Attribuita al Regolia una tela conservata nel Municipio di Taranto

 

 
di Nicola Fasano*

Taranto: città delle industrie, città dell’inquinamento, delle brutture, però anche città dei tesori nascosti che non trovano una piena fruibilità. E’ il caso di un dipinto seicentesco di notevole formato conservato negli uffici di Palazzo di Città raffigurante San Francesco che soccorre gli ammalati.

La tela faceva parte del sontuoso arredo di palazzo D’Ayala-Valva (già Marrese), e abbelliva il soffitto a cassettoni del salotto di rappresentanza. Con l’espropriazione del palazzo a favore del comune nel 1981, tutti i beni conservati nel palazzo sono diventati di proprietà comunale.

Il professor Galante dell’Università di Lecce, analizzando la suddetta tela, aveva attribuito l’opera al pittore napoletano Pacecco De Rosa; successivamente lo studioso Leone De Castris riconduceva il dipinto (giustamente, secondo il parere di chi scrive) al palermitano di formazione napoletana Michele Regolia autore di numerose tele nel vicereame. Educato presso la scuola tardo-manierista di Belisario Corenzio, l’autore del dipinto tarantino non è esente da influenze emiliane alla Domenichino.

Regolia si apre alle nuove istanze del naturalismo caravaggesco imperante a Napoli, nei due personaggi maschili in primo piano torniti da vigorosi effetti chiaroscurali.

All’estrema sinistra della composizione è raffigurato un personaggio in abiti nobiliari che volge lo sguardo allo spettatore, molto probabilmente il committente del dipinto, devoto di San Francesco; sulla destra una madre con il figlio cieco in braccio implora al Santo la grazia.

Il maestro palermitano era un autore caro ai francescani perché rispondente a determinati precetti, quali la devozione e la pacatezza nelle figure, la dottrinalità nelle immagini secondo i dettami rigorosi della controriforma. Caratteristica dell’artista siciliano è, inoltre, la raffigurazione di angeli dalle ampie ali che irrompono dall’alto o sospesi a mezz’aria.

Una Taranto che può quindi inserire il Regolia ad altre figure di spicco della cultura artistica napoletana del 6-700 quali i fratelli Fracanzano, Luca Giordano, Giaquinto e lo scultore Sanmartino.

Questo gioiello pittorico è stato fortunatamente sottratto all’incuria e al vandalismo che ha purtroppo svalorizzato il prestigioso palazzo di via Paisiello. Il restauro, curato dalla Soprintendenza, ha pulito la tela da pesanti ridipinture e ha portato alla luce gli squillanti colori delle vesti e l’atmosferico paesaggio collinare che si schiude tra le figure.

Un dipinto difficilmente fruibile, che andrebbe valorizzato maggiormente, con l’esposizione in qualche mostra, anche per capire i gusti di una committenza sopraffina quale era quella dei D’Ayala-Valva, i quali secondo lo studioso Farella, avrebbero acquisito la tela dal convento di San Francesco per collocarla nell’ottocentesco palazzo.

Un doveroso ringraziamento va alla dottoressa Danese e all’assessore Davide Nistri per la disponibilità dimostrata e per avere permesso le riprese fotografiche.

 

* Tutor diocesano dei beni culturali (Diocesi di Oria)

 

Pubblicato su CORRIERE DEL GIORNO Mercoledì 9 marzo 2011

Storie di lupi mannari. Dall’antica Grecia al Salento

di Paolo Vincenti

Nel 2006 Annu novu Salve vecchiu ha compiuto vent’anni. Sulla copertina del primo numero, un disegno di Vito Russo ritraeva una befana che volava nel cielo di Salve, illuminato da una bellissima luna piena, che era legata ad un filo da un fanciullo (forse il giovane pittore), il quale, seduto su una terrazza con due comignoli fumanti, voleva come tirar giù dalla luna, con la sua corda di aquilone, i sogni; e allo spettacolo assisteva sorniona una gatta, forse tramutazione di qualche invidiosa megera del paese1 .

Già dal primo numero, l’autore della copertina aveva voluto rappresentare Salve nel suo aspetto più nascosto e suggestivo, quello magico e misterioso dei miti e delle leggende di cui Salve, più di ogni altro paese del Capo di Leuca, è ricchissima.

A distanza di quasi dieci anni da quel primo numero, frutto più della scommessa di un gruppo di giovani amici e “ardimentosi” salvesi che di un calcolato progetto editoriale, nel 1995, Antonio Vantaggio dava alle stampe Salve-miti e leggende popolari (Edizioni Vantaggio), una summa di tutte le leggende popolari (arricchita da qualche racconto partorito dalla fervida fantasia del poeta Carlo Stasi) fino ad allora conosciute su Salve.

Anche in questi vent’anni di vita del periodico, numerosi e tutti pertinenti sono stati i contributi sulle tradizioni orali e sugli aspetti folklorici, magici e leggendari della terra di Salve, da parte dei collaboratori di Annu novu. Ricordiamo, allora, la leggenda della Vergine del SS. Rosario; la leggenda del ritrovamento dell’immagine della Madonna delle Gnizze; quella del Monastero dei Frati Cappuccini e del miracolo del grano; la leggenda della Grotta delle Fate, che si trova in quello che è forse il luogo più emblematico della campagna di Salve, cioè la zona dei Fani, custode di mille storie fantastiche tramandate di padre in figlio, oltre che delle stesse origini di Salve; e, alle mitiche origini di Salve, sono collegati anche la leggendaria Cassandra e Lombardello; leggende di satiri e ninfe ai Fani; di sacare castimate; la leggenda del tempietto di Giano e della venuta di San Pietro a Salve; le leggende sulle Vore di Barbarano; la leggenda del coro della chiesa Matrice e di don Giuseppe Valentini; le infinite storie e storielle fiorite intorno al periodo delle incursioni turche e barbaresche sulle coste salentine; leggende di streghe nei pressi del grande carrubo sulla vecchia strada per Ugento; la leggenda dell’acchiatura e quella del monaco corrotto e della sua maledizione scagliata sul paese; la leggenda della nave di Pirro arenata a Torre Pali; quella dell’Isola della Fanciulla; la prodigiosa operazione di sincretismo religioso operata intorno al culto di Santa Marina di Ruggiano;  la leggenda delle secche dei Cavaddhi e quella dell’organo Olgiati-Mauro2.

Inoltre, ci si è occupati dei monicheddhi, bizzarri spiritelli della casa, dell’orco e della catta scianara, che sono ricordi ancora molto vivi nell’immaginario collettivo dei nostri anziani.3

Questa volta ci occupiamo di un’altra figura mitica, ancestrale, spauracchio di intere generazioni di grandi e piccini, protagonista incontrastato delle notti di luna piena: il lupo mannaro.

“Vengono chiamati Lupi Mannari, nei testi di Stregoneria, quegli uomini e quelle donne che sono stati trasformati o si trasformano in lupi; ovvero quelli che si travestono per fingere tale trasformazione talvolta credono – per un’abominevole forma di follia- d’essersi effettivamente cangiati in lupi, e di tali belve prendono le abitudini e i costumi. L’espressione francese Loupsgarous vuol dire loups dont il faut se garer: lupi dai quali ci si deve guardare.” Così descrive i lupi mannari,

Jacques Collin de Plancy, erudito francese dell’Ottocento, esperto di tradizioni popolari, agiografia, demonologia, occultismo, nella sua monumentale opera Dictionnaire Infernal. In quest’opera, nella sezione dedicata alla licantropia, de Plancy fa una rassegna dei più importanti testi letterari sui lupi mannari, passando in rassegna Pierre Delancre, autore di due opere dettagliatissime sull’argomento: L’incredulitè et ècreànce du sortilège pleinement coinvaicues e Tableau de l’inconstance des mauvais anges et dèmons, del Seicento; Jean Bodin, giureconsulto e demonologo angevino,autore, nel 1591, del celebre trattato Dèmonomanie des sorcies; i Discorsi della licantropia, o della trasmutazione di uomini in lupi, trattato del 1599 di Jacques Rickius;  il romanzoPersilete e Sigismondo, ultima opera di Cervantes; il trattato Lycanthropie, del 1615, diJ. De Nyauld, che chiamava questa malattia “follia lupesca” o “licaonia”; la leggenda di Licaone, descritta da Ovidio nelle Metamorfosi; la leggenda di Bisclavret, il lupo mannaro bretone, descritto, tra gli altri, da Maria di Francia nei suoi Lais del 1160; la Topographia Hibernica di Giraldo di Cambria (1147-1223) sui lupi mannari di Ossory; la leggenda sugli irlandesi San Patrizio e San Natale che avrebbero dato origine alla stirpe dei lupi mannari in Irlanda; Jules Garinet,  autore delle Histoire de la Magie en France, del 1818; e così via 4.

Il termine “licantropia” deriva dal greco lykos, “lupo” e  antropos, “uomo” e fin dalle culture primitive il lupo, che minacciava il gregge, unica fonte di sostentamento in un’economia basata prevalentemente sulla pastorizia, era considerato una creatura malefica dalla quale guardarsi. Risale quindi alle civiltà primitive il mito della trasformazione dell’uomo in lupo. La radice indoeuropea wer ci porta all’inglese werewolf , per “lupo mannaro” e al tedesco werwulf.

Frequentissimi sono i riferimenti alla licantropia da parte degli autori greci e latini. Ne parlano Erodoto, nelle sue Storie5  e Petronio Arbitro che, in una delle parti più divertenti del suo Satyricon, la Cena Trimalchionis, fa parlare Nicerote il quale confessa a Trimalcione di avere assistito alla trasformazione di un militare in lupo mannaro6. Virgilio, nell’Eneide7,parla di uomini trasformati in lupi dalla Maga Circe e nelle Bucoliche8, il pastore Alfasibeo canta della trasformazione di Meri in lupo grazie ad alcune erbe donate da una maga. Anche Pomponio Mela parla di licantropia nel De situ orbis9, e così Properzio che, nelle Elegie, parla della maga Acantide, capace di trasformarsi in lupo mannaro10.

Nella mitologia greca, Licaone (da lukos, “lupo”) era il capostipite dei Pelasgi ed il fondatore, sul Monte Liceo, della prima città, Licosura, e questo personaggio si identificava, per via del suo nome, col lupo. Del mito di Licaone, come uomo-lupo, parla Pausania11, e anche Licofrone12 e Igino13,  che raccontano la leggenda secondo la quale Giove si reca in incognito a far visita a Licaone; questi, incerto della natura umana o divina del suo ospite, decide di sottoporlo ad una prova e gli offre da mangiare le carni di un suo figlio che aveva squartato (chiaro riferimento alla pratica della antropofagia, all’epoca ancora presente nella cultura delle popolazioni primitive). Ma il Padre degli dèi si adira per tanta efferatezza e incendia con le sue folgori la reggia di Licaone e lo trasforma in lupo.Del mito di Licaone, parla anche Ovidio nelle sue Metamorfosi14. Secondo la vastissima bibliografia sull’argomento, a Licaone vengono anche attribuiti, come figli, Enotrio, Peucezio e Iapige ai quali si deve la fondazione del nostro territorio salentino15. Plinio, nelle Storie Naturali16, racconta che il pugile Demeneto, avendo sacrificato a Giove Attico un bimbo e mangiatone le interiora, venne trasformato in lupo e tale restò per nove anni; solo al decimo anno poté ritornare uomo e vinse la gara di pugilato a Olimpia.

Zeus e Licaone in un’incisione del Goltzius

Si voleva, con queste storie fantastiche, riportate anche da Pausania, e da Platone17, dare degli insegnamenti, cioè ammonire gli antropofagi Arcadi a lasciare quei vecchi e cruenti riti: infatti, per espiazione, in Arcadia, ogni anno, bisognava estrarre a sorte un membro della comunità, che veniva immerso nelle acque e ne usciva trasformato in lupo; così doveva vagare per nove anni in aspetto ferino e, solo se si fosse astenuto dall’antropofagia, al compimento del decimo anno, avrebbe recuperato le proprie sembianze umane. Nel bosco sacro dedicato a Giove, sul Monte Liceo, infatti, i primitivi fedeli compivano anche sacrifici umani, in onore della divinità;  Lykaion,  “territorio del lupo” era chiamato questo bosco sacro  che si trovava sul Monte Liceo, ad Atene  e, particolare interessante, proprio da questo bosco, dove Aristotele usava tenere le sue lezioni, deriva il termine “liceo” .

Secondo la mitologia greca, Febo e Artemide, divinità legate al sole e alla luna, erano stati partoriti da Latona trasformata in lupa18.  Anche il dio solare Apollo era venerato con il titolo di Liceo (Lykaios), analogamente allo Zeus Liceo venerato nell’Arcadia.

Il lupo è una figura centrale anche nell’antica Roma: infatti, “figli della lupa” si definivano gli antichi Sabini e proprio da una lupa, secondo la leggenda, erano stati allattati i due divini gemelli, Romolo e Remo, fondatori dell’Urbe.

Nell’antica Roma, a febbraio, si tenevano i  Lupercali, feste dedicate al dio Luperco, che si riteneva fosse il protettore delle greggi dall’assalto dei lupi19.  I Lupercali si tenevano nei pressi della grotta sacra a Luperco, che si trovava ai piedi del Palatino, ed era la grotta in cui, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo. Durante queste feste, i sacerdoti del dio, i  luperci,  nudi, correvano per la città e sferzavano con le loro verghe, rivestite da pelle di montone, le donne fertili che, una volta colpite, sarebbero state fecondate entro l’anno20. Tutte le celebrazioni a Roma si svolgevano in periodi particolari, sempre legati ai ritmi della terra e della vita agricola, per propiziare qualche evento particolare. Quella dei Lupercali era una festa tesa a propiziare la fecondità della terra, ma anche degli animali e degli uomini, alle porte della primavera, quando tutta la natura si risveglia.

Al dio arcaico Luperco venne a sostituirsi poi, nella Roma più evoluta e civilizzata, il dio Fauno21, anch’egli protettore delle greggi ed anch’egli un dio selvaggio ed agreste, creatura dei boschi,  simile al dio Silvano, protettore della foresta (silva). Questa natura selvatica del dio venne conservata anche durante l’età augustea, cioè nel periodo di massimo splendore e fioritura artistica e letteraria di Roma.

Però, in seguito a quel processo di penetrazione della cultura greca nella civiltà romana, noto come ellenizzazione, venne importato in Roma il corrispettivo greco del dio Fauno, cioè Pan, il dio pastorale dell’Arcadia22, dalle piccole corna e dal piede caprino, che spaventa le ninfe e se ne va in giro per il bosco suonando allegramente la sua siringa (strumento che, proprio da questa figura mitologica, verrà chiamato flauto di Pan). Essendo Innus, cioè colui che “penetra”, questo dio è sempre pronto ad accoppiarsi promiscuamente con tutti i frequentatori del bosco, ed essendo Fatuus, cioè colui che “parla”, può anche vaticinare, cioè preannunciare buona o cattiva sorte, proprio come un oracolo, a colui che lo sta ad ascoltare, come dice Virgilio nell’Eneide23.

I Lupercali furono una ricorrenza molto importante  e il culto del dio Fauno- Luperco era molto sentito, soprattutto nel Sud. Tale culto continuò ad esistere anche dopo l’avvento del Cristianesimo sia pure sotto altre mutate forme. Retaggio dei culti pagani, comunque, furono i sacrifici cruenti di molti animali e fra questi, il maiale, che venne sacrificato al cristiano Sant’Antonio Abate. Come afferma Giuseppe Interesse24, Sant’Antonio Abate divenne il corrispettivo cristiano del dio Fauno- Luperco e nel suo culto veniva immolato un maialino, come rito sacrificale. Il porco, infatti, era l’allegoria di Satana che, nel deserto dell’Egitto, aveva tentato l’umile anacoreta cristiano, ed immolare questo maiale significava scacciare Satana ed il peccato. Ma su questo particolare agiografico, che non è  irrilevante ai fini della nostra trattazione, torneremo in seguito.

Per quanto riguarda il nostro tema, la saga dei racconti sui lupi mannari è molto diffusa, nel Medioevo, soprattutto nei paesi nordici: una delle più antiche saghe sui lupi mannari è la islandese Volsung saga 25. In Francia, il tema dei lupi mannari è  presente nei Lais di Maria di Francia, per l’esattezza nel Lai du Bisclavret, lupo mannaro inventato dalla poetessa francese che ricompare in altre opere successive come il Lai de Melion, del 1300, di autore ignoto, il Roman de Renard e il Roman du Renard contrefait , del 1300, sempre nel ciclo bretone; e poi, nel ciclo britannico, nella Narratio de Arturo rege Britanniae et de rege Gorlagon lycanthropo e nella leggenda di Hugues26.

Il tema è anche presente nella tradizione celtica: infatti, proprio il patrono dell’Irlanda, San Patrizio, contende a San Natale Abate, pure molto venerato in quel paese, il primato di aver dato origine alla stirpe dei lupi mannari irlandesi. La leggenda è riferita dal Kongs Skuggsjo, o Specchio dei re, opera norvegese in forma di dialogo del 125027, in cui si racconta che San Patrizio, irritato dagli irlandesi che non volevano convertirsi alla religione cristiana, lanciò loro la maledizione di trasformarsi in lupi mannari, mentre Giraldo di Cambria, nella già citata Topographia Hibernica, attribuisce la stessa tremenda vendetta a San Natalis che trasforma gli abitanti di Ossory in licantropi.

G.Chiari 28 riporta numerosi casi di licantropia, verificatisi nel Cinquecento, in Prussia e in Lituania, in Italia, in Livonia, in Francia, ecc. Il  termine “lupo mannaro” deriva dal latino lupus homenarius, vale a dire “lupo che si comporta come un uomo”.

Ricordiamo che  Lupiae è anche l’antico nome della città di Lecce. Infatti, Luppiòti, (da Luppìu), venivano chiamati in passato gli abitanti di Lecce.

Il medico Galeno (131-200 d.C.) è autore di  un trattato scientifico medievale, Sulla melanconia, in cui, nel III Capitolo, suggerisce dei rimedi terapeutici contro la licantropia, che egli definisce morbo lupino. Così anche Marcello di Sida, medico del III secolo, Oribasio, del IV secolo (Synopseos ad Eustathium filium lib.novem, nel cap.VIII: De lycanthropia quum homines luporum naturam imitantur)Ezio di Amida, del VI secolo (Contractae ex veteribus medicinae tetrabiblos, nel cap.II: De insania lupina aut canina appellata, ex Marcello), Paolo di Egina, del VII secolo (De re medica, nel cap. III: De Licaone, aut lycanthropia), Attuario, del XIII secolo (Medicus, sive De metodo medendi libri sex, nel cap. I: De cerebri dorsique medullae affectibus), i quali tutti cercano di dare una spiegazione psicopatologica del fenomeno licantropico29.

A partire dal Cinquecento, il lupo mannaro viene del tutto identificato come una creatura infernale, un diavolo, se non addirittura lo stesso “Principe dei diavoli”, che assume l’aspetto di un lupo in una delle sue varie manifestazioni. Molte sono le leggende che nascono sui licantropi e, per tutto il Seicento, si manifesta una terribile “caccia alle streghe” nei confronti di questi uomini-lupo, chiamati versipellis da Petronio, nel Satyricon, ossia  uomini che erano ricoperti da folti peli e cambiavano il loro aspetto durante le notti di luna piena.

La figura del Lupo Mannaro entra massicciamente anche nella letteratura mondiale di tutti i tempi, in racconti, romanzi, poesie, fiabe (come non citare, su tutte, l’immortale Cappuccetto Rosso di Perrault), trattati scientifici o pseudo scientifici, atti di processi, ecc.

Nella letteratura italiana,fra tutti, basta citare  Luigi Pirandello e la sua novella Mal di luna. Anche Carlo Levi parla di lupi mannari nel suo romanzo Cristo si è fermato ad Eboli, ambientato proprio in quella regione che, secondo la leggenda, dai lupi prende il nome di Lucania.

Ma perché si diventava licantropi? Vi erano svariati motivi: innanzitutto, per una maledizione, scagliata da Dio, in seguito a comportamenti particolarmente efferati, oppure perché si dormiva a volto scoperto sotto la luna piena; fra le cause, anche la coincidenza della data del concepimento con quella della nascita, cioè se un bambino veniva concepito la notte dell’Annunziata, 25 marzo, e nasceva il giorno di Natale, 25 dicembre, quel bambino sarebbe diventato sicuramente un lupo mannaro, innanzitutto perché le fasi lunari del novilunio e del plenilunio erano considerate portatrici di variazioni negative sull’uomo, e poi perché nascere lo stesso giorno in cui è venuto al mondo Gesù Cristo veniva considerato un atto empio, quasi che si volesse arrecare un’offesa alla divinità: così, anche chi veniva al mondo durante una festività importante, come la Pasqua, il Capodanno o l’Epifania, profanava un tempo sacro; inoltre, si trasformavano in belve le donne adultere30; chi veniva bagnato dall’acqua licantropica, raccolta nelle orme lasciate da un lupo mannaro, oppure  per il morso di un altro licantropo (analogamente a quanto avveniva per i vampiri), oppure ancora perché il prete, durante il rito del battesimo, aveva dimenticato qualche parola, o per aver stretto un patto con il Diavolo che, in cambio dell’anima, consegnava una veste di lupo, indossando la quale si subiva la mostruosa trasformazione.

Numerosi e molto fantasiosi erano anche i rimedi, come colpire in fronte il licantropo con un forcone oppure, se si trattava di una veste stregata, bruciare questa veste, per impedire che  l’uomo-lupo potesse subire altre trasformazioni; per i bambini nati durante la notte di Natale, bisognava incidere ogni anno, per tre anni, il piedino sinistro con un ferro arroventato; accecare il licantropo con una forte luce, che il mostro odia, o ancora, per mettersi in salvo, salire su una rampa di scale, che al licantropo sono vietate31.

Ciò detto, spostiamo la nostra attenzione dal generale al particolare e circoscriviamo il nostro interesse al fenomeno della licantropia a Salve. Diciamo subito, a costo di scoraggiare quei pochi lettori che avessero avuto la pazienza di leggerci fin qui, che i risultati delle nostre indagini sono veramente scarsi. In materia di licantropia a Salve, l’unica fonte in nostro possesso, e quella che ha destato la nostra curiosità, è il Vocabolario dei dialetti salentini di Gerard Rohlfs32, che, nel I Volume, pag. 303, attribuisce a Salve il termine lupu sularu, come sinonimo e/o variante di lupu mannaru, e rinvia al termine puercu sularu, che attribuisce a Carovigno.

Ora, il termine lupu sularu indicherebbe un licantropo che, invece di subire le sue trasformazioni di notte, si trasforma di giorno; ma che collegamenti ci possono  essere tra il lupo e il porco e tra la città di Salve e quella di Carovigno?

Possiamo affermare che, dalle fonti letterarie in nostro possesso, non si può escludere il caso, sebbene rarissimo, di lupi mannari che subiscano la loro trasformazione anche di giorno. A partire dalla cultura greca, il lupo era considerato un simbolo solare. Nell’etimologia di lukos, è presente la radice lik, da cui deriva il nome luce, lux in latino; il lupo è colui che vede al buio e quindi dissipa le tenebre. Successivamente, il lupo venne considerato una creatura d’inferno e conseguentemente identificato con le tenebre, che da sempre sono appannaggio del regno del male. Ma la doppia natura del lupo, solare e ctonia, si conservò nella cultura di tutti i popoli e delle civiltà europee fino all’avvento del Cristianesimo; basti pensare che la tradizione popolare collocava nelle ricorrenze di San Giovanni e di Santa Lucia il momento in cui i licantropi uscivano dai loro nascondigli e andavano in giro a terrorizzare i villaggi e le famiglie.

Infatti, il giorno di Santa Lucia era, prima della riforma del calendario, la data in cui veniva collocato il solstizio d’inverno e nel giorno di San Giovanni era collocato il solstizio d’estate, due momenti di passaggio, fra una stagione e l’altra, e questi momenti di ambiguità erano ben simboleggiati dal lupo mannaro, essere razionale ed irrazionale, contemporaneamente malvagio ( pensiamo alle favole di Esopo, “Superior stabat lupus..”) ed educato (pensiamo alla bellissima leggenda del lupo di Gubbio ammansito da San Francesco).

Il Cristianesimo ha contribuito a dare maggior valore a questa ambivalenza del lupo, a questa sua doppia natura, celeste e terrestre, al tempo stesso benedizione e dannazione per il mitico licantropo. Lo stesso Rohlfs, nel Volume Terzo- Supplemento repertorio italiano-salentino del suo Vocabolario, a pag.990, riporta il termine lìco per “lupo” ma anche per “macchia dei colori dell’arcobaleno sul cielo che annuncia un tempo freddo (dal greco lùkos)”; sempre a pag.990, lica e licàra per “lupa” e a pag.991, licuddi per “lupacchiotto”.

I lupi erano presenti nel territorio di Salve fino all’Ottocento. Aldo Simone dà notizia dell’ultimo lupo presente a Salve, presso la masseria delli Rutti, oggi masseria Cantoro, poi ucciso da un suo amico di Gemini presso la macchia di Rottacapozza33.

Nella leggenda della maledizione del monaco del Convento di Salve  (Salve vuol dire salvati…), fra le varie offese rivolte al paese dal frate cappuccino crapulone e corrotto, c’è anche quella di stare “in società amichevole d’orsi, pantere e lupi”34.

Per quanto riguarda il maiale, -e qui l’associazione con il lupo- ritenuto dai cristiani ricettacolo dello spirito immondo del demonio, anche un maiale mannaro avrebbe, in teoria, potuto subire la sua trasformazione di giorno anziché di notte e diventare quindi sularu invece di lunaru.

L’associazione fra Salve e Carovigno rimane invece del tutto inspiegabile. Secondo il Simone, il Rohlfs fece le sue ricerche sul campo, nel capo di Leuca, dopo la seconda guerra mondiale, quindi negli anni Quaranta. Il Vocabolario dei dialetti salentini è stato pubblicato per la prima volta nel 1956 dall’Accademia Bavarese di Scienze e Lettere di Monaco di Baviera, ma le prime inchieste sul campo, nell’area della Grecìa salentina, sono state condotte nel 1922.  E’ certo che, in quel tempo, le condizioni di vita di un borgo contadino come Salve fossero veramente precarie; la miseria tanta e la scolarizzazione scarsissima. In una comunità rurale, credenze,molto più facilmente suggestionabile da false credenze, è probabile che il Rohlfs si sia imbattuto in tantissime storie e storielle fantastiche spacciate per vere, o addirittura intimamente ritenute tali, dai poveri salvesi di mezzo secolo fa, che egli aveva intervistato durante le sue ricerche. Distrutti dalla fatica nei campi sotto la canicola, i contadini spesso raggiungevano una spossatezza tale che li portava  anche ad avere delle visioni, chiamate mutate, provocate dai fumi e dai vapori che d’estate, soprattutto nelle giornate umide di scrirocco, si alzano dal terreno. Il Rohlfs però aveva anche degli informatori locali che lo accompagnavano nelle sue indagini in loco. Nel Volume Primo del Vocabolario, a pag.10, l’illustre studioso tedesco ringrazia i collaboratori che nelle tre province del Salento (Lecce-Brindisi-Taranto) lo avevano aiutato a raccogliere i materiali dialettali: i comuni più vicini a Salve che compaiono in quest’elenco sono Alessano, per cui ringrazia il Dott.agr.Germano Torsello, e Miggiano, dove ringrazia l’Ins.Aldo Nichil. Purtroppo tutti e due questi intellettuali sono scomparsi. Dalla nostra indagine condotta nei mesi di settembre e ottobre a Salve e nei paesi del circondario, presso molti anziani del luogo, non siamo riusciti ad  avere nessuna notizia in merito a storie di lupi mannari o sulari nella zona.  Forse dobbiamo pensare, molto più prosasticamente, che si sia trattato di una svista, un errore da parte dell’illustre linguista dovuto alla fretta nella compilazione della sua opera, nel senso che egli abbia scambiato il termine lupu solitariu (molto diffuso ancora oggi ad indicare un uomo solitario che se ne va ramingo per le strade del paese) con il termine sularu. Anche questa ipotesi non convince perché, se si fosse trattato semplicemente di un errore, di ricezione o di trasmissione, da parte del Rolhfs, egli non avrebbe argomentato sul lupo mannaro che si trasforma con lo zenith anziché con il nadir. Che si sia trattato di uno sbaglio è invece convinto Gino Meuli che, nella sua opera I Dialetti del Capo di Leuca35, giunta alla terza edizione, traduce il termine sularu con “solitario, misantropo” e ci dice che il termine era utilizzato dai nostri avi semplicemente come uno spauracchio per mettere paura ai bambini e convincerli  a stare buoni.

A pag.994, del Terzo Volume del Vocabolario, Rolhfs aggiunge lupu surdu per “sornione” e poi riporta “lupu lunaru” per licantropo, e lupu sularu sempre per “licantropo” ma anche presente nei comuni di Castrignano dei Greci e Scorrano.

Il campo si restringe: forse, i pochi depositari di qualche aneddoto sullo strano fenomeno, con i quali Rohlfs è venuto in contatto, sono deceduti e non ne hanno lasciato memoria neanche ai loro discendenti. Ma noi non vogliamo rassegnarsi a questa ipotesi e continueremo le nostre ricerche sperando che, nel prossimo futuro, possano dare risultati più soddisfacenti.

(pubblicato in “Annu Novu Salve Vecchiu” n.16, Salve 2006)

 


1 Sul pittore e scultore salvese Vito Russo, tra i fondatori del nostro annuario, insieme ad Antonio Vantaggio ed Americo Pepe, vedi: Francesco Accogli, Vito Russo: uno scultore che onora il Salento,in “Annu novu Salve vecchiu” 2001, pagg.119-128 e Paolo Vincenti, L’arte di Vito Russo, Paese Nostro, febbraio 2006, pag.18.

2 Antonio Vantaggio, Salve-miti e leggende popolari,  Vantaggio Editore,1995.

3 Paolo Vincenti, Tra gatte, orchi e folletti, in Annu novu Salve vecchiu, 2005, pagg.211-219.

 4 Collin de Plancy, Dictionnaire Infernal, in “Storie di lupi mannari,” a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco  Newton Compton, 1994, pagg.1048-1056.

5 Erodoto, Storie, IV Libro, 105.

6 Petronio, Satirycon, Cap.62.

7 Virgilio, Eneide, VII, 15-20.

8 Virgilio, Bucoliche, VIII, 95-99.

9 Pomponio Mela, De situ orbis, II,1.

10 Properzio, Elegie, IV, 5,14.

11 Pausania VIII, 2.

12 Licofrone, 481.

13 Igino, Fabulae, 176.

14 Ovidio, Metamorfosi, I, 163 e ss.

15 Dionigi di Alicarnasso, riportato da F.G.Lo Porto, Civiltà protostoriche in Puglia, in “Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli”, a cura di Michele Paone, vol.I, Galatina 1972, pagg.13-23.

16 Plinio, Naturalis Historia, VIII, 80-83.

17 Pausania, op.cit.,, e Platone, Repubblica, VIII, 15, 565 d.

18 AA.vv. La mitologia classica, Edizioni Studium Roma, 1987, passim.

19 Luperci, quindi, da lupum arceo, erano  coloro che difendevano dal  lupo.

20 AA.vv. La mitologia classica,op.cit., passim.

21 Ricordiamo che proprio a Salve molti studiosi hanno ipotizzato l’esistenza, nell’antichità, di un culto del dio Fauno  e di un tempietto dedicato a questa divinità in zona Fani, che, secondo una etimologia, peraltro molto controversa, deriverebbe il suo nome proprio dal dio Fauno, piuttosto che, come propongono altri, da fanum, cioè “fano, delubro”, ossia tempio pagano.

22 Jacqueline Champeaux, La religione dei romani, Il Mulino, 1998, pagg.31-32.

23 Virgilio, Eneide, VII, 81-106.  Ricordiamo che  il dio Pan e gli  altri mitologici abitatori della foresta popolano, a Salve, molte leggende sorte intorno alla zona dei Fani dove, in passato, numerosi contadini e pastori erano pronti a giurare di avere assistito al passaggio di quel colorato e rumoroso corteo di inquietanti esseri che attraversavano la foresta: oltre al Dio Pan, i satiri, le ninfe, che sono le sorelle greche delle linfe romane, le napee, che si trovano soprattutto nei piccoli boschi, e le naiadi,ossia le ninfe delle acque, che cantano nelle sorgenti (Servio afferma che non c’è sorgente che non sia sacra alle naiadi . Servio, Commento all’Eneide, citato da J.Champeaux, op.cit., pag.33).

24 Giuseppe Interesse, Puglia mitica, Schena editore 1983, pag.12.

25 Volsung saga ok Ragnarssaga Lojbroka, a cura di M.Olsen, 1908, capp.V-VIII.

26 G.Chiari, Il lupo mannaro, in  “Mal di luna”, di G.Lutzenkirchen, G.Chiari, F.Troncarelli, M.P.Saci, L.Albano, Newton Compton 1981, pag.62.

27 G.Chiari, op.cit., pag.63.

28 G.Chiari, op.cit., pag.64.

29 G.Chiari, op.cit. pagg.66-67.

30 Poche sono le figure conosciute di donne che si trasformano in lupi mannari, il che non esclude però che anche il gentil sesso possa subire la fatale trasformazione. Nella mitologia greca, la lupa Mormolice, nutrice di Acheronte, il fiume dell’Oltretomba, era considerata un demone femminile che aveva il potere di rendere zoppi i bambini disobbedienti (Ugo Bianchi, La religione greca, Utet 1975, passim) e numerosi sono, soprattutto nel Seicento, i casi di streghe, dette lupe mannore, che assumevano l’aspetto di lupi.

31 Storie di lupi mannari, op. cit., pagg.13-14.

32 G.Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, 1976.

33 Aldo Simone, Salve, storia e leggende, Milano 1981, pag.182.

34 A.Vantaggio, Salve-miti e leggende popolari, op.cit., pag.47.

35 Gino Meuli, I Dialetti del Capo di Leuca (Grafiche Panico 2006), pag.277.

Appunti dal Tacco, salutando agosto

di Rocco Boccadamo

 

E’ l’ultimo d’agosto e sono settantatrè gli anni di un’amica lontana, incontrata e conosciuta, su monti che in certo qual modo mi mancano, una quarantina di calendari fa.

Il suo aspetto, allora, era un po’ diverso, ma anche oggi sono evidenti i tratti di una bella donna. Auguri, C.

°   °   °

In tema di bellezza, questa volta riferita alla natura, qui c’è Castro, verosimilmente la più fulgida perla della splendida penisola salentina. Chi non la conosce, la ammira e l’apprezza?

Solo a immergersi nelle acque della sua rada si prova una sensazione paradisiaca, così come il semplice sguardo ai suoi tesori artistici e storici riempie e inebria gli occhi, la mente e il cuore.

E pensare che, appena mezzo secolo addietro, Castro era un nome quasi sconosciuto ai più, correva prevalentemente l’accezione dialettale di Casciu, piccola frazione con una marina raggiungibile a fatica, animata da alcune centinaia di poveri pescatori, i quali

Aradeo. Una minuscola, buffa guerra di santi ed idee

di Alessio Palumbo

Scriveva Verga nella novella Guerra di santi:

Tutt’a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt’intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradice fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all’ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.

Tutto ciò per l’invidia di quei del quartiere di San Pasquale, perché quell’anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c’era

Elezioni… di oggi e di ieri

 

di Alessio Palumbo

Seguendo, distrattamente, il dibattito sulle ultime elezioni amministrative, si ha la sensazione di aver vissuto un evento del tutto nuovo, vuoi per la rilevanza politica di questa tornata elettorale, vuoi per i mille episodi che l’hanno caratterizzata.

Il confronto milanese è forse quello più ricco di spunti, con accuse al vetriolo, menzogne, finti rom assoldati per fingersi seguaci di Pisapia, spauracchi islamici agitati più o meno quotidianamente, promesse roboanti, eccetera eccetera. Anche a Napoli non sono mancati gli scontri, le minacce, i comitati elettorali incendiati. Un confronto elettorale senza precedenti, secondo molti… ma ne siamo proprio sicuri?

Ai nostalgici dei bei tempi passati, delle epoche in cui i candidati erano dei galantuomini, seri ed onesti, possiamo ben dire che questi tempi, forse, non sono mai esistiti. Giusto per darne una prova, riportiamo alcuni episodi, legati ad un confronto elettorale di circa un secolo fa. Perdonerete il parallelismo un po’ semplicistico, se non azzardato, ma è un modo come un altro per riflettere e “consolarsi” di fronte  alle tante brutture della politica contemporanea.

Nelle elezioni politiche del 1913, le prime a suffragio quasi universale maschile, nel collegio di Gallipoli si confrontarono due uomini, per molti versi agli antipodi. Da un lato Antonio De Viti De Marco, originario di Casamassella, deputato

La vendetta di Otranto, ossia la guerra di Libia vista dal tacco d’Italia

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particolare di carta nautica del Mediterraneo (1561)

 

di Alessio Palumbo

Giorni fa, un bell’intervento di Rocco Boccadamo, comparso su Spigolature Salentine, rimarcava la curiosa coincidenza temporale tra i moti libici di questi giorni e l’avventura coloniale italiana in Tripolitania e Cirenaica, nel contesto della guerra italo-turca. Nell’ottobre di un secolo fa, le navi italiane “volsero la prora” verso Tripoli, lanciandosi in un’impresa che da mesi faceva discutere partiti, mezzi di informazione, circoli culturali e cancellerie di mezza Europa. L’Italia si accingeva a conquistare la tanto agognata quarta sponda. Ma come visse il Salento questo evento?
La guerra  contro l’Impero Ottomano per la conquista della Libia riscosse immediati consensi tra la popolazione e le classi dirigenti salentine. Le ragioni di questo fervore coloniale sono parecchie.

Innanzitutto presso le masse analfabete e ridotte in miseria, la Tripolitania fu presentata come la nuova terra promessa. Un vero e proprio Eden che avrebbe garantito ricchezza e prosperità. I salentini manifestarono rumorosamente tali aspettative: nei giorni immediatamente antecedenti alla guerra con la Turchia furono inscenate imponenti manifestazioni a Lecce, Gallipoli, Alezio, Aradeo, Casarano, Neviano, etc. Le piazze si riempirono per ascoltare i comizi dei politici nostrani e i battaglioni di soldati in partenza  furono salutati da ali di folla festante.

Nel ceto politico salentino, mentre i socialisti si scindevano tra favorevoli e contrari, i moderati, i conservatori ed i cattolici soffiarono sul fuoco dell’imperialismo, mettendosi a capo delle manifestazioni e delle iniziative di quei giorni. Gli stessi vescovi, nell’opera di graduale avvicinamento allo stato italiano, benedirono le bandiere dei reggimenti in partenza. Tuttavia, nel fervore cattolico verso l’impresa libica, c’erano degli elementi che andavano oltre la politica di riavvicinamento allo stato laico. Da un lato influivano gli interessi che la Santa Sede ed il Banco di Roma avevano impiantato nell’Africa settentrionale, dall’altro era riscontrabile un rinnovato spirito di crociata, di lotta al musulmano, che in alcuni ambienti cattolici di Terra d’Otranto non si era mai sopito.

Riportiamo, a testimonianza di ciò, una poesia composta in onore del conflitto libico dal poeta Angelo Perotti. In essa la guerra contro i turchi è presentata come una sorta di riscatto del Salento e, in particolar modo, di Otranto, che dagli ottomani era stata devastata.

 

Otranto è l’ora della tua vendetta!

T’eri ravvolta nel dolor tuo santo,

ma guardavi lontan come chi aspetta.

Più non piangevi sul tuo sogno infranto,

ma sapevi che il fior sarebbe nato

dal seme del tuo sangue e del tuo pianto.

Otranto, ed ecco che s’adempie il fato.

In gloria, in fede, in carità ti rende oggi

la patria quel che tu le hai dato.

Sciogli dal capo le abbrunate bende;

Lèvati, gitta il grido che tu sai,

alluma il faro su cui l’angue scende;

raccogli i cittadini e i marinai nella chiesa

che appar riconsacrata dalla gioia che tu diffonderai;

pianta sul colle di Minerva astata

la pia bandiera della tua fortuna,

dove il delfino dalla groppa arcata

morde la falce della mezza luna;

e incidi sul solenne monumento una parola: Italia.

E sia quest’una il motto del nuovo giuramento”.

 

 ( A. Perotti, Poesie, Bari, Laterza, 1926, p. 203).

Un occhio alla Madonna ed una gamba a Mussolini

 

di Alessio Palumbo

 

Renato Marra sedeva stancamente sulla seconda panca posta sul lato destro della piccola navata. Respirava con leggero affanno e rivolgeva il suo sguardo al viso bianco di una Madonna di pietra, che lui stesso aveva scolpito cinquant’anni prima.

Lo faceva tutte le sere. Terminata la funzione pomeridiana, spazzava il marmo lucido della navata, cambiava l’acqua ai pochi vasi da fiori, se c’erano fiori, e spegneva la rare candele accese. Nel buio pieno dell’odore della cera che si raffreddava, sedeva lì, stendendo la stampella di legno sulla panca e fissando con l’unico occhio ancora aperto quella statua paffuta di Madonna. Da quel momento in poi tutto ciò che lo circondava spariva e, se qualcuno fosse entrato per chiamarlo o chiedergli qualcosa, avrebbe faticato non poco a scuoterlo.

Dalle piccole finestre della chiesa, la luce del sole calante penetrava di traverso e il pulviscolo vorticava in fasci luminosi che andavano assumendo tonalità rossastre. Seduto sul suo scranno, oramai immerso nella zona d’ombra del tempio, Renato non pregava. Non lo faceva da tanto. Si limitava solo a fissare in silenzio quel viso che aveva modellato con scalpello e raspa quando aveva poco

Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie

 

 

testi e foto di Giovanna Falco

 

Osservando la facciata della chiesa del Gesù, nota anche come del Buon Consiglio in via Francesco Rubichi a Lecce[1], si può notare come i dodici bassorilievi che decorano il fregio di coronamento dell’ordine superiore rappresentano i simboli della Passione di Cristo. Il fregio, ispirato all’ordine dorico, è costituito da tredici triglifi solcati non da tre, ma da cinque scanalature (probabile riferimento alle Cinque Piaghe di Cristo: le ferite al costato, nelle mani e nei piedi) e da dodici metope dove sono simbolicamente ritratte le scene salienti della Passione di Cristo, riprese dal Vangelo di Marco.

Con il prezioso contributo di Giovanni Lacorte sono riuscita a individuare i dodici simboli: Due palme (entrata in Gerusalemme); vessillo con la scritta SPQR e fusti d’albero sullo sfondo (arresto di Gesù); braccio con un sacchetto e una campana sullo sfondo (i trenta denari di Giuda); due profili di uomo (il bacio di Giuda); il gallo (Pietro rinnega Gesù); corona e canne incrociate (scherno dei soldati);

Taranto. La cripta del Redentore

   

di Daniela Lucaselli

Un’emergenza archeologica: la cripta del Redentore, la più antica sede del culto cristiano di Taranto, situata nel Borgo Nuovo, dopo circa trent’anni in stato di abbandono,  è stata aperta alla cittadinanza nel mese di dicembre 2010, grazie all’impegno di associazioni cittadine, storici ed archeologi.

L’antico monumento post-classico, ubicato in Via Terni, è una pregevole testimonianza delle origini cristiane, un  prezioso documento e bene del patrimonio storico artistico della  città bimare.

La piccola chiesa ipogea necessita di un consistente ed urgente intervento di consolidamento e restauro, per rinsaldare la ormai compromessa staticità. La volta è purtroppo sfondata e invasa da tubature di servizio.

Fonti letterarie del IV secolo attestano che Taranto, città portuale, fu proprio in questo periodo aperta ad ogni innovazione in campo religioso e il Cristianesimo trovò il terreno fertile per affermarsi. La cripta in esame rappresenta a proposito un primo esemplare monumentale.

Originariamente la cripta ipogeica era  una tomba a camera di età  classica, situata esattamente dove prima sorgeva la grande necropoli della Taranto greco-

La chiesetta della Madonna del Curato a Ugento

 

di Luciano Antonazzo

Fra le più antiche chiese di Ugento é da annoverare quella denominata “Madonna del curato”.
Sorge su una roccia scoscesa sul ciglio della stradina omonima, all’incrocio fra via Barco e la vecchia strada per Gemini, e chi ha cercato finora di tracciarne un profilo storico ha dovuto arrendersi davanti alla mancanza assoluta di notizie; oggi però grazie al rinvenimento da parte nostra di una breve relazione redatta in seguito ad una visita pastorale effettuata nei primi decenni del 1600 siamo in grado di fare un po’ di luce sulla sua origine e sulla sua reale intitolazione.

La piccola chiesa ad aula rettangolare é suddivisa in tre sezioni con copertura a spigolo e sul lato sinistro le é addossato un piccolo locale con volta a botte che era adibito ad abitazione “del curato” ciò che sarebbe secondo l’opinione corrente all’origine della sua denominazione.

Sulle sue possibili origini e per cercare di spiegarne l’intitolazione scrisse Mons.

A Diso, fra arte e devozione popolare

 

 

Viaggio nel Salento, a Diso, fra arte e devozione popolare nel saggio di don Adelino Martella

di Paolo Rausa

Un viaggio alla ricerca delle tradizioni perdute e ritrovate da don Adelino Martella, parroco di Diso nel Salento, provincia di Lecce, che ci invita a intraprendere con il suo ultimo libro ”Il Miracolo e… I Miracoli dei Santi di Diso”, corredato di dati storici, appendici e note di carattere socio-religioso. Don Adelino ci accoglie nella piazza e ci invita a visitarela Parrocchiale dedicata ai cosiddetti “Santi nostri di Diso”, i Santi Apostoli Filippo e Giacomo, a cui la Chiesa è dedicata, il Santo “con la barba” che reca la croce del martirio e il Santo “senza barba”, scaraventato giù dal Tempio e percosso dal bastone. Ci conduce all’interno, desideroso di farci ammirare la navata centrale restaurata “integralmente, senza aggiunte” – ci dice –, ripristinando i colori originali dell’altare e della balaustra antistante in pietra, delle pareti e delle nicchie nonché delle tele realizzate nel settecento da maestranze locali – fra cui quella,

Andy Warhol sbarca ad Otranto

 

 

di Stefano Manca

Dal 27 maggio al trenta settembre, una mostra di cinquanta opere dedicata all’eclettico artista americano

Dopo il successo delle mostre di Mirò, Picasso e Dalì, ad Otranto sbarca Andy Warhol. Circa cinquanta opere provenienti da collezioni private italiane prodotte dall’artista statunitense con la tecnica meccanica della serigrafia saranno visitabili nel Castello Aragonese di Otranto da ieri al 30 settembre 2012.

“Andy Warhol – I want to be a machine”: è il titolo della mostra, curata da Gianni

La cappella di santa Caterina nella chiesa dei Francescani Neri di Specchia

 

di Stefano Cortese

Il complesso dei Francescani Neri a Specchia Preti, fondato secondo la tradizione da san Francesco reduce dall’oriente[1], presenta ancora oggi -oltre ai locali del convento e un frantoio ipogeo con i suoi torchi alla calabrese- una chiesa conventuale che custodisce pregevoli altari e frammenti decorativi bassomedievali.

In prossimità del lato destro dell’ingresso nel 1532 Antonio Mariglia fa costruire una cappella a pianta quadrata e coperta da una volta a crociera, espediente che ricorre -sia per la posizione che per la tecnica costruttiva- nella cappella dei Tolomei nel convento di santa Maria la Nova a Racale, collocabile qualche decennio prima[2]. Un altro confronto per l’ubicazione della cappella e datazione può essere effettuato con la cappella dell’Annunciazione nel santuario della Madonna della Strada a Taurisano[3], dove anche le tematiche affrescate sembrano essere di gusto francescano.

Il ciclo decorativo della cappella di Specchia risulta essere complesso: lo sguardo viene catalizzato dall’episodio frontale, ovvero Gesù con la croce che incontra

“la stella del Sud”, Elena Picciolo

 

L’ARTE PITTORICA: ELEGIA DEI COLORI IN TERRA SALENTINA, CON “LA STELLA DEL SUD”, ELENA PICCIOLO

 

di Piero Barrecchia

Tra i viaggi già compiuti in terra salentina, spesso ho indugiato dinanzi a vetuste opere architettoniche, molte volte ho contemplato, estatico, la volta celeste, il manto marino, le distese auree delle biade o quelle purpuree dei papaveri.

Sovente ho ritrovato il sacro nel profano e viceversa.

Non sempre, però, ho rallentato i miei passi dinanzi alle fucine dei colori di cui è disseminato il nostro territorio.

Non per farne una colpa all’antichità che sovrasta i miei interessi, ma per darle giusta importanza e parola, espressa nelle interpretazioni personali dei nostri pittori salentini, che leggono il paesaggio, lo interiorizzano, lo “intellegono”  e lo materializzano.

La loro missione è così ardua da intersecare i vari gusti, da interessarsi ai vari usi, da utilizzare vari materiali, da interrogare i progenitori, da tradurre i primigenii linguaggi nell’idioma corrente.

Donando, esclusivamente donando!

Tutto ciò con un pennello e la tavolozza dei colori nelle loro mani e l’ardente cuore nella loro mente!

Ho quindi deciso di porre rimedio a tale mia mancanza ed ogni volta che ne avrò l’occasione interrogherò le loro opere e sovente mi vedrete tra le righe dell’aratro

Liborio Riccio a Muro Leccese

A Muro Leccese si restaura il Sacrificio di Abramo di Liborio Riccio

La vicenda storico-artistica dell’opera

 

di Giancarlo Brocca e Santo Venerdì Patella

 

 

Recentemente sono iniziati, a Muro Leccese, i lavori di restauro della grande tela raffigurante il Sacrificio di Abramo, opera  del pittore e sacerdote murese Liborio Riccio (1720-1785), realizzata per la chiesa matrice della sua città natale.

Il quadro è di dimensioni considerevoli: misura quasi 30 metri quadrati, sui quali è campito uno degli episodi più  affascinanti dell’Antico Testamento.

L’opera è attestata per la prima volta nel 1754, nell’inventario redatto durante la visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Mons. Caracciolo.

Si sa invece con certezza che fino al 1768 la tela aveva una collocazione diversa dall’attuale ed era posta dietro l’altare maggiore tra i due grandi quadri di Serafino Elmo: Eliodoro cacciato dal Tempio e La danza di David davanti

Le panchine

Alessandro Giolo, “Panchina nel parco”

Simbolo di stanchezza e di riposo, di pausa, di sosta e di attesa, ma anche di solitudine e di problematiche esistenziali

 

di Nino Pensabene

Simbolo di stanchezza e contemporaneamente di riposo è la panchina. Simbolo di sosta, di pausa e anche di attesa: attesa per un gioioso appuntamento o nella speranza che qualcuno passi e gratifichi – sia pure con un semplice sorriso – la persona che, seduta e attraverso particolari atteggiamenti o comportamenti , rende vitale quella solitudine di cui la panchina vuota potrebbe esserne la rappresentazione.
Simbolo anche di problematiche esistenziali è la panchina, e a proposito – pensando appunto a tutte le problematiche dalle quali per forza maggiore si lascia coinvolgere – si può ben dire sia un personaggio non soltanto simbolico nella vita degli uomini, ma reale, addirittura familiare, alla stregua quasi del proprio letto, di una sedia o di una poltrona di casa.

Chi può asserire che per un motivo o per l’altro non ha mai avuto rapporti con una panchina? Oh, se parlassero le panchine dei giardini pubblici! E superficialmente si potrebbe pensare che hanno condiviso soltanto stanchezze fisiche facendosi donatrici di riposo, in certi casi supplendo alla propria sdraio o al proprio letto. Ma quante stanchezze psichiche hanno placato?! Chissà quante persone in un momento di disperazione si sono “buttate” su una panchina, rialzandosi poi e riprendendo serenamente il proprio cammino nella vita!

Io le panchine le paragono a dei confessionali, confessionali religiosi e nello stesso tempo laici, confessionali simbolico-spirituali e confessionali operativamente materiali, trasformati, cioè, in campo operativo del “peccato” stesso. Come infatti avranno silenziosamente risposto alle “Ave Maria” di qualche pia donna, sedutasi per godersi in pace il suo rapporto spirituale col Cielo, così avranno fatto finta di non sentire tutti i pettegolezzi espressi fra comari o le bestemmie di qualche povero infelice che non sapeva – poverino – dove sbattere la testa.
Se potessero parlare le panchine, chissà quante cose avrebbero da dire! Quanti segreti da svelare! Spaccio di droga, ideazioni o complotti di furti, speculazioni politiche o commerciali, ricatti a carattere sessuale o di qualsiasi tipo – a noi inimmaginabile -, meditazioni di vendetta o aperte promesse… e – a proposito di promesse – c’è da chiedersi a quante false promesse matrimoniali hanno assistito e a quante felicemente andate in porto attraverso una convivenza “eterna”.

Monumenti sono le panchine, e nel pronunciarne la parola mi tornano in mente i “mezzi busto” e le panchine di Villa Borghese a Roma: a quante tenere effusioni e a quanti squallidi rapporti sessuali hanno assistito nelle buie serate invernali quando ancora la lontananza del boom economico non consentiva un’autonomia riparata facendo dei parchi tanti teatri di incontri illeciti? Conosceranno tutte le parole dolci e tutte le bugie, conosceranno tutte le posizioni del Kamasutra e le scelte sessuali di parecchia parte di umanità. Prostitute, gay, travestiti, coppiette innamorate, amanti furtivi e amanti dichiarati, e tutti, tutti tutti con le proprie problematiche esistenziali al di là del momento godereccio, non escluse quelle contingenti della necessità di un rapporto protetto o di un coito interrotto o quelle involontarie – anzi non desiderate – di una eiaculazione precoce o di una squallida impotenza.

Povere panchine, macchiate di lacrime, di sangue, di sperma, di sputi e di bestemmie! Ma per contrasto, beate panchine, complici e disinteressate sensali di unione di solitudini, testimoni di sorrisi, di risate, di festosi giochi infantili, d’innocue confidenze e di sincere parole d’amicizia, di speranza e d’amore!

Vanno amate le panchine. E vanno amate non solo come utilissimo bene pratico collettivo, ma perché, come tali, è come se fossero parte integrante delle esperienze del vissuto quotidiano, è come se fossero un tutt’uno col nostro prossimo, è come se ci rappresentassero, controfigura di ognuno di noi in quanto membri dell’umanità potenzialmente usufruente. E non sembri assurdo se invito, passando davanti a una panchina vuota, a rivolgere lo sguardo con tenerezza, con affetto: chissà se qualche volta non ha accolto le membra di una persona a noi cara o non ha raccolto i suoi dolori o le sue gioie. Chissà se non è intrisa di fluidi a noi congeniali perché trasmessi da persone che avevano le nostre stesse caratteristiche, le nostre ansie o problematiche varie. Chissà se non voglia invitarci a sedere per trasmettere, attraverso un nostro rilassamento psichico, una positività, un incoraggiamento a perseverare nel bene o raccontarci che la vita è una lotta e va affrontata con coraggio.
Sì sono mute le panchine, ma parlano e perciò capisco che qualche volta possano anche inquietare, tanto che egoisticamente, e in contrasto con quanto ho testé consigliato, ci si vorrebbe girare dall’altra parte per non essere coinvolti e quasi plagiati o addirittura “infettati” da tutto il loro passato che può essere sì di bene e di gioie, di promesse mantenute e di glorie avverate, ma anche di sconfitte e di trame perverse.
In ogni caso fanno parte del tempo che va e che non si sottrae alla sua trasformazione in verità storica, perché mentre gli uomini nascono e muoiono, esse, nella maggior parte, rimangono – ignorate testimoni – ad aggiungere note su note ad ogni transitare, comprese quelle delle nostre eventuali fragilità. E a proposito di fragilità e di confessionale, quale amico più sincero che offra tanta discrezione, anzi fedeltà, ai segreti implicitamente confidati e sia pure consistenti solo in delle delusioni o stanchezze?
Rifacendomi ancora al “vissuto quotidiano” e ai sentimenti appena citati, quelli cioè a cui muove una panchina vuota – amore e inquietudine –, mi piace ora proporre all’immaginazione del lettore una piazza o meglio il viale o lo slargo di un giardino pubblico dove sono collocate parecchie panchine.
Un vero e proprio studio antropologico si potrebbe fare, in quanto aggiungendo alle soste rappresentative della vita sociale a largo raggio il ribaltamento scenografico della vita familiare, ovverosia trattando ogni panchina “occupata”come fosse anche l’interno di un’abitazione, si avrebbe la dimensione oggettiva della realtà esistenziale degli “occupanti”, dei vari tipi di menage o, andando più nello specifico, dei vari momenti d’incontro interpersonale.

La giovane madre che gioiosamente porta i bambini al parco o tutta la famiglia riunita per un pranzo a sacco; un gruppo di amiche che al pari del salotto di casa si scambiano qui le loro confidenze e pareri; gli anziani genitori che discutono fra di loro sul comportamento dei reciproci figli; la giovane coppia che litiga portando a galla la necessità di un divorzio; nonni che nostalgicamente raccontano ai nipotini le loro esperienze giovanili; donne frivole che parlano di moda o di chirurgia estetica e donne meno frivole che, lavorando a maglia, vicendevolmente si scambiano ricette della propria cucina o antichi rimedi per procacciarsi la buona salute.
Insomma ho voluto immettere visivamente il lettore in tutto questo più o meno festoso bailamme per potere meglio far risaltare il concetto di “panchina vuota” nell’immaginifico delle abitazioni e di riflesso della vita privata di ognuno di noi: non l’allegrezza ma la malinconia, non la solitudine ma il deserto, non la vita ma la morte, e questo quando il vivere da soli non è dovuto a una scelta da parte di una persona giovane ma condizione coatta vissuta da un uomo anziano che ha perduto ogni affetto.

A questi uomini io penso al mattino quando, a conclusione del mio trekking, mi fermo nel verde piazzale della “Grottella” [1] per fare qualche esercizio appoggiato alla spalliera di una panchina vuota. A costoro, penso, e a quanti su quella panchina si sono nel tempo seduti portando con sé il dolore di uomini crocifissi o la sofferenza con la quale, da cireneo, hanno contribuito a portare la croce altrui.
E non sembri ridicolo a nessuno se congedandomi, prima di salire in macchina per tornarmene a casa, metaforicamente trasferisco sulla spalla di tutte queste creature la manata di saluto che affettuosamente batto sulla spalliera di quella vuota panchina. Una pacca onesta e sincera che, di rimando, mi piacerebbe venisse da qualcuno data idealmente a me come a un uomo senza volto e senza storia, come a un uomo simbolo di tutti gli anziani a cui la morte ha tolto il bene terreno più prezioso: l’amore della propria compagna.

[1]
Santuario Santa Maria della Grottella, situato fuori dell’abitato di Copertino.

(Le immagini qui rappresentate sono prese in prestito da Internet)

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Contadini e colonìa. Il matrimonio con la terra

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO DI FINE OTTOCENTO

LA PRESA DI POSSESSO DI UNA COLONIA VISSUTA ALLA STREGUA DI UNO SPONSALIZIO

LA NSURATA CU LLA TERRA (IL MATRIMONIO CON LA TERRA)

 

di   Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) I contadini che ottenevano in colonia un pezzo di terreno credevano di entrarne in legittimo possesso non al momento che apponevano il loro segno di croce in calce al contratto, ma solo quando davano di mano a dissodarlo. Nella loro atavica diffidenza (per molti aspetti giustificata), venivano infatti a male interpretare la dicitura contrattuale che stabiliva i termini di affidamento annuale “dalla prima dissodatura effettuata a raccolta ultimata”, scorgendovi non l’onestà di una puntualizzazione, bensì un furbo raggiro del padrone: se nel frattempo avesse trovato un colono migliore, avrebbe potuto rescindere il contratto, appigliandosi al fatto che non c’era stata ancora un’effettiva presa di possesso. In sostanza alla colonìa attribuivano le stesse regole del matrimonio, che se pure contratto a ccarta tenta sobbra’a lla comune e a ccampanieddhru sunàtu intra’a lla chésia, ci no ppassà a ffuécu ti saccone no ccuntàa pi ffattu (a carta scritta [ufficialmente] al Comune e a suono di campanello [celebrato] in chiesa, se non passava a fuoco di materasso [se non veniva consumato] non contava per fatto [poteva essere sciolto]). Per cui, pur di non trovarsi in simili circostanze, erano capaci di ammazzarsi di fatica, sicuri che, di fronte a un

L’importanza del carrubo e dei suoi frutti

Dalla còrnula alle cellule staminali

di Armando Polito

So benissimo che competere con la poesia è impresa disperata e solo un incosciente come me poteva “integrare”, a suo modo, il recentissimo, magistrale post di Rocco Boccadamo sull’argomento. Chiedo, perciò, anticipatamente scusa ai lettori per la mia pazzia.

 

Còrnula in dialetto neretino (ma la voce è in comune con tutto il territorio leccese ad esclusione di Tiggiano dove si usa còrnala, con Oria e Mesagne per quello brindisino e con Pulsano per quello tarantino) è il nome (albero e frutto) del carrubo1. Si intuisce facilmente come la nostra voce si collega strettamente alla forma del frutto che è un baccello lungo 10-15, prima verde pallido, a maturazione marrone scuro, con superficie esterna molto dura (direi cuoiosa), con polpa carnosa e zuccherina e semi scuri, ovoidali, molto duri: esso, infatti, ha la forma curva di un corno e còrnula non è altro che un suo diminutivo2. Nativa delle aree orientali del Mediterraneo (numerose sono le attestazioni nei testi micenei della sua importanza economica; la carruba veniva utilizzata nell’antico Egitto per alimentare il bestiame e preparare un vino, costituì i pasti ascetici di san Giovanni Battista nel deserto e quelli del figliuol prodigo ridotto a guardiano di porci), fu poi diffusa dai Greci in Italia e poi dagli Arabi sulle coste del nord Africa e in Spagna.

Il perdurare della sua importanza economica particolarmente in Sicilia è attestato dalle parole del geografo arabo Idrisi (XII secolo): Carini, terra graziosa, bella e abbondante produce gran copia  di frutte d’ogni maniera ed ha un vasto mercato e la più parte de’ comodi che si trovano nelle grandi città, [come sarebbero] de’ mercati [minori], de’ bagni e de’ grandi palagi. Si esporta da carini gran copia di mandorle, fichi secchi, carrube, che se ne carica delle navi e delle barche per varii paesi.3

Anche i semi hanno avuto il loro momento di gloria quando venivano utilizzati come unità di misura ponderale molto ridotta: caràto, infatti, deriva dall’arabo qīrāt, a sua volta dal greco keràtion (piccolo corno, carato), diminutivo del keras di nota 1: tutto ciò perché si riteneva che i semi del carrubo avessero un peso estremamente uniforme (circa 1/5 di grammo)4.

Poi, come per tante altre specie, il declino. Ancora oggi, però, è possibile leggere sull’etichetta di alcuni prodotti alimentari tra i componenti quale addensante la farina di carrube (per inciso va detto che la stessa farina, non contenendo glutine, è perfettamente tollerabile dai celiaci).

Non tutti sanno, infine, che il carrubo, rispetto alle altre dicotiledoni, ha uno strato di tessuto particolare (cambio) costituito da cellule meristematiche o totipotenziali, cioè in grado di dare origine alla crescita di qualsiasi organo della pianta, diffuse e non localizzate solo all’apice del germoglio e alla punta della radice. Queste cellule hanno le stesse proprietà di quelle che permettono alla coda della lucertola di ricrescere, alla zampa della salamandra di riformarsi (nell’uomo questa capacità naturale è limitata al solo fegato). Insomma, dopo il radar (o, almeno, la sua idea) rubata ai pipistrelli, l’attuale ricerca sulle staminali umane che, però, nella ricostruzione di un organo hanno bisogno di essere indirizzate alla moltiplicazione con appropriate procedure di coltivazione che, com’è intuitivo, implicano, proprio perché “violente”, che il risultato non sia indenne da insidie che, magari, si manifesteranno dopo decenni. Mi chiedo: non sarebbe meglio rinunziare al risultato immediato e che fa business (ipocritamente camuffato, per lo più,  dall’urgenza terapeutica) e concentrare tutti gli sforzi per carpire al carrubo (ma il discorso vale anche, nel mondo animale, per la planaria e per altre specie) il segreto naturale (sicuramente genico) che gli consente di rigenerare spontaneamente un suo ramo marcito?

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1 Dall’arabo xarrūb, a sua volta dall’ebraico kharuv; il nome scientifico è Ceratonia siliqua (Ceratònia è la trascrizione latina del greco keratonìa=carrubo, a sua volta da kèraton o keras=corno; silìqua in latino designa il baccello dei legumi e in unione all’aggettivo Graeca in Columella e a Syriaca in Plinio designa il carrubo).

2 Credo che nasca come neutro plurale (còrnula) di còrnulum=piccolo corno,  attestato in Pomponio Porfirione (III° secolo d. C.), a sua volta dal classico cornu=corno. Còrnula, dunque, all’origine dovrebbe essere stato un collettivo (per cui l’albero avrebbe significato insieme di corna), per assumere poi, in virtù della desinenza, il genere femminile singolare.

3 In M. Amari-C. Schiaparelli, L’Italia descritta nel “Libro del re Ruggero” compilato da Edrisi, Salviucci, Roma, 1883

pag. 40.

4 Da Wikipedia: Sarebbe stato scelto il seme del carrubo perché è facile constatarne la differenza dimensionale ad occhio nudo; sono state fatte delle prove con delle persone che hanno stimato le dimensioni di vari semi, confrontandoli con un seme campione, con il risultato che il massimo errore di valutazione rientrava nel 5%. La variazione del peso di semi di carrubo presi alla rinfusa arriva al 25%.  ll carato fu rapportato e definito con precisione solo nel 1832 in Sudafrica, il luogo di maggior produzione ed esportazione di diamanti del mondo, dove ne fu stabilita la connessione con il sistema metrico decimale: pesando con una bilancia a braccia uguali più semi di carruba ed eseguendo poi la media aritmetica dei valori ottenuti ne derivò un valore pari a circa 0,2 grammi. Successivamente la quarta Conférence générale des poids et mesures del 1907 adottò come valore del carato (detto carato metrico) il peso esatto di 0,2 grammi.

I ricci di mare, gustosissima pietanza del Salento

 

 

di Massimo Vaglio

Nel Salento, ma pure in molte altre zone d’Italia, per distinguere i ricci commestibili da quelli non commestibili, si parla comunemente di ricci maschi e ricci femmine, ove da retaggio popolare, i commestibili sarebbero, il più delle volte, i ricci maschi, Ma per questa volta non è, come vedremo, una questione di becero maschilismo.
I più perspicaci, invece, indicano come commestibili i ricci femmina,
deducendo per logica, tale circostanza dal fatto che, se le parti edibili sono uova, le uova le fanno le femmine. Invero, si tratta di due specie ben distinte, rispettivamente Arbacia lixula, quella non commestibile e Paracentrotus lividus, quella di interesse gastronomico della quale, badate bene, la parte che consumiamo, sono

Come preparare un delizioso nocino

di Massimo Vaglio
Il noce (Juglans regia),  è un albero originario dell’Asia, ma naturalizzato in tutta Europa ove è stato introdotto sin dall’antichità, di grandi dimensioni, può raggiungere anche i trenta metri d’altezza.

Seppure il clima del Salento non sia perfettamente confacente
alla biologia di questa nobile essenza che prediligerebbe terreni
profondi, leggeri, freschi e fertili giacenti ad almeno qualche
centinaio di metri di altitudine, il paesaggio di questa subregione è
abbastanza caratterizzato dalla presenza di grandi, frondosi e
produttivi esemplari.

Generalmente, un po’ d’ovunque si trovano piante isolate la cui produzione viene spesso destinata all’autoconsumo. Solo nel territorio di Casarano e di qualche altro comune del quadrante sud orientale della Provincia, questi alberi sono frequenti anche in gruppetti di una certa consistenza e la loro produzione alimenta tradizionalmente una discreta nicchia di commercio al minuto.

I suoi frutti, ovvero le noci, sono il veicolo della riproduzione di queste
piante ed in quanto tali al loro interno c’è il potenziale dell’intera
pianta. Costituiscono una fonte eccellente di acidi grassi essenziali
(omega 3, 6 e 9), vitamina E, proteine e minerali. Hanno un elevato
contenuto calorico e ciò alimenta spesso un ingiustificato ostracismo
nei loro confronti, infatti, un ampio studio epidemiologico condotto
sui 30.000 statunitensi, ha dimostrato che l’obesità era meno comune
fra chi consumava abitualmente noci, in quanto le stesse producono un
forte senso di sazietà, lo stesso studio ha evidenziato che il consumo
di noci era associato ad un sensibile grado di protezione nei confronti
degli attacchi di cuore.

Sin dall’antichità sono considerate un buon alimento per il cervello. Probabilmente, questa convinzione è legata all’aspetto del gheriglio, che è simile al cervello, oltre che allo straordinario profilo nutrizionale della noce. Tra l’altro vengono loro riconosciute proprietà digestive, antinfiammatorie, depurative, ipoglicemizzanti e ipotensive.

Le foglie sono utili contro gli eczemi, il mallo è un buon antisettico e viene utilizzato in cosmetica come abbronzante e come tintura per i capelli.

Dalla macerazione in alcol delle noci verdi si ottiene un famoso liquore, il nocino, la cui produzione fonti certe rimandano già al 1300 : … acqua di noci verdicanti, qual si da a febbricitanti di terzana, del peso di quattro o cinque oncie, con salute… questa l’origine, però visto che piaceva e faceva bene anche senza la febbre di terzana, la medicina divenne liquore.

Esistono moltissime versioni di questo liquore sia italiane che straniere e diversi libri che le codificano e che spesso ne fanno risalire la paternità alle bellicose tribù inglesi dei Picti. Nelle varie ricette si rilevano spesso marcate differenze, ma tutte concordano che le noci vengano raccolte la notte di San Giovanni tra il 23 e il 24 giugno, solstizio d’estate.

La tradizione vuole infatti che questa sia la notte dei più grandi sabba, ossia raduni di streghe e che il noce sia la pianta magica per eccellenza attorno alla quale si compiono i sortilegi.

La  produzione del nocino si giova un po’ in tutta la Puglia di una grande tradizione che raggiunge punte di eccellenza in particolare nella zona della Murgia Barese ove operano anche alcuni rinomati laboratori artigianali.

 

Preparazione NOCINO I
(consigliato)

1 Litro di Alcol, 22 Noci, 1/2 stecca cannella, 7 chiodi
di garofano, 500 grammi di zucchero, 150 ml di acqua

Lavate sotto l’acqua corrente le noci, asciugatele con un canovaccio. Dividete ogni noce  in quattro parti e mettetele in un capiente vaso di vetro.
Aggiungete l’alcool,  la cannella e i chiodi di garofano. Lasciate 40
giorni  le noci in infusione agitando energicamente il vaso ogni
settimana. Trascorsi  i 40 giorni, fate sciogliere lo zucchero in acqua
tiepida. Filtrate il nocino dalle spezie e dalle noci e versatelo nello
sciroppo di zucchero intiepidito. Mescolate il nocino fino a che lo
sciroppo di zucchero e l’alcool non i siano amalgamati del tutto.
Travasate il nocino nelle bottiglie e conservatelo al buio almeno fino
a dicembre.

NOCINO II (più leggerino)
Ingr. noci verdi perfette n. 17, alcol a 90° l 1, acqua g  600, zucchero g 600, cannella gr 5, chiodi di garofano g 5.
Pestate le noci, raccolte naturalmente la notte di San Giovanni, ponetele in un vaso di vetro a chiusura ermetica con tutti gli altri ingredienti, mescolate con un cucchiaio di legno sino a quando tutto lo zucchero sarà sciolto. Lasciate macerare al sole per 30 giorni, ritirate il vaso di notte e agitatelo più volte al giorno.
Passato il tempo richiesto filtrate attraverso un telo strizzando bene
il residuo. Lasciate decantare almeno una settimana prima di
imbottigliare. Lasciate riposare almeno altri tre mesi prima di
imbottigliare.
N.B. Il particolare andamento climatico di questa bizzosa
primavera ha indotto un sensibile ritardo nella vegetazione di molti
fruttiferi, noce incluso, per cui riteniamo che, eccezionalmente, la
raccolta delle noci per preparare un ottimo nocino possa essere
procrastinata almeno per tutta la prima decade di luglio.

Terra d’Otranto e i suoi gustosissimi cocomeri

di Massimo Vaglio

English: Watermelon - Close up Italiano: Angur...

English: Watermelon – Close up Italiano: Anguria – Dettaglio (Photo credit: Wikipedia)

Cocomero o anguria? Secondo gli Accademici della Crusca usando il termine anguria, si incorre nel classico errore di ipercorrettismo, ovvero si sceglie il termine che suona meglio in italiano, ignorando, che è proprio quello, il termine dialettale.
Cocomero, viene infatti percepito dai più come termine infantile e giocoso, e dai puristi della Lingua, persino come come grezzo e volgare. Viene quindi, più comunemente, per un motivo o per l’altro, scelto il più serioso e settentrionale, anguria dal Greco tardo angùrion, che vuol dire cetriolo, un ortaggio derivato da una ben diversa specie botanica.

Superando questa pur doverosa precisazione lessicale, passiamo ad approfondire la conoscenza con questo immancabile frequentatore delle tavole estive.

Appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee, specie Cucurbita citrullus, Schrad,  originaria dell’Africa Centrale, è una specie annuale a ciclo primaverile estivo, comunemente coltivata per i grossi frutti acquosi. Ha fusto prostrato, sarmentoso con ramificazioni molto lunghe e foglie palmate lobate.

Citrullus lanatus (Thunb.) Matsum. & Nakai

Citrullus lanatus (Thunb.) Matsum. & Nakai (Photo credit: adaduitokla)

Il frutto, è un peponide di forma sferoidale oppure ovale, più o meno allungata che arriva comunemente a pesare venti chili, con buccia liscia, di colore dal verde chiaro al verde scuro, uniforme, marezzato o striato. La polpa è rossa, zuccherina, con semi appiattiti più o meno grandi, ovali, di colore marrone, grigio, nero o screziato, da qualche decennio sono state selezionate anche delle varietà a polpa gialla.
Esige un clima temperato caldo, per cui la messa a coltura inizia generalmente a fine inverno, per anticipare la produzione, la coltivazione viene iniziata sotto dei piccoli tunnel di film  plastico trasparente, scoprendo le piante solo quando le temperature si saranno definitivamente mitigate e stabilizzate. Il cocomero predilige terreni profondi, ma non umidi, sciolti o di medio impasto.

In Italia, essendo ormai state quasi completamente soppiantate le varietà locali (che sopravvivono solo in qualche orto familiare) la coltivazione su vasta scala si effettua con varietà ibride, derivate generalmente da quelle di provenienza americana.

Per quanto riguarda il Salento, la produzione dei cocomeri è stata, come tutti gli autori georgici attestano, sempre molto abbondante e qualificata nell’ Inchiesta Agraria (monografia circa lo stato di fatto dell’agricoltura nella Provincia di Terra d’Otranto), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del Regno, il 24 dicembre del 1878, così si legge: “(…) i meloni d’acqua che per ogni dove si coltivano e principalmente nei Comuni del Circondario di Brindisi:
Brindisi, Francavilla, Mesagne e Oria. Di Gallipoli: Alezio, Aradeo,
Galatone, Gallipoli, Nardò, Neviano, Seclì e Supersano. Di Lecce:
Arnesano, Carmiano, Cellino, Cutrofiano, Galatina, Lecce, Lequile,
Leverano, Monteroni, Novoli, San Cesario, Squinzano e Torchiarolo. Di
Taranto: Leporano, Manduria, Pulsano, Sava e Taranto. Di detta
produzione se ne fa un discreto commercio, esportandosi ancora una
parte di essi fuori della Provincia”.

Albino Mannarini nella sua “Orticoltura Salentina” Tipografia Editrice Leccese Bortone e Miccoli, 1914 così ne parla: “Di pari importanza a quella del Mellone è la coltura del Cocomero. I centri di maggior produzione, ed anche per bontà del prodotto, sono verso il Gallipolino, quali: Galatina, Sogliano, Cutrofiano ecc. E’ quivi che il Cocomero assume proporzioni tali da destare meraviglia. Il peso medio di ciascun capo si aggira intorno ai 8 e 13 Kg. ; e in alcune terre fresche, e con buone colture, si hanno delle singolarità di frutti che vanno sino ai 20 Kg come massimo. (…) Le razze coltivate sono: Citrullus vulgaris Schrad communis, coltivato ovunque. (…) Citrullus vulgaris Schrad, microspermus niger et microspermum flavus, distindi dall’ortolano locale col nome vernacolo di Sargeniscu a semenza tunisina mora e Janca”.

Le due varietà per così dire autoctone salentine di Cocomeri
appellate genericamente Sargenischi avevano forma tondeggiante e si
differenziavano per la colorazione della buccia una chiara ed una più
scura e per il colore dei semi. La coltura tradizionalmente veniva
effettuata nei cosiddetti “orti di chiesura” estivi, orti di rotazione,
e veniva loro destinato quasi sempre il primo posto nella rotazione.

I terreni che gli venivano destinati dovevano essere comunque freschi e profondi, poiché non essendo quasi mai possibile l’ irrigazione,
venivano ugualmente bene se piantati con un sesto molto ampio e
sottoponendo con cadenza quasi quotidiana il terreno a sarchiatura o
meglio a strisciatura, una pratica agricola oggi scomparsa, che
consisteva nell’interrompere, smuovendo superficialmente il terreno,  l’evaporazione dell’acqua immagazzinata in profondità attraverso le
piogge, a ricordarlo un antico distico contadino recitava: na
strisciata, ale quantu na ‘ndacquata (una strisciatura, vale quanto un’
innaffiatura).

Sovente questa coltura compariva nei terreni profondi la stagione seguente allo svellimento di un vecchio vigneto, infatti questa coltura dava risultati davvero eccellenti su terreni vergini o che non erano stati interessati per molti anni dalla coltivazione di altri ortaggi. Dopo il secondo conflitto mondiale, giunsero dagli Stati Uniti, nuove pregevoli varietà soprattutto a frutto allungato: fra le prime la Klondike Sriped Blue Ribbon comunemente nota come Nastro Azzurro, la Fairfax e la Charleston Gray, subito adottate con il generico appellativo di “Miluni Americani”, davano frutti enormi, scenografici e ottimi sotto il profilo organolettico per la buccia sottile, la polpa liquescente, dolcissima e dalla consistenza croccante, qualità che venivano esaltate da una pur breve permanenza in ghiacciaia. Ma come spesso avviene, una grande qualità mal si concilia con le esigenze di mercato, lo scarso spessore della buccia e la sua turgidità li rendevano fragili, a maturazione sovente si crepavano fragorosamente da soli, per non parlare delle rotture che avvenivano durante le operazioni di carico e di trasporto, ragion per cui vennero presto soppiantate da varietà più resistenti al trasporto in primis la Crimson Swet tipicamente striata e dalla forma tondeggiante, e la Sugar Baby quasi perfettamente sferica, liscia, ma più piccola e dall’elegante livrea verde cupo.

Nel frattempo, ma si è già alla fine degli anni “60, nuovi sistemi di coltivazione irrompono tumultuosamente. La possibilità di emungere l’acqua dal sottosuolo con pompe azionate da semplici motori a scoppio alimentati a petrolio lampante, e l’introduzione della coltura protetta tramite l’utilizzo delle coperture con film plastici, portarono questa coltura su più ampia scala, specie nella produzione di primizie con cocomeri della varietà Sugar Baby, che presto andarono ad integrare un’importante corrente d’esportazione soprattutto verso la Germania, migliaia di autotreni e vagoni ferroviari partirono in quegli anni carichi di cartoni con l’eloquente stampigliatura “wassermelone – product of Italy”.

English: Watermelon - Close up Italiano: Angur...

English: Watermelon – Close up Italiano: Anguria – Dettaglio (Photo credit: Wikipedia)

I pionieri nella produzione intensiva, furono soprattutto alcuni lungimiranti coltivatori di Galatone, seguiti ben presto da numerosi coltivatori di Nardò e Galatina, furono scavati parecchi pozzi lungo tutte le aree litoranee dove la falda acquifera era più raggiungibile, ma si trattava di un’agricoltura nomade bisognosa sempre di terre vergini, che vennero ricavate anche bruciando le ultime grandi distese di macchia e spianando non pochi cordoni dunali. Le rese per ettaro, con un investimento di circa 4000 piante, su questi terreni erano comunque molto basse, di rado raggiungevano i 300 ql. Le superfici, però si potettero ampliare solo quando, grazie all’innovazione tecnica e all’introduzione di moderne potenti pompe ad asse verticale, fu possibile emungere grandi volumi d’acqua anche da notevole profondità e venne sperimentata anche la coltivazione di nuove varietà come la Jubilee, la Dumara e di altre ancora più particolari come la Asahi Miyako, la Janosik e la Yellow Dolly Pikaciù a polpa gialla.

Intanto si cominciavano a vedere i frutti della globalizzazione con la concorrenza della produzione di altri paesi del bacino del Mediterraneo, così, nonostante la sempre migliore qualità e quantità della produzione salentina, avente come capofila il territorio di Nardò, molti anni, troppi, si ricorda ampia parte della produzione rimasta a perire nei campi.

Oggi la coltura interessa diverse migliaia di ettari, concentrati
soprattutto nel territorio di Nardò, assurta ormai a incontrastata
capitale italiana dei cocomeri (e qui, sarebbe indubbiamente suonato
meglio il termine angurie n.d.r.), seguono i territori dei comuni di
Galatina, Copertino e a lunga distanza quelli di diversi altri comuni
della parte occidentale del Salento. Oggi, essendosi notevolmente
ridimensionata l’importanza della produzione primaticcia, si punta all’
ottenimento di produzioni di grande qualità, soprattutto estetica, per
uniformità, perfezione morfologica e grandezza dei frutti, qualità
ovviamente associate anche a delle accettabili caratteristiche
organolettiche della polpa per gradevolezza, consistenza e colorazione.
Per questa ragione, ai cocomeri oggi vengono riservate prevalentemente terre fertili e profonde che grazie (si fa per dire) alla scoperta dell’innesto su dei particolari ibridi di zucca resistenti alle diverse malattie, possono essere reinvestiti a cocomeri per diversi anni di seguito.

Ormai da decenni anche nel Salento il monopolio delle sementi è detenuto dalla multinazionale Asgrow, Gruppo Monsanto, che oggi mette a disposizione dei coltivatori nuovissime ed estremamente produttive varietà ibride tipo Crimson Swet, ma dai frutti leggermente più allungati, quali: Eletta F1, Melania F1, Sentinel F1…, quasi sempre innestate su un ibrido di zucca, messo a punto sempre dalla stessa azienda sementiera, attraverso l’incrocio della Cucurbita maxima con la Cucurbita moschata; con questo sistema si ottengono rese medie per ettaro che si aggirano intorno agli 800 ql.

Dal punto di vista nutrizionale, il cocomero è un vero toccasana perché, nonostante sia costituito per il 98 % d’acqua, contiene zuccheri, principalmente fruttuoso, sali minerali come potassio e magnesio utili a combattere la spossatezza estiva, betacarotene, e licopene, antiossidanti che ostacolano l’invecchiamento cellulare e aiutano il sistema immunitario. Inoltre, è un alimento dissetante, diuretico e disintossicante, indicato in caso di ipertensione, ritenzione idrica, cellulite e gonfiore alla gambe, il tutto con un apporto calorico di appena 30 calorie per 100 grammi di prodotto che, ma i benefici non si fermano qui, gli scienziati della Texas A&M University, hanno scoperto come il cocomero sia particolarmente ricco di citrullina, sostanza che ha lo stesso effetto del Viagra.

La citrullina, trasformandosi nel corpo nell’amminoacido arginina, fa rilassare i vasi sanguigni favorendo le prestazioni amorose e la salute del sistema circolatorio.

Gelo di mellone (ricetta siciliana)
Ricavate da un cocomero la polpa rossa, eliminate i semi e
passatela al passaverdura. Unite 100 g di  zucchero ed 80 g di amido
per dolci per ogni litro di succo e portate ad ebollizione per 4-5
minuti e comunque tenete sul fuoco sino a quando il liquido accenna ad
addensarsi. Lasciate raffreddare e unite, sempre per ogni chilo di
prodotto una ventina di grammi di cioccolata fondente e altrettanti di
zucca candita  e di pistacchi, il tutto diligentemente tritato, infine
aromatizzate a piacere con un po’ di cannella in polvere o con un senso
di maraschino. Mescolate bene, poi versate il prodotto ottenuto in uno
o più stampi e lasciateli in frigo per qualche ora. Oltre che essere
consumato come fresco dessert, il gelo può anche essere impiegato per
farcire delle originali crostate.

Granita di cocomero
Ingr. : una piccola anguria, 250 g di zucchero, 250 ml d’acqua, il succo di mezzo limone.
Fate sciogliere a fuoco lento lo zucchero con l’acqua in modo
da ottenere uno sciroppo, fatelo raffreddare e unitelo alla polpa di
anguria, frullate il tutto e aggiungete il succo di limone. Versate il
tutto in una vaschetta di acciaio inox e ponetela in freezer per circa
due ore mescolando ogni mezz’ora con l’ausilio di una spatola di legno
in modo da frantumare la granita e farle incorporare aria. In questa
fase potete unire a piacere dei chicchi di caffè. Servite in coppe
ghiacciate.

I “coccioli” tarantini ossia le murici

di Massimo Vaglio

Con il termine di còccioli, cuzzìuli o cuècciuli tarantini nel Salento si appellano genericamente le murìci d’entrambe le due specie più comuni, ossia le murici propriamente dette (Murex trunculus) e le murici spinose (Murex brandaris). Tutte e due le specie ma, in particolare le prime, sono ampiamente presenti nei mari pugliesi, su quasi tutti i tipi di fondale sino ai 100 metri di profondità, ma è il Golfo di Taranto a mantenere da millenni il primato di questa produzione.

Questi molluschi che appartengono alla classe dei Gasteropodi hanno alle spalle una storia illustre e  millenaria. Da esse infatti veniva ricavata la preziosissima porpora di cui già si parla nella Bibbia e nelle opere di Omero e sulla cui fabbricazione ampie testimoniante hanno lasciato Plinio, Aristotele, Plutarco, Teofrasto ed altri. Questa serviva a colorare, tra i vari filati, anche la cosiddetta “lanapenna” ricavata dal bisso della Pinna nobilis.

Il “laticlavio”, ossia la toga indossata dai senatori romani, era orlata dall’alto in basso da una fascia di porpora. Indossavano toghe orlate di porpora anche i notabili anziani, ed i sacerdoti, mentre toghe interamente di porpora, erano indossate, sul carro di trionfo, dai generali vittoriosi nelle grandi parate ufficiali.

Taranto era, a quanto pervenutoci, una delle maggiori produttrici di porpora e su questa industria trasse molta della sua fortuna. Tanto è stata notevole questa produzione che ancora nella seconda metà del XVIII secolo, il conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins, viaggiatore svizzero, testimonia la presenza a Taranto di una strana collina :- ….Sempre in queste vicinanze, di là dal convento Alcanterino, esiste una collina, chiamata Monte Testaceo, consistente nella massima parte di avanzi di bivalvi e di mùrici. Si vuole che la celebre tinta purpurea di Taranto fosse stata anticamente preparata in questo punto, e che la piccola cisterna quadrata lì presso esistente, fosse usata per la preparazione del prezioso liquido.- 

 Con la scoperta della cocciniglia (kermes) prima ed infine dell’anilina, l’uso della porpora decadde, ma si incrementò l’utilizzo gastronomico delle murici che, perduta la preziosità e decaduto la sorta di monopolio a cui erano state sino ad allora assoggettate, tornarono ad essere solo un cibo gustoso ed alla portata di tutti.

Le murici, non sono oggetto di allevamento, anche se spesso vengono raccolte e mantenute dagli allevatori di mitili nelle zone in loro concessione, per poi ripescarle e porle in vendita nei periodi dell’anno più propizi.

 Ancora oggi, in Puglia sopravvivono delle particolari forme di pesca

Roberto Ferri, pictor Apuliae

Al confine tra la realtà e il sogno. Il tarantino Roberto Ferri reinterpreta i grandi della pittura

di Marcello Gaballo

 

Con piacere ospitiamo in queste pagine poche note che riguardano un validissimo pittore, giovane conterraneo, che sta attirando grande attenzione da parte della critica e degli appassionati d’arte.

Un nuovo modo di fare pittura, che se pur guarda all’antico, si sta imponendo per l’inedita iconografia, per le incredibili invenzioni di pose e soggetti, per i temi che esulano dai tradizionali status symbol.

L’artista è Roberto Ferri, nato a Taranto nel 1978, diplomato al Liceo artistico “Lisippo” di Taranto nel 1996. Inizia a studiare pittura come autodidatta e, trasferitosi a Roma nel 1999, approfondisce la ricerca sulla pittura antica, dall’inizio del Cinquecento alla fine dell’Ottocento; in particolare si dedica alla pittura caravaggesca e a quella accademica (David, Ingres, Girodet, Géricault, Gleyre, Bouguereau, ecc.), la cui influenza resterà per tutta la produzione.

Nel 2006 si laurea con 110 e lode all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove per tre anni studia con Gaetano Castelli e l’ultimo anno con Francesco Zito.

Un sito e un blog illustrano nel dettaglio la brillante carriera e i rapidi successi del giovane artista, che esordisce nel 2002 partecipando alla mostra collettiva Animali e Dei (galleria “Il Labirinto” di Roma). L’interesse dimostrato dai visitatori e dagli esperti lo incoraggia a realizzare l’anno dopo una prima personale, che si tiene al Centro d’arte contemporanea “Luigi Montanarini” a Genzano di Roma, con un titolo che già fa pregustare quella che sarà la sua produzione: Roberto Ferri e il sogno del Parnaso.

Sempre nel 2003 ancora una mostra, anche questa con un titolo che preconizza: Angeli, Demoni, Miracoli e Arconti, che si tiene alla galleria “Il Labirinto” di Roma. La grande capacità espressiva che riesce a conferire alle affascinanti figure, siano esse demoniache o benefiche, reali o fantastiche, gli procureranno un positivo apprezzamento che diverrà ancor più consistente con l’altra mostra personale, quella del 2004, alla medesima galleria, che denomina l’appuntamento artistico con un significativo: Roberto Ferri e la Luce del corpo.

Molti galleristi lo chiamano e se lo contendono e in effetti diviene rapidamente protagonista di importanti eventi nazionali ed europei. Nel 2007 risalta nella collettiva “FOEMINA. Il seno nell’arte e nella medicina”. Non passa molto tempo e presso l’ Istituto Italiano di Cultura a Londra si inaugura ancora una sua personale: Roberto Ferri – Beyond the senses / Oltre i sensi, in cui dà la miglior prova della sua arte con l’eccezionale psicologia di tanti corpi, le cui nudità traboccano di significati materiali e spirituali.

Tutto è ormai pronto per il clou e nel luglio dello stesso 2007 ecco la grande personale, al Vittoriano capitolino, poi a Rimini, a Castel Sismondo, alla Biennale d’arte del 2009, agevolmente incluso nelle  ”CONTEMPLAZIONI. Bellezza e tradizione del nuovo nella pittura Italiana contemporanea”.

Sue opere sono presenti in importanti collezioni private di Roma, Milano, Londra, Parigi, New York, Madrid, Barcellona, Miami, San Antonio (Texas), Qatar, Dublino, Boston, Malta, e nel castello di Menerbes, in Provenza.

Nell’immediato Roberto è impegnato nella realizzazione delle stazioni della Via Crucis nella cattedrale di Noto, che saranno poi presentate alla prossima biennale di Venezia.

Una carriera in evoluzione rapida, che fa comprendere come, guardando le sue bellissime tele, Roberto non sia un semplice riproduttore di corpi. Pur nella perfetta esecuzione, ottimamente esaltati nelle forme anatomiche da studiatissimi giochi di luce, sono più vivi che mai. Le sinuosità e la levigatezza delle pelli muliebri, i rilievi delle muscolature virili sono resi con variazioni tonali che ormai caratterizzano l’inconfondibile pittura di Roberto Ferri. E caso mai non bastasse la plasticità e la solidità di quei corpi, ecco che contribuiscono a renderli sempre più vivi e passionali gli sguardi eloquenti in pose surreali, che senz’altro derivano da profonde meditazioni esistenziali, quasi a difendersi dalla follia dell’attuale o dall’arte sfiorita.

Roberto Ferri è candidato a diventare un importante esponente della pittura e sono fermamente convinto che ben merita di essere appellato “pictor Apuliae”. Sia la nostra terra ben lieta di avergli dato i natali, certo che la Puglia tutta, Taranto in primis, voglia annoverarlo tra i figli prediletti che si sono particolarmente distinti nel delicato e competitivo mondo dell’arte.

Impossibile riportare le qualificate e positive critiche rivolte alla produzione sempre più apprezzata. Ci limitiamo perciò a brevissime estrapolazioni delle numerose pagine a lui dedicate da critici d’arte tra i più in vista, rimandando al sito dell’Autore per ogni approfondimento:

…La pittura di Roberto Ferri non è legata alla realtà contingente, anzi, ne è per lo più avulsa. L’occhio impietoso di Ferri, infatti, non si ferma sulle epidermidi (sia pur setose e morbide quelle femminili, virilmente muscolose quelle maschili); ma le scava e ricava dall’ombra, come uno scandaglio psichico penetrante dell’anima. Il suo amore per l’antico non si spinge alla contraffazione dei grandi del passato; l’emozione potrebbe giustificarlo, ma egli vuole trovare la grande pittura della Storia all’interno della sua anima d’artista.

È il suo pennello ad esplorare un mondo nascosto e inquieto, assetato di quella magia che è illusione di verità e realtà della finzione; vale a dire di quel sortilegio acronico che è alla base di ogni arte. Come un Dyoniso ebbro, egli cerca nell’ebbrezza della pittura il tramite per varcare il confine tra la realtà e il sogno, tra il fluire del tempo e l’eternità metafisica… (Maurizio Marini).

…La poetica edificata da Roberto Ferri conosce non pochi punti di contatto con Giorgio de Chirico; nonostante ciò, l’universo immaginativo del giovane pittore si presenta come abissalmente diverso da quello del Grande Metafisico. Come de Chirico, Ferri è, in parte, un nemico giurato del Modernismo e delle Avanguardie Storiche; rifiuta, infatti, la ricerca di novità linguistiche e formali ad ogni costo. Con l’artista del “dio ortopedico”, Ferri ritiene che ogni opera d’arte degna di questo nome traduce in forme plastiche un annuncio, un messaggio, un credo filosofico ricco ed articolato. L’arte, dunque, presuppone una dimensione mitica ed è creazione di nuovi miti oltre che manipolazione di quelli già offerti dalla civiltà classica. Come dicevamo, solo in parte rifiuta però il lascito delle Avanguardie Storiche; non accetta l’antireferenzialismo, ma si accosta al Surrealismo del quale condivide il visionarismo estremo, l’onirismo e l’irrealismo di fondo… (Robertomaria Siena).


 Deposizione, olio su tela, 2010

 


Ringraziamo di cuore il maestro Roberto Ferri per aver concesso di pubblicare in esclusiva su queste pagine le riproduzione di alcune sue opere;  ci preme sottolineare a chi ci legge che la riproduzione di esse a qualunque titolo e con qualunque mezzo è riservata all’Artista.

Tutto, ma proprio tutto, sul fico d’India

fichi d'india

Il munifico fico d’India

di Massimo Vaglio

Il fico d’India, è una pianta appartenente alla famiglia delle Cactacee e al genere Opuntia, caratterizzato da una moltitudine di specie, la maggior parte delle quali d’interesse ornamentale. La specie più importante dal punto di vista colturale e alimentare, è l’Opuntia ficus indica Mill., della quale si distinguono diverse cultivar in base alla colorazione della polpa del frutto (cui corrisponde in genere la colorazione della buccia) bianca, gialla, rossa.

Si conoscono, anche se poco diffuse, delle varietà a frutto senza semi (apirene) e la Burbank (Opuntia inermis), caratterizzata dall’assenza di spine. Le cultivar più diffuse nel Salento sono: quella a polpa gialla, molto produttiva; seguita a ruota dalla varietà a polpa rossa e a distanza dalla cultivar a polpa bianca.

La pianta risulta da un aggregazione di articolazioni carnose costituenti le pale o cladodi, queste, in periferia hanno consistenza succulenta e risultano tenere e appiattite, man mano, avvicinandosi alla base,  acquisiscono consistenza fibro-legnosa, ingrossano e costituiscono il fusto. Le foglie, sono appena visibili e nascono alla base di varie gemme sparse sulla superficie delle pale. Intorno alle gemme sono disposti gli aculei, o setole, più o meno lunghi e rigidi. Dalle gemme situate sui

La cattedrale e la città di Nardò verso i 600 anni (1413-2013)

Diocesi di Nardò-Gallipoli

Città di Nardò

Fondazione Terra d’Otranto

Seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Civitas

Un’importante ricorrenza ricade nel 2013, anno in cui si celebrerà il seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e contestualmente della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

Tale ricorrenza rappresenta senza dubbio una singolare e preziosa occasione per trarre dalla memoria storica elementi sicuri per un rilancio del desiderio di futuro, sia sul piano sociale che su quello pastorale.

L’anniversario ricade l’11 gennaio 2013, data in cui fu emessa  la relativa bolla dal pontefice Giovanni XXIII nell’anno 1413, documento che si conserva in originale presso l’Archivio Storico della Diocesi di Nardò-Gallipoli.

Nei mesi scorsi è stata avviata la fase di organizzazione delle celebrazioni da tenersi nel prossimo anno e si è insediato il Comitato che organizzerà gli eventi. Componenti sono il parroco della Cattedrale di Nardò e vicario episcopale per i Beni culturali ecclesiastici, Mons. Giuliano Santantonio, delegato dal vescovo Mons. Domenico Caliandro; don Eugenio Bruno, parroco in Copertino; il sindaco di Nardò Avv. Marcello Risi e il presidente del Consiglio Comunale Dott. Antonio Tiene, in rappresentanza della Città di Nardò; il Dott. Marcello Gaballo, presidente della Fondazione Terra d’Otranto, che per prima ha richiamato l’attenzione sulla ricorrenza.

Il programma di massima, suscettibile di miglioramenti ed integrazioni, prevede una terna di manifestazioni da tenersi tra il 10 e il 12 gennaio 2013, con grande risalto per la solenne Messa di ringraziamento che sarà celebrata dal vescovo nella Basilica Cattedrale il giorno dell’anniversario.

Nei mesi successivi saranno presentati alcuni volumi che illustreranno l’arte, la spiritualità ed i protagonisti della chiesa neritina nel corso dei secoli, prevedendo altresì un convegno di studi che chiarisca finalmente le vicende della cattedra episcopale, grazie al contributo di eminenti studiosi.

Diverse saranno anche le manifestazioni a carattere civico, che sottolineeranno l’importante evento che caratterizzerà il prossimo anno e che prevedono il coinvolgimento dell’intera città, con particolare attenzione alla popolazione scolaresca di ogni ordine e grado.

Un pomeriggio a Poggiardo, anzi no, a Vaste!

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Da tempo mi ero ripromesso per qualche ragione che non rammento più di andare a visitare Poggiardo e quel meriggio assolato, che non volevo occupare con impegni ed incombenze varie per nulla allettanti, mi sembrò ideale per mettere in atto il mio proposito e fuggire così da ogni altra occupazione. Lasciai dunque, portandomi appresso la mia indolenza, il mio paese, Copertino, alla volta della mia destinazione con tra le labbra un toscano ammezzato (il mio inseparabile compagno di viaggio) ed in bocca ancora il gusto di un robusto caffé rigorosamente made in Salento preso al mio solito bar prima della partenza.

Dopo più di mezz’ora in auto sulla sempre deserta SS 664 (di questa solitaria strada che corre in mezzo al nulla al centro della nostra penisola dovremo tornarne a parlare prima o poi, io la trovo fantastica e devo confessare che ogni volta che la percorro mi sento come un novello Jack Kerouac maledettamente on the road!) confluii sulla Maglie-Leuca e presi lo svincolo per Poggiardo. Non ricordo più quanta strada feci una volta uscito dallo scorrimento veloce, so per certo invece che appena entrato a Poggiardo decisi di non fermarmi subito nel paese ma proseguire per iniziare la mia visita dalle frazioni. Era mia intenzione infatti fare le cose per bene, ossia con ordinato rigore logistico e completezza, onorando dunque con una visita prima le appendici di questa cittadina per poi potermi dedicare lungamente al cuore di essa.

Ebbene, vi anticipo sin da ora che le cose non andarono affatto come previsto tant’è che ancora oggi, a distanza di due anni o forse tre dal pomeriggio di cui vi parlo, devo ammettere di non aver mai visitato Poggiardo, nonostante che la determinazione con cui avevo messo in atto il mio proposito quel pomeriggio possa avervi condotto a credere il contrario.

Si sa, la vita è bella perché tocca con l’imprevisto, disordina i nostri progetti contaminandoli col l’imprevedibile e ci conduce così a vie che non avremmo altrimenti mai immaginato di percorrere, a strade che non avremmo mai conosciuto, a incontri che non avremmo mai fatto, mai ricordato, mai potuto narrare. Bisogna accogliere gli imprevisti che il caos degli eventi accidentali, erompendo con la sintassi indecifrabile dell’imponderabile e dell’indeterminato nei nostri intenti, ci dona. Il mistico san Giovanni della Croce era solito dire in proposito «per raggiungere il punto che non conosci, devi prendere la strada che non conosci»; è proprio il caos che regala gli accessi alle vie sconosciute che altrimenti secondo le nostre intenzioni non percorreremmo, così è proprio la contingenza casuale degli accadimenti che mi ha regalato gli eventi e le piccole esperienze di cui vi parlerò.

Attraversata dunque per una via esterna la tanto ambita Poggiardo, alla quale potei offrire solo qualche frettoloso sguardo sugli squarci che tra le abitazioni si aprivano verso il centro vero e proprio della cittadina, proseguii per alcuni chilometri, dopo i quali ritrovai un cartello che mi invitava a svoltare a destra, aVaste, la prima delle varie frazioni che nei miei piani avrei dovuto visitare.

reperti messapici nel museo di Vaste

Dopo duecento metri ero già a destinazione. Mi fermai subito perché sulla mia destra vi era un giardinetto pubblico con al centro un baretto ed accanto a questo un pannello informativo che non avrei sperato di trovare, uno di quelli che riportano le mappe del luogo. Parcheggiai e andai prima a prendere un caffé nel bar, dove, oltre al barista, vi erano due signori. Nella completa indifferenza di questi individui nei miei confronti bevvi frettolosamente l’amata bevanda e uscii, appostandomi accanto al cartellone informativo per dare un’occhiata ed orientarmi velocemente.

il “tesoretto” di Vaste

Non c’era da smarrirsi per la verità, ero praticamente quasi già al centro di Vaste, avrei solo dovuto percorrere i duecento o trecento metri di strada che mi separavano dal punto in cui ero per giungere fino ad una piazza che potevo da lì già intravedere e che costituiva tutto il centro vero e proprio. Realizzai che stando così le cose ci avrei impiegato molto poco a visitare quel luogo e avrei così risparmiato tempo per la visita al pezzo forte. Ma questi miei calcoli si rivelarono, come vi ho già anticipato, del tutto errati.

Fu mentre meditavo su queste cose accanto a quel cartellone che, trascinandosi chissà da dove con una pachidermica lentezza, era giunto lì anche un uomo vecchissimo che mi si avvicinò, magro, vestito con panni troppo pesanti per quella calda giornata di primavera e troppo larghi, munito persino di un cappello. Lo salutai, come si usa sempre fare in luoghi così poco affollati, ed egli mi rispose con un lungo quanto criptico monologo fatto di stanche parole biascicate e per me, soprattutto a quel primo impatto, del tutto incomprensibili. Fu così che conobbi Geremia – scoprii molto più tardi il suo nome. Dopo che quello ebbe terminato il suo monologo – nel corso del quale io ero intento solo a commiserare me stesso per l’impiccio di quell’incontro da cui non sapevo come svincolarmi senza essere brusco o maleducato –  fece una pausa di cui stavo per approfittare per congedarmi salutandolo, quando quello mi chiese, stavolta in modo sufficientemente comprensibile per instaurare un dialogo, da dove venissi. Gli risposi e quando egli udì il nome del mio paese sorrise e ricominciò a vomitare la sua tiritera di parole che non riuscivo nuovamente a cogliere. Ne avevo avuto abbastanza, così risalutai e stavolta con fermezza mi portai all’auto, in cui mi precipitai risoluto a spostarmi da lì, senza più prestare ascolto a quel vecchio. Percorsi alla guida quei pochi metri che mi conducevano alla Piazza e potei finalmente dare inizio alla mia visita di Vaste, completamente deserta ed immersa nel sole giallo di quel caldo pomeriggio.

Su un lato della piazza si affacciava un grazioso castello, le cui antiche mura correvano fino a una chiesetta costruita all’angolo che delimitava il centro. I restanti lati della piazza erano costituiti invece dal prospetto di vecchie case che lì si affacciavano con le loro corti antiche, immerse in una quiete silenziosa, talmente silenziosa che mi sentii obbligato a chiudere con garbo il portellone dell’auto cercando di non far troppo sacrilego rumore. Sulla piazza, leggermente rialzata rispetto alla strada che la attraversava e sulla quale avevo parcheggiato la mia rumorosa e sfatta carretta, vi erano nuovamente diversi cartelloni informativi che non mi sarei ancora una volta aspettato di trovare, disposti a costituire un cerchio. Raccontavano la storia di quel luogo, informavano del passato di quella piazza – oggi dedicata a Dante – che un tempo aveva rappresentato il centro cultuale di un insediamento dei Messapi. Sempre lì trovai informazioni sul castello che avevo di fronte, detto palazzo baronale, le cui sale del piano terra erano adibite a museo di archeologia. Capii inoltre, leggendo il contenuto stampato sui pannelli, che la mia visita non sarebbe più stata così breve come avevo creduto perché avrei dovuto riprendere l’auto e spostarmi verso la periferia di Vaste, nelle circostanti campagne, dove avrei trovato secondo quanto era scritto il cosiddetto Parco dei Guerrieri, ossia il parco archeologico che ospitava la ricostruzione delle antiche mura difensive messapiche di quello che fu uno dei centri più attivi e popolosi di questo antico popolo che dell’estremo lembo d’Italia – e nello specifico di Vaste – aveva fatto la sua terra millenni prima di noi. Dalle parti del Parco dei Guerrieri avrei avuto modo di visitare anche i resti di una necropoli paleocristiana costituito da tombe ricavate nella roccia, disseminate intorno ai resti delle strutture delle fondamenta di quattro chiese sovrapposte e oramai distrutte, la più antica delle quali risaliva al V secolo d.C.

Riordinai mentalmente il materiale di tante scoperte che non mi attendevo – in precedenza avevo infatti solo distrattamente visitato il sito internet di Poggiardo e non avevo colto l’importanza e la ricchezza di siti di Vaste – e decisi di cominciare la mia visita dalla chiesetta posta all’angolo della piazza, in attesa che il museo aprisse dato che, leggendo un biglietto apposto sulla porta, avevo dedotto che ero in anticipo e che avrei dovuto attendere ancora un quarto d’ora per potervi entrare.

Misi dunque in atto quanto deciso, non ricordo nulla di quanto vidi nella piccola chiesa fortunatamente aperta e fruibile, evidentemente non mi colpì particolarmente. Quando fui fuori la sorpresa però mi colse: il vecchio Geremia mi si stava avvicinando nuovamente con il suo lentissimo passo, pensate che aveva impiegato tutto quel tempo a percorre le poche centinaia di metri che mi separavano dal punto in cui lo avevo lasciato mezz’ora prima. Capii che non mi sarei liberato tanto facilmente di lui e gli diedi ancora modo di parlare con me: del resto meritava un po’ di considerazione visto che aveva fatto con le sue stanche membra tutto quello sforzo per venirmi appresso. Devo dire che stavolta non fu al principio molto originale, mi chiese infatti nuovamente da dove venissi, ed io educatamente con pazienza gli nominai ancora Copertino.

Pensai che quel minuto vecchietto dovesse essere affetto da morbo di Alzheimer visto che la stessa domanda me l’aveva posta prima, ma è possibile che mi sbagliassi. Probabilmente la verità era che Geremia non disponeva che di quell’unica strategia comunicativa per attaccare bottone con uno sconosciuto ed esprimere così il suo bisogno di contatto con l’altro: purtroppo siamo spesso portati da un pregiudizio contagiante a considerare quasi sempre la vecchiaia di per sé come una fonte di malattia e i vecchi come delle incubatrici di strani disturbi senili, nonostante la lezione di Cicerone col suo De Senectute o i tanti consigli di un Seneca che da secoli – molto prima dell’attuale medicina e dell’odierna psicologia – ci insegnano coi loro saggi che la vecchiaia è solo un processo naturale della vita, con le sue proprie virtù ed i suoi propri limiti, dunque esattamente il contrario di ciò che per definizione è una malattia, la quale è piuttosto un arresto del naturale scorrere dei processi della vita che viene deviata verso ciò che propriamente può dirsi patologico.

la cripta dei SS. Stefano a Vaste

Fui io poi a porgergli una domanda, gli chiesi quanti anni avesse. Geremia iniziò allora uno dei suoi monologhi a cui oramai mi stavo abituando, dal quale però stavolta qualcosa qua e là riuscii a cogliere. Capii che stava lodando la giovinezza che in lui era trascorsa e che ravvedeva in me, mi invitava a suo modo a godere pienamente dei miei anni; cominciò poi a biascicare una specie di filastrocca in rima di cui riuscii a cogliere solo le parole finali, benché egli la ripetesse a manetta: «…correte, venite da Geremia, solo cose buone e tanta cortesia». Intuii in quel modo che Geremia doveva essere il suo nome e quella rima una sorta di slogan pubblicitario ante-litteram che egli aveva in passato usato per decantare chissà quale mercanzia per i mercati del sud. Gli chiesi allora che lavoro avesse fatto nella vita e da un elenco di nomi di frutti con cui mi rispose capii che Geremia doveva essere stato un venditore ambulante di ciò che elencava. Pensai che quello era stato lo stesso mestiere del mio nonno paterno morto prima che io nascessi e fui tentato di chiedergli se lo avesse per caso conosciuto o incontrato per le vie dei mercatini salentini di un tempo. Ma ciò sarebbe valso a pretendere troppo dal mio vecchio compagno, benché stavolta si fosse riusciti a capire qualcosa l’uno dell’altro. Mi accorsi a quel punto che il museo era stato finalmente aperto, mi congedai così con una pacca affettuosa dal mio fortuito Cicerone di un pomeriggio assolato e percorsi i pochi metri che mi separavano dall’ingresso del museo, giunto al quale vi entrai senza ulteriori indugi.

Appena dentro incontrai un giovane seduto dietro una scrivania, evidentemente il guardiano del museo. Ricordo che appena mi scorse questo si diede cura di fingere una professionale indifferenza e un recitato distacco mentre doveva in realtà essere non poco colpito dalla mia presenza: sarò stato l’unico visitatore per quel giorno, o addirittura per quella settimana – ci scommetterei i pochi spiccioli che ho. Quando salutai, al mio accenno di procedere oltre verso le stanze del museo, egli mi chiese con un leggero accenno di disagio e qualche tentennamento nella voce due euro per poter accedere alla visita e dopo che ebbi pagato mi consegnò diligentemente, con un fare da ragioniere meticoloso, un piccolo biglietto di ingresso come ricevuta.

«Bene – pensai – a quanto pare i Messapi sono di casa qui». I Messapi, su questi si sa complessivamente tanto poco che io colmavo queste lacune archeologiche e storiografiche con dei miei personalissimi ricordi: i Messapi allora mi facevano pensare solo a certe sudate bestiali fatte un anno prima con Tamara, una mia amica, artista padovana di origine armena da trent’anni residente nel Salento, tanto cara quanto instancabile (benché ultrasessantenne), con la quale in un pomeriggio d’agosto – ella presa forse dalle prime avvisaglie di un rimbambimento senile ed io, allora ventisettenne, da un rincoglionimento congenito – avevamo traversato come novelli ricercatori per due ore i siti archeologici dell’insediamento messapico di Roca Vecchia sotto una calura che sfidava i quaranta gradi, rischiando una insolazione ed un ulteriore aggravamento delle condizioni già fragili delle nostre strambe menti. Roca Vecchia, che posto meraviglioso però!

Alle abbandonate riserve delle rovine archeologiche, circondate da una lunga e grigia rete di ferro bucata qua e là su cui compaiono ancora ogni tanto dei cartelli affissi chissà quanti anni prima dalla scuola archeologica dell’Università di Lecce, fanno da contorno le scogliere ricche di ripari, grotte e degli anfratti di mar Adriatico più strabilianti che conosca, al di là dei quali all’orizzonte si intravede nelle giornate limpide il profilo delle alture dell’Albania. E non è un caso che proprio a Roca, a coronarne lo splendore, vi sia la cosiddetta Grotta della Poesia, una conca di acqua azzurra che si apre tra gli scogli, in comunicazione col mare tramite gallerie lunghe diverse decine di metri scavate con permanente pazienza dai secoli nella roccia. Ricordo che un mio amico pittore abbastanza anziano e bizzarro anch’egli, si vantava con me di aver dato in gioventù con alcuni amici il nome a questo posto che secondo lui non ne aveva uno e che egli considerò talmente bello da meritarsi proprio quello. Non so se ciò fosse vero o fosse una delle tante panzane del mio pallonaro amabile amico, né so se sulle guide turistiche si accennerà mai a questo suo battesimo, a me però va bene credere che sia andata proprio così, del resto la Grotta della Poesia meriterebbe davvero l’appellativo che la connota proprio per la sua bellezza.

necropoli di VasteRicordo inoltre che ogni volta che mi recavo alla Grotta, durante un’estate trascorsa a lavorare nell’amena località di Torre dell’Orso posta a pochi chilometri da lì, dato l’isolamento e la relativa difficoltà a raggiungere il posto, era facile trovare i lisci massi della scogliera che circondano il luogo affollati di punkabbestia e soprattutto di giovani donne rigorosamente in topless. Non so come mai in quelle occasioni, forse lo splendore del posto, forse la chiarezza cristallina dell’acqua o l’ilarità che sempre circondava il luogo, mi hanno sempre fatto trasmutare fantasticamente le donne dai seni nudi che lì incontravo in delle ninfe che si rinfrescavano lungo i torrenti dell’Arcadia, ed in quei momenti io credevo d’essere davvero un satiro gaudente che si stava ritemprando dopo aver preso parte ad un orgiastico corteo di baccanti.

Abbandoniamo qui la frescura estiva della Grotta della Poesia e le mie fantasie ellenico-classicheggianti di quei giorni al mare ormai andati, dovute forse all’aere intonsa dei fumi di marijuana dei molti punkabbestia presenti in quel luogo più che alla sua poetica bellezza, per tornare al museo di Vaste di cui dicevamo.

Con quella mia lunga e attenta visita alle varie stanze di quella meravigliosa collezione di ritrovamenti messapici – ma anche di epoca romana e medievale – le mie curiosità sui Messapi furono ampiamente ricompensate, i miei interessi per questi nostri avi ne uscirono rinnovati, arricchiti, rigenerati. Questi, da quel giorno, non sono più stati per me il popolo sulle cui ataviche tracce avevo rischiato l’insolazione ed una morte prematura insieme all’amica Tamara, non più soltanto gli uomini che avevano popolato le bellezze delle nostre coste adriatiche dove avevano edificato i primi porti e i primi insediamenti e su cui poi si erano assestati prepotentemente i Romani: quel giorno, in quelle sale illuminate per me soltanto, potei cogliere lo splendore della loro arte, dei loro manufatti e tutta la ricchezza della loro civiltà nei segni e nei lasciti che nei millenni si erano fortunatamente preservati per giungere fino a noi.

Quando uscii dal museo, rinnovando i miei saluti al custode che era rimasto per tutto quel tempo lì dove lo avevo lasciato, mi resi conto che perduto in quell’incanto vi avevo trascorso quasi due ore.

Tutto quel lasso di tempo non aveva però ancora sopraffatto il mansueto Geremia, il quale era lì in paziente attesa, non avendo evidentemente di meglio con cui occupare la sua semplice giornata che attendere me.

Ne fui tuttavia persino lieto, rabbonito e rasserenato come ero da tutto quello splendore appena goduto che mi aveva messo di buon umore e mi ridisponeva di gran lena al contatto con il mondo, così fui io stavolta ad andargli incontro.

Mentre Geremia farfugliava qualcosa, quando gli fui accanto, cominciò a dirigersi lentamente verso un arco ricavato dalle mura del Palazzo Baronale che conduceva alla parte posteriore dell’edificio da cui ero uscito. Mi invitò in tal modo – senza inutili parole – a seguirlo ed io, che iniziavo ormai ad accettare l’idea di dover rinunciare alla visita di Poggiardo, mi avviai con quel vecchio per le vie sconosciute del suo paese. Attraversato l’arco giungemmo in un piccolo ma grazioso giardino molto curato e incastonato tra le alte mura degli edifici baronali. Chiesi a Geremia se quello fosse stato in passato il cortile interno del Palazzo ma egli si limitò a sollevare le spalle e ad aggiungere, fissandomi negli occhi, “Giardino!”. Capii quanto fosse stupido da parte mia cercare di ottenere informazioni di quel tipo da Geremia, il quale con quel suo fare bonario mi aveva fatto sentire come quegli scienziati che mettono sotto i riflettori delle proprie indagini qualcuno e quel qualcuno, lungi e avulso dagli stessi interessi scientifici che animano i primi, non può che considerarli un po’ svitati, e talvolta a ragione, almeno in quel mio caso.

Ci lasciammo il giardino alle spalle e svoltammo a destra in una viuzza tondeggiante sulla quale a un certo punto il mio compagno si fermò e si mise a chiamare a gran voce su un uscio. Pensai che dovesse essere quella la sua abitazione e stavo per andarmene quando da lì uscirono due giovani donne ed una graziosa vecchietta fortemente ricurva su se stessa ed accompagnata da un bastone.

Dalla reazione di quelle compresi che non eravamo a casa di Geremia ma stavamo facendo una visita alla vecchia. Una delle donne, che quando si rivolgeva a Geremia lo faceva in dialetto, si rivolse a me in italiano (come si usa fare talvolta nel Salento con gli sconosciuti, coi quali non si adopera la confidenziale lingua materna) chiedendomi se fossi un volontario! Beh certo, la domanda era pertinente, cosa ci faceva un ragazzo mai visto prima in quel luogo desolato in pieno pomeriggio in compagnia di un vecchio signore un po’ strambo che non era suo parente? Non poteva che essere un volontario di qualche istituto per opere pie o in servizio civile. Risposi il vero, ossia che ero lì solo per visitare il museo ed esplorare un po’ il posto.

Geremia mi sorprese molto per la lucidità che mostrò in quell’occasione. Con quella vecchietta sorridente egli parlava e si esprimeva in modo molto più chiaro e comprensibile di quanto non avesse prima fatto con me, ad un certo punto le mise persino scherzosamente e con evidente tenerezza il suo cappello in testa, ridendo e provocando il riso di tutti. Seppi dalle ragazze che stavo assistendo alla visita che una volta al mese, da tempo immemorabile, Geremia faceva a questa vecchietta, moglie di un suo defunto amico. Pensai che quella sua strabiliante trasformazione era forse dovuta alla forza di un amore impossibile e non consumato che mi piaceva immaginare nel passato tra i due, o magari, chissà, quei vecchi condividevano semplicemente un mondo di ricordi dentro cui a noi altri spettatori era precluso l’ingresso.

A quel punto però dovetti salutare perché ero deciso a proseguire nella scoperta di quei luoghi, fu quella l’ultima volta che vidi Geremia e non credo che lo rivedrò mai più. Percorsi tutto il viale su cui abitava la sua vecchia amica, svoltai a destra due volte e sbucai nuovamente nella piazza del castello, dove avevo lasciato l’auto. La mia destinazione non poteva essere più Poggiardo, benché stesse iniziando a imbrunire dovevo andare a visitare invece, a tutti i costi, quello che nei brani scritti sui pannelli era chiamato il Parco dei Guerrieri e i dintorni di cui vi ho detto: i miei progetti iniziali si erano definitivamente infranti, sgretolandosi contro gli inattesi splendori che mi stava rivelando quella che avevo creduto una frazione cui dedicare al massimo pochi minuti e che mi trattenne invece fino alle ultime luci del giorno.

Quando da lontano scorsi delle grandi figure in bronzo raffiguranti dei guerrieri, posti sui cumuli delle cinte murarie qualche anno prima, per tutto simili nelle forme a quelli dipinti sulle antiche ceramiche che avevo veduto nel museo, capii di essere giunto nel Parco dei Guerrieri.

profili giganteschi di questi antichi difensori della nostra terra, stagliandosi su un orizzonte che andava tingendosi dell’arancio di un malinconico tramonto, mi riempirono di una strana nostalgia in cui riecheggiavano le grida di battaglia delle genti che prima di noi furono, della guerra che da sempre accompagna la storia dell’umanità, i miei pensieri si tingevano del sangue che ha macchiato per molti secoli una terra martoriata ed esposta alle incursioni, si colmavano delle urla disperate di madri e dei pianti dei loro bambini.

Mi crogiolai non so per quanto in questi pensieri fino a quando ripartii per raggiungere un punto del parco posto in altura e accuratamente recintato, dove avrei potuto visitare le restanti meraviglie di quei luoghi.

Il guardiano del parco mi venne incontro prima ancora che avessi fermato l’auto e mi chiese subito se fossi venuto per conto dell’Università che evidentemente inviava lì ogni tanto qualche ricercatore, ero tentato di dirgli di sì per non dirgli la più banale verità, cioè che ero uno sfaticato pirla qualunque venuto per godersi un po’ di sole da quelle parti a me ignote. Ma me ne trattenei, mi limitai a dire che ero lì per interesse personale, e quando egli mi offrì un via di salvataggio chiedendomi nuovamente, sebbene con un po’ di delusione in viso “Ah ho capito, sei insomma uno studente di beni culturali?”- cosa che evidentemente dava ai suoi occhi un senso alla mia visita – mi ancorai a quella scialuppa e dissi «E certo, beni culturali – e incautamente aggiunsi avendoci preso gusto a mentire- indirizzo paesaggistico! Per quello sono qua» e ciò dicendo tiravo fuori la migliore espressione da studente secchione che potessi fare.

Quest’uomo risultò molto dotto e capace di appagare ogni mia curiosità su quel luogo incantevole. Lì vi avevano abitato in primis le tribù messapiche degli Iapigi e a testimoniarne ancora il loro passato vi era una capanna ricostruita recentemente con rigore scientifico dai ricercatori dell’Università di Lecce, ricalcando le tecniche di costruzione di quell’epoca così remota.

Dopo aver visto da vicino la capanna mi feci accompagnare alla cripta basiliana dei Santi Stefani, una delle tante bellissime opere di quei monaci in fuga da Bisanzio, giunti in seguito alle persecuzioni dovute alle lotte iconoclastiche a trovare un approdo nel Salento, la terra che questi antenati bizantini costellarono di tesori ipogei, spesso nascosti, inattesi, sotterranei, scavati a fatica nella roccia che come un ventre materno ha protetto per secoli le loro silenziose preghiere greche.

Le parole del mio dotto accompagnatore, mentre mi erudiva sui dettagli della meravigliosa cripta, interamente scavata nel tufo e adornata di bellissimi affreschi, mi sembravano vagamente familiari; capii il giorno dopo, riguardando il sito ufficiale del comune di Poggiardo, il perché di quella familiarità: molte delle frasi che avevo udito in quell’umido antro erano riportate nello stesso identico modo sul sito. Non che ciò inficiasse ai miei occhi la dedita professionalità di quell’uomo, doveva pur averle estrapolate da qualche fonte quelle nozioni, solo la cosa mi fece sorridere perché egli aveva cercato in tutti i modi di sembrare naturale nella sua esposizione del giorno prima, senza dare per nulla a vedere che stesse ripetendo un copione a memoria; ciò mi fa ricordare quell’uomo anche con maggiore simpatia di quanto non mi avesse ispirato a primo acchito ed in fondo questa mia scoperta successiva lo metteva solo alla pari permettendogli di saldare i conti con me, il finto studente di beni culturali a indirizzo paesaggistico!

Vi sembrerà incredibile ma sappiate che in ogni luogo del Salento in cui la coscienza del valore del nostro passato si è risvegliata e ci si è adoperati per la sua salvaguardia ho sempre trovato dei logorroici ma amabili guardiani o custodi del posto pronti a erudirvi su ogni dettaglio che concerne il tesoro cui siete giunti. È questo certamente un segno del calore del nostro popolo, un calore che a volte vi impedirà di godere in solitudine e silenzio di certi splendori ma vi ripagherà lautamente con una buona e cordiale compagnia; tutto ciò, però, ho il triste sospetto che sia anche il segno della solitudine di questi personaggi tanto desiderosi di parlarvi, di questi uomini il cui compito è custodire un passato che troppo poco gli stessi salentini si recano ad onorare, ad osservare, ad ascoltare.

Mi recai da solo infine a compiere la mia ultima visita di quel giorno, dedicata alla necropoli paleocristiana e alle piccole fosse dei nostri avi che lì avevano trovato sepoltura, tornando con la morte ad una terra che appartiene tanto a loro quanto a noi che ancora oggi la calpestiamo.

Me ne stavo lì placido mentre mi giungeva il profumo di ulivi misto a quello del mare, segno che in linea d’aria le coste di Porto Badisco e Santa Cesarea non erano poi lontane: sentivo chiaramente nell’aria espandersi le essenze marine dei flutti che si stagliavano sulle rive che un tempo Enea aveva calpestato.

In silenzio passeggiai meditabondo ancora un po’ tra quelle antiche pietre cui ero alla fine di quella giornata giunto, pietre su cui copiose lacrime in passato erano cadute. Cadeva intanto anche il sole al di là dell’orizzonte e annunciava il tempo del mio ritorno a casa.

Mi rimisi in auto per l’ultima volta, riaccesi quel che rimaneva del mio compagno di viaggio – il toscano che non avevo potuto terminare venendo – ed aprii il finestrino per permettere al denso fumo che emanava di fuoriuscire.

Da quella fessura la fresca brezza della sera ormai giunta osava ogni tanto affacciarsi e sembrava portare delle note di una musica udibile appena, una melodia ritmata, forse soltanto immaginata, cadenzata da un ritornello che mi pare facesse così : «…venite, correte da Geremia, solo cose buone e tanta cortesia…».

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3

Fissando il cielo delle nuvole…

La gara

di Raffaella Verdesca

Un giorno correvo sognando di volare.

Ferma d’un tratto sulle mie gambe incerte ho fissato il cielo delle nuvole: correvano quelle veloci e nel superarmi calpestavano alberi già avviati alle ombre della notte e solcavano mari ancora accesi salutando frettolose la chiazza bianca di una nave in lontananza.

Chissà chi aveva dato inizio a questa gara.

Con l’euforia del traguardo a scolpirne soffice i contorni, gli impavidi cirri si stringevano accanto alla mia strada, una di quelle costruite dagli uomini, piani robusti d’asfalto seminati a cartelli e cemento.

Capivo che per quella frangia di nuvole seguire la pista battuta dal ritmo della mia fatica altro non era che un divertente gioco.

“Siamo di te più leggere, sorella, e nessuna curva rallenterà la nostra corsa, nessuna, e nessun ostacolo spezzerà il nostro passo, nessuno !” dicevano scivolando sulla mia testa al finire di un giorno nato terso.

Le sorti dei contendenti hanno alfine voluto lasciar di stucco il vostro

Verso Finibusterrae su antichi tratturi, tra paesaggi di pietra e ulivi secolari

IN CAMMINO VERSO FINIBUSTERRAE SU ANTICHI TRATTURI

TRA PAESAGGI DI PIETRA E ULIVI SECOLARI

 

ITINERARI STORICO – ARCHEOLOGICI

LUNGO IL NUOVO TRACCIATO DELLA S.S. 275

 di Marco Cavalera
  1. 1.    Il progetto e la sua storia

Il progetto di ammodernamento della S.S. 275 “Maglie – Santa Maria di Leuca” nasce nel 1994 con l’obiettivo di collegare tra loro le aree industriali del Salento meridionale. L’arteria stradale, presentata dai politici locali come “la più grande opera degli ultimi 20 anni nel Salento”, avrà un costo complessivo di circa 288 milioni di euro. La sua realizzazione vede il consenso di tutta la classe dirigente salentina – imprenditoriale e politica – e, allo stesso tempo, la disapprovazione di una parte di associazioni di volontariato e di liberi cittadini del territorio – riuniti nel Comitato S.S. 275, presieduto da Vito Lisi – che chiedono a viva voce di fermare la strada a quattro corsie fino a Montesano e di adeguare i tracciati viari preesistenti fino a Santa Maria di Leuca.

Il Comitato ha svolto, fin dal 2003, indagini approfondite sull’iter burocratico che ha portato all’approvazione del progetto di ammodernamento della S.S. 275, mettendo in risalto gravi irregolarità procedurali e violazioni di legge.

Dall’atto di diffida e messa in mora, redatto dall’avv. Luigi Paccione e notificato all’ANAS S.p.A., si evince infatti che l’incarico venne affidato, nel 2002, direttamente dall’ANAS al Consorzio per lo Sviluppo Industriale e dei Servizi Reali alle Imprese (SISRI), che a sua volta ha subappaltato lo stesso incarico, senza alcuna gara e in mancanza di procedura ad evidenza pubblica alla Pro.Sal.Progettazioni Salentine S.r.l., per un importo pari a circa 5 milioni di euro.


Nello specifico, il progetto prevede la realizzazione di una strada, costituita da quattro corsie e da due complanari (una per senso di marcia), larga circa 40 metri. L’arteria viaria sarà realizzata quasi completamente su un terrapieno, con conseguente ed inevitabile cesura della viabilità rurale del territorio, che insiste in buona parte su antichi tracciati medievali.

La superstrada, inoltre, andrebbe inesorabilmente a cancellare la tipicità

Francesco Guarini, pittore barocco di grande prestigio, a Gravina in Puglia

 

Gravina, chiesa di Santa Maria del Suffragio

 Gravina. Chi si è ricordato di Francesco Guarini?

 

di Giuseppe Massari

Quando, spesso, mi capita di leggere Gravina in Puglia, accompagnato da una dicitura distintiva come città d’arte, mi trovo sempre a disagio. Perché quell’attribuzione, non originale, ma generica, significa tutto e non significa niente. Non è un motivo d’identità specifico, perché ogni città può esserlo e lo è per le quantità di  scrigni e tesori di storia, arte e cultura che possiede, conserva e fa fruire. Ma è ancora di più inutile quando, quella specie di distintivo, non viene neanche utilizzato al massimo. Si da il caso che, il 19 gennaio 1611, in quel di Solofra, nascesse un certo Francesco Guarini, divenuto pittore barocco di grande prestigio, di grande fama e di grande pregio artistico, se è vero, come la maggior parte dei critici d’arte sostiene, che fu un seguace e un allievo del Caravaggio. Costui, giunse a Gravina con gli Orsini essendo loro protetto, proseguendo una florida attività lavorativa per la famiglia e le varie chiese del territorio, diventando una figura determinante per la pittura del Seicento a Gravina.

Gravina, Madonna col Bambino di Francesco Guarini

 

La quasi totalità dei suoi biografi concorda che la sua morte sia  avvenuta nel 1651 a Gravina, il 23 novembre,  ad appena quarant’anni, anche se non vi sono, purtroppo, tracce che lo confermino, nel senso che non risulta esserci un monumento funebre, un cenotafio, sia pure una lapide che ne indichi il luogo, anche se non è escluso che le sue spoglie mortali possano trovarsi e riposare nella chiesa di Santa Maria del Suffragio (Purgatorio) a Gravina, cioè nella cappella funeraria degli Orsini, visto che furono loro a chiamarlo in città e ad ospitarlo, riservandogli fastose esequie in occasione della prematura scomparsa. I suoi resti, dunque, potrebbero trovarsi in quel luogo dove, alle spalle dell’altare maggiore, trionfa e troneggia uno dei più riusciti capolavori dell’artista: la Madonna del Suffragio con le anime del purgatorio.

Presso la Fondazione Ettore Pomarici Santomasi, a Gravina in Puglia,  vi sono altre due tele: la Madonna col Bambino e la disputa di Gesù con i dottori nel tempio.

Spiace dover ricordare che altre opere, della sua fiorentissima attività, realizzate presso il palazzo ducale degli Orsini, siano andate disperse, nel senso che non si sa dove possono essere state trasferite e allocate. Se formano collezioni d’arte di alcuni privati o sono esposte in gallerie d’arte, sempre di privati cultori e collezionisti, poiché non vi sono tracce o testimonianze di una presenza in alcuni musei nazionali ed internazionali.

Molti capolavori di questo importantissimo e famosissimo pittore si conservano a Solofra, Napoli e Roma, città dove egli visse lavorò. Nella sua Solofra, per ricordare e festeggiare i 400 anni della nascita di don Ciccio Guarini, così come, affettuosamente lo chiamavano i suoi compaesani ed estimatori, è stato indetto l’anno guariniano.

Alla luce di tutto questo e sulla base di non pochi elementi, alcune domande sono d’obbligo. Come mai, qui, invece, a Gravina, i tanti cultori di storia locale, gli esperti di storia e storiografia gravinese hanno trascurato questo evento? Come mai i possessori di queste meravigliose opere d’arte hanno omesso di celebrare il centenario della nascita di un pittore che ha dato molto a questa città? Come mai, quella che si definisce città d’arte, facendo solo ridere di pietà e compassione, ha trascurato di organizzare un evento che ricordasse la figura di questo pittore, gravinese d’adozione?

Perché questa città manca di conoscenza e coscienza dell’appartenenza, perché figlia incestuosa della cultura dell’apparenza esclusiva e depositaria di un soggettivismo e personalistico modo di proporsi ed atteggiarsi a uomini di cultura, senza averne le capacità, l’interesse, l’amore, la dedizione, lo studio, l’approfondimento, la serietà e il rigore scientifico.

Tutto questo, però significa e deve continuare a significare, ma solo per questo, che Gravina è città d’arte, perché coltivare nel proprio nucleo urbano gli ignoranti è anche un arte. L’arte è un valore intimo, non è un valore astratto, è un valore concreto.

Sulla base di queste certezze, mi auguro che qualcuno, al di fuori e al di là di alcune categorie di pseudo culturali, si metta a lavoro e organizzi qualche evento a ricordo di quest’uomo benefattore della nostra città. Riporti alla memoria, ai fasti della gloria l’acuta sensibilità di un artista, di un cultore del bello e del sacro e della famiglia che lo riempì di consensi, stima e fiducia.

I Martiri di Otranto e il 1480 (II parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Le controversie storiche. Una breve rivisitazione dell’episodio ed alcune questioni irrisolte

 

Per rispondere a questa domanda, si rende necessaria una breve rivisitazione degli episodi storici del 1480. Dopo aver raggiunto il suo massimo splendore nei secoli X-XV, Otranto rimase vittima della conquista di Gedik Ahmed Pascià (o Passà)[2], inviato da Maometto II[3]. I cittadini resistettero all’assedio, dopo aver visto arrivare via mare l’armata turca, composta da 90 galee e 18mila soldati. L’offensiva turca fu martellante: con le bombarde rovesciarono per giorni sulla città centinaia di grosse palle di pietra, «che quando dette palle sparavano, era tanto il terremoto che pareva che il cielo e la terra si volessero abbissare, e le case et ogni edificio per il gran terrore pareva che allora cascassero»[4]. Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, l’esercito turco concentra il fuoco su uno dei punti più deboli delle mura, ed aprendo facilmente una breccia, irrompe in città. A contrastarne l’avanzata accorre il capitano Zurlo con il figlio e con altri armati, ma il nemico è superiore e cadono tutti eroicamente, senza poter arrestare l’offensiva dell’orda: «era tanta la calca della gente Turchesca che veniva spinta da dietro dal Bassà e da loro Capitani con bastoni e scimitarre nude per farli entrare per forza e con gridi et urli, che non si posseva più resistere. […] I Cittadini resistendo ritiravansi strada per strada  combattendo, talché le strade erano tutte piene d’homini morti così de’ Turchi come de’ Cristiani et il sangue scorreva per le strade come fusse fiume, di modo che correndo i Turchi per la città perseguitando quelli che resistevano e quelli che si ritiravano e fuggivano la furia non trovavano da camminare se non sopra li corpi d’homini morti»[5]. Certamente fu decisivo per l’esito del conflitto il grande divario di forze in campo. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi: nel massacro, tutti i maschi con oltre quindici anni vengono uccisi, mentre donne e bambini sono ridotti in schiavitù. Secondo alcune stime (su cui però i dubbi restano consistenti), i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000.

Qualche giorno dopo aver saccheggiato la Cattedrale, i Turchi uccidono sul colle “detto della Minerva” oltre ottocento superstiti. Nella tragica morte di quegli otrantini sono da rintracciare, secondo la versione più largamente diffusa le origini del martirio: stando a questa tesi, l’episodio consumato sul colle della Minerva non fu una semplice selvaggia carneficina, né un massacro per rappresaglia, ma qualcosa di più importante; quegli otrantini, condotti alla presenza del Pascià, furono obbligati ad operare una scelta chiara: l’apostasia o la morte come “infedeli”. La maggioranza degli otrantini scelsero di morire piuttosto che rinnegare la propria fede e furono decapitati con un colpo di scimitarra: il primo a morire fu tal Antonio Pezzulla, un cimatore di panni, che aveva esortato tutti a perseverare nella fede[6], e che, pur decapitato, secondo la tradizione, si levò in piedi col solo busto, senza la testa, restando immobile sino all’esecuzione dell’ultimo dei suoi compagni[7]. Un carnefice turco di nome Berlabei, sempre secondo la stessa tradizione, a quel prodigio si convertì al cristianesimo e venne condannato al supplizio del palo, quello stabilito per i “traditori della fede”[8]. I corpi degli Ottocento rimasero insepolti per circa 13 mesi, sino all’8 settembre 1481, quando il Duca Alfonso d’Aragona entrò nella città (pare, infatti, piuttosto arduo parlare di una vera e propria “liberazione”): le loro reliquie furono condotte all’interno della cattedrale. Il “martirio” del colle, secondo la tradizione cristiana, fu subito un dato “acquisito”, che fece riconoscere quegli uomini come “autentici Martiri di Cristo”. Ma non tutti concordano. Una seconda versione dell’accaduto, facendo leva sulle non poche contraddizioni emerse nel processo, ha a lungo sollevato dubbi in merito alla questione del martirio e un’accesa discussione sulla consistenza storica del dato: questi storici “laici” ritengono irrilevante, infatti, che gli otrantini del 1480 siano morti per una reale professione di fede, preferendo la tesi della “razzia” e della soppressione barbara dei superstiti; del resto, per questi storici, le mire espansionistiche turche non traevano alcun vantaggio da una conversione di massa. Di certo su questa confusione incide e non può ignorarsi quella che, rifacendosi al famoso titolo di un testo del giornalista Marco Travaglio, sarebbe definibile come “la scomparsa dei fatti”: per anni, l’episodio otrantino ha avuto scarsa menzione nei libri scolastici e nei testi storici. E se oggi c’è una sostanziale concordia sulla vicenda, per molto tempo non è stato così. E anche laddove c’era concordanza storica, la questione del martirio o della razzia ha creato comunque divisione.

I problemi, oggi, forse sono da rintracciarsi altrove: innanzitutto nelle oggettive difficoltà di elevare al culto universale della Chiesa uomini uccisi dai Turchi, in un contesto culturale di dialogo ecumenico e di “restrizione identitaria”; d’altro canto, nelle interpretazioni dei fatti del 1480, spesso si tende all’esagerazione opposta, quella, cioè, di una eccessiva retorica identitaria. Ormai va diffondendosi come moda maniacale quella di rileggere la vicenda otrantina sotto la veste di “una difesa epica del cristianesimo”, dentro ad un clima intellettuale dove crescerebbe la “minaccia islamica” e dove starebbero crollando tutti i riferimenti alla matrice cristiana della cultura europea, in un delirio da misticismo intransigente alla Socci o con una deriva fideistica da “atei devoti” alla Ferrara. Non da meno distorta pare, ad onor del vero, la scelta, ridondante di un’enfasi senza legame storico, di propugnare ogni anno a cadenza estiva, il solito riassuntino precotto e scopiazzato sulle vicende del 1480, condendolo con titoli altisonanti contro il nemico che viene da Oriente, come qualche eminente personaggio politico locale fa sempre più spesso. C’è, invece, poco interesse ad approfondire davvero le vicende, le cui interpretazioni non sono più semplicisticamente ridotte alle mire espansionistiche del mondo islamico o all’attacco di civiltà, come puntualmente e retoricamente ribadito anche nei discorsi commemorativi, che si tengono nelle celebrazioni civili dei Martiri otrantini. La vicenda storica, come sempre, è più complessa e determinata dalla convergenza di vari fattori.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3
 
 

I Martiri di Otranto e il 1480 (I parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Il decreto  super martyrio

 

Nello scorso mese di luglio, la Santa Sede, per volontà stessa di Benedetto XVI, ha dato parere favorevole alla santificazione dei Beati Martiri di Otranto, uccisi nell’invasione turca del 1480. L’atto è un formale riconoscimento, da parte della Congregazione per le Cause dei Santi, del martirio degli Ottocento: un primo importante tassello, non ancora decisivo, del lungo percorso verso la canonizzazione. Il processo di proclamazione della Santità avviene, infatti, attraverso due momenti: la constatazione dell’avvenuto martirio e l’accertamento di un miracolo per intercessione di quanti si venerano. Il decreto in questione ravvisa che, nelle vicende storiche del 1480, Antonio Primaldo e Compagni siano da ritenersi a tutti gli effetti martiri, uccisi “in odio alla fede”. Nel gergo ecclesiale, è il decreto super martyrio: martiri si, dunque, ma non ancora santi. E ci sarà ancora da attendere, come la tradizione e la storia stessa insegnano: perché, sebbene nel sentire comune dei più, i martiri otrantini siano da tempo “santi”, le fasi e gli sviluppi storici del lungo processo di canonizzazione dicono tutt’altro, o meglio, raccontano di difficoltà di approdo a questa agognato giudizio a dir poco “croniche”. Il decreto non va sminuito nella sua rilevanza, ma occorre anche ricordare che ad esso si è giunti, dopo un percorso lungo 16 anni. La fase del processo diocesano di canonizzazione dei Martiri, si è, infatti, conclusa nel 1991. Ma l’iter è ancor più lungo e complesso, se si pensa a tutte le fasi processuali che hanno interessato i Beati Antonio Primaldo e Compagni. I martiri otrantini furono definiti tali perché al termine di un processo, aperto nel 1539 e concluso il 14 dicembre 1771, la Chiesa ne aveva autorizzato il culto[1]. Da allora gli Ottocento otrantini, morti nel sacco cittadino del 1480, sono “beati”. Con l’entrata in vigore delle nuove norme, in vista di una possibile canonizzazione, il processo è stato interamente rifatto dalla Chiesa con un’accurata ed approfondita inchiesta storica, che ha confermato il risultato

I Martiri di Otranto e il 1480 (III parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Lo strano caso della congiura dei Pazzi

ed il contesto storico

 

Seppur tra molti lati oscuri, la vicenda di Otranto, potrebbe essere collegata in qualche modo alla congiura dei Pazzi, architettata contro Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze. Dall’agosto del 1471, infatti, era asceso al soglio pontificio, col nome di Sisto IV, Francesco della Rovere. Tra i suoi favoriti c’era il nipote Girolamo Riario: per lui il Papa acquistò la contea di Imola a un passo dal territorio fiorentino;[1] ma tale operazione necessitava di un prestito di trentamila fiorini: i Medici, banchieri di fiducia della Santa Sede, si erano però rifiutati di concederlo. A Roma si trovava un’altra banca in grado di sborsare una cifra del genere: quella dei Pazzi[2]. Ne era a capo Franceschino d’Antonio, grande amico di Girolamo Riario, col quale concepì una congiura che facesse fuori Il Magnifico. Il Papa, dal canto suo, accarezzando l’idea di trasformare Firenze in una signoria per il proprio nipote, impose alla diocesi un nuovo arcivescovo, Francesco Salviati, avverso Magnifico[3]. Il momento scelto per la congiura fu la primavera del 1478: Giuliano, fratello di Lorenzo, fu colpito a morte con i pugnali di Franceschino e Bernardo Bandini. Il Magnifico, però, riuscì a scappare. A Firenze scoppiò la rivolta: l’arcivescovo Salviati fu impiccato alle finestre del palazzo della Signoria, mentre altri congiurati, penetrati nell’edificio, venivano scaraventati giù. Bernardo Bandini riuscì a fuggire: si imbarcò su una grossa galea del re di Napoli, raggiungendo Istanbul, dove aveva amici e parenti. Anche il Magnifico, nella capitale turca, aveva interessi e spie. La polizia del sultano scoprì il Bandini e lo imprigionò. Antonio de’ Medici partì nel luglio ’79 da Firenze con ricchi doni per il sultano e ritornò alla vigilia di Natale con il Bandini. Qualche giorno più tardi, l’assassino di Giuliano de’ Medici pendeva a una finestra del palazzo del Bargello. Da allora, tra la Signoria di Firenze e l’impero ottomano s’instaurarono rapporti cordiali, con scambi di messaggi, ambascerie e doni.

L’altra grande potenza, Venezia, desiderava porre un limite all’influsso degli Aragonesi. Un tacito patto, un anno dopo, permise al sultano di trovare la via spianata per conquistare Otranto[4].

Sulla presa di Otranto, c’è da rimarcare ancora un particolare, spesso sottovalutato nel dibattito odierno: l’atteggiamento del Pascià. Molti storici sostenitori del “movente religioso” dell’assalto islamico fanno derivare le

I Martiri di Otranto e il 1480 (IV parte)

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Cattedrale di Otranto, interno

 

 

L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano

 

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.

In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi

Antiche tipologie abitative a Nardò

centro storico di Nardò

 

Tipologie abitative a Nardò 

Trasformazione di una domus palaciata in pittagio S. Paolo  

 

di Fabio Fiorito 

 

La documentazione iconografica della Nardò medioevale è molto scarsa, ma l’occasione di ripristinare un edificio, analizzando gli elementi costruttivi e documentali, può offrire l’opportunità per meglio comprendere lo sviluppo  urbanistico del centro antico.

L’intervento di restauro di una domus ha consentito di mettere in luce le caratteristiche arcate del suo portico (che nel tempo erano state celate per ricavare dei magazzini) e le antiche coperture in legno.

Le succinte  annotazioni di cantiere che si propongono dimostrano ancora una volta il valore di ogni piccolo lembo dell’antico tessuto edilizio, purtroppo offeso da azzardati interventi, specie negli anni ’60-’70 dello scorso secolo.

L’interesse turistico che si registra da qualche anno e l’aumentata sensibilità dei cittadini si associa alla tendenza di valorizzare adeguatamente la parte più antica di Nardò, così come quella di molti altri centri del Salento. Spesso si evidenzia però un  “congelamento dell’antico” che sfocia in un altrettanto esteso quanto impunito comportamento di elusione di qualunque regola, sia essa giuridica o edilizia.

Ignorando dunque l’antico perimetro urbano, si è concordi nel suo progressivo ampliamento, tanto da considerare tre perimetri di mura: il primo, rapportabile cronologicamente all’XI secolo, con la traccia documentale della fortezza normanna (attuale palazzo Del Prete); il secondo, che avrebbe come limite l’attuale via S. Giovanni; il terzo, individuabile nell’attuale cinta muraria, con le torri cinquecentesche ben evidenziate nella nota cartografia del Blaeu-Mortier  (XVII sec).

Il tessuto urbano fra il XV e XVII secolo era composto da costruzioni raggruppabili in un definito numero di tipi[1]: apothecae, cellaria, domus terranea, domus palaciata, domus cum curte, hospicium.

Le apotecae e i cellaria erano rispettivamente i laboratori artigiani ed i magazzini; gli hospicia erano invece la più alta espressione dell’edilizia residenziale, strutture complesse comprendenti unità abitative e produttive insieme.

La domus rappresentava  il tipo più comune di abitazione; quella ubicata a piano terra (domus terranea) poteva avere degli “accessori” di pertinenza, tanto da potersi definire cum furno oppure cum curte, puteo, pila, horto[2]. Le singole abitazioni, nel tempo si sono spesso aggregate nella tipologia a corte, con modalità legate alla disponibilità di terreno o ai vincoli familiari ed economici.

Come descritto da Costantini, la domus palaciata rappresentava una sorta di evoluzione della domus terranea. La scala ne era il principale elemento caratterizzante, in quanto presente solo nella domus palaciata, non veniva realizzata con intenti scenografici ma meramente funzionali[3]. Caratteristica della domus palaciata era talvolta anche la presenza di un loggiato su archi e colonne (fig. 1).

A partire dal XV  secolo l’abitato neretino fu diviso in quattro pittagi [4],  quartieri  articolati nelle unità più piccole di vicinio e ramo. Nel pittagio denominato San Paolo –  attualmente individuabile con la zona del centro che comprende la chiesa del Carmine, l’Osanna ed una porzione urbana posta a nord di questi monumenti –  le mura hanno subito delle modifiche di varia entità. Gli studi mostrano come esso  fosse il meno ricco di rilevanti architetture civili, con netta prevalenza di cellaria e di apotecae e quindi  abitato in massima parte dalla classe artigiana e commerciante[5].

Il tessuto urbano di Nardò, come molti  centri del Salento, mutò in maniera sensibile dal 1550 al 1700, a seguito dell’impatto economico e sociale avuto dalla battaglia di Lepanto (1571). Poi il sisma del 1743 contribuì in maniera quasi radicale a variare l’aspetto (o la struttura) di molti edifici sia pubblici che privati.

* * *

L’abitazione oggetto dell’intervento di restauro occupa  in tutta la sua profondità l’isolato di forma allungata posto fra il dismesso convento del Carmine e la fascia edificata sul tracciato delle ultime mura. Affacciata su Via Fanti e su Via Pellettieri, è quindi prospiciente quella che è attualmente chiamata Piazza delle Erbe (fig 1).

Dall’esterno questa domus appare come un unico blocco edilizio che invece si rileva piuttosto articolato dopo aver varcato il portone di ingresso: ci si trova infatti in un cortile con vari ambienti e da esso si accede al piano superiore. Gli elementi formali e i documenti inquadrano questa casa nella tipologia della domus palaciata[6]: la costruzione a piano primo è infatti circondata sui lati ovest e sud da un portico. Si tratta di un elemento che, considerando le attuali residenze nel centro antico, si può ritenere decisamente inconsueto, ma anticamente doveva far parte del paesaggio urbano della città quando, non ancora edificati i palazzi settecenteschi, le domus palaciatae erano certamente più comuni. Nel nostro caso il porticato presenta leggere differenze: più classico nelle proporzioni e nella forma sul lato sud, sul lato ovest si presenta con un muro bucato da finestre che si affacciano su Piazza delle Erbe.

Al piano superiore si ha accesso tramite una scala in pietra che immette nel portico che si svolge attorno alla casa.  Oltre le quattro arcate che si aprono sul cortile, un lungo corridoio voltato a botte consente l’accesso a vari ambienti della casa e consente l’affaccio su Piazza delle Erbe attraverso finestre rettangolari di gradevole proporzione.

All’interno la casa ha una pianta rettangolare, divisa in sei vani di forma regolare, in origine coperti con la tradizionali coperture a falda di incannucciato e coppi.

Tale antica copertura era realizzata con una struttura portante in travi di legno, su cui era sistemato l’incannucciato in modo da formare un piano regolare su tutta la superficie delle falde, su cui si posavano i coppi  su un impasto formato da terra rossa (bolo)[7] misto a detriti e/o calce[8].

Anche la pavimentazione è oramai quasi ovunque alterata dall’apposizione di moderni mattoni in cemento e scaglie di marmo, ma in alcuni vani resta, sia pur frantumato, l’antico battuto di calce ed inerti.

* * *

La casa di nostro interesse poggia su una costruzione più antica, senz’altro degna di attenzione, con ambienti che sembrano quasi degli ipogei; si percepisce immediatamente la profondità del piano pavimento rispetto al piano basolato di Piazza delle Erbe. Tali vani sono costituiti da stanzoni coperti da una volta a botte che abbraccia la distanza fra la piazza anzidetta e via Fanti con un’unica luce (fig. 3) .

Alcuni di questi spazi sono stati usati sino agli anni ’50  come frantoio e lo  confermano le due anguste stanze che recano tracce di comunicazione con il piano superiore: si tratta verosimilmente delle “sciaghe”, una sorta di silos in cui venivano versate dall’alto le olive in attesa della molitura.

Si notano grandi differenze negli elementi costruttivi rispetto al  piano superiore: la fattura delle volte appare approssimativa e sono presenti grandi archi di rinforzo realizzati in un’epoca successiva ed imprecisata. Si tratta di archi di forte spessore che presentano al centro un elementi di chiave realizzati in maniera inconsueta, in sostanza delle biattabande[9] costruite con vari elementi accostati e posti alla sommità dell’arco. Esse presentano degli intagli (fig. 4) alle estremità che forse servivano  per il posizionamento di travi lignee (fig. 5).

Come accennato la costruzione dal lato di via Pellettieri è in buona parte interrata e sorprende il notevole spessore[10] delle murature che dall’esterno presentano una sensibile inclinazione tanto da far pensare ad un elemento di fortificazione.

Nel periodo compreso fra il 1255 circa ed il 1350[11] circa si hanno diverse integrazioni delle mura urbane.

Si tenga presente che, sino agli anni ’40 del secolo scorso, sul lato prospiciente via Fanti non vi era alcuna apertura, che era invece presente su Piazza delle Erbe. Se la funzione difensiva della costruzione fosse reale, come ipotizzato,  vuol dire che si è avuto in questa area un ampliamento delle mura. Il perimetro delle ultime mura è infatti ora ravvisabile con le costruzioni prospicienti Viale Grassi.  L’epoca di tale ampliamento si potrebbe collocare in un periodo immediatamente successivo  al bombardamento francese del 1528[12].

Ricercando nella citata veduta del Blaeu Mortier la domus di nostro interesse (fig. 6), colpisce la straordinaria similitudine fra il suo prospetto di casa Colopi e quello disegnato dal cartografo nella medesima posizione e come l’isolato sia parallelo alla linea delle mura della Città, oltre al giardino dei Carmelitani.

Di grande aiuto per meglio interpretare l’architettura si è rivelato un rogito di compravendita del 1609 del notaio Tollemeto, in cui Bernardino Tafuri e la sorella Maddalena vendono a Francesco Acquaviva un immobile così descritto: ..tunc deputata pro cellario cum cisterna intus, cum orticello retro e domuncula lamiata ante portam principalem dicti cellarii et cum scala lapidea..[13].

In altro atto del 1570 Giacomo  di Giovanni Gaballo permuta con Margherita de Pandi la sua casa palaziata qui ubicata, confinante con horto e convento dei Carmelitani, con giardino e apoteca di Domenico e Giovanni D’Orlando, il giardino dell’abate Domizio Montefuscoli e delle sue sorelle.

Le  descrizioni sembrano coincidere con  la domus palaciata di nostro interesse, che al momento ci appare fra le poche in cui siano sopravvissuti i caratteri originari (fig.7), per quanto celati dalle trasformazioni susseguitesi nel tempo.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°2


[1] Per meglio chiarire il concetto e limitare i fraintendimenti, è necessario puntualizzare che cosa si intenda per “tipologia” o, più correttamente, per “tipo”, entrambi termini estremamente diffusi e comunemente usati nel linguaggio corrente. La nozione di “tipo” a cui faccio riferimento di seguito è quella correntemente adottata in architettura per descrivere una struttura formale. “Il tipo è di natura concettuale non oggettuale” ed individua, quindi, una famiglia di oggetti che posseggono tutti le stesse condizioni essenziali, senza fare riferimento ad alcuno in particolare (cfr. C. Martì Aris, Le variazioni dell’identità, CLUP 1990 p.19-22).

[2] Lo  spazio aperto retrostante la casa.

[3] A. Costantini, La casa a corte nel salento leccese, Lecce 1979, p.42.

[4] Castelli Veteris, Sant’ Angelo, San Salvatore e San Paolo.

[5] B. Vetere, Città e Monastero, Galatina 1985, p.179-185.

[6] B. Vetere, Città e Monastero, Galatina 1985, IX-XX.

[7] E. Allen, Pietre di Puglia, Bari 1969, p. 15.

[8] Questo impasto, quando dosato con sapienza, aveva notevoli doti di impermeabilità e poteva quindi resistere per decenni, sebbene, per la naturale deperibilità del materiale usato, le coperture a incannucciato (cannizzu) fossero comunque soggette a periodiche manutenzioni e rifacimenti.

A casa Colopi, secondo testimonianze dirette, l’ultimo rifacimento della copertura risale al dopoguerra: purtroppo in questa occasione si decise di sostituire parte dei tetti con moderni solai piani.

[9]La piattabanda è un elemento orizzontale, a forma di arco molto ribassato che scarica lateralmente il peso della muratura soprastante. I conci di una piattabanda sono disposti a raggiera come quelli di un arco tuttavia l’estradosso della piattabanda è piatto come quello di un architrave.

Nella piattabanda realizzata in conci di  tufo questi hanno di forma trapezoidale. In alcuni  casi, al di sotto della piattabanda è presente un architrave in legno, in pratica una “forma persa” usata nella costruzione della piattabanda stessa.

[10] Sul versante di via Fanti, supera i due metri.

[11] G.D. De Pascalis, Nardò, Il centro storico, Nardò 1999, pp.127-130.

[12] Idem, p.134.

[13] Ringrazio l’amico Marcello Gaballo per avermi fornito questi documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Lecce.

Meravigliose sorprese nella pinacoteca di San Michele Salentino


di Angelo Diofano

Dal periodo “Agrà” di Sante Monachesi all’”informale materico” di Walter Coccetta e al più vicino Adolfo Grassi, passando (fra i nomi più famosi) per Salvatore Fiume, Remo Brindisi, Concetto Pozzati, Renato Guttuso, Giulio Turcato, AntonioTamburro, Ernesto Treccani e lo scultore Pericle Fazzini, in un crocevia di incontri con artisti “minori”. Che sorprendente scoperta si può fare nel piccolo ma ordinato e caratteristico comune di San Michele Salentino, in provincia di Brindisi, 6.000 abitanti, situato nell’area dell’Alto Salento, poco distante da Francavilla Fontana e da San Vito dei Normanni. Una realtà insospettata che accoglie nella pinacoteca intitolata a Salvatore Cavallo, magico luogo d’incontro del paese, che vive principalmente di agricoltura ma che fra le priorità del suo percorso ha inserito la propria crescita culturale.

Il tutto nasce grazie alla volontà e alla generosità del prof. Stefano Cavallo, artista e collezionista, nato a San Michele Salentino nel 1913 e morto a Milano nel 1997, la cui forte tensione espressiva trovò degna realizzazione nella pittura e nella scultura, con molte delle sue opere ospitate in collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero. Egli espresse il nobile gesto di

Musei diocesani pugliesi scrigni di ricchezze

 

 

di Giuseppe Massari

Nel panorama culturale pugliese ci sono delle testimonianze e delle realtà che non si può fare a meno di visitare. Tra i tanti doni naturali che la Puglia possiede, e che ha gratuitamente ricevuto in dono,  ci sono quelli costruiti da mani esperte ed umane. Sono immagini sacre, quadri, sculture di santi, reliquiari, paramenti ed arredi sacri. Un corredo enorme che costruisce e ricostruisce la storia della Chiesa pugliese. Che fa da cornice e da sfondo ad una storia scritta, ma non sufficientemente conosciuta. Un bagaglio culturale di enorme spessore, interesse e bellezza attraverso il quale si sono cimentati pittori e artisti di fama mondiale, ripercorrendo in lungo e in largo la sacralità, la spiritualità, la fede della nostra regione.

Questi ricchi contenitori di arte ed espressività, intonati e sintonizzati con le corde del cuore, sono i molteplici musei diocesani sparsi dal nord al sud della Puglia.

Ma in realtà quanti sono? In una prima ricostruzione, fatta alcuni anni fa, dalla Commissione per la cultura della Conferenza episcopale pugliese,  e sfociata in una pubblicazione che ha visto la luce circa cinque anni fa,  “Guida dei Musei diocesani di Puglia”, essi assomano ad un numero pari a 17. Va detto subito che sono fra i più importanti e i più ricchi per contenuti di oggetti espositivi. A questo elenco vanno aggiunti quelli definiti ecclesiatici, cioè sempre di proprietà della Chiesa, ma più, per quanto riguarda la gestione, di natura privata o privatistica.

Tutti, comunque, in ugual misura, contribuiscono ad integrare il già vasto patrimonio architettonico delle nostre chiese romaniche, gotiche e barocche.

Tutti questi cimeli, uniti indissolubilmente alle storie di ogni singola cattedrale o chiesa locale, sono il miglior viatico, il migliore mezzo per portare la Puglia oltre i suoi limitrofi e lontani confini. Essi svolgono una funzione turistica di indubbio valore, se è vero, come è vero, che la sete del sapere e del conoscere non può non passare attraverso le bellezze che racchiudono il sacro, il divino, il trascendente, il culto, la fede, la tradizione, la specificità di un messaggio autentico e non artefatto, in mezzo al confusionismo moderno o della modernizzazione dissacrante, blasfema ed iconoclasta.

Nell’economia di questi tesori viventi vanno aggiunti i cassetti della memoria spolverata o impolverata degli Archivi. Altre miniere di ricchezza di documenti, di racconti particolari, curiosi, metodici, puntuali dello svolgimento della vita della Chiesa, con gli atti ufficiali dei molteplici vescovi che hanno abitato le sedi episcopali. La vita dei Capitoli cattedrale. Le particolarità raccontate dei vari personaggi storici, che hanno contribuito a scrivere ogni fetta e parte di storia locale. Forse, con l’eccezione e la dovuta distinzione, però, va evidenziato come i musei, per la loro capacità di farsi guardare e ammirare sono mete ambite da molti.

Gli archivi, sono luoghi di studio, riservati a pochi, a cultori, ad appassionati di ricerche, e, quindi, meno esposti ai visitatori occasionali e di passaggio. Ma gli uni e gli altri non differiscono dall’ essere punti centrali d’incontro e di partenza per lo studio di ogni realtà particolare. Gli uni e gli altri insieme per assolvere a quella funzione di supporto propagandistico e promozionale del nostro territorio.

Non potendo elencare tutti i tesori contenuti nelle strutture museali diocesane, quanto meno, ci è sembrato opportuno, riportare, grazie all’ausilio di un recente studio, elaborato attraverso una Tesi di Licenza in Museologia, curata dal giovane Giorgio Gasparre e discussa presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, presso la Città del Vaticano, nell’Anno accademico 2004 – 2005, l’elenco aggiornato di tutti i musei che insistono nelle varie diocesi pugliesi.

 

 

Provincia di Lecce

Ÿ         Museo Diocesano d’ arte sacra dell’ Arcidiocesi di Lecce: Comune: Lecce- Diocesi: Lecce- Sede: Palazzo del seminario, piazza Duomo- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Otranto: Comune: Otranto- Diocesi: Otranto- Sede: palazzo Lopez, piazza della Basilica- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro. 

Ÿ         Museo Diocesano di Gallipoli: Comune: Gallipoli- Diocesi: Nardò-Gallipoli- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a pagamento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Ugento: Comune: Ugento- Diocesi: Ugento- Santa Maria di Leuca- Sede: Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

 

Provincia di Brindisi

Ÿ         Museo Diocesano “Giovanni Tarantini”: Comune: Brindisi- Diocesi: Brindisi- Ostuni- Sede: chiostro del Palazzo del Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In allestimento. 

Ÿ         Museo Diocesano di Oria: Comune: Oria- Diocesi: Oria- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto a richiesta. 

 

Provincia di Taranto

Ÿ         Museo Diocesano di Taranto: Comune: Taranto- Diocesi: Taranto- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra-Proprietà: diocesano. Prossima apertura.

Ÿ         Museo Diocesano di Castellaneta: Comune: Castellaneta- Diocesi: Castellaneta- Sede: ex Seminario Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Provincia di Bari

Ÿ         Museo Diocesano della Basilica Cattedrale di Bari: Comune: Bari- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Arcivescovado- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano: Pinacoteca Mons. A. Marena e Lapidario romanico: Comune: Bitonto- Diocesi: Bari- Bitonto- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Capitolare della Cattedrale di Gravina di Puglia: Comune: Gravina di Puglia- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Seminario Vecchio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: Capitolo della Cattedrale di Gravina di Puglia- Aperto, offerta libera.

Ÿ         Museo Diocesano della Cattedrale di Altamura: Comune: Altamura- Diocesi: Altamura- Gravina- Acquaviva delle Fonti- Sede: Matronei della Cattedrale- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- In progettazione.

Ÿ         Museo Diocesano di Monopoli: Comune: Monopoli- Diocesi: Conversano- Monopoli- Sede: Ex Seminario- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano di Bisceglie: Comune: Bisceglie- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: Palazzo Vescovile- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Provincia di Barletta- Andria- Trani

Ÿ         Museo Diocesano di Trani: Comune: Trani- Diocesi: Trani- Barletta- Bisceglie- Sede: piazza Duomo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso.

 

Provincia di Foggia

Ÿ         Museo Diocesano di Foggia: Comune: Foggia- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Chiesa dell’ Annunciata- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Ÿ         Museo Diocesano di Bovino: Comune: Bovino- Diocesi: Foggia- Bovino- Sede: Castello di Bovino- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di San Severo: Comune: San Severo- Diocesi: San Severo- Sede: ambiente ipogeo di via vico freddo- Tipologia: archeologico, artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, gratuito.

Ÿ         Museo Diocesano di Lucera: Comune: Lucera- Diocesi: Lucera- Troia- Sede: Episcopio- Tipologia: artistico, arte sacra- Proprietà: diocesano- Aperto, a pagamento.

Ÿ         Museo Diocesano del tesoro della Cattedrale di Troia: Comune: Troia- Diocesi: Lucera- Troia- Tipologia: artistico- arte sacra- Proprietà: diocesano- Chiuso per restauro.

Le foto a corredo di questo articolo riprendono alcuni dei beni esposti nel Museo Diocesano di Gallipoli

Cielo stellato

di Wilma Vedruccio

   L’estate è propizia per alzare gli occhi al cielo nella notte, a osservare il firmamento, più che le altre stagioni. Le notti calde che ridonano il respiro dopo il caldo del giorno, agevolano l’incontro con gli astri, perduti nelle lontananze celesti, smarriti dai nostri orizzonti circoscritti, dimenticati nella smania del vivere, o forse mai conosciuti.

In certe notti, baciate dalla brezza di terra, in luoghi abbandonati alla grazia del buio che avvolge e illumina intorno, può avvenire di perdersi fra le stelle.

Se non si ha fretta, se un po’ di umiltà ci assiste, pian piano prende forma la mappa celeste, il firmamento ci prende per mano e noi, ritornati bambini, ci inoltriamo nelle profondità dell’universo a rincorrere una stella che ammicca lassù…e così, di stella in stella, come gli avi di un tempo, tracciamo segmenti di significato per una geografia astrale, per non smarrire la strada e poter ritornare, novelli Pollicini, su questa terra che sì, ci fa penare ma ci avvolge materna, protettiva e matrigna insieme.

Ma torniamo a perderci fra le stelle per una sera… ecco qui Cassiopea, là il Grande Carro e il Piccolo che si tira dietro la Stella Polare…e noi non più marinai, non carovanieri, non sappiamo che farcene e poi abbiamo il “navigatore”…di altre stelle abbiamo bisogno, fari per l’animo, universo tutto da esplorare, con grovigli di nebulose e buchi neri, e noi incapaci a venirne a capo, non punti di riferimento, non modelli, prospettive nebbiose e incerte.

Storie mitologiche riempiono il cielo, non favolette né telenovele di qualche millennio fa. Miti, netti, indecifrabili, inquietanti. Vita e morte, amori, sacrifici, passioni, gelosie, vendette, capricci e prepotenze son tracciati nella mappa celeste da tempo immemorabile: Orione, Cigno, Aquila, Chioma di Berenice… Un’eredità celeste che attende d’essere goduta da una umanità balbuziente? E’ nel cielo il bandolo della umana psiche?

Troppe domande, troppi problemi per un’esistenza così breve da vivere, ricca di tesori da riconoscere, ammirare e godere in un tempo di cui non ci è data certezza, tempo che non possiamo governare, che scivola via dalle mani e forse s’accumula lassù, nel buio fra una costellazione e l’altra, quale riserva per l’umanità futura, una “previdenza” astrale.

No, troppo difficile trovare una ragione… e già il sonno appesantisce le palpebre… guarda lì una stella cadente! Non una stella, sai, un meteorite.

Sì, va bene, ma hai espresso un desiderio? No, non ne ho avuto il tempo…

Sul termine naca, la culla dei nostri avi

di Armando Polito

immagine tratta da

http://www.google.it/imgres?q=la+naca&um=1&hl=it&sa=N&tbm=isch&tbnid=LquD9q2swh7D7M:&imgrefurl=http://www.flickr.com/photos/pupo08/3809907884/&docid=O-A7RvLw_DgPbM&w=500&h=375&ei=KOIvTsftE4eMswbXlY0C&zoom=1&iact=hc&vpx=156&vpy=281&dur=4160&hovh=194&hovw=259&tx=145&ty=92&page=3&tbnh=148&tbnw=202&start=24&ndsp=12&ved=1t:429,r:4,s:24&biw=1024&bih=653

1) Ci tene fili si fazza la naca! (Chi ha figli si faccia la culla!).

2) Lu piccìnnu ti la naca nnu ggiùrnu ènchie1 e l’addhu sdiàca2(Il bambino della culla un giorno riempie e l’altro svuota).

3) El più del tempo stava, questa3, mbriaca/e non sapëa quel che se facea;/e molte volte sopra de la naca/con greve sonno spisso4 se adormea (La maggior parte del tempo stava, questa, ubriaca/e non sapeva quello che faceva;/e molte volte sopra alla culla/con pesante sonno profondo si addormentava).

Chi legge avrà già intuito che i primi due documenti sono due proverbi in dialetto neretino e che il primo è un invito ai genitori a far fronte direttamente (si fazza) alle loro responsabilità, il secondo è di interpretazione più problematica, perché potrebbe alludere al continuo, alternato  aumentare di peso, ingrassare (ènchie) e diminuire, dimagrire (sdiàca) del bambino5, oppure dipingere un quadro di regolarità intestinale in tempi in cui Activia e il suo biphidus actiregularis non esistevano e, non esistendo nemmeno la tv, non rompevano, come fanno oggi, le scatole senza, peraltro, garantire nei fatti ciò che a parole e ad immagini promettono…

È altrettanto evidente che il terzo documento non è in dialetto neretino; infatti si tratta di quattro endecasillabi (vv. 249-252) tratti dal poema Lo Balzino scritto nella seconda metà del XV° secolo dal neretino Rogeri de Pacientia6. Il poema, contenuto nel manoscritto F24 della Biblioteca di Perugia, fu studiato dal Croce, ma la prima pubblicazione integrale del testo, a cura di Mario Marti, è relativamente recente7. Quanto alla lingua usata, si tratta di uno dei primi tentativi salentini dell’uso del volgare con intendimenti letterari ed essa non si discosta da quella solita degli scrittori napoletani del secolo, non priva di forme dialettali, barbarismi, costrutti poco lineari che sovente danno vita ad un’espressione piuttosto intricata del pensiero.

Chi, però, pensa, sulla scorta dei proverbi probabilmente più antichi de Lo Balzino, che naca nei quattro versi riportati sia la forma dialettale neretina più

Uno sconosciuto insediamento rurale tardo antico tra Melissano e Racale

 di Stefano Cortese

Tra i tanti racconti che mio nonno Paolo mi tramandò ha sempre suscitato nel sottoscritto una certa curiosità la scoperta di alcune tombe e reperti in ceramica che lo stesso, insieme a suo fratello Antonio, ebbero modo di rinvenire lavorando il terreno di “donna Rosa Panico”, al fine di impiantare alcuni uliveti negli anni ’50.

Si tratta di una contrada sita tra le masserie Cuntinazzi e Cutura, tagliata dalla provinciale Melissano-Felline, sul confine amministrativo tra la stessa Melissano e Racale.

Ebbi modo di segnalare l’episodio sulla personale tesi di laurea magistrale (Cortese 2009, 22-23) in quanto questa contrada, a personale avviso, doveva essere lambita dal  percorso che da Ugento portava al monastero italo-greco di santa Maria del Civo, per poi proseguire in direzione Alezio.

L’amico Fernando Scozzi (2009, 10), in un suo contributo inerente la masseria Cutura, accenna inizialmente alla storia della masseria e del suo passaggio di proprietà alla famiglia Panico (con istrumento del 12 febbraio 1896), poi ha modo di riportare una fonte orale, quella di Giuseppe Cortese, il quale ricorda che in questa contrada, denominata Spagnuli, furono scoperchiate delle tombe che si diceva facessero parte di una necropoli di un non meglio precisato convento degli “Spagnuli”.

Grazie alle sue ricerche, il professore Scozzi segnala che il toponimo Spagnuli era già presente nel catasto onciario dell’università di Racale del 1754, tra i possedimenti del duca Basurto, segnalando come sulla stessa contrada insistesse il toponimo monte d’Ercole e quello di calcara di Cola, a causa appunto di una calcara ancora viva nella memoria degli anziani.

In vista della pubblicazione “Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri storici di Racale, Alliste e Felline” (Cortese 2010), ho avuto modo di compiere un sopralluogo in zona per poter meglio delineare le caratteristiche di questo insediamento. Nel fondo dove furono trovate delle tombe è presente oggi una piccola cava e molto probabilmente, se le tombe non erano terragne, almeno parte della necropoli è andata distrutta; dall’altro lato della strada, in un terreno adibito a giovane oliveto, i fondi sono cosparsi una grande quantità di ceramica di datazione tardo antica, a partire soprattutto dal II-III secolo d. C.

Tra la ceramica rinvenuta, laterizi, ceramica anforaria e da mensa (in particolare sigillata africana C). Poca, ma presente, la ceramica bizantina (non si esclude una residualità d’uso di ceramica romana imperiale nell’età bizantina), mentre è assente la ceramica invetriata.

La vocazione agricola del piccolo insediamento rurale romano viene corroborata dalla testimonianza orale fornitami da Giuseppe Cortese, il quale ricorda di aver visto il negativo, nel terreno, di due grandi contenitori, probabilmente due grandi pithoi o dolia. Non sappiamo il toponimo del sito, ma la vicina toponimo prediale Ruggiano e la presenza a poco meno di un centinaio di metri di distanza di almeno 3 tracce di centuriazione romana (direzione sud-sudest), testimoniano l’antropizzazione della contrada.

Infine, ci fu mai una comunità monastica sul sito? Il toponimo Spagnuli, a personale avviso, è da riferirsi alla caratteristica erba selvatica conosciuta nel volgo con tale nome, oppure alla origine spagnola dei proprietari della contrada, cioè i Basurto. Nessuna fonte, purtroppo, ci autorizza a pensare la presenza di un’antica comunità monastica in zona, anche se in un vicino sito analogo già frequentato, leggermente più ampio (un probabile vicus), si insediò la comunità italo-greca di Civo, reimpiegando, come accadeva spesso, i conci dagli edifici romani.

E’ grazie all’archeologia del ricordo che è emerso l’ennesimo insediamento rurale romano (fattoria?) che costellavano il nostro territorio in epoca imperiale, scoperta il cui input va tributato al  mio compianto nonno.

BIBLIOGRAFIA

-Cortese S. 2009, L’insediamento monastico di Santa Maria del Civo fra indagine storica ed archeologica, tesi di laurea magistrale in topografia medievale, relatore prof. Paul Arthur, a. a. 2008/09

-Cortese S. 2010, Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri antichi di Racale, Alliste e Felline, edito dal CRSEC Le/46 Casarano, tip. Martignano, Parabita

-Scozzi F. 2009, “La masseria “Cutura” note di storia e di archeologia” in Rosso di sera, a cura della Pro Loco, Melissano gennaio 2009, p. 10

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