o stabilimento balneare, a ridosso della scogliera. In termini materiali, è stata allestita un ampia spianata di ombrelloni, sdraio e lettini, insieme con un chiosco bar e ristorante e, soprattutto, onde permettere agli ospiti di sormontare senza pericoli le irte rocce e scendere agevolmente sul “lapitu” (bagnasciuga erboso) per fare il bagno, un sistema di passerelle e scalette in legno.

Gli operatori economici risultati assegnatari della concessione demaniale hanno attribuito al complesso la denominazione “Fiore di zagara” che riprende fedelmente quella della “Locanda Fior di Zagara”, entrata recentemente in esercizio, secondo la formula del bed & breakfast, nella vicina località di Diso.

Fin qui, si tratta di un doveroso cappello o preambolo di mero riferimento, senza propositi di traino reclamistico alle pur opportune realizzazioni di carattere turistico – ricettivo in discorso.

E’ tutt’altra, difatti, la ragione essenziale che ha spinto il comune osservatore di strada a redigere queste righe.

Il riferito tratto di costa è uno dei più belli, affascinanti e selvaggi della zona, suscita naturalmente un’attrazione forte e, insieme, misteriosa; è impervio attraversarlo, occorre attenzione, è tutto un susseguirsi di spuntoni, buche e rocce discontinue a saliscendi.

E però, una volta che si arriva a guadagnare il già menzionato “lapitu”, si prova una piccola, speciale emozione, in una sorta d’abbraccio, quasi, con la distesa d’acqua che definire limpida e cristallina è poco e specchiando appena lo sguardo nei bassi e variabili fondali, a immediato contatto e impatto con sfumature della superficie liquida e della flora davvero uniche e, in certo senso, magiche.

In epoca, oramai lontana, di ben diversa vigoria fisica, era solito, chi scrive, recarsi spesso a “prendere” il bagno in detta falce di mare, accompagnandosi con una semplice maschera per non perdere un solo metro quadrato delle basse profondità e attrezzato con un coltellino , al fine di staccare dalle rocce qualche manciata di “cozze mateddre” (telline) o rimuovere dal loro appoggio i ricci di mare, cercando di scansarne gli aculei.

In una circostanza, capitò anche la fortuna di un ritrovamento eccezionale; appena sotto il pelo dell’acqua – che, a dir la verità, in quel preciso punto, richiamava le mitiche distese familiari alle Ninfe e a Odisseo – scorsi tre rametti di corallo e, dopo averli sfiorati con religiosa delicatezza, li prelevai gelosamente, in un’atmosfera mentale e interiore di meraviglia e sorpresa. Ancora oggi, a distanza di decenni e nonostante viaggi e traslochi per migliaia di chilometri, ne conservo uno.

In periodi ancora precedenti, il breve percorso fra il “Pizzo della Merdara” e la “Ucca de Porticeddri” era al centro delle escursioni notturne, in gruppi, per la pesca (o caccia) di “caure” (granchi), ambite fra esse le “pelose” di color rossiccio, di polpi, “fuggiuni”, scorfani e cefalotti.

Di solito, fra il sabato e la domenica, dopo cena, a piedi e scalzi, si partiva da Marittima, guidati unicamente dal brillio delle stelle e, quando visibile, dai raggi della luna, raggiungendo la litoranea.

Per scendere, poi, verso il “lapitu”, previa accensione di una rudimentale lampada ad acetilene, attraversavamo i terrazzamenti degradanti di una determinata marina di un compaesano, Costantino, e, grazie all’agilità e alla sicurezza di gambe giovanili, in poco tempo superavamo anche la scogliera e toccavamo l’acqua bassa, giustappunto, del “lapitu”.

Uno della comitiva, diverso dal portatore della lampada, teneva in mano una capasa di zinco, dove, man mano, andavano a finire i granchi e i più rari polpi o pesci, catturati con l’aiuto di semplici forchette da tavola o di piccole aste metalliche appuntite a lancia.

Che suono d’allegria e spensieratezza, quel vociare a commento di ogni positivo risultato della pesca (o caccia)! Si spaziava anche su vari argomenti, allargando e rinsaldando la reciproca conoscenza e sintonia ideale fra giovani amici.

Un momento particolarmente bello era rappresentato dall’incrocio fra gruppi di cercatori notturni, l’avvicinamento maturava e si realizzava al segnale, via via più intenso, delle fiammelle ad acetilene, s’inanellavano sistematicamente gare a buon mercato, con il confronto dei rispettivi bottini nelle capase.

Mi sono soffermato su momenti, riti e abitudini d’altri tempi, oggi del tutto scomparsi e sconosciuti. Tuttavia, nell’interiorità di chi le ha vissute, tali antiche sequenze sono rimaste conservate nitidamente, compreso lo sfrigolio delle zollette di carburo in ebollizione nelle lampade, seguitano ad ardere fiammelle ideali, finalizzate non più a guidare le passeggiate al buio sotto i costoni rocciosi di Porticelli, bensì a proseguire, con positività e slancio, nell’ordinario cammino delle stagioni e degli anni all’insegna dei capelli grigi.

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