Mario Perrotta intervistato da Gianni Ferraris

di Gianni Ferraris

  • Dalle note biografiche di Mario Perrotta sappiamo che è nato nel 1970 a Lecce, dovrà arrivare al 1980 per iniziare a vincere “a chi arriva più in alto”, arrampicandosi sulle impalcature dei palazzi in costruzione raggiungerà il quinto piano, record imbattuto per ben 5 anni. Uno spunto non da poco, stai ancora arrampicando?

Sì, sto ancora arrampicando, poiché quel senso di sfida mi aiuta ancora oggi nel tentare nuove vie (proprio come gli scalatori che cercano di aprire “nuove vie” per scalare lo stesso monte).

In realtà, ho scoperto abbastanza presto che la sfida non era con gli altri ma con me stesso: volevo sapere se ce la potevo fare e, soprattutto, se potevo arrivare a qualcosa rompendo un protocollo o una barriera consolidata nel tempo. La sfida al “questo si fa così da sempre”, al “questo non sei in grado di farlo” è una delle due molle che mi tiene in piedi, quella più infantile, direi. L’altra è l’indignazione civile. E qui non posso che citare Flaubert sul quale sto lavorando in questo momento: “l’indignazione è per me come lo spillone che hanno le bambole nel culo. E’ ciò che le tiene in piedi. Il giorno che dovessi perdere la mia indignazione, cadrei a terra bocconi.”

  • Poi Lo scientifico a Lecce, quindi Bologna, ingegneria, abbandonata per filosofia (laurea con 110 e lode), e la scuola di teatro pagata lavando auto. Bologna la ricca signora, Bologna “busona” o che altro?

Quando sono partito per l’Università (1988), Bologna era il paese dei balocchi di ogni Lucignolo meridionale, quindi la scelta fu facile. Bologna però, era anche sufficientemente lontana per poter dire che andavo a vivere da solo e che me la dovevo vedere con me stesso, senza contare sulla vicinanza fisica della famiglia. E ancora: era un percorso inconscio sulle orme dell’emigrazione poiché è nel DNA di ogni meridionale l’idea che, lontano da casa, è più facile trovare lavoro. Come una condanna dell’anima che ci portiamo addosso da secoli.

Infine, era anche il desiderio adolescenziale di sprovincializzarmi, un desiderio che mi fece abbandonare anche Bologna (nel 1998) per Roma. E dopo qualche anno romano, capii che, per essere centrato e in pace con me stesso, dovevo tornare a casa. Come ho detto spesso, un ritorno dell’anima non del corpo che, invece, continua a vivere in giro per alberghi ma con le sue origini ben ancorate nel cuore e nella lingua che uso in scena.

  • Poi l’incontro  Paola Roscioli, attrice che diventerà tua compagna. E arriviamo al 2001 dove (cito dalla tua biografia):   progetta e dirige per il Comune di Otranto il festival Otranto In Scena. Nelle tre edizioni realizzate il festival ospita compagnie assenti dalla Puglia da oltre 20 anni come il Teatro dell’Elfo, e ancora Ascanio Celestini, Lorenzo Salveti, Paolo Rossi, Peppe Barra, Laura Curino, Ozzano Teatro Ensemble. Purtroppo, lo scontro permanente con l’amministrazione forzitaliota, della quale deve risolvere gli svarioni organizzativi e a cui deve spiegare ogni nuova edizione la differenza tra gli spettacoli ospiti e il culo di Valeria Marini, decreta la fine di quell’esperienza.

Appunto: il ritorno a casa (insieme a Paola che mi aveva regalato la stabilità affettiva). Ci provai, mi giocai i rapporti personali che avevo instaurato con gli artisti citati, mi buttai capo e collo in un’impresa rischiosissima, senza alcuna copertura economica poiché il Comune si limitava a darmi lo spazio e poco più. Ogni serata del festival era carica di attese, di entusiasmo per ciò che stava avvenendo in scena e di timori fugati solo dalla conta dei biglietti venduti: il primo anno incassammo 500mila lire in meno dei 60 milioni che avevamo speso. Gli altri due anni andarono in pareggio.

Mi sarebbe bastato continuare a pareggiare pur di fare qualcosa per la mia terra, ma sul piatto della bilancia dovevo mettere le discussioni infinite con amministratori sordi a ogni stimolo culturale, che mi chiedevano centinaia di biglietti da distribuire ai vari maggiorenti cittadini (riuscivo quasi sempre a decimare le richieste ma era veramente un gioco duro); le “velate minacce” di alcuni ispettori della commissione tecnica che anche loro volevano  biglietti per familiari vicini e lontani – pena, non dare il visto tecnico per lo svolgimento della serata; e poi, l’asso di briscola, che era appunto il culo di Valeria Marini (e quello pesa molto sul piatto della bilancia).

M’aggrappai alla “mia indignazione” e mollai tutto. In quell’esperienza capii definitivamente che non riesco ad accettare nessun tipo di compromesso, di “aggiustamento” all’italiana. Quei sorrisetti padronali e quelle occhiate di intesa di stampo mafioso – dove per “mafioso” intendo una mentalità e non il reato -; quel gestire la cosa pubblica come si possedesse un dominio medioevale su ciò che è di tutti; quelle relazioni compromettenti tra uffici, assessorucoli, segretari, missi dominici, elementi della pubblica sicurezza in borghese, della Asl in borghese, della Protezione civile in borghese; quella zona liquida tra legalità e illegalità che pervade il nostro paese: tutto questo mi provoca l’orticaria. Probabilmente è un limite forte e mi rende refrattario a una certa italianità, ma acuisce la mia indignazione, consentendomi di continuare a scrivere e di stare in piedi di fronte a quei personaggi guardandoli dritti negli occhi. Non so se loro potrebbero fare altrettanto visto che, due anni dopo la fine di “Otranto in scena”, molti esponenti di quella giunta comunale furono inquisiti dalla magistratura per il loro operato: non so come è andata a finire, ma mi vengono i brividi se penso che, con un briciolo di indignazione e di dignità in meno, avrei potuto cedere a uno di quei sorrisetti per ritrovarmi indagato anch’io, con le mani sporche del letame che mi avevano indotto a toccare.

dal sito di Mario Perrotta
  • Nel 2003 nasce il progetto CINCALI in collaborazione con Nicola Bonazzi. Riusciamo a fare un flash dell’opera omnia?

Il progetto Cìncali nasce da quell’esigenza interiore di riavvicinamento con i luoghi dove sono nato e cresciuto sino ai diciotto anni, quell’esigenza di cui parlavo prima, sopravvenuta dopo le fughe adolescenziali e le smanie “metropolitane”. Dopo Bologna e Roma non c’erano altre possibilità di luoghi più estesi (New York?): non mi restava altra soluzione se non chiudere il cerchio, dovevo ritornare in qualche modo alla mia terra, indagarla per riavvicinarla, farla scivolare, se possibile, anche nel mio lavoro per riconciliarmi con una parte di me che avevo lasciato lì a diciotto anni. Avevo però, bisogno di una visione particolare di quei luoghi per portarli in scena. Non ho trovato sguardo migliore per raccontarli se non quello di chi li aveva dovuti lasciare forzatamente: gli emigranti. Il loro è uno sguardo privo di presbiopie, al contrario di chi in quella terra continua a vivere. Ne ho intervistati centinaia, allargando, nel tempo, il campo d’azione in Veneto, in Friuli, all’estero, spostando così il centro di interesse su un fenomeno nazionale. Ma la matrice pura del lavoro è stata questo bisogno tutto mio di riconciliazione.

Un’altra leva importante è sopraggiunta in seguito, durante le ricerche nel Salento, quando ho cominciato a sentire con troppa frequenza questo commento: “tutto il marcio di questa terra è colpa degli albanesi”. Lì ho capito che la mia gente, emigrante da sempre, aveva trovato un “sud” su cui scaricare le proprie frustrazioni e le mancanze. Allora mi sono detto che era ancora più urgente portare avanti quel lavoro, raccontare chi siamo stati e come ci hanno trattato all’estero, con la speranza che, almeno uno spettatore su cento ogni sera, si faccia una domanda in più su chi oggi arriva in Italia spinto dalle stesse esigenze degli emigranti di tutti i tempi e di ogni luogo della terra. Perché sono convinto (ed è convinzione del tutto personale) che nessuno lascia la propria terra se non è costretto da urgenze elementari cui dare una risposta. Il progetto è nato così, per questi motivi. In fase di scrittura poi, abbiamo deciso di dividere il progetto in due spettacoli, per poter descrivere meglio i due aspetti che caratterizzano ogni “migrazione”: che lavoro vai a fare e qual’è la legge che regolamenta la tua permanenza nel paese di emigrazione.

In questo senso Belgio e Svizzera sono le risposte “migliori” a questi interrogativi. Infatti il primo spettacolo: “Italiani Cincali! Minatori in Belgio”, racconta dell’emigrazione italiana nelle miniere del Belgio, tra gli anni ’40 e i ’90. E solo quando cominci a studiare e scopri veramente cosa vuol dire “miniera” capisci quanto sia assurdo ciò che avviene lì sotto. La miniera è la risposta più chiara a quel primo interrogativo: chi emigra va a fare i lavori peggiori che gli autoctoni non vogliono più fare.

Il secondo spettacolo: “La Turnata- Italiani cincali parte seconda” si svolge in Svizzera e racconta di un bambino clandestino che, dopo 5 anni di clausura in casa, torna con tutta la famiglia nel suo Salento.

Qui lo scopo era raccontare la legislazione svizzera che, se possibile, è peggiore della Bossi-Fini. Una legge che impedisce il ricongiungimento del lavoratore con la famiglia, che ti tiene in condizione di ricatto per decenni e che ha pesato come un macigno sulla condizione di tanti italiani fino al 2005, anno in cui è stata abrogata.

  • Parliamo di Emigranti esprèss. Per me ha un significato importante. E’ successo ben due volte che, per puro caso, rimanessi incollato alla TV o alla radio senza riuscire a staccare. La prima quando incontrai Vajont di Paolini. La seconda, andavo stancamente in auto verso dove non ricordo e rimasi folgorato da Migranti. Mi dovetti informare presso amici. Ma chi diamine è questo? E’ bravissimo. Con Emigranti esprèss il ciclo dovrebbe chiudersi? Il condizionale è obbligatorio?  La collaborazione conla RAIti ha lanciato verso un pubblico radiofonico e verso l’apprezzamento anche di chi non frequenta i teatri. Si tratta dei tuoi viaggi, da bambino, in treno per raggiungere tuo padre in Lombardia e ritorni a Lecce, sempre affidato a famiglie trovate sui treni. Impari i linguaggi dei migranti in quelle lunghe notti. E parli di Sguardi di andata e sguardi di ritorno, cosa sono?

Emigranti Esprèss nasce dalla richiesta di Rai Radio2 di creare un ciclo di puntate sull’emigrazione con la modalità narrativa dei miei spettacoli. Così ho scelto di dilatare il prologo di Italiani Cincali in cui racconto i miei viaggi da bambino sul treno degli emigranti, e farlo diventare la linea portante delle 15 puntate previste. In ogni tappa di quel treno accade qualcosa e, raccontando ciò che avveniva realmente su quei treni, ne approfitto per immaginare incontri straordinari con storie di emigranti molto particolari. Le storie le ho tratte dalle centinaia di ore di registrazioni che avevo nel cassetto e che non avevano trovato spazio nei due spettacoli teatrali.

Ho cercato di giocare ogni puntata equilibrando le storie di me stesso bambino con le storie degli emigranti e mescolando i miei ricordi reali con i ricordi delle persone intervistate. Tra i miei ricordi personali certamente ci sono gli sguardi di quella gente, sguardi che io bambino, non seppi definire se non “di andata” e “di ritorno”. Intendo che, quando si partiva da Lecce – ogni sera alle 21.07 – e man mano che il treno procedeva, la gioia che riluceva negli occhi degli emigranti che avevano appena salutato i parenti, una moglie, i figli o un amico, piano piano si smorzava fino al momento del sonno tra Bari e Foggia. Ma era all’alba che comprendevi tutta la tragedia di quelle persone, quando gli occhi si riaprivano in un paesaggio biancolatte dove tutto era indistinto e la nebbia avvolgeva intere città: allora ogni luce negli occhi era spenta e si innestava quello che potrei definire lo sguardo “da lavoro”, uno sguardo cupo, assente, senza vita.

Se tutto ciò era lo “sguardo di andata” è facile immaginare cosa fosse lo “sguardo di ritorno”: quando si ripartiva da Milano per tornare a Lecce – sempre la sera intorno alle 23.00 – ci si addormentava con uno sguardo “da lavoro” per riaprire gli occhi sulle piane della Capitanata e vedere sorgere, insieme al sole, gli ulivi e il mare. Ecco che in quelle ore tra l’alba e l’arrivo a Lecce, gli sguardi riconquistavano la luce e si riempivano di immagini, di speranze per un futuro ritorno definitivo.

Districandosi tra centinaia di questi racconti, la trasmissione radio ha portato il dialetto leccese e le storie della nostra gente in tutta Italia e anche all’estero.

Il successo è stato notevole, con centinaia di mail giornaliere cui rispondere, premi internazionali (anche un ex-equo con la mitica BBC inglese) e ascolti record per la fascia, e così ho potuto dare spazio a gran parte del materiale che avevo a disposizione, pensando di aver chiuso un cerchio e dedicandomi ad altre scritture soprattutto in teatro.

dal sito di Mario Perrotta
  • Emigranti esprèss diventa anche un libro (edizioni Fandango libri)

Infatti. Non era finita con l’emigrazione. Dal successo radiofonico seguì la pubblicazione nella collana romanzi della Fandango Libri e anche in questo caso devo dire che le vendite sono state buone tanto da indurre Fandango a chiedermi di scrivere un nuovo romanzo. Non ho avuto ancora il tempo e lo spazio ma credo che presto mi ci metterò.

Ma non basta. Qualche mese dopo è arrivata anchela Raitelevisiva. Ricevo una chiamata da Rai 3 “La grande storia” e mi chiedono di realizzare sei nuovi monologhi per una puntata in prima serata dedicata a cosa? Ovviamente all’emigrazione italiana dal 1850 ad oggi. E così mi sono rimesso sull’argomento e siamo andati in onda a settembre del 2010. Anche in questo caso valanghe di mail di emigranti che mi raccontano le loro storie e mi ringraziano  di averli “portati in Tv”. Insomma, pare proprio che il mio percorso artistico continui a intrecciarsi con la questione emigrazione e un motivo c’è: oggi siamo sull’altra parte della barricata, riceviamo immigrati e l’argomento scotta.

Italiani Cincali è stato tradotto in francese per il teatro Belga, com’è stato accolto?

E’ stato un vero “botto” teatrale poiché siamo andati a casa loro a raccontargli la loro storia vista con gli occhi di un italiano. In sala ogni sera si avvertiva una tensione che non avevo mai notato in Italia, quasi si potesse udire il flusso di una presa di coscienza collettiva.

La critica belga ha scritto pagine entusiastiche e di profonda condanna dei loro connazionali che permisero tutto ciò che viene raccontato nello spettacolo. Per me è stata una soddisfazione particolare vedere lo spettacolo dalla platea, recitato da Hervé Guerrisi e con la mia regia. Nella prossima stagione farà tournée in Belgio, Francia e stiamo lavorando anche per andare in Canada.

Veniamo a Lecce, o meglio, alla Puglia dove, dicevi a Nardò quasi con pacata rabbia (o era solo presa di coscienza di uno status, una condizione incomprensibile) non riesci a lavorare. Penso che il Salento e la Puglia tutta perdano moltissimo, ma è poi vero che nessuno è profeta in patria? O Lecce è austera al punto di non accorgersi dei suoi figli? Mi raccontano che lo stesso successe con Tito Schipa.

A me basta pensare cosa è accaduto a un vero genio espresso dalla terra salentina: Carmelo Bene. Parliamo di un uomo che ha cambiato la storia del teatro del ‘900 e che – finché era in vita – è stato misconosciuto dai suoi concittadini (a volte anche denigrato). Oggi che non c’è più, ogni angolo del Salento si fregia di averlo ospitato a dormire, di avergli offerto un caffé, di averlo visto passare per le vie di questo o quell’altro comune.

Se questo è avvenuto con una pietra miliare del teatro figuriamoci con me che sono semplicemente un buon artigiano.

Oggi, però, qualcosa sta accadendo visto che il mio prossimo spettacolo sarà coprodotto dal Teatro Pubblico Pugliese. Spero di smentire, nel tempo, il “nemo profeta in patria”, ma non credo che sia una peculiarità leccese: è così in qualunque luogo di questo paese spesso distratto nei confronti delle espressioni culturali e artistiche dei suoi cittadini.

Per i premi, le pubblicazioni, i libri che hai scritto rimando al tuo sito: www.marioperrotta.it – rimangono collaborazioni importanti e amicizia con i grandi del teatro contemporaneo (Ascanio Celestini, Paolo Rossi ecc) con i quali ti sei anche impegnato nella campagna referendaria, non per chiedere un SI o un NO, piuttosto per invitare le persone al voto, a non astenersi. Come nasce questo sforzo?

E’ il corollario e il completamento di quell’indignazione di cui sopra. Essere impegnato civilmente è un tutt’uno con la mia scrittura, altrimenti “cadrei bocconi”. Con Ascanio discutiamo spesso di quanto si compenetrino le nostre vite private con ciò che mettiamo in scena e siamo concordi nel pensare che l’una non può fare a meno dell’altra. E’ necessario intervenire nel dibattito pubblico e usare quel poco di seduzione che si ha sul proprio pubblico per invitarlo a muoversi, a farsi sentire. Bisogna, però, non essere “partigiani” ma puntare ai valori di base di una democrazia. Ecco perché l’invito che ho rivolto ai miei “colleghi” è stato quello di sollecitare la gente all’esercizio del voto, a prescindere dalle ragioni del Sì o del No. Questo è un diritto-dovere di ogni cittadino, ma spesso gli italiani abdicano ai propri diritti e, soprattutto, fuggono il loro doveri.

L’ultima, inevitabile e forse oziosa domanda: progetti?

Sto chiudendo la mia trilogia teatrale che ho intitolato “Trilogia sull’individuo sociale” giocando tra questo apparente ossimoro tra individuo e società. La domanda è: siamo naturalmente portati all’individualismo – all’uomo lupo all’altro uomo di Hobbes -, oppure siamo per natura animali sociali – come sosteneva Rosseau?

Gli autori presi in considerazione e sui quali ho messo le mani a mio modo, sono Molière, Aristofane e Flaubert. Tre modi diversi di affrontare il problema, che mi hanno consentito di descrivere l’uomo contemporaneo nella sua versione sociale e in quella privata. L’ultimo capitolo intitolato “Atto finale: Flaubert”, debutterà il prossimo 4 settembre al Festival Castel dei mondi di Andria per poi circuitare nelle prossime stagioni.

Adesso, dopo quattro anni di scrittura intensa – da “Emigranti Esprèss” in poi, ben 10 produzioni tra spettacoli, libri radio e televisione -, vorrei fermarmi un po’ e lasciare che i miei spettacoli vadano in giro senza avere in testa una nuova scrittura da completare.

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2 Commenti a Mario Perrotta intervistato da Gianni Ferraris

  1. Bellissima intervista! E’ successo anche a me di essere investito dall’Emigranti esprèss mentre viaggiavo in auto…fu un impatto folgorante proprio come lo descrive Gianni. Grande Perrotta!

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