L’amore dormiente, una tela nel Museo Archeologico di Taranto

Un’ ipotesi attributiva per “L’amore dormiente”

di Nicola Fasano

 

Il dipinto, oggetto del mio articolo, fa parte della collezione che il vescovo di Nardò, monsignor Ricciardi, donò al Museo Archeologico di Taranto[1] tramite un testamento olografo depositato nel 1907[2].

Il documento recita: “Tutti i quadri di qualche merito artistico sia esistenti nel Palazzo di Taranto, che all’Episcopio (di Nardò), voglio che siano depositati nel Museo pubblico di Taranto”.

Le tele in questione sono per la maggior parte opere di scuola napoletana del XVII e XVIII secolo, tra le quali trova spazio il nostro dipinto, raffigurante  “L’amore dormiente”.

L’opera in questione è una teletta (57 x 39) che tradizionalmente viene attribuita alla scuola Andrea Vaccaro; essa trova spazio in un saggio del  Galante[3] che, senza il conforto della fotografia, cita fugacemente l’opera nel passare in rassegna i dipinti della collezione.

La D’Amicis[4] nel catalogo della collezione rimane fedele alla tradizionale attribuzione con la quale la Soprintendenza schedò le opere nel lontano 1908.

La teletta, molto rovinata, raffigura un putto grassottello disteso su un manto azzurrognolo che sorregge il proprio capo con il braccio sinistro, mentre con l’altra mano impugna una freccia. Il tutto si svolge in una cornice naturalistica ottenuta dai toni bruno-marrone, dove intravediamo un paesaggio agreste con accenni montagnosi.

La figura dell’amorino è riletta in modo nuovo rispetto alla tradizione precedente. Infatti, il putto ha perso quella classicità idealizzata ed è divenuto una figura in carne ed ossa dalla disarmante quotidianità. Solo da timidi segni, quali il breve accenno delle ali e la freccia, rinveniamo la sua natura mitologica.

“Amore dormiente” è visto come simbologia dell’amore cieco, l’abbandono al sonno sarebbe allusivo dell’amore sensuale.

L’opera dal piccolo formato a carattere profano di destinazione privata, era un soggetto molto in voga nella Napoli seicentesca e trovava spesso spazio nelle camere da letto della nobiltà partenopea, lontano da sguardi indiscreti.

Quel modo di delineare gli incarnati attraverso una massa pittorica delicatamente levigata, di raffigurare i soffici capelli fioccosi oltre la condotta luministica che medita sul pittoricismo vandychiano e sulle tendenze neo-venete, attraverso una stesura ricca di luce, potrebbero fa pensare alla mano di Cesare Fracanzano.

A conforto della mia tesi, in una rassegna di autori napoletani del ‘600, Achille Della Ragione[5] identifica un analogo soggetto in collezione privata molto simile al nostro, essere di Cesare Fracanzano. A differenziare le due telette è però il ductus pittorico che nel nostro dipinto risulta più sfrangiato per mezzo di rapidi tocchi di pennello che scolpiscono la figura.

Solo un accurato restauro potrebbe, però, confermare la paternità del dipinto tarantino al pittore biscegliese già operoso a Taranto nel palazzo Carducci – Artenisio.


[1] Le tele dopo svariate vicissitudini burocratica hanno trovato sede nel nuovo allestimento del Museo MarTa nel 2007. Rimangono tuttavia dei dubbi in merito alla loro collocazione, in quanto relegate in un angusto corridoio, che ne sacrifica la piena fruibilità. E bene ricordare comunque, che stiamo parlando di un museo archeologico, pertanto la collezione di quadri risulta avulsa dalle restanti opere conservate nella struttura.

[2] A. Dell’Aglio, Storia di una collezione,  in Storia di una collezione. I quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto, Taranto, 2004, p. 10.

[3] L. Galante, Alcune considerazioni su Leonardo Antonio Olivieri e altre segnalazioni di pittura napoletana in Puglia, in Questioni Artistiche Pugliesi, Galatina, 1984, p. 43.

[4] A. D’Amicis, I quadri della collezione Ricciardi, in Storia di una collezione. I quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto, Taranto, 2004, p. 18.

[5] http://www.guidecampania.com/dellaragione/articolo72/indice03.pdf.

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