Seicento in Terra d’Otranto: oppressione fiscale, gabelle, violenze; privilegi e immunità ecclesiastica

350 ANNI FA L’ASSASSINIO DELL’ARCIPRETE DI GROTTAGLIE FRANCESCO ANTONIO CARAGLIO

(22 MAGGIO 1662)

 

TRA PREPOTENZE E VIOLENZE BARONALI, 

SCOMUNICHE E DIFESA DELLE IMMUNITÀ ECCLESIASTICHE

 

di Rosario Quaranta

L’arciprete di Grottaglie Francesco Antonio Caraglio, assassinato nel1662, a soli 35 anni, per aver difeso l’immunità ecclesiastica dalle prepotenze baronali

Il 24 maggio 1662, davanti al Capitolo della Collegiata di Grottaglie riunito in una atmosfera plumbea, D. Niccolò Antonio Angiulli, “procu­ratore dei morti”, leggeva con comprensibile dolore e tristezza una lettera pervenuta dal Vicario Generale di Taranto che annunciava: essen­dosi inteso con particolare disgusto l’assassinamento fatto da vilissimi et empii figli d’iniquità in persona dell’Arciprete di cotesta Terra delle Grottaglie nella Terra di Francavilla diocesi d’Oria, Mons. Arcivescovo con il suo solito zelo pastorale non tralasciando oprare quanto sarà necessario e li viene imposto da’ sacri canoni per il castigo di sì enorme delitto; vuole intanto che le SS. VV. per trenta giorni festivi nel Choro genuflessi prima  della Messa conventuale  recitino ad alta voce l’acclusi salmi et oratione contro quelli sacrileghi. Onde lo notifico alle SS. VV. e li bacio le mani. Taranto li 23 maggio 1662. Delle Signorie Vostre affetionatissimomo servitore Abate Ottaviano de Raho.

Era la mesta notizia dell’omicidio perpetrato nella persona dell’arciprete. Il testo della missiva, scarno e laconico, nascondeva una somma di gravissime tensioni, culminate tragicamente, tra la chiesa grottagliese e gli amministratori (curia baronale e governo cittadino).

L’uccisione di un ecclesiastico, per quanto esecranda, non era un caso unico, né sporadico, in quel tempo di prepotenze e di tirannia. La nostra mente correrà senza dubbio alla descrizione manzoniana del degrado politico-giudiziario nella Lombardia del secolo XVII; dalle nostre parti la situazione non fu migliore. Basti pensare che qualche anno prima, nel 1656 sempre a Grottaglie, ci fu un analogo delitto contro l’arciprete di Faggiano.

Era da decenni che in Terra d’Otranto, come in tutte le altre province del Viceregno, l’autorità del potere centrale e la giustizia dello Stato non riusciva a far sentire la propria voce contro lo strapotere dei feudatari locali.

Si leggano in proposito le illuminanti pagine scritte da Rosario Villari nel suo “La rivolta antispagnola a Napoli” e si scoprirà, ad esempio, fino a che punto giungesse la tracotanza del Conte di Conversano che fece uccidere non solo il Sindaco, ma anche massacrare i preti nella cattedrale di Nardò. Gli stessi responsabili della giustizia ammettono l’impotenza:  In questa Provincia  (di Terra d’Otranto) non vi arriva né il governo di V. E., né il dominio di Sua Maestà, poiché alcuni particolari di essa procedono nell’attioni e nell’eccessi loro con tanta libertà che mostrano di non conoscere superiore in terra; e la blandura de’ governatori ch’hanno hauto più mira all’interesse loro privato che al pubblico, li ha fatto delinquere impunemente, oltre che per la potenza loro non vi è stato chi habbi hauto ardire di insistere lungo tempo appresso de’ tribunali superiori, dubitando ognuno della vita .

Sono parole, quest’ultime, tratte da un memoriale spedito al Viceré proprio dalla Terra d’Otranto e perciò particolarmente utili per capire il tragico epilogo del valoroso ecclesiastico grottagliese.

Uno storico del secolo scorso, il canonico Carmelo Pignatelli, dedicò al Caraglio alcune pagine delle sue Biografie degli scrittori grottagliesi (1875), definendolo Una vittima del dispotismo feudale. La presentazione che egli ne ha fatto (seguito dagli storici successivi) è però angusta e riduttiva; poiché  si limita a vedere in lui l’ardito arciprete che s’oppone all’arroganza del feudatario, il quale esigeva il baldacchino in chiesa, nella casa del Signore, e perciò punito per un eccesso di zelus domus Dei sgradito al signorotto prepotente. Vedremo invece che il motivo sarà di natura e di portata diversa. Una ricostruzione tinta di un certo psicologismo romantico, allora di moda, che, se rende gustosa e piacevole la narrazione, non dà giustizia del fatto, esulando da una obbiettiva esposizione storica.

L’arciprete Francesco Antonio Caraglio (1627 – 1662), storico e canonista

Francesco Antonio Caraglio nacque in Grottaglie il 4 settembre 1627 da Giovanni Antonio notaio e da Rosa Aurifatis; venne battezzato il giorno seguente dall’abate Cataldo Mannara, dottore in utroque jure e Cantore della Collegiata, essendo padrini il dottor Donato Cesare e Vittoria di Natale. Suo padre rogò in Grottaglie dal 1626 al 1670, come risulta dagli atti che ancora si conservano nell’Archi­vio di Stato di Taranto. Apparteneva dunque a una famiglia agiata che gli consentì di compiere gli studi e di intraprendere la carriera ecclesiastica. Riuscì ad addottorarsi giovanissimo in diritto a Roma e a divenire canonico e arciprete della collegiata prima ancora di essere ordinato sacerdote. Nel maggio del ’49, insieme con altri due rappresentanti del clero, si recò a Taranto per l’ubbidienza a S. Cataldo; il capitolo grottagliese venne multato nell’occasione con 150 ducati perché avrebbe dovuto mandare almeno dieci persone; ma non l’aveva fatto per non creare pregiudizio in una celebre questione di precedenza che vantava sul clero martinese e che lo stesso Caraglio difese magistralmente nella sua prima opera intitolata Clypeus adversus Martinensium praetensiones, scritta appunto in quegli anni.

Il 15 agosto 1649 fu eletto “Razionale” del capitolo. I razionali (erano quattro) avevano il compito di controllare ed “esigere ragione” dell’operato dell’economo, del procuratore dei morti, del tesoriere; assegnare le porzioni, assolvere o condannare gli inadempienti, ecc… Nei mesi successivi gli vennero affidate diverse cause, questioni e liti d’interesse del Capitolo, segno inequivocabile che, nonostante la giovane età, i capitolari nutrivano in lui la più ampia fiducia.

Nel marzo 1650 lo  troviamo già arciprete: a 23 anni appena è il personaggio principa­le e più stimato della Terra delle Grottaglie! Le aspettative non furono deluse poiché egli riuscì a guidare con sicurezza la vita religiosa di un centro che contava un clero numeroso, geloso delle proprie prerogative e privilegi.

Il Clypeus (1650 c.), opera polemica del Caraglio, scritta contro la pretesa di preminenza della Chiesa di Martina su quella di Grottaglie (copia del 1737)

Ma il problema maggiore era costituito dall’autorità feudale, divisa in Grottaglie tra barone ecclesiastico, in persona dell’arcive­scovo di Taranto per la giurisdizione civile e gli introiti baronali, e barone laico per la giurisdizione criminale e altri diritti: una intollerabile situazione che provocò (com’è facile immaginare) non poche rivoluzioni violente.

Sul finire del 1652 gli amministratori dell’Università impongo­no sul macinato la gabella di una “cinquina per tumolo da maci­nare al posto della portulania” anche ai preti che però ne informa­no l’arcivescovo perché li tuteli nella loro immunità. Il periodo dell’alleanza tra Università e clero sembra tramontato; ormai sia questa che il feudatario laico tenteranno con ogni mezzo di far pagare anche agli ecclesiastici alcune tasse coperte dall’immunità. A difesa del diritto è senza dubbio l’arcivescovo Caracciolo, ma in prima fila nella rischiosa battaglia si troverà, perché investito della prima dignità capitolare, il giovane e coraggioso arciprete Caraglio.

Intanto, nel 1653, il Capitolo affida al suo capo l’impegnativo incarico di mettere ordine nella confusa situazione e dei molti beni appartenenti alla Chiesa per i quali v’erano contestazioni e liti in mancanza degli strumenti relativi al diritto di possesso; il vecchio registro non costituisce più un sicuro fondamento giuridico; è necessario quindi riordinare ogni cosa reperendo gli strumenti e, in mancanza di questi, annotando con dichiarazioni giurate il diritto sopra tali beni. Una fatica onerosa per la quale nell’agosto del ‘54 il Caraglio chiede collaborazione e aiuto; gli vengono così associati D. Francesco Antonio Blasi e D. Giovanni Antonio Salinaro notaio apostolico. In seguito si aggiunge pure D. Federico Lo Monaco che il 3 maggio 1656 può dichiarare in Capitolo come s’è già finita la nuova Platea onde bisogna dare gualche cosa per ricompensa delle fatighe al Signor Lupoli delegato et al Notaro, come anche per altre spese che vi sono corse.

Lo Status, impegnativa opera in due tomi, scritta da Francesco Antonio Caraglio nel 1559, sui diritti e privilegi della Collegiata grottagliese (copia del 1737)

Due anni dopo alcuni fatti turbano la comunità nei confronti rispettivamente del feudatario laico e dell’Universi­tà.

Vincenzo Velluti, Barone del “criminale”, proibisce con minac­cia di carcerazione a tal Donato Antonio Mele e compagni di continuare a lavorare nella conceria sita nell’abitato, appartenente al Capitolo che, perciò, ricorre, tramite l’arciprete, all’arcivescovo. Il governo dell’Università, invece, pretende toglierci il Datio della carne e perciò poiché nessuno avrebbe potuto far valere le ragioni meglio del “Signor Arciprete”, tutti gli si rivolgono perché assuma tale compito; Perciò si concluse di nuovo supplicare il Signor arciprete, quale presente doppo molti prieghi et acdamationi condiscendette per sua benevolenza ad abbracciar di nuovo la carica del nostro Capitolo, et così fu vivae vocis oraculo, nemine discrepante, concluso. Anzi nci furono dei votanti che dissero doversi riconoscere tali fatighe al Sig. Arciprete….

Sembra quasi impossibile, eppure Francesco Antonio Caraglio, in anni carichi di occupazioni e oneri, trova il tempo per portare a termine un ambizioso disegno: la compilazione dello Status Insignis Collegiatae Ecclesiae Cryptaliensis, un’ampia raccolta, ordinata e giuridica­mente fondata, di tutte le leggi, usi, consuetudini, diritti della Chiesa grottagliese.

La Insignis Collegiata di Grottaglie, dedicata alla Vergine Annunziata

Non era la prima fatica poiché, come abbiamo visto, intorno al 1650 aveva scritto un’opera storico-giuridica sulla vecchia que­stione della precedenza sul clero di Martina, il Clypeus, opera d’erudizione, ma tutto sommato, per il carattere apologetico e campanilistico, dal sapore d’esercitazione accademi­ca. Lo Status invece è lavoro di maggior impegno e responsabilità; e ne era perfettamente conscio lo stesso Autore che così presentava ai capitolari le ragioni e gli scopi: Vedendo che il novo (registro), con che si governa essa Chiesa, era talmente incognito, et alle volte dubbioso, che nelle contingenze difficilmente poteva trovarsi la verità (…), perciò si risolse comporre lo stato della Chiesa nel quale per via delle leggi, Sinodi, Visite, Decreti della S. Congregatione, constitutioni,  riformanze, consuetudini et opinioni de dottori s’è dichiarato in due tomi il modo col quale s’è vissuto et attualmente si vive (…) Se le SS. VV, per loro cortesia daranno esecutione a quanto se le supplica, esso supplicante resterà pienamente sodisfatto della sua fatiga, e prenderà animo di comporre cose maggiori per utilità di questa Chiesa, e prenderà incentivo di fare il simile in  confusione di alcuni, quali stimano, che il nostro Capitolo non habbia soggetti di merito.

Il Capitolo non poteva non accettare con entusia­smo la fatica dell’ottimo arciprete, perciò si concluse vivae vocis oraculo, che siino rivisti tal volumi dalli signori del Capitolo, gridarono che si stampi e spendasi quanto si può spendere, e così fu concluso.

 

La  fiera “persecutione” degli ecclesiastici grottagliesi da parte del principe di Cursi D. Giovanni Cicinelli

Purtroppo, di stampa non se ne parlò più perché, come venne annotato su una copia tardiva dello Status colui che perseguitò lo stesso autore fino alla morte, fece in modo tale e si preoccupò che i due volumi non fossero dati alle stampe. Si profilano ormai minacciose e oscure nubi di morte.

La seduta capitolare del 3 luglio 1659 non poté tenersi, pur essendo presenti 78 membri, per alcuni impedimenti. Non si sa con precisione cosa succedesse in quell’anno, ma un editto di Mons. Caracciolo contro i vessatori del clero lascia intuire gravissime tensioni tra ecclesiastici, governo cittadino e feudatario laico che ora, ahimè, è il principe di Cursi D. Giovanni Cicinelli spalleggiato da un sinistro agente, il principe di Faggiano, suo nipote. Il testo dell’editto parla di “molte ingiurie verbali e di fatto, vessazioni, molestie e inquietudini, dirette e indirette, inflitte quotidianamen­te alle persone ecclesiastiche con grave scandalo del popolo e detrimento della Chiesa” da parte degli Officiali della curia baronale, del sindaco, degli eletti, gabelloti, esattori, inservienti e aguzzini;

Ricorda pure che un sacerdote che mostrava loro un monitorio conservatoriale dell’Uditorio Camerale venne malmenato e mi­nacciato di essere gettato dalla finestra. La scomunica per i vessatori è incombente. Il presule raccomanda agli ecclesiastici di sopporta­re con cuore impavido e petto virile le molestie, senza cedere in alcun modo alle “pretensioni”, e di ricorrere esclusivamente al proprio Pastore per la difesa dell’immunità ecclesiastica. Anzi vieta tassativamente di piegarsi ai prevaricatori sotto pena di scomunica o di sospensione a dinivis. Un vero braccio di ferro che troverà tra non molto una vittima.

L’editto portò indubbiamente nel clero un senso di fiducia ed infuse coraggio nei più pavidi, ma ebbe anche l’effetto di inasprire ancora di più l’animo degli avversari. Il 15 agosto 1661 il capitolo discute sul caso di tal Leonardo La Pace, molestato dagli amministratori perché non tenga botega di carne nella piazza, ma fuori alla porta; era un doppio attacco all’immunità in quanto la bottega apparteneva al capitolo e serviva quindi per controllare il dazio della carne.

D. Giovanni Cicinelli, principe di Cursi e primo duca delle Grottaglie, mandante dell’assassinio di Francesco Antonio Caraglio
D. Giovanni Cicinelli, principe di Cursi e primo duca delle Grottaglie, mandante dell’assassinio di Francesco Antonio Caraglio

La situazione ormai precipita. Alcuni giorni dopo si riprende la questione concludendo di resistere alla palese provocazione, an­che perché secondo si dice, lo fanno a dispetto del Capitolo ed è chiaro quindi il mal animo di questi che governano. Si ricorrerà invece nuovamente al superiore ecclesiastico in Taranto, Napoli e Roma per rappresentare tanti aggravi et ingiustizie, che vengono fatti giornal­mente alli Preti, e spendersi ogni qualunque somma. Si ascolta pure il consiglio del saggio vegliardo D. Federico Lo Monaco che saria bene passare ufficio con questi del governo, che desistessero da tali molestie.

Come se non bastasse, giunge un ordine di pagare le decime sui beni ecclesiastici per volere del Papa “per sussidio della guerra contro i Turchi”; si elegge così l’Arciprete Caraglio, “persona idonea e ricca” come “soccollettore”.

È il 15 novembre 1661. Al Capitolo prendono parte soltanto 51 tra canonici e sacerdoti; oltre la metà erano quindi gli assenti, segno della paura che coglie diversi ecclesiastici nel frangente.

Prende la parola l’arciprete per fare il punto e ragguagliare la Chiesasulle provo­cazioni e violenze a danno non solo degli ecclesiastici, ma anche dei familiari; ecco il crudo resoconto riportato senza mezzi termini nella relativa “conclusione capitolare”: Alli  quali fu proposto dal Rev. Signor Arciprete come non contento il signor Principe di Cursi Padrone del Criminale di questa Terra, et il Signor Principe di Faggiano Nepote et Agente generale di quello in detta Terra, d’havere in una tassa successiva gravato notabilmente li Padri, Sorelle, anco Vergini et altri parenti de’ Preti conforme si dichiararono più volte, et anco contro la forma delle Regie Prammatiche le quali ordinano che paghino le persone solamente che hanno in bonis e non obbligano ancora le Vergini in capillis, né vedove povere, né contenti ancora d’havere buttato il sale in casa ancora de’ soli Preti senza chiedere licenza a Mons. Arcivescovo, o suo Vicario, come anche d’haver fatto alloggiare molte volte nelle case degli stessi Preti, et contro la disposizione delle leggi civili, e fatti far pegni nelle robbe detti medesimi, hanno in oltre con ordini spediti da Napoli deputate persone laiche a conoscere le donationi fatte alli Preti da loro padri e Parenti, né sodisfatti di questo hanno carcerato, e fatto renunciare a forza alli Clerici Selvaggi che attualmente servivano la Chiesa le loro patenti, tanto che questa Collegiata nelle feste solenni non have havuto persone che suona le campane, e menare li mantici per l’organo e non s’è scopata per otto mesi continui, perché li serventi essendono stati necessitati a pagare non volsero più servire, né contenti infine, d’haver fatti tanti e tanti eccessi contro la Chiesa come alle SS. VV. è noto. Ultimamente per atterrire, che nessuno defenda l’immunità ecclesiastica, e per poter fare a muodo loro nella tassa che dovrà ponersi fra pochi giorni, e per fare il catasto senza contradizione del Capitolo, conforme n’hanno ottenuto gli ordini divulgati, il Signor Principe di Faggiano et il sindaco hanno fatto carcerare molti parenti delli Preti di questo Rev. Capitolo et in particolare sua madre vecchia e sorella le quali l’hanno trasportato nel Regio castello di Taranto, et altri nella Regia Audientia di Lecce, et altri refuggiati in Chiesa. Che però stantino le cose suddette, che vogilino pigliare l’espediente necessario per la difesa dell’immunità ecclesiastica, non havendo mai havuto questa Chiesa una simile persecutione. Quale proposta intesa da tutti, fu concluso; pari voto et nemine discrepante, che si vada unitamente da Mons. lll.mo Arcivescovo e ringratiarlo, mentre con tanta intrepidezza ci ha difeso nel passato, e pregarlo, che voglia continuare per l’avvenire, e che per la difesa dell’im­munità e di questo Capitolo, e delle persone particulari di quello si destini una o più persone in Roma et in Napoli appresso S.E., e dove sarà necessario ad arbitrio di Mons. lll.mo che prendine la difesa di detto capitolo, e di dette persone, particulari con assistere in detti luoghi per le cause suddette, e per quanto potrà occorrere per l’avvenire e si diede facultà alli RR. Procuratori presenti e D. Giuseppe Pulignano, che si faccino le procure necessarie, et altre scritture che bisognaranno, e che piglino dall’entrade del Capitolo tutta quella somma di denari che bisognerà per lo viaggio, mantenimento e spese di detta persona, o più d’Avvocato, e Procuratore, et ogni altra spesa che v’occorrerà facendoli buoni alli conti con produrre lista delle persone, o persona, che si destineranno, e quando non bastassero l’entrade del capitolo tutti unanimiter conclusero che si vendessero le loro robbe particulari, perché tale obligo hanno di difendere l’immunità ecclesiastica, la Chiesa propria, e le persone che patiscono, e s’hanno concepito odio col Padrone criminale, e col Principe di Faggiano suo nepote per defendere le cose della Chiesa, et in particolare il rev. arciprete, quale patisce lui, e le sue persone e particolarmente per haver contrastato, e fatto scomunicare il principe di Faggiano per causa delle botteghe del Capitolo, e così fu concluso & et in fidem D, Lucantonio Nuboli cancellano.

Il documento non poteva dipingere più chiaramente la perse­cuzione scatenata controla Chiesagrottagliese dagli amministra­tori della curia baronale e dell’università!

Stemma dei Cicinelli, principi di Cursi e feudatari laici di Grottaglie (chiostro dei Paolotti di Grottaglie, 1723)

Si badi alle parole finali: si fa esplicito riferimento a due persone, D. Giovanni Cicinelli feudatario, e il principe di Faggiano suo nipote, come coloro che più aspramente vessano gli ecclesia­stici e in particolare l’arciprete e parenti perché ha osato contrasta­re e fatto scomunicare il Principe di Faggiano. La minaccia di scomunica di Monsignor Caracciolo non fu un semplice flatus vocis, ma sortì realmente effetto. Un affronto simile non poteva essere tollerato dal tracotante signorotto, forse non del tutto estraneo all’uccisione dell’arciprete di Faggiano del 1656.

Il 30 novembre 1661 vi fu l’ultima apparizione in Capitolo del giovane prelato grottagliese. Si trattò di vendere al Principe di Cursi proprio le botteghe nella piazza, che erano state all’origine di sì grave turbamento, per poter egli ampliare il palazzo baronale. Il Caraglio, nel raccomandare l’utilità della Chiesa e nel contempo la soddisfazione del principe, propendeva per l’assenso, ma inca­ricò una commissione di studiare bene la cosa.

Nelle successive conclusioni egli non compare più, per cui è lecito supporre che, minacciato di morte e prevedendo la sua fine, abbandonasse Grottaglie per recarsi in Francavilla, forse presso parenti.

Il 2 aprile 1662, certamente per ulteriori pressioni e intimidazioni, non si potè fare il capitolo, nonostante i presenti.

Il tragico epilogo

Il 22 maggio 1662, esattamente 350 anni fa, si consumava il tragico epilogo: l’assassinio per mano sicaria del giovane arciprete in Francavilla. L’arcivescovo Caracciolo, ormai vecchio e addolorato, s’adoperò di far luce sul gravissimo episodio ma, cosa normale per quei tempi, senza alcun risultato concreto e definitivo. Il principe Cicinelli, ritenuto non senza fondamento, il mandante del crimine sacrilego, venne sì inquisito, ma non si riuscì a condannar­lo, nonostante la coraggiosa presa di posizione del Caracciolo e dei vari successori sulla cattedra di S. Cataldo presso la corte vicereale, la corona spagnola e perfino presso la curia romana e il papa.

E così il tracotante e potente barone laico (peraltro coltissimo e buon letterato, come dimostra la sua Censura del poetar moderno del 1672) continuò, anche nelle persone dei suoi successori, a tener testa spavaldamente in quella estenuante contesa giurisdizionale con gli arcivescovi di Taranto generatasi a fine Quattrocento con il deleterio sdoppiamento feudale cui la Terra delle Grottaglie soggiacque fino all’eversione della feudalità.

La Censura del potar moderno (1673) del duca delle GrottaglieD. Giovanni Cicinelli, interessante opera contro gli eccessi del barocco letterario

Rimane ancora nell’archivio parrocchiale di Francavilla (Necrologium Archipraesbyteralis Collegiatae Ecclesiae Francavillensis, v. I, anno1662, f. 47r) l’atto di morte del coraggioso arciprete grottagliese che recita freddamente: “II S. D. Francesco Antonio Caraglio, Arciprete delli Grittaglie passò a miglior vita e fu sep. nella Collegiata con pomp. fun. a 22 maggio1662”.  Null’altro. Finanche il sacrista di quella Collegiata evitò per prudenza o, meglio, per paura, di annotarvi la causa della morte: a tal punto arrivava la tracotanza di quei feudatari!

Solo la scomunica comminata agli anonimi esecutori fece, per così dire, giustizia del nefando crimine. Ecco la descrizione della lugubre cerimonia annotata coraggiosamente in un’aggiunta posteriore dello Status: Questi (F. A. Caraglio}, contrastato in ogni modo per le patrie leggi e per la difesa dell’immunità ecclesiastica, abbandonata la sua casa, mentre viveva esule, venne eliminato per ordine dell’empio persecutore con un colpo d’archibugio per mano di scelleratissimi sicari. Il delitto di morte sì inumana fu perpetrato in Francavilla il 22 maggio 1662 alla prima ora della notte. L’illustrissimo Caracciolo, Arcivescovo di Taranto, per rispondere alla scellerata azione comminò per tutta la diocesi la scomu­nica in questo tenore. Il primo giorno della Pasqua di Pentecoste del 1622, durante la messa solenne, dopo il Vangelo, comandò che in sagrestia 24 sacerdoti, rivestiti dei paramenti sacerdotali di color rosso, portando in una mano un cero nero acceso e nell’altra una pietra nera, procedessero a due a due dietro l’altare maggiore mentre un chierico agitava continua­mente un campanello; per ultimo accedeva una Dignità o Canonico in cotta e piviale nero, mentre tutti si disponevano in cerchi nel presbiterio. La Dignità o canonico, col piviale, tra due chierici con nere torce accese, salivano sul pulpito e di lì lanciava con parole appropriate il fulmine del fiero anatema. Dopo queste cose, tutti, con voce lugubre, recitavano il salmo Deus laudem meam ne tacueris. I ventiquattro sacerdoti suddetti e i due chierici sul pulpito capovolgevano i ceri accesi dai quali profluivano orrende fiamme a mo’ di lingue dalla cera liquefatta. Finito il salmo, tutti, dopo aver gettato in mezzo i ceri e le pietre, ritornavano in sagrestia, mentre le campane di tutto il paese sonavano con rintocchi funerei, come volgarmente si dice a bandolo, e così per più giorni festivi fu osservato….

Una scena d’effetto, tra l’orrido e il lugubre, con la quale il clero, privo del suo elemento più valido, manifestava il suo dolore. Per tutti (come recita un’epigrafe) fu la perdita di un uomo insigne non solo nelle lettere, ma per la somma integrità di vita, per la rara prudenza e per lo schietto esercizio del dovere.

La morte violenta non ha, infatti, cancellato un nome che rimane ancora, e giustamente, nella fama e nella considerazione dei posteri, non solo per le opere scritte, ma principalmente per l’esempio d’indomito coraggio di fronte alla sopraffazione e alla prevaricazione.

Fulgida figura, quella di Francesco Antonio Caraglio, inserita nei tristi avvenimenti, vissuti e sofferti in prima persona, che riguardavano, tutto sommato, una comunità, una civiltà, una cultura.

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