L’invidia cede alla virtù. Lettura dell’iscrizione di una corte a Francavilla Fontana

di Armando Polito

Qualche giorno fa, curiosando in Facebook, ho digitato il nome del nostro comune amico titolare di questo sito e tra le sue foto mi ha colpito quella sotto riprodotta. Gli ho subito chiesto dove fosse collocata l’iscrizione riprodotta e, avutane puntuale notizia, ho pensato di scrivere queste righe per non perdere l’occasione di trasformare un impulso probabilmente voyeuristico (comunque, chi è senza peccato scagli la prima pietra…) in un’occasione di arricchimento culturale, per quanto modesto.

Come testimonia la data incisa ANNO D.(OMINI) MDCCLXXXX, essa risale al 1790.

Soffermeremo ora la nostra attenzione sul resto: VIRTUTI INVIDIA CEDIT (L’invidia cede alla virtù).

Risparmio al lettore il mio commento sul contenuto della massima, che sospetto fosse anacronistica pure al tempo in cui fu incisa, anche perché oggi, in tempi in cui la competenza, il merito, l’onestà, la lealtà (insomma quello che poteva essere riassunto nella parola virtù) sono soltanto difetti, mi riesce difficile non dico cogliere ma addirittura immaginare uno spirito “sportivo” che riconosca il valore dell’altro in ogni campo. La mia indagine

Braccia

di Stefano Manca
Stamattina nel mio paese in Puglia c’erano oltre trenta gradi. Al semaforo uno si accosta e mi chiede: “Ehi, sto scrivendo un romanzo. Quando scrivo mi sento proprio bene! Secondo te è meglio scriverlo in prima o in terza persona?”.
La mia auto non ha l’aria condizionata, ma una vecchia ventola che per combattere il caldo svolge supporto psicologico. Indeciso su quale risposta dare a cotanto inter…rogativo (è la tipica domanda che vi fanno al semaforo, no?), ho finto di pensarci su. Ricordavo di aver letto da qualche parte di certe pratiche zen per non innervosirti.
Il romanziere pensava che io stessi riflettendo sulla sua opera, che ovviamente non leggerò nemmeno se la scrive in quarta persona. Nel frattempo ha aggiunto che lui la storia da scrivere ce l’ha nella testa. Non so perché abbia sentito il dovere di fare questa precisazione. Evidentemente ritiene che le storie da scrivere possano risiedere anche in altre parti del corpo. Comunque gli ho detto che è impossibile rispondere alla sua domanda.
Non mi andava di dirgli che le sue mi sembravano braccia rubate all’agricoltura. Non mi andava di dirglielo perché considero l’agricoltura una cosa molto seria. È come se un contadino, quando non riesci a seguirlo nella vendemmia, ti dicesse: “Buono a nulla! Due braccia rubate alla letteratura!”. A quel punto è scattato il verde, l’ho salutato e sono partito velocemente come fanno da queste parti i tamarri vintage che vogliono fare colpo sulle passanti. Quello lì era il mio primo vaffa della giornata.
In prima persona.

Volti di carta, di Raffaella Verdesca

una delle foto che compaiono nel libro

 

di Rocco Boccadamo

 

Un libro e, insieme, anzi ancor più, un aggraziato scrigno di tesori preziosi, sottoforma di mirabile miscellanea di volti, immagini, storie, vicende, eventi, ansie, aspettative, frammenti pungenti di sofferenza e sconforto e, tuttavia, sempre, con l’ideale “traguardo” conclusivo dell’appagamento interiore, della quiete, della pace.

Al cospetto e sullo sfondo di un palcoscenico avulso dal tempo, che dischiude il suo contenuto, e i segreti con cui è animato, semplicemente in virtù di un cordone conduttore uniforme e costante, filato con la pazienza, la tenacia, la forza, le fatiche, gli sforzi positivi di comuni interpreti d’ogni età, i quali, in svariati modi e con sequenze talvolta imprevedibili, sembrano emanare, tutti indistintamente, fasci di raggi di fiducia, giammai il capo chinato alla passiva rassegnazione, tramandandosi, perpetuandosi inarrestabilmente, nei peculiari, rispettivi ruoli, significati e destini.

Vale da solo, ha una sua anima espressiva ed è forte, già il titolo “Volti di carta”; non meno indicativo e pregnante, il secondario con funzione esplicativa “Storie di donne del Salento che fu”. 

Stando al nome intero scelto per il battesimo, la presentazione del lavoro scrittorio rimanda chiaramente ai precedenti decenni, addirittura a un secolo addietro, e però, sin dalla premessa, s’innesta subito il particolare dell’isolamento da una predeterminata fase temporale.

Difatti, il cuore della narrazione dà luogo a battiti completamente in sintonia anche con le sfaccettature quotidiane del terzo millennio; lo stesso senso autentico degli accadimenti snocciolati lungo le pagine calza alla perfezione con le vicissitudini che, in tanti aspetti, caratterizzano il nostro oggi.

Sono venti i passaggi di storie e argomenti nel percorso del volume, eterogenei solo in apparenza, comunque innestati fra loro con saggia naturalezza. In ogni scalino del lavoro si avvertono, nitidamente, la mano, la passione e il “credo” intenso dell’autrice.

Raffaella Verdesca, in fondo, propone fotografie, fatti e ambienti terzi, parlando, in parallelo, di sé, mettendosi in discussione, svelando pareti della propria interiorità.

E un simile esercizio, può espletarlo con esito positivo e successo solo una persona che sia “piena” dentro, che abbia da dare agli altri, da raccontare:

Dorian Gray

di Paolo Vincenti

Uno sparo nella notte,  nella sua stanza fatta a specchi, in cui si riflettevano le tante donne della vita di Dorian Gray. Predizione di morte. Nomen omen: che tragico presagio in quello pseudonimo. Rotto ormai il patto con Venere e passata per sempre la stagione dell’amore, la stagione della belle vie, finito il tempo dell’incanto, quando lei, la malafemmina, entrava ogni notte nei bei sogni degli italiani, diavolo e acqua santa, angelo e tentazione,  la dimenticata giovinezza di soprassalto, ecco, le gioca un macabro scherzo… e si rompono gli specchi che rimandano un’immagine sempre troppo deformata, sempre molto diversa da quella cercata, l’immagine di quell’unica donna mai trovata.. un grido nelle “notti di Cabiria” rompe l’incanto, manda in frantumi quell’illusione di ieri, il sogno dell’eterna bellezza e la perduta giovinezza di soprassalto, ecco, le gioca l’ultimo scherzo. Nella sua casa arredata per piacere, Dorian Gray muore, e con lei se ne va l’ultima testimone di una dolce età, quella delle vacanze romane, del boom economico, miracolo italiano e  prosperità,  quella delle procaci bellezze mediterranee e delle irresistibili tentazioni, delle  decappottabili sulla strada per il mare.. nella sua vita arredata per piacere, Dorian Gray muore… “ahhh dolce vita che se ne va.. sul lungotevere in festa…

Liberamente ispirata alla vita di Maria Luisa Mangini (in arte Dorian Gray)

Saverio Lillo e i dipinti di San Paolo “te le tarante” di Galatina

di Stefano Tanisi

Uno l’ho visto io camminare col capo in giù sul soffitto, altri bevevano a un pozzo di scorpioni e di serpi, non senza gridi, nel viola acido e sporco d’una cappella, mentre fuori era il chiaro giorno steso coi piedi avanti come il Cristo del Mantegna. V.  Bodini

 

Già dalle prime luci dell’alba del 29 giugno, giorno in cui ricorre la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, per le vie e nella piazza grande del centro storico di Galatina, si avvertiva nell’aria, fino a qualche anno addietro, quell’agitazione che prendeva tutti: era l’arrivo dei tarantati da tutto il Salento per recarsi alla piccola cappella di S. Paolo “te le tarante”, chiesa

Il geco

di Elio Ria

geco

Eccolo. Puntuale. Passo lento e meditato su rughe di muri a grattarsi il ventre con le zanzare intorno. Si lascia osservare. Non sfugge. Si confonde con il bianco della luce. Chissà cosa penserà. Poi un leggero avanzare e una sosta su una piega più consistente. Immobile. Sonnambulo? Riparte! Avrà fiutato qualcosa? Prediligo la nudità di questo silenzio che si è fatto attivo. Questo luogo, dimora dei miei affanni, incanta. Non so cosa gli passa per la testa al geco. Siamo diversi. Lui educato e modesto, mai un atteggiamento di posa. Io in misteri di poesia, anche nelle ore febbrili.

Geco, quale verità adombri?

Immerso nei pensieri della filosofia ravvedo una speranza di salvezza, ma non comprendo la magnificenza della ragione.

Tornerai a trovarmi, lo so.

La serenità delle linee dell’orizzonte tacitano normali tristezze che negli istanti superflui di tempo concepiscono opere di volontà.

Geco, qualche altra volta saziami della tua presenza affinché possa concludere questa mia opera di poesia.

 

http://www.elioria.com/la-lente-di-elio/il-geco/

Come si costruisce il meridionalismo moderno (?)

di Giovanni d’Elia

Qualche passante distratto, giovedì 21 giugno 2012, leggendo il manifesto appeso dinanzi alla Mostra permanente dell’Artigianato di Lecce e sbirciando al suo interno, oltre a restare estasiato dai manufatti ivi presenti, di sicuro avrà pensato: “Ma cosa c’azzeccano i Messapi con gli attuali scempi del territorio?” (di cui ha lungamente discusso Oreste Caroppo) e ancora: “perché si parla di ambiente, tradizioni popolari e storia dei Messapi…dentro un negozio di artigianato?”.

Beh, prima di rispondere a queste domande, concedetemi poche righe per un breve prologo.

C’è un Salento che ha vissuto due storie. Una fatta di dimenticanze, abbandono, scempi ambientali e perdita della memoria. Va bene, è storia passata. L’altra, recente ed attuale, fatta di recupero della memoria, tutela dell’ambiente e un grande fermento culturale.

Solo che questa seconda storia è un po’ ambigua. Il recupero della memoria a volte è incompleto e fatto in maniera strumentale, penso, ad esempio, alla riscoperta di vecchi canti popolari, come le pizziche, e alla progressiva scomparsa di numerosissimi altri canti, forse un po’ lenti, “noiosi” e tristi e quindi poco “vendibili” nel mercato turistico (come i canti di lavoro, le nenie funebri, i canti di protesta, i canti dal carcere, ecc.). La tutela dell’ambiente, dal canto suo, è sbandierata dal sistema istituzionale ed imprenditoriale della Puglia come una conquista ottenuta grazie agli investimenti nelle energie rinnovabili, che, però, non è esente da criticità. Vi faccio un esempio. Io sono proprietario, poniamo di qualche ettaro di terra. Chiamo un’azienda operante nel settore del fotovoltaico e concedo loro la mia terra in cambio di un diritto reale di godimento. L’azienda mi concede una cospicua somma di denaro in cambio dell’utilizzo (solitamente) ventennale del suolo. Se magari sul mio fondo insiste una pajara, un cumulo di pietre che secondo alcuni studiosi si può trattare di una specchia (antico trono oppure torre di vedetta, forse risalente all’epoca messapica o giù di lì) oppure semplicemente una serie di piante autoctone, che attribuiscono al complessivo paesaggio agricolo un’aura di unicità… beh, poco importa. Si rade tutto al suolo, per necessità tecniche e senza che la Soprintendenza dei beni culturali ci metta bocca (cosa vuoi che sia un cumulo di pietre?). E quel fondo non può essere nemmeno adibito a pascolo, perché per evitare incendi, coloro che si occupano della

Lecce/ Restaurata la statua di Fanfulla, opera di Antonio Bortone (1844-1938)

di Paolo Vincenti

foto di Giovanna Falco

E’ stata inaugurata ieri sera a Lecce, in Piazzetta Raimondello Orsini, la restaurata statua del Fanfulla, opera di Antonio Bortone (1844-1938), scultore originario di Ruffano. L’intervento di restauro, voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce, è stato effettuato grazie ad un finanziamento del Lions Club Lecce.

Questo monumento, modellato in gesso a Firenze dall’illustre scultore salentino nel 1877, venne fuso in bronzo nel 1921 e inaugurato l’anno seguente. Inizialmente collocata a ridosso di Palazzo Carafa, questa statua venne poi trasportata nella collocazione attuale.

Scrive Aldo de Bernart: “Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge quella famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII.

La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della “Disfida di Barletta”, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie.

Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il

Cronaca di una strana partita

di Alessio Palumbo

Ore 21:00, stazione di Lecce. L’Intercity Notte 752 aspetta placido la partenza, con i suoi vagoni afosi già illuminati. L’aria condizionata ancora non va.

Lo stato d’animo è il solito di chi parte e deve lasciare ragazza, famiglia e amici per tornare “su”. Questa sera però c’è qualcos’altro…uno strano sentimento.

Non so quanti di voi abbiano mai visto il secondo tragico Fantozzi: in particolare la scena in cui il vessato ragioniere, pronto a gustarsi Italia – Inghilterra con “calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolla per la quale andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero”, riceve il triste annuncio di una convocazione per il terribile cineforum del dottor Riccardelli, suo superiore. Ecco, il mio stato d’animo alle 21 di domenica 24 giugno è questo e proprio per un’altra Italia – Inghilterra.

Non ho auricolari, né lettori mp3: li ho dimenticati a Bologna. La partita è cominciata da pochi minuti e io ho giusto sentito gli inni alla radio della macchina. Ora, sul marciapiede non molto affollato del binario tre, alcuni passeggeri camminano indifferenti, con l’auricolare ben pressato nell’orecchio, altri si avvicinano distratti porgendo le solite domande: “Come stiamo?” “Palo? Chi ha fatto palo?” (anche questo di fantozziana memoria). Cerco di leggere un libro di storia moderna, un interessante mattone da seicento pagine, ma non riesco a concentrarmi. Mi avvicino anch’io ad un tizio con l’auricolare e gli chiedo:

“Come va la partita?”

“Veramente sono al telefono con mia madre” risponde un po’ piccato

“Scusi tanto”

Torno a leggere, ma ormai è ora di partire. Salgo sul treno. L’aria condizionata inizia ad emettere un lieve sospiro, ma il calore è ancora intenso. Mentre raggiungo il mio posto lancio occhiate interessate negli altri scompartimenti e finalmente trovo quel che cerco: a due scompartimenti dal mio, un passeggero sta innestando con lenti movimenti una chiavetta per la connessione nel proprio pc portatile. Ci siamo, può essere la svolta: Italia – Inghilterra in streaming sull’Intercity notte può avere un suo fascino.

Mi metto a sedere, faccio passare alcuni minuti e torno, con la solita aria indifferente, dalle parti del passeggero munito di pc. Lo vedo fissare con attenzione un sito, non capisco bene di cosa, ma sicuramente non calcistico. Aspetto alcuni minuti, ma nulla. Lo osservo speranzoso, cerco di studiarlo: dev’essere uno di quei soggetti del tipo: “Figurati se posso seguire ventidue cretini che corrono in mutande dietro un pallone”. Un modo di ragionare che

I salentini a Civita Castellana / Ritorno alla Tenuta Terrano: le foto di ieri e di oggi.

Tenuta Terrano a Civita Castellana. La foto a colori è dell’aprile 2012, quella in b/n risale al 1968: le due foto con lo stesso scenario.

di Alfredo Romano

Nel 1965 la mia famiglia emigrò da Collemeto nel Salento a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco. Si calcola che almeno cinque mila salentini a quel tempo siano emigrati nell’arco di 15 anni nel Viterbese. I primi due anni furono durissimi, l’alloggio cui ci aveva destinato il primo proprietario terriero era malsano, privo di servizi, praticamente una stalla. Dopo due anni ci trasferimmo nella Tenuta Terrano dove il nuovo proprietario ci fece alloggiare in una casa da cristiani. Nella Tenuta c’era un concentramento di almeno 500 salentini. Coltivammo tabacco per altri otto anni, fino al 1975, quando i miei genitori decisero di tornare a Collemeto. Noi figli restammo perché nel frattempo avevamo trovato un lavoro. Per tanti anni non sono più passato dalla Tenuta Terrano e questo benché dalla mia finestra scorgo ogni giorno in lontananza la torretta della villa dell’allora proprietario terriero. Negli anni Sessanta ero munito di un’irrisoria macchina fotografica in b/n grazie alla quale, però, ritrassi i miei e lo scenario che si presentava alle loro spalle che documenta la vita ordinaria nella Tenuta e alcune fasi della lavorazione del tabacco. Ma ecco che uno di questi giorni, munito di buona fotocamera stavolta, mi sono messo in cammino per arrivare alla tenuta. Il cuore mi batteva forte quando ho fatto ingresso nel viale che portava ai tanti caseggiati, compreso il mio: vi alloggiavano in ordine sparso tante famiglie salentine e alcune calabresi. Dall’ingresso della Tenuta la mia vecchia casa distava un chilometro. Non ero sicuro di riuscire a dirigermi

Graeci sumus

a cura di Sergio Martello
Il Galateo afferma che per lui essere greco è motivo d’orgoglio:
“Graeci sumus et hoc nobis gloriae accedit”, ed inoltre: “mio padre studiò le lettere greche e latine, mio nonno ed i miei antenati furono sacerdoti greci, quindi non ignorarono punto la cultura greca, la Sacra Scrittura e la Teologia e furono famosi non per le imprese militari, vale a dire per la violenza, per stragi e saccheggi, ma… per la dirittura morale e l’integrità della loro vita”.
Per molti secoli dopo la fine del dominio dell’Impero Romano d’Oriente, il Salento rimase fedele alla cultura greca, avvertendola come sua propria.

24 giugno, festività di San Giovanni Battista. Il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni

  

Giugno, il solstizio estivo e le erbe di San Giovanni

di Elvino Politi

Azzate San Giuanni e nu durmire

ca sta bisciu tre nuvole venire,

una te acqua una te jentu una te triste mmaletiempu.

A mare a mare

a ddu nu canta jaddru a ddu nu luce luna

a ddu nu se sente nisciuna criatura.

Tra le antiche tradizioni salentine legate alla terra e all’uso delle erbe c’è in primo piano la tradizione della Notte di S. Giovanni, festa di mezza estate, che ricorre pochi giorni dopo il solstizio d’estate.

Tale giorno era considerato sacro nelle tradizioni precristiane ed ancora oggi viene celebrato dalla religiosità popolare con una festa che cade qualche giorno dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico della Chiesa latina si ricorda la natività di San Giovanni Battista.

Tutte le leggende si basano su di un evento che accade nel cielo: il 24 giugno il sole, che ha appena superato il punto del solstizio, comincia a decrescere, sia pure impercettibilmente, sull’orizzonte: insomma, noi crediamo che cominci l’estate, ma in realtà , da quel momento in poi, il sole comincia a calare, per dissolversi, alla fine della sua corsa verso il basso, nelle brume invernali.

Sarà all’altro solstizio, quello invernale, che in realtà l’inverno, raggiunta la più lunga delle sue notti, comincerà a decrescere, per lasciar posto all’estate. E’ così che avviene, da millenni, la corsa delle stagioni.

Nella festa di San Giovanni convergono i riti indoeuropei e celtici esaltanti i poteri della luce e del fuoco, delle acque e della terra feconda di erbe, di messi e di fiori. Tali riti antichi permangono, differenziandosi in varie forme, nell’arco di duemila anni, benchè la Chiesa ostinatamente abbia tentato di sradicarli, o perlomeno di renderli meno incompatibili con la solennità.

Molte sono le usanze legate alla Notte di S. Giovanni: nelle campagne l’attesa del sorgere del sole era propiziata dai falò accesi sulle colline e sui monti, poichè da sempre, con il fuoco, si mettono in fuga le tenebre e con esse gli spiriti maligni, le streghe e i demoni vaganti nel cielo. Attorno ai fuochi si danzava e si cantava,

La cena della notte di San Giovanni

ASSOCIAZIONE ‘NGRACALATI, SPECIMEN TEATRO E SALENTO IN CAMPO

presentano

LA CENA DELLA NOTTE DI SAN GIOVANNI

Banchetto Medievale nel cuore di Borgagne

Sabato 23 giugno

Ore 20:30

Piazza Sant’Antonio – Borgagne (Melendugno – Le)

 

Dopo il successo dell’ottava edizione di Borgoinfesta, l’Associazione ‘Ngracalati replica per il secondo anno consecutivo “la cena della notte di San Giovanni”, un viaggio alla riscoperta di riti e usanze legate al solstizio d’estate, l’antica “porta di Dio”, proposto dalle associazioni “Specimen Teatro” e “Salento in Campo”.

La rinnovata Piazza Sant’Antonio di Borgagne (Melendugno-LE) accoglierà uno spettacolare banchetto medievale animato da giullari, acrobati, giocolieri, attori, mangiafuoco, musici e danzatori. Gli ospiti potranno gustare i buoni piatti della tradizione salentina e mediterranea, i vini, i nuovi liquori d’erbe, bacche e frutta serviti per tutta la durata della cena da damigelle e garzoni in costume.

Durante la notte, gli ospiti saranno invitati a raccogliere i malli delle noci per preparare il nocino, confezionare in trecce l’aglio, camminare a piedi nudi sulla rugiada magica. Nel frattempo si preparerà “l’acqua di San Giovanni”, si raccoglieranno le nuove essenze aromatiche per la casa, si confezioneranno i mazzetti delle erbe bagnate dalla rugiada che, per tradizione, acquisiscono il potere di scacciare ogni malattia.

La Nottedi San Giovanni è anche motivo per riscoprire la musica della tradizione salentina e del Sud Italia, quella colta e quella popolare, per valorizzare i dialetti, per presentare le erbe e le loro caratteristiche, per provare il piacere di ascoltare i cunti e le tiritere del solstizio d’estate.

LABORATORIO RITMI E RITI

21-23 giugno 2012

Borgagne (Melendugno –Le)

 

L’Associazione Specimen Teatro organizza dal 21 giugno il laboratorio ”Ritmi e Riti”, occasione per vivere passo passo la preparazione della festa di San Giovanni. Sarà possibile partecipare a tutte le attività tra cui: escursioni, prove teatrali e musicali, danze popolari, raccolta delle erbe di San Giovanni, preparazione di oleoliti, mazzetti di erbe e piante aromatiche.

Ingresso: euro 20,00

Info 328 54 73 087; Prenotazioni 389 55 49 520

 

Prevendita: Borgagne – Caffè Petraroli; Lecce – BAR300 mila

Non si mangiano ricci in giugno

 

Non si mangiano ricci in giugno.

C’è il fermo pesca. Peccato!

di Gianni Ferraris

Però a volte si va ugualmente al mare, anche se c’è tramontana. Il Salento è magico perché puoi scegliere in base al vento dove andare. Allora perché andiamo verso San Foca quando c’è lei? Bisognerebbe andare sullo Ionio, perbacco!

Non fa nulla, forse ci andiamo per vedere le onde che arrivano lunghe. Forse per cercare quella caletta che ci ripara, forse solo per pigrizia.

Parole, parole, parole… Costruiamo parole di carta che pochi leggeranno. Durante il viaggio verso il mare (piccolo percorso) a volte si tace, significa che ognuno pensa agli affaracci suoi, che poi non siano proprio affaracci ma affari, poco importa. Però è bello esserci anche in quei momenti, avere accanto qualcuno. C’è corrispondenza di presenze a prescindere dal detto e dal taciuto. “Forse non lo sai ma pure questo è amore” cantava Vecchioni. Lui significava altro, però il bello delle parole dette, scritte o cantate (da altri) è che le fai tue e le plasmi. Come le poesie. Diverso per la prosa, i prosatori sono meno prosaici in fondo. Dicono le cose utilizzando tutto il vocabolario a disposizione. A volte rompono i maroni per il profluvio di parole che escono fuori dalle tastiere, spesso a loro insaputa. C’è chi scrive come già nell’800 insinuando un misto di tenerezza e sconcerto per quelle parole in disuso come le locomotive a vapore, “le vecchie cose di pessimo gusto” chiamava Fogazzaro alcuni oggetti sparsi nelle case. Spesso le leggi comunque, per una solidarietà non detta, anche se non condividi, come diceva un amico del secolo scorso, un’emerita cippa.

C’è poi chi scrive come parla, così, per caso, a volte senza la mediazione del cervello fra le dita e lo schermo, come mi succede spesso. Non mi dilungo su interpretazioni psicoanalitiche, anche perché me ne mancano le cognizioni e poi, diciamolo, sono affaracci miei. Quasi nessuno però scrive più a penna su un foglio bianco. Grande liberazione per chi, come me, non ha mai coltivato la bella calligrafia. E si che un tempo si facevano a scuola lezioni anche di quello. Imparai a scrivere con la matita, poi passai alla penna con pennino e calamaio al quale erano indissolubilmente sposate le macchie sul foglio bianco che tentavo di asciugare con l’angolo della carta assorbente. Tralascio il fatto che ne aveva solo quattro, di angoli. Detestavo i pennini fatti come la mole Antonelliana, mi piacevano quelli panciuti. Lo so che tutti hanno un nome, ma non li conosco. Inoltre sono perfettamente cosciente che questa roba qui denuncia spudoratamente la mia età.

Oggi comunque debbo chiedere aiuto per decifrare l’indecifrabile di appunti che mi capita di prendere sulla Moleskine. Ecco, la Moleskine che porto sempre con me perché era il quaderno degli artisti. Solo che loro erano artisti. E’ un po’ come avere una bicicletta azzurra e spacciarsi per Fausto Coppi. Poi ci sono quelli che scrivono di filosofia e fanno i pensatori. Tutto il mio rispetto, però in estate, forse forse, sarebbe bello un ghiacciolo stravaccati davanti alla Jannara a vedere il mare che le passa sotto e pensare ai ricci o a un piatto di fagiolini, invece di arrovellarsi per capire dove va l’uomo e se Dio esiste o è una proiezione della nostra incapacità di capire le cose del mondo. E qui potremmo aprire una parentesi, le cose che non si comprendono aumentano proporzionalmente al “progresso”. Per dirne una, un tempo democrazia era quella cosa che consentiva ad ognuno di crescere, oggi è quella cosa stramba che permette ad un sottosegretario di dire ai disoccupati che dovrebbero rinunciare ad una settimana di ferie per produrre di più. Mah!

Parlavo di fagiolini prima, la cosa non è assolutamente casuale, anzi. Da un po’ di tempo si diffondono attorno a me, come il blob del vecchio film, personaggi inquietanti, fieri nella loro decisione. Sono uomini e donne, giovani e meno giovani, filosofi e studentesse che dichiarano il loro essere vegetariani! Se capita di trovarti a cena con qualcuno di loro, e succede spesso, mi sento a disagio. Se non ci si conosce bene, mentre passano salsicce, costate, salami e salumi, ordino “verdurine grigliate”. Vabbè, si risparmia. Salvo poi un invito a cena a casa di un vegetariano, che ti propone il ragù… Di tofu. Ed io a chiedermi come ho potuto passare attraverso metà del secolo scorso senza conoscere il tofu. “Contiene proteine come la carne” “perbacco che trovata geniale, è come le sigarette finte che ti somministrano, pagando, su Ryan air”. Ammicco, mangio con sussiegoso distacco mentre parliamo delle amministrative, piuttosto che del tempo o del mare o ascolto filosofeggiare. Segretamente penso alle tagliatelle alla bolognese. Saranno senza tofu ma mi piacciono. Devo dire però che sono corretti tutti quanti i vegetariani che frequento. Una sola volta, anni fa successe l’irreparabile. Lei era carina, mi sentii dire mentre azzannavo cannibalescamente una cotoletta “sai, io non mangio animali morti”. “E che (bip bip)”, pensai. Inutile dire che l’approccio fu disastroso. Ripensandoci posso dire di sapere come si sentì Schettino mentre la sua nave si appoggiava sul fondale. Comunque la cotoletta era dura!

Scrittori… La nave dei folli… Pensatori che mettono su carta con mezzi meccanici il loro sapere. I poeti che fanno versi e a volte scrivono parolacce che, dette da un poeta, diventano versi ispirati e se le dice un bambino viene ammonito, redarguito. Inutile dire che sto dalla parte dei poeti e dei bimbi che a volte dicono parolacce sentite (toh il caso) dai grandi.

E qui mi fermo, aspettando il primo luglio, quando si potranno mangiare ricci.

P.s. – Questa chiusa è un sordido tentativo di chiudere il cerchio, non ricordo assolutamente perché avevo iniziato parlando di ricci.


I volti di carta di Raffaella Verdesca

volti-di-carta

di Paolo Vincenti

“Mi affascina il mistero delle vite  / che si dipanano lungo la scacchiera  / di giorni e strade, foto scolorite  / memoria di vent’anni o di una sera..” e ancora “Mi piace rovistare nei ricordi  di altre persone, inverni o primavere  / per perdere o trovare dei raccordi  / nell’apparente caos di un rigattiere:  / quadri per cui qualcuno è stato in posa,  / un cannocchiale che ha guardato un punto,  / un mappamondo, due bijou, una rosa,  / ciarpame un tempo bello e ora consunto,  / pensare chi può averli adoperati,  / cercare una risposta alla sciarada  / del perché sono stati abbandonati  / come un cane lasciato sulla strada.  / Oggetti che qualcuno ha forse amato  / ora giacciono lì, senza un padrone,  / senza funzione, senza storia o stato,  / nell’intreccio di caso o di ragione”.

Questi versi di Francesco Guccini (“Vite”)  mi vengono in mente leggendo il libro “Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu” (Albatros Il Filo 2012) di Raffaella Verdesca, che l’autrice mi ha donato, con una bellissima dedica, qualche giorno fa.

Si tratta di una serie di storie raccontate con perizia dalla Verdesca che hanno come protagoniste donne, vere o inventate, del nostro antico Salento. Ritratti di donne forti come le pietre salentine, coraggiose, abbarbicate con orgoglio e dignità a quella vita grama ma unica e quindi degna di essere vissuta fino in fondo.

Donne d’altri tempi, madri, sorelle, mogli, nonne, vissute in quell’arco temporale che è racchiuso fra le due guerre mondiali, quando la realtà “aspra e terragna” di un Salento contadino molto più povero di adesso, non aveva da offrire ai propri figli altro che sacrifici e sudore e lacrime per sbarcare il lunario, quando altri erano i valori su cui si fondava questa nostra società e

Antenato del baseball? il basticallòi, un antico gioco salentino

Riflessioni filologiche sul nome neritino di un antichissimo gioco: il basticallòi

di Armando Polito

Il gioco, forse lontano antenato del baseball, consisteva nel far saltare un pezzo di legno di  forma cilindrica, lungo  circa  12 cm,  spesso  3 e  appuntito alle due estremità, collocato a terra, battendolo ad un’estremità con una specie di paletta lunga circa 60 cm., larga 10 cm. (più stretta ad un’estremità che costituiva l’impugnatura) e spessa 1 cm. con un colpo assestato di taglio, facendolo saltare in aria all’altezza di circa 1 m. e con un secondo colpo, questa volta di piatto, scagliandolo il più lontano possibile.

Per ogni concorrente la distanza raggiunta dal punto di battuta veniva misurata con la stessa mazza e ad ogni segmento misurato corrispondeva un punto. Era dichiarato vincitore colui che, avendo partecipato alle manches che erano state preventivamente concordate, aveva realizzato il maggior numero di punti. Veniva stabilito preventivamente pure il numero di volte che colui che aveva conseguito il punteggio più basso avrebbe dovuto portare sulle spalle, per  un  tragitto   anch’esso   preventivamente   stabilito, il  vincitore: questo premio si chiamava ddhozzu1. Il nome italiano di questo gioco è lippa, di origine infantile, forse onomatopeica.

Di seguito sono riportate, dopo quella di Nardò (per la cui etimologia si rimanda alle conclusioni finali), le varianti salentine con le relative considerazioni:

1) A Nardò bbasticallòi designa il gioco.

2) A San Cesario di Lecce e a San Pietro in Lama bàzzica indica il gioco e il legnetto; con riferimento a quest’ultimo la voce potrebbe essere collegata con l’italiano bàzzica, che è forse da bazza=mento appuntito.

3) A Gagliano mazza e ccìrculu indica il gioco; sono evidenti le due prime componenti: mazza ed e; per la terza vien da pensare subito a circolo, ma molto probabilmente si tratta di una deformazione di zzìppuru/zzìcculu, diminutivi di zzippu, che in alcuni territori del Leccese e del Brindisino (vedi i nn. 22 e 23)  indicano anche il legnetto di questo gioco.

4) A Martano, Muro Leccese, Salve e Tricase mazzazìcculu indica il gioco; vale quanto detto per la voce precedente.

5) A Soleto mazzalòi indica il gioco; forma sincopata della n. 14?

6 A Castro mazza-mazzìrculu indica il gioco; da mazza replicato e  zzìrculu, per cui vedi l’ultimo componente del n. 3.

7) A Otranto mazzangìrculu indica il gioco; probabilmente forma dissimilata da *mazzaggìrculu, da mazza e ccìrculu, per cui vedi il n. 3.

8) A Castrignano dei Greci mazzarùna indica il gioco; accrescitivo dell’obsoleto italiano màttero=bastone, da un latino *màttare(m), variante di màtaris=giavellotto?

9) A Maglie mazza-ttìppiti indica il gioco; da mazza+tìppiti (vedi il n. 21).

10 A Ceglie Messapica mazzaiùne indica il gioco; vedi il n. 8.

11 A Sava mazzaunu indica il gioco; stessa origine di 8 con lenizione di –r– e cambio di genere?

12) A Gallipoli mazze nguzze indica il gioco; da mazze e nguzze per cui vedi il n. 13.

13 A Guagnano ed a Novoli nguzza indica il legnetto; deformazione di aguzzo?

14) A Galatina mazzicalòi indica il gioco; in rapporto con mazzalòi (vedi il n. 5)?;  da  màzzicu (vedi il n. 20)?; per la seconda parte vedi le conclusioni.

15 A Brindisi mazzicaùnu indica tanto il gioco quanto il bastone; forma aggettivale accrescitiva da màzzicu (vedi il n. 20 ) con lenizione della –r– come nel n. 11??

16 A Poggiardo mazzicanzìrculu indica il gioco; da màzzicu (vedi il n. 20) e per il secondo componente vedi il n. 3.

17 A Presicce pastilò indica il gioco e il bastone; forma sincopata di  basticallòi? (vedi il n. 1).

18) A Castrì di Lecce pizzicaùnu indica il gioco e il bastone; forma aggettivale accrescitiva da pizzica con lenizione di –r– come nei nn. 11 e 15?

19 A Pisignano, Salice Salentino e Vernole pizzicarièddhu indica il legnetto; diminutivo da pizzicàre.

20 A San Pietro Vernotico màzzicu indica il bastone; forma aggettivale da mazza (italiano obsoleto mazzicare=colpire con la mazza)?.

21) Ad Alessano, Cursi e Ugento tìppiti indica il legnetto; da una serie onomatopica t…p…t.

22 Ad Alezio, Taviano e Mesagne zippu indica il legnetto; il corrispondente italiano è la voce romanesca zeppo, da zeppa, secondo alcuni dal longobardo *zippa=estremità appuntita, secondo altri dal latino cippu(m)=cippo.

23 A Muro Leccese e a Tricase zìcculu indica il legnetto; probabile deformazione di *zìppulu, diminutivo del precedente.

24 A Tricase zìpparu indica il legnetto; forms sggettivale diminutiva di zippu (vedi il n. 22).

Sembra che una trama misteriosa colleghi tra loro le varianti riportate, ma soffermiamo la nostra attenzione sul fatto che la stragrande maggioranza reca come primo componente mazza o il suo derivato màzzicu. Farebbero eccezione bbasticallòi, bbàzzica, pastilò e pizzicaùnu, mentre sembrerebbero collegati fra loro per l’esito finale mazzicalòi, bbasticallòi e pastilò. C’è anzitutto da dire che il Rohlfs nel I° volume della suo opera citata nell’introduzione, a pag. 328, a proposito di mazzicalòi propone la derivazione da mazza e (ma in forma dubitativa) il greco kalòs=bello. E’ intuitivo che il dubbio dell’illustre studioso nasce, al di là della presunta composizione ibrida,  dalla difficoltà di collegare il concetto di bello con la voce in questione; a questo proposito io proporrei di prendere in considerazione come secondo componente il greco kalon=legna (connesso col verbo kàio=bruciare), che continua nel latino cala attestato da Lucilio (II° secolo a. C.). La terminazione in –òi (per la quale, al limite, si potrebbe ipotizzare un influsso brindisino) non pone alcuna difficoltà, se si pensa a fiddhòi=tappo che è dal greco fellòs=sughero; per quanto riguarda, poi, la –i– di mazzicalòi (mi sarei aspettato mazzacalòi) non è da escludere un influsso della –i– di màzzicu.

Passando ora al neritino bbasticallòi, dopo aver detto che il raddoppiamento di –l– può essere di natura espressiva [ma è da ricordare anche che il raddoppiamento del lambda (-l-) di kalòs è presente già in greco nei composti, per esempio kallìpolis, nome comune in Platone e poi proprio per indicare diverse città, fra cui la Gallipoli salentina; tuttavia ritengo che tale raddoppiamento nel nostro caso sia posteriore, cioè di natura espressiva, altrimenti da –ll– mi  sarei aspettato –ddh-, quindi bbasticaddhòi], ci troviamo ad affrontare il problema del  primo  componente; se  bbasti– non  nasce  per  dissimilazione  da bbatti– (proprio il Rohlfs a pag. 75 dello stesso volume prima citato registra per Nardò, accanto a bbasticalòi, la variante batticalòi), confisso derivato da battere, è lecito pensare al verbo greco bastàzo=sollevare. Anche qui, com’era successo per mazzicalòi, mi sarei aspettato bbastacallòi, ma non escluderei che il passaggio –a>-i– sia dovuto ad influsso di bbatti-. Un’ultima riflessione di carattere generale: gli incroci e le paretimologie (figli, per lo più della lingua popolare) sono un fenomeno abbastanza ricorrente; non c’è da meravigliarsi se nelle varianti della voce che ho appena finito (con tanti dubbi superstiti!) di analizzare esse sembrano avere un ruolo determinante; trattandosi, poi, di un gioco infantile, il rischio di deformazioni più o meno arbitrarie è ancora più spinto.

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1 Per aferesi da *caddhùzzu, inusitato diminutivo di caddhu (cavallo), corrispondente all’italiano cavalluccio.

La mia terra di Puglia


LA MIA TERRA DI PUGLIA*

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

La mia terra

non ha verdi foreste

che la testa le cingano a corona.

La mia terra

non ha monti solenni

che si staglino arditi nell’azzurro,

e purezze non ha di fresche fonti

che copia d’acque donino benigne.

La mia terra è distesa in molli piani

che s’adagiano lenti

sino al mare,

dove vi sono fasce di scogliere

che l’onde, negli anni

han cesellato,

e bionde spiagge,

ardenti sotto il sole.

Campo di verde è la mia terra quando

il primo sol di marzo la feconda:

campo d’oro è sotto il solleone

quando la messe

ormai matura, fluttua

e s’accende di luce tutto il giorno;

ed è cantiere fervido

quando giunge l’autunno

e pampini rossastri dona alle viti

e nereggiar fa l’uve.

Giungono allora accese cantilene,

miste all’odor del mosto

e al rumore dei carri.

Non ha la terra mia candor di neve

quando l’inverno giunge,

ma grigiore di piovose giornate.

Biancheggiano maestosi argentei ulivi,

e quando il vento gelido li scuote,

danno un sussurro lieve

e pare voce

antica e grave

che racconti pian piano

cose vedute in seppelliti anni.

Si muovono col vento bisbigliando

i virgulti novelli,

mentre immoti

restano i vecchi tronchi centenari.

 

Così la terra mia attende e ha fede,

ha volto antico

ed ha speranze nuove.

 

* Poesia pubblicata nei seguenti volumi:

“L’AMORE E’ COME POLLA D’ACQUA VIVA”, Lucente editore, Cosenza, 1963

“IL PIANTO NON DISSETA”, Ed. Omnia, Roma, 1964

La fratellanza sallentina ieri e oggi

La fratellanza sallentina ieri e oggi, i Messapi e il meridionalismo moderno.

Tutela dell’ambiente e amore del territorio

 

Giovanni D’Elia

Ambiente, ecosistema, tradizioni popolari, artigianato tipico ed artistico, storia e cultura dei Messapi. Queste parole, questi concetti hanno un filo comune che li lega indissolubilmente.

A volte l’errore che noi commettiamo è quello di ragionare per compartimenti stagni, abituati come siamo ad attribuire ad ogni concetto un significato univoco. Dunque Ambientalismo lo traduciamo con mera difesa dell’ecosistema e spesso viene visto dai più come un ostacolo allo sviluppo, nell’ottica per cui lo sviluppo di una società si misura in termini di maggior numero di infrastrutture, di strade, porti, strutture ricettive, centrali e quant’altro rappresenta il segno della modernità, il tappabuchi per le esigenze cogenti e attuali.

Analogamente pensiamo alla tutela delle tradizioni locali come ad un tentativo di porre in una teca da museo il nostro passato, forse in termini un po’ romantici e nostalgici, e anche qui non mancano le accezioni negative, in quanto per decenni il folklore è stato considerato come un’espressione pittoresca e rudimentale degli usi e costumi di popoli che non hanno avuto la possibilità di civilizzarsi. E la civiltà non è altro che quella che dapprima Gramsci e oggi l’UNESCO, nelle sue diverse Convenzioni per la salvaguardia della cultura e del folklore, chiamano Cultura dominante.

Anche questa concezione, di stampo illuministico, è passata nelle nostre coscienze come un assioma, per cui la cultura non è altro che un’attività intellettuale superiore, frutto, appunto dell’educazione di Stato. Gli studi antropologici, per fortuna, ci dimostrano che cultura è l’espressione dell’arte e della scienza vista non in termini qualitativi ed evoluzionistici, ma come fenomenologia materiale e immateriale di ogni singola comunità stanziata su un certo territorio, che cambia e si sviluppa sia autonomamente sia in contatto con altre comunità.

Infine, allo stesso modo guardiamo alla storia come ad un mero ricordo di ciò che è stato e non è più, come una serie di nozioni scolastiche ormai prive di senso, perché superate dal progresso. In tale contesto la storia locale non passa una vita migliore, perché la sua conoscenza non è frutto dell’insegnamento pubblico, ma della volontà individuale (spesso ostacolata dalla scarsità di fonti) di conoscere il proprio territorio e la sua storia.

Ecco che, in quest’accezione, un Dolmen, un Menhir o una Specchia sono semplici pietre, e quando qualcuno ne distrugge l’esistenza, come è accaduto pochi giorni fa a Giurdignano e a Surbo, alcuni, anche pubblicamente, ne sminuiscono la portata, riducendo il valore culturale, storico ed identitario di siffatte opere all’espressione di una storia che non ci appartiene più.

Da qui parte questa riflessione che giovedì 21 giugno vorremo condividere con voi, lettori ed appassionati di cose locali, parte dai termini che vi ho citato all’inizio: Ambiente, ecosistema, tradizioni popolari, artigianato tipico ed artistico, storia e cultura dei Messapi, e il filo comune, il collante che tiene uniti questi termini è un concetto molto elementare e allo stesso tempo complesso: identità.

E’ il senso d’identità che ci contraddistingue, ci rende in un certo senso testimoni e allo stesso tempo attori di una storia attuale che sotto certi versi stupisce e fa discutere chi si trova, a vario titolo, a parlare del Salento e del fermento culturale che lo contraddistingue.

Spesso si sente dire che la Pugliaè la Regione meno meridionale del Sud, perché i sistemi mafiosi sono meno penetranti che nelle altre regioni, perché il PIL è di poco superiore rispetto alle regioni contermini, e per altre e variegate ragioni. Beh, non credo sia così. La Puglia è una regione meridionale, forse la più meridionale, perché in Puglia si sta sviluppando sempre più un meridionalismo moderno, il cui vocabolario è composto proprio dai termini che vi ho appena citato e che rappresentano la base da cui partire per costruire una coscienza meridionale fatta non di scontro e separazione, in una becera visione conflittuale, ma di inclusione, dialogo e amore del territorio, nonché della sua storia, colta e popolare, materiale e immateriale, antica e recente, scritta e non scritta.

Ecco perché oggi abbiamo voluto parlare di Messapi, un popolo che per secoli ha coltivato, adornato, venerato e difeso la propria terra nonché ha dato origine ad un artigianato tipico, come espressione materiale della propria cultura.

Infatti non a caso abbiamo scelto la Mostra Permanentedell’Artigianato come contenitore culturale per questa prima iniziativa. L’arte è l’espressione materiale della cultura di un popolo. Da ciò ne discende che l’artigianato locale tipico è un elemento di memoria, un prodotto che ci identifica e che non può scomparire sotto i colpi martellanti del modello cinese. Ma c’è di più. C’è un artigianato artistico, frutto della memoria unita all’evoluzione stilistica, alla continua ricerca del bello, un bello spesso legato ai temi della natura, del paesaggio, dell’ambiente circostante. Quale migliore ispirazione per gli artigiani del Consorzio che l’ambiente che li circonda? E quale migliore collante che il senso di identità?

Dunque il filo comune che lega la storia dei Messapi alle tradizioni popolari, all’ambiente e alla tutela e valorizzazione dell’artigianato è proprio il senso d’identità, grazie al quale possiamo tracciare un percorso che – forte della memoria e dell’attaccamento alla terra – si sviluppi in armonia con la natura, in lentezza, e in alternativa all’ossessione competitiva, per cui tutto ha un valore economico, continuamente al ribasso, e ciò che non è suscettibile di valutazione economica diviene preda di interventi modernizzanti o di scempi della memoria.

Non a caso – c’è da dirlo a conclusione di questo umile scritto – l’ossessione competitiva, che colpisce soprattutto gli amministratori della cosa pubblica, lontani dalle esigenze reali dei cittadini e dei visitatori di questo splendido lembo di terra, li porta ad inseguire continuamente un modello di sviluppo che proprio non ci appartiene, progettando strade inutili e decontestualizzate dal territorio, sognando un Grande Salento collegato dalla testa ai piedi in cui il turista può raggiungere Leuca da Taranto o da Bari nel minor tempo possibile. Ma se il visitatore volesse perdersi tra gli ulivi e la macchia mediterranea? Si perderebbe tra gli svincoli e le uscite (magari con le mappe del navigatore non aggiornate…). E se andasse alla ricerca di strade sterrate e piccole piccole, per disintossicarsi da 11 mesi e passa di autostrade e grandi arterie che percorre ogni giorno? Ritroverebbe lo stesso paesaggio di casa sua…E se mentre percorre le strade che da Taranto portano a Leuca volesse cacciare la testa fuori dal finestrino per sentire gli odori del timo, del lentisco, del rosmarino o del mirto? Sarebbe invaso dagli odori delle marmitte dei TIR che portano i tamburelli cinesi da destinare alle bancarelle locali… E se ad un certo punto, colpito da una pajara che troneggia al centro di una campagna, volesse fermarsi per fotografarla? Dovrebbe attendere l’uscita successiva o fermarsi in una piazzola di sosta e respirare gli odori dell’asfalto fresco fresco…

Dunque storia, memoria, amore del territorio…sono la bussola che ci dovrebbero guidare alla ricerca della nostra identità, lungi da quell’ossessione competitiva che non dovrebbe far parte del nostro vocabolario.

Vi aspettiamo giovedì 21 giugno p.v. a Lecce, presso la Mostra Permanente dell’Artigianato (via Rubichi, nei pressi del Comune di Lecce, accanto alla Chiesa del Buon Consiglio, a due passi da Piazza S. Oronzo) per discutere di tutto ciò e per gustare insieme i prodotti della terra salentina e godere di un po’ di buona musica popolare. Perché le rivoluzioni (pacifiche) iniziano sempre da una discussione, una frisa e uno stornello…

(www.laputea.com)

Non ero mai stato a Cannole…

di Gianni Ferraris

Non ero mai stato a Cannole. Ne avevo sentito parlare e, chissà poi perché, avevo l’idea di un paese in cui prima o poi sarei andato, giusto per vedere i luoghi in cui erano fuggiti gli otrantini mentre i turchi massacravano.  Invece vale la pena andarci, anche se è un sabato sera di giugno. C’è anche il castello, piccolo ma austero, e c’è un’aria da paese, appunto, di tranquillità.

Signori seduti su una panchina che parlano facendosi scivolare addosso la sera d’estate, qualche ragazzo, pochi in verità. “Scusi, dov’è che presentano un libro?” “Un disco presentano, alla Pro Loco” e mi indica la strada. Il salone è grande e tappezzato da manifesti “antichi” della Festa te la Municeddhra. Antichi, parliamo del ‘900, quando chi scrive sapeva già di antico lui pure, ma questo non c’entra.

Ne è valsa la pena veramente ascoltare “Le ragazze del novecento” che cantano. Loro si chiamano Gina, Assuntina, Rosaria, Rosalba, Eva, Ndata, Nzina e cantano a cappella, senza musica come voleva il canto popolare, nei campi mentre si lavorava o nelle sere d’estate. “Al massimo c’era un tamburello e poco più” dice Luigi Chiriatti che ha curato il volume e il doppio CD delle ragazze. E c’è qualcosa di stupefacente scorrendo i titoli ed ascoltandole cantare, molti testi sono in italiano e provengono dal centro sud,

Libri/ Scirocchi barocchi

Bozzetti, istantanee, schizzi, novelle, documentari, registrazioni e cartoline postali provenienti dal profondo sud-est della penisola.

Un viaggio nel presente e nel recente passato, tra personaggi e interpreti del Salento di ieri e di oggi.

I racconti, alternandosi tra commedia e tragedia, si sviluppano intorno a quella pulitica intesa dai vecchi salentini come dignità civica, come rigore etico, come presentabilità sociale.

Un ritratto ironicamente impietoso, e senza infingimenti, su di una realtà sociologica sciroccata.

Da un rapporto d’amore contrastato con questa terra, la riflessione su come eravamo e come siamo diventati, così da ripartire per migliorarci.

 

Dalla quarta pagina di copertina:

Ormai ben più di dieci anni fa, quando per la prima volta mi capitò di leggere i pezzi narrativi di Giuseppe Resta, gli scrissi: “Tu sei uno scrittore bulimico come me, fluviale, straripante, si sente che provi un piacere fisico nello scrivere”. Mi rispose, fra l’altro, che scrivere lo faceva sentire “in salute”, e l’espressione mi impressionò moltissimo poiché rendeva con esatta icasticità l’habitus mentale al quale mi riferivo. La stessa lingua sincera, potente e

Ultimo ciak da Diso (Lecce)

di Rocco Boccadamo

E’ scomparso Giuseppe Bertolucci, sceneggiatore e regista, figura importante del cinema italiano e internazionale. Ciò annuncia un manifesto, listato, nella circostanza, di grigio scuro, fatto affiggere dalla civica amministrazione di un piccolo comune del Basso Salento.

E però, avanti che si affacciasse come sopra dalle locandine sui muri del paesello, la notizia dell’evento, grazie all’immediatezza a livello di tempo reale dei circuiti via internet, aveva ovviamente raggiunto i motori di ricerca e le agenzie di stampa. Cosicché, lo scrivente ha saputo attraverso una delle saltuarie capatine dentro le pareti di Google.

Ad ogni modo, la località di Diso,  poco più di mille abitanti, capoluogo di un comune che, considerando anche la frazione di Marittima, supera appena le tremila anime, ameno e tranquillo paese a due passi da un mare d’incanto, meno che una punta  di spillo nell’ambito dei confini geografici globali oggi vigenti, c’entra, eccome!

Difatti, qualche anno addietro, l’eminente uomo di cinema e di cultura l’aveva scelta come luogo dei suoi riposi, delle parentesi di distensione, senza pensieri e nello stesso tempo fra meditazioni e riflessioni, quale angolo tranquillo per rivivere un’esistenza piena, intensa e intrisa di successi.

Individuazione, tuttavia, nient’affatto casuale, anzi verosimilmente in linea con la grande semplicità dell’uomo, il suo attaccamento alla natura.

Non è dato sapere se la decisione di rifugiarsi, di tanto in tanto, da queste parti, sia stata antecedente o successiva rispetto ad un problema di salute, al

Le more mi fanno impazzire…

di Armando Polito

Detto così sarebbe, se non fosse per la prima immagine certamente meno accattivante, forse, di quella di Manuela Arcuri, una di quelle esternazioni che, anche se fatte da un personaggio famoso, mi lasciano totalmente indifferente; e io famoso non sono, per cui debbo rinunziare a questa forma di autocompiacimento. E lo faccio con grande piacere, anche perché l’affermazione supporrebbe che le bionde e le rosse (se, poi, pensiamo ai colori artificiali e artificiosi la gamma sarebbe pressoché infinita) poco manca che mi facciano schifo. Le donne mi piacciono tutte (e non è questa esternazione da vip?; comunque, giacchè ci sono, è bene che esprima compiutamente il mio pensiero), anche se prediligo le brune. A questo punto mi pare di sentire il lettore scocciato proferire: -Ma questo, con questi discorsi, a quasi settanta anni, non si rende conto di essere grottesco? Non possiamo correre il rischio che per colpa sua (!), nel caso si desse alla politica e diventasse Presidente del Consiglio, lo spread tornasse a salire, come quando c’era Lui-.

Non è per glissare, ma la risposta rischierebbe, lei sì, di prolungare eccessivamente la digressione da tempo in atto. Dico perciò, senza perdere e far perdere ulteriore tempo, che le more alle quali mi riferisco sono quelle che nel dialetto neretino sono chiamate lùmbari (questa è la forma registrata dal Rohlfs che, però, come dirò più avanti, non mi convince), il frutto della scràscia (rovo); perché anche queste mi fanno impazzire, e non solo perché ne sono ghiotto, si capirà a breve.

Alla due voci avevo già dedicato il post Quando al Rohlfs diede alla testa il lùmbaru della scràscia (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/07/21/tra-rovi-e-more-selvatiche/) ridimensionato nella sua irriverenza dal titolo redazionale Tra rovi e more selvatiche.

A distanza di quasi due anni torno sull’argomento e sottopongo alla gentile attenzione degli interessati un’altra ipotesi, totalmente diversa dalla precedente.

Intanto ecco qui tutte le varianti salentine, naturalmente tratte dal vocabolario del Rohlfs:

rùmula (nel Leccese a Novoli, Squinzano, nel Brindisino a San Pietro Vernotico).

rùmmula (a Lecce).

rùmulu (nel Brindisino a Brindisi, Latiano e Mesagne; nel Tarantino ad Avetrana, Manduria e Uggiano Montefusco.

rùmmulu (nel Leccese a Gallipoli e nel Tarantino a Sava).

lumbru (nel Brindisino ad Erchie, Francavilla Fontana, Oria e nel Tarantino a San Giorgio sotto Taranto).

lùmbaru (nel Leccese a Nardò). Debbo, però, dire che la forma corretta dovrebbe essere ùmbaru (anche se nato da lùmbaru per discrezione di l– inteso come componente dell’articolo: lùmbaru, l’ùmbaru>ùmbaru) perché al plurale ho sentiro dire li ùmbari.

lùmmiru e lùmmiru (nel Tarantino a Maruggio).

lumbre (nel Tarantino a San Giorgio sotto Taranto).

alùmbre (nel Tarantino a Ginosa).

umbru (nel Brindisino a Brindisi, Francavilla Fontana, Oria, San Pancrazio, Torre S. Susanna).

cararòmbula (nel Leccese a Corigliano).

cararòmbulu (nel Leccese a Galatina e Sogliano).

caròmbulu (nel Leccese a Neviano e Martignano).

caravòmbulu (nel Leccese a Galatina).

caratròmbulu (nel Leccese ad Aradeo)

scarabòmbulu a Bagnolo, Cutrofiano (localizzazioni presenti nel Rohlfs ma a me imperdonabilmente sfuggite) e a Collemeto in base alla preziosa informazione di Alfredo Romano che integra la prima scrittura in cui la voce era assente. All’amico spigolautore sono particolarmente grato anche perché la raccomandazione di nonna Maria Neve mi consente di ipotizzare che la prima parte sia ciò che rimane di scràscia/scaràscia e bòmbulu trascrizione dell’italiano bòmbolo (uomo piccolo e grassoccio, praticamente una palla…).

A costo di essere considerato pazzo… parto dalla fine affermando che lùmbaru potrebbe corrispondere all’italiano mòrula (stadio della segmentazione dell’uovo fecondato che si presenta come un aggregato di blastomeri, simile a una mora di gelso) che è dal latino scientifico mòrula, diminutivo del classico mora, neutro plurale di morum=frutto del gelso o del rovo.1

L’immagine spesso è più esauriente di mille disquisizioni e per rappresentare un probabile albero genealogico del nostro lùmbaru mi è sembrato che lo strumento più utile fosse il diagramma che segue, nel quale, partendo dalla considerazione che tutte le varianti sembrano sul piano fonetico tradire la stessa origine, ho considerato solo quelle che secondo me sono le tappe fondamentali nell’evoluzione del nome.

Se le cose sono andate veramente così il lummaru avrebbe avuto un’origine banale, meno complicata di quelle fin qui prospettate2, anticipando, addirittura, lo scientifico mòrula nato nel XIX secolo. Ma banalità, linearità e semplicità non sono, purtroppo, garanzia di verità…

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1 Nel latino classico esiste mòrula=piccolo indugio, ma è evidente che si tratta del diminutivo dell’omografo mora=indugio, dal verbo morari=attardarsi (non avente  nulla a che fare con la nostra mora).

2 A complicare ulteriormente il quadro mi viene in mente il tedesco brombeere=mora di rovo; si tratta di una parola composta in cui il secondo componente (beere=bacca) è certo, mentre il primo (brom) potrebbe avere connessioni con il latino prunus=pruno.

L’esiliato dei Pazzi, ultimo lavoro di Antonio Errico

Il 20 giugno alle ore 20.00, in piazza Garibaldi a San Cesario, sarà presentato il nuovo romanzo di Antonio Errico, L’esiliato dei Pazzi ( Manni editori).

Con i suoni di Gianluigi Antonaci.
Con le voci narranti di Michele Bovino, Antonio Calò, Maddalena Castegnaro, Giuseppe Cristaldi, salvatore della Villa, Simone Giorgino, Marco Graziuso, Ennio lecciso, Simona Luceri, Costanza Luceri, mauro marino, Giuliana Paciolla, Maria Grazia Preite, Piero Rapanà, Giulia Santi.
Con il Canto di Enza Pagliara.

Nicola G. De Donno, Li cunti te la nonna

di Emilio Panarese

Nella monografia «Maglie» che pubblicai nel 1995 vi sono verso la fine due lunghi capitoli di circa 80 pp., il 16° e il 17°, dedicati interamente alle tradizioni ed al costume popolare di Maglie, al suo arcaico dialetto ed alla sua vasta letteratura. Scrivendo di questa nutrita letteratura, ho cercato di mettere nel dovuto risalto il poderoso e rilevante contributo che ad essa ha dato continuamente Nicola De Donno con un grande salto qualitativo, con grande competenza e professionalità, sia a livello di trascrizione di testi, sia a quello di invenzione poetica sia a quello, pure assai significativo, di critica e di saggistica.

La pubblicazione della trascrizione fonetica con traduzione in italiano dei sessantacinque racconti popolari magliesi/salentini contenuti nel suo libro «Li cunti te la nonna», stampato nel 2000 col patrocinio del Comune di Maglie dalle Grafiche Panico di Galatina, completa in modo esemplare il dignitoso edificio del nostro dialetto e della nostra letteratura che egli ha ricostruito e restaurato in più di cinquant’anni di instancabile lavoro con ammirevole cura ed infinita pazienza.

Cominciamo dal titolo: «Li cunti te la nonna». Cuntu è parola antica e letteraria, già presente in documenti italiani del ‘200. È un deverbale di contare, che deriva dal latino computare, ‘calcolare, contare’.  Dal verbo computare al sostantivo computus e, per sincope, a comptu / contu /cuntu, che ha anche il significato di ‘narrare, novellare, raccontare’. Nell’accezione della parlata magliese cuntare vuol dire innanzitutto ‘parlare’ ma tale significato non si ritrova nei dizionari dialettali  del Rohlfs e del Garrisi mentre contare nel senso di ‘raccontare’ è riportato oltre che nel ‘Dizionario etimologico’ di Cortelazzo e Zolli, citato da De Donno nell’Introduzione del

La Signora degli Ulivi

di Wilma Vedruccio

Desiderio di Volare, pirografia di Silvana Bissoli

Esile, bionda, sorridente, sempre pronta al dialogo, la Signora degli Ulivi.

Scuri, massicci, silenziosi, gli Ulivi che Ella ama senza misura e riproduce col fuoco su fogli di legno. Elementi di una contraddizione che non spiegano ma confermano il mistero della nascita di un amore che diventa una vera e propria passione. Come ogni storia d’amore che si rispetti.

Mi meraviglia la sua capacità di ascoltare “Quello che gli ulivi ci dicono” con un solo sguardo, il suo incanto intriso di compatimento per ogni piega, contorsione, per ogni piegamento, per ogni spasmo del tronco. E sono mille  i tronchi oggetto del suo sguardo, non oliveto, come per noi, ma individui d’albero con nome proprio.

Mi meraviglia come sappia cogliere lo slancio dei rami da tronchi feriti e veda in essi una dimensione esistenziale che va oltre una volontà vegetale, come sappia gioire per ogni resurrezione d’ulivo, come cerchi il cielo con essi, foglia a sua volta, insieme a una miriade di piccole foglie, carezza di fuoco, segno bruno nella carne di legno di alberi fratelli all’ulivo.

Si posa il suo sguardo su un singolo albero e già l’albero non è più tale, è già figura mitologica che ha impressa nelle rughe una storia, un sopruso, uno scherzo del tempo; agronomi e contadini non hanno più voce, l’ulivo racconta ben altro che una potatura, una malattia o un abbandono di coltivo, l’albero si fa umano e assume caratteristiche da creatura arcaica che giunge a noi dopo

Ricordo di un Sindaco

di Rocco Boccadamo

16 giugno 1912 – 16 giugno 2012

Ricorre in questi giorni il centenario della nascita di  Agostino Nuzzo, primo cittadino del Comune di Diso, nel sud Salento, dal 1946  al 1951 e dal 1956 al 1963: secondo il sentire popolare, tuttora diffuso nelle fasce degli abitanti di una certa età, il Sindaco per antonomasia.

Uomo, genitore, educatore e pubblico amministratore.

Semplice e insieme autorevole,  cordiale con tutti, particolarmente vicino ai più deboli e bisognosi, capace di guidare e di coinvolgere, disponibile ad ascoltare il parere e i consigli degli altri.

Breve l’arcobaleno della sua esistenza terrena –  essendosene egli andato a sole cinquantuno primavere, nell’ormai lontano 1963 – e però caratterizzato da sfumature molto intense, in termini di idee, fatti, azioni e interventi per la crescita del territorio affidatogli.

Indubbiamente, una figura che ha saputo volare alto, tanto da divenire polo di

Libri/ Antonietta De Pace. La donna dei lumi

Antonietta de Pace è una donna splendida, vivace, intrepida; è uno spirito libero, che si batte per la propria libertà e per quella del popolo, da sempre sottomesso alle inique condizioni di vita imposte dal Borbone. È, per certi aspetti, donna selvaggia e indomita, istintiva e coraggiosa, che non si lascia imbavagliare dalle rigide regole del tempo, che combatte le umilianti condizioni in cui versano le donne.

Antonietta è un personaggio che non accetta le inique gerarchie della società contemporanea, che tenta di spezzare, il più delle volte riuscendovi, le catene della rassegnazione, del fatalismo, dell’indifferenza, dell’abbandono, dell’oblio, dell’eterna sottomissione; è una donna che, tra tanti sacrifici e ostacoli, riesce a scardinare mentalità retrive e ad inculcare la forza della ragione, del sentimento, del coraggio, della lotta: unici rimedi per garantire a chiunque dignità e conquistare i sacrosanti diritti alla vita.

Il libro di Rino Duma “Antonietta De Pace. La donna dei lumi” (Lupo

Tre giorni dedicati al gelso. A Collepasso

Collepasso, Palazzo Baronale 14/15/16 Giugno 2012

14 Giugno ore 20.00
Il Gelso nell’Alimentazione Umana
Relatori:
• Saluti del Sindaco di Collepasso Dott. Paolo Menozzi
… • Rossella Epifani Naturalista
• Prof. Antonio Miceli UniSalento
• Dott.ssa Pamela De Liquori Nutrizionista
• Dott. Giuseppe Serravezza Pres.te LILT Lecce
• Dott. Cosimo Lupo LupoEditore
• Dott.ssa Sabrina Sansonetti Pres.te Innovapuglia
• Agr.co Roberto Malerba Pres.te Ass.ne Custodi del Salento
• Dott. Antonio Gabellone Presidente Prov. Lecce
• Dott. Giuseppe Negro ASCLA Casarano

15 Giugno ore 20.00
Il Gelso per la produzione di Biomassa e di Bioetanolo

Tutino e la contraddizione pragmatica delle epigrafi del suo castello baronale

di Armando Polito

Debbo anzitutto ringraziare Marco Cavalera, autore, sul tema,  del post apparso sul sito qualche giorno fa perché, prima di leggerlo, di Tutino ignoravo pure il nome.

Particolare interesse hanno suscitato in me le iscrizioni riportate e le considerazioni che farò le riguardano in modo esclusivo.

Citerò di ognuna testo e traduzione per non obbligare il lettore ad un continuo andirivieni tra il mio post e quello di Marco.

1) ALOISIUS TRANE PRIMAE PATRlAE NOMEN GAZA VERO COGNOMEN INTER PRIMOS FORTUNAE NATOS FAVENTE MINERVA AD PRlSTINAM NOBILITATEM EJIUS FAMILIAM REDUXIT IMISQUE AB INFIMIS FUNDAMENTIS EREXIT POSTERISQUE SUIS VINCULA(VIT)

(Luigi Trani dal nome della patria di origine, in verità di cognome Gaza, tra i prediletti della fortuna, col favore di Minerva riportò all’antica nobiltà la sua famiglia, lo eresse fin dalle fondamenta e lo destinò ai suoi posteri).

Giustamente è stata citata per prima, perché costituisce la targhetta di riconoscimento del manufatto. Gli ingredienti che la compongono sono quelli che usualmente si leggono in documenti del genere, ma voglio far notare la riconoscenza espressa nei confronti di due divinità pagane: Fortuna e Minerva.

2) VINCE IN BONO MALUM (Vinci il male con il bene).

Si tratta della seconda proposizione di un periodo (12, 21) della lettera di San Paolo ai Romani:

Noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Non farti vincere dal male, ma vinci il male nel bene).

Il lettore si sarà accorto della diversa traduzione che ho dato di in bono. Molto spesso la traduzione libera non esprime compiutamente il pensiero come quella letterale che, secondo me, va adottata tutte le volte che si incorre in questo rischio. Nel nostro caso l’originario complemento di stato in luogo (in bono, nel bene) è molto più pregno di significato del complemento di mezzo (con il bene), che in latino avrebbe richiesto la presenza dell’ablativo semplice (bono e non in bono). San Paolo, insomma, esortava non a vincere il male con il bene ma (restando) nel bene, formulazione di un principio generale che privilegiava la continuità di uno stato che, al di là della sua contingente incarnazione temporale, doveva avere anche un’atemporale funzione preventiva (chi sta costantemente nel bene non avrà bisogno di combattere il male perché non esiste neppure il rischio, almeno endogeno, di esserne assalito).

3) MELIOR DIES MORTIS QUAM NATIVITATIS  (Meglio il giorno della morte che quello della nascita).

Si tratta anche qui di una citazione parziale, questa volta  di un proverbio biblico (XXI, 2):

Melius est nomen bonum quam unguenta pretiosa, et dies mortis die nativitatis (È meglio un buon nome che profumi preziosi e il giorno della morte che quello della nascita).

Credo che il motivo ispiratore sia la condanna dell’apparenza (profumi preziosi) rispetto alla sostanza (buon nome), ricalcato nella seconda parte con la contrapposizione tra la morte (tempo di bilancio consuntivo) e della nascita (tempo di bilancio preventivo).

4) CORONA SAPIENT(I)UM DIVITIE(AE) EORUM (Corona dei sapienti è la loro ricchezza).

Citazione parziale di un altro proverbio (XIV, 24): Corona sapientium, divitiae eorum; fatuitas stultorum, imprudentia (Corona dei sapienti, le loro ricchezze; degli stolti, la superficialità e l’imprudenza).

Qui sono in ballo elementi tutti spirituali, come le ricchezze dei sapienti e la superficialità e l’imprudenza degli stolti.

5) MISERICORDIA ET VERITAS CUSTODIUNT REGEM   (Misericordia e verità proteggono il regnante).

Altra citazione parziale dal proverbio XX, 28: Misericordia et veritas custodiunt regem et roboratur clementia thronus eius (La misericordia e la verità proteggono il re e il suo trono è rafforzato dalla clemenza).

6) QUID PRODEST STULTO HABERE DIVICIAS CUM SAPIENTIAM EMERE NON POSSIT (Che cosa giova allo stolto avere la ricchezza se non può comprare la sapienza?)

Si tratta della citazione, questa volta integrale, del proverbio XVII, 16.

7) VERE PRINCIPUM EST SIMULARE (Fingere è proprio dei principi).

A Luigi XI, re di Francia dal 1461 al 1483, è attribuita la frase qui nescit dissimulare, nescit regnare (chi non sa fingere, non sa regnare), della quale la nostra iscrizione sembra la sintesi e che avrebbe trovato la sua sistemazione teorica, vedendo, fra l’altro, nascere il principio della ragion di stato, ne Il Principe (1513) di Niccolò Machiavelli.

8) NON ETS (EST) CONC(S)ILIUM CONTRA DOMINUM (Non sia complotto contro il signore).

Citazione parziale del proverbio XXI, 30: Non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Dominum (Non c’è sapienza, non c’è prudenza, non c’è assennatezza contro il Signore).

E qui mi dissocio dall’interpretazione di Marco, che introduce (a parte est  reso con sia come se fosse sit)  un adattamento ad personam indotto, credo, dal non aver potuto considerare il testo originale nella sua completezza, per cui il consilium diventa complotto e Dominum diventa signore.

A conclusione di questa analisi voglio fare questa riflessione che è un’immonda ma certamente rabbiosa parafrasi di Domande di un lettore operaio di Bertold Brecht (per la sinistra, il centro la destra e per tutte le possibili posizioni trasversali http://www.filosofico.net/brecht83operaio3.htm): le iscrizioni appena esaminate per un imbecille come il sottoscritto andrebbero raccolte in due gruppi: nel primo la 1 (in cui Minerva  diventa quasi un’autocelebrazione pagana della propria sapienza)  e la 7; nel secondo le rimanenti in contraddizione totale con le due del gruppo precedente, che, non a caso, pur essendo in minoranza, prevalgono per i fatti concreti cui danno vita (il palazzo, il mantenimento del potere).

E allora, ben venga qualche atto vandalico o qualche terremoto che faccia piazza pulita di queste (presunte?) vergogne? Tutt’altro! Esse vanno conservate come testimonianza delle nostre contraddizioni e miserie (soprattutto quelle legate al potere in tutte le sue forme) e lette alla luce brechtiana che, in ultima analisi (incredibile per un comunista!), coincide con l’insegnamento cristiano (non cattolico!).

Vuoi vedere che la trascuratezza in cui versano i nostri, così pomposamente definiti, beni culturali non dipende solamente da un comodo principio di priorità connesso con le ristrettezze economiche?

La campagna salentina verso la fine di giugno…

SALENTO FINE OTTOCENTO

  

                      LA CCOTA TI LI CULUMMI

 

 di Giulietta Livraghi Verdesca Zain 

contadina salentina e fichi al sole (coll. priv. Nino Pensabene)

Verso la fine di giugno, la campagna era all’apice della sua fruttificazione, tant’è che reclamava l’impegno di tutta la famiglia colonica, assorbendone le forze per ogni ora del giorno e, non di rado, per buona parte della notte. I legumi, già secchi, andavano liberati dai loro baccelli, cioè battuti sull’aia nelle ore calde del meriggio e affannosamente ventilati con lo staccio quando, verso il crepuscolo, a interrompere l’afa, s’insinuava un provvidenziale filo di vento marino. Nei maggesi le piante dei melloni  cominciavano a stendere le braccia invocando acqua; acqua che in quella stagione il cielo non elargiva, costringendo gli uomini a vincolarsi per lunghe ore alle carrucole dei pozzi e stabilire interminabili processioni di secchi: dal pozzo alla piantagione, dalla piantagione al pozzo. Nei frutteti le maturazioni si accavallavano esigendo tempismi di raccolta, soprattutto nei ficheti che, a quell’epoca, nel Salento, erano a coltivazione intensiva. I fioroni per i padroni, o per i regali che questi dovevano fare ai loro amici, si raccoglievano all’alba, ancora intrisi dei succhi della notte, ma quelli da avviare al mercato occorreva coglierli nelle ore del vespro, sfidando i bollori del giorno rimasti aggrumati sotto i pampini ed esalanti fuoco nel lattice dei frutti.

Parlando di mercato non s’intendeva quello dello stesso paese, troppo  limitato per      assorbire l’intera produzione: occorreva spostarsi verso i paesi costieri (la cui terra rocciosa non permetteva coltivazione di  fiche culummare  [fichi da fioroni=culùmmi]) e soprattutto contare sul mercato leccese che pur se servito dai vari paesi limitrofi non si saturava facilmente.

Date le distanze per Lecce (da Copertino erano diciotto chilometri) e tenuto conto che si doveva viaggiare ad andatura lenta, per non dare sobbalzi  al carro e quindi maltrattare i fioroni sistemati nelle ceste, era necessario partire a sera inoltrata, in modo da completare il viaggio nell’arco della notte ed essere all’alba già sulla piazza, pronti alla vendita.

La raccolta doveva perciò essere completata prima del tramonto, per consentire al capofamiglia poche ore di riposo prima della partenza. Dopo aver aiutato a sistemare le ceste sul carretto, elargito all’asino o al cavallo doppia razione di biada, preparata una scodella di capunata (pane bagnato condito con cipolla, pomodoro, olio, sale e origano) per tutta la famiglia, ogni brava moglie contadina obbligava il suo uomo ad andare a dormire, rassicurandolo che sarebbe stata lei stessa a svegliarlo a llu mmasunu ti la stèddhra ti la muttura, cioè verso le ventitrè-ventitrè e trenta, ora in cui tramontava la stella Arturo, chiamata stèddhra ti la muttura perché – si diceva – il suo tramonto coincideva col cominciare a scendere della rugiada.

Chiusa la porta sul riposo del marito, di solito la donna si premurava di accendere un lumino, posandolo sulla soglia della casa a propiziazione del viaggio  e della vendita che da questo ne sarebbe derivata; poi, fiduciosa nelle buone virtù del suo gesto, tornava nel folto del ficheto, dando voce e chiamando al raduno. Da quel momento, per lei e per tutti gli altri membri della famiglia – figli, nipoti, nonni – che rimanevano in campagna, aveva inizio un altro lavoro, forse più allegro, certo più poetico, ma non meno faticoso. Per prima cosa  occorreva sgombrare lo spiazzo antistante la casa colonica, liberandolo da tralicci, panieri o altri arnesi di lavoro rimasti in disordine; poi, con  l’aiuto di paletti e lettiere di canne spaccate, si approntavano dei rustici tavolini, sui quali, a mo’ di decorazione, si posavano due cipolle e un cetriolo, spiritosamente allusivi nella loro studiata composizione. In verità, la loro

Maurizio Monticchio a Lecce

Maurizio Monticchio

Opere

Dal 16 al 26 giugno 2012

Lecce, Monastero di San Giovanni Evangelista

via delle Benedettine, 1

Inaugurazione sabato 16, ore 18

Orari di apertura: 10-12; 18-20.30 (inclusi festivi)

 

Da sabato 16 a martedì 26 giugno, le sale del monastero di San Giovanni Evangelista ospitano una personale di Maurizio Monticchio, da anni impegnato nel campo della ricerca sulla scultura aerea. Per l’occasione, Monticchio espone la sua produzione artistica più recente. Tra questi, “Vasi da fiori”, “Gatti” e vedute urbane realizzate con la tecnica del pastello.

La mostra è accompagnata dai testi redatti da Maurizio Monticchio e dal filosofo Emanuele Coppola. La personale è visitabile tutti i giorni (inclusi festivi) dalle 10 alle 12; e nel pomeriggio dalle 18 alle 20.30.

 

Maurizio Monticchio, Vaso da fiori

Biografia

Maurizio Monticchio si è laureato in architettura a Firenze dove ha svolto per alcuni anni attività di ricercatore universitario. Negli anni Ottanta si è trasferito a Lecce dove ha esercitato l’attività di architetto nel settore edilizio e del design artistico. Espone per la prima volta le sue sculture aeree nel1993, inuna personale allestita dal comune di Firenze pressola Palazzinadell’ex Ministero dell’Agricoltura. Successivamente espone a Ferrara, presentato da Franco Patruno, direttore di “Casa Cini”. In seguito allestisce una mostra a Lecce, presso Palazzo Scardino, in cui sono presenti anche le sue opere di pittura. Negli ultimi anni ha proseguito la sua attività dedicandosi anche all’aspetto teorico della ricerca storico-artistica.

Maurizio Monticchio, Gatti

Info e contatti

email: ufficiostampa.damagegood@gmail.com

cell.: 339/1414951

cell.: 340/6212127

www.mauriziomonticchio.it

A Parigi: La Puglia suona, l’Italia balla…

di Gianni Cudazzo

“LES POUILLES JOUENT, L’ITALIE DANSE”

Concerto della nuova scena musicale pugliese e italiana a Parigi

23 giugno 2012, Place d’Italie a Parigi

Nidi d’Arac

La Place d’Italie sarà in festa a Parigi, dal 22 al 27 giugno, in occasione della 12a edizione della Settimana Italiana del 13°: “Italia…maintenant ?”.

Cultura, letteratura, arte, cinema (da segnalare l’eccezionale presenza del

Da Parigi. Gianni Cudazzo chiacchiera con Alessandro Coppola

Quattro chiacchiere con Alessandro Coppola, fondatore di Nidi d’Arac e direttore artistico dell’evento “La Puglia suona, l’Italia balla” del 23 giugno 2012, a Place d’Italie a Parigi

 

Alessandro Coppola

“Italia… maintenant ?” è il tema della settimana italiana di quest’anno, esiste un Italia… “d’avant” ?

Purtroppo non può non venirmi in mente, visti anche i recentissimi fatti di cronaca… un’Italia che mi auguro di non rivivere più, ossia quella delle caste, delle mafie, della corruzione, delle stragi: un’Italia indegna della sua Storia, Cultura, e di quei Grandi italiani che hanno contribuito a “elevare” l’immagine del nostro Paese a simbolo di creatività e umanità nel mondo.

Venezia, Roma, Milano o Napoli sono le città italiane più conosciute all’estero, perchè una regione come la Puglia come simbolo di questo concerto?

Da qualche anno, noi pugliesi viviamo un momento importante per la nostra regione. Iniziamo finalmente a capire che bisogna valorizzare l’immagine del nostro territorio, adoperare al meglio le nostre risorse culturali come quelle naturali e la musica sta contribuendo molto alla diffusione di questo nuovo atteggiamento. Un esempio dunque per l’Italia intera che storicamente ha una delle più grandi tradizioni musicali del mondo ma che, da un po’ di tempo, non confida sufficientemente nell’arte dei suoi “nuovi” artisti.

 

Nel contesto politico e sociale così tormentato, pensi che la musica possa essere una sorta di “ambasciatrice” dell’Italia all’estero?

Potrebbe sembrare futile parlare di musica italiana davanti a questo scenario europeo, segnato da problemi più tangibili: la disoccupazione, il debito pubblico, le tasse… ma non dobbiamo dimenticare che la cultura e quindi anche la musica, hanno un ruolo fondamentale nel preservare la democrazia in momenti difficili come questo. Storicamente, basti pensare al ruolo che ha avuto Verdi in Europa durante il Risorgimento. Quindi: perchè non pensare ad

Quello che gli ulivi ci dicono…

di Pompea Vergaro

L’artista Silvana Bissoli dà la parola agli ulivi porgendo l’orecchio a

Quello che gli ulivi ci dicono…

Con la personale Quello che gli ulivi ci dicono… l’artista imolese Silvana Bissoli, nello spazio espositivo lungo le stanze del prestigioso ex Convento di Sant’Anna, a Lecce,  racchiude e chiude, con 26 opere, un percorso per cominciarne uno nuovo, nel suo continuo e inesauribile  pirografare…  per continuare a scoprire e catturare le essenze arcaiche dell’ulivo e vivere pienamente la contemporaneità.

L’artista, ogni volta che giunge nel Salento, ne vive così intensamente i respiri, che abilmente, riesce a condurre lo spettatore… sulle orme di una terra arcaica, generosa, ma esigente, per narrare di viaggi e di soste, di gioie e di dolori, di abbandoni… in un continuo pirografare.

Il pirografo è il suo strumento per eccellenza, è la scrittura col fuoco, una tecnica d’incisione antichissima che giunge dal mediterraneo. Gli ulivi sono i suoi soggetti prediletti, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, altrettanto abitanti del mare nostrum.

Quello che gli ulivi ci dicono… è una ricerca nel percorso della propria esistenza; in realtà Silvana Bissoli va a cercare e a ri-trovare gli ulivi, si inebria dei loro cambiamenti, ma anche delle nuove scoperte, scovando luoghi sconosciuti e poco praticati. Ogni volta che giunge nel Salento, coglie sia i loro silenzi, sia il vento che ora li accarezza, ora li scuote.

E nelle misteriose piane sassose, il mare, non lontano, anche se non sempre del tutto visibile, fa la sua parte, perchè regala spesso e volentieri venti impetuosi con i quali gli ulivi, quasi imperturbabili, hanno imparato a convivere e affrontare, in un continuo annodarsi, piegarsi e rialzarsi.

Ogni volta l’artista, gioiosamente li fotografa per poi affidarsi… all’Arte che si manifesta nella sua piena magnificenza e unicità!

Nella sua ultima produzione questi “millenari” acquistano nuove spazialità, divenendo tridimensionali, quasi … delle installazioni.

Silvana Bissoli di “questi esseri” non può più farne a meno per questo ritorna sempre nel Salento, ci invita a fare una passeggiata ammirandone i tronchi e le folte chiome e, con un profondo atto di generosità, prova a dargli la parola, invitandoci a porgere l’orecchio a… Quello che gli ulivi ci dicono!

 

Stefano da Putignano e la statua di Sant’Antonio a Nardò

Nardò, chiesa di S. Antonio da Padova, statua del santo di Stefano da Putignano (1514) (ph Mino Presicce – riproduzione vietata)

di Marcello Gaballo

La festa del santo patavino è occasione utile per focalizzare una delle cappelle laterali esistenti nella chiesa del santo a Nardò (Lecce), fondata nel 1497 dal primo duca, Belisario Acquaviva d’Aragona, che la affidò ai francescani Osservanti.

La cappella, seconda del fianco destro, ospita un altare in pietra leccese di pregevole fattura, alto circa 3 metri e largo 4. Non sono la mensa o il gradino a renderla particolarmente interessante, quanto la decorazione che orna la parete frontale e la statua del santo, cui l’edificio è dedicato.

La novità è data dall’altorilievo del Padre Eterno sul coronamento dell’altare, per alcuni aspetti simile all’iconografia riscontrabile sull’altare di S. Girolamo in Cattedrale e sul protiro cinquecentesco della chiesa del Carmine, sempre a Nardò. Nella nostra chiesa il Padre fuoriesce da una nube, attorniato da testoline di putti e adorato da due angeli ai lati, genuflessi e oranti.

Sono coevi i quattro alti plinti posti alle estremità laterali, con decorazioni floreali ed enigmatiche  figure antropomorfe, sostenenti  altrettante colonne, sempre in pietra leccese. Decorate con tralci di vite e grappoli d’uva, terminano con graziosi capitelli in stile corinzio. Ai lati dell’ altare sono scolpiti due interessanti stemmi gentilizi baronali, con elmo, cimiero e svolazzi, di cui il primo dei coniugi De Castello e De Vito, il secondo della coppia De Castello e Delli Falconi[1]. Alla base delle colonne interne vi sono le iscrizioni ANNO DOMINI  e 1637 e al centro Pugliese di Nardò, senza altri nomi[2].

Due epigrafi, che ancora si vedono all’interno della cappella, rispettivamente del 1637 e del 1749, chiariscono alcune delle vicende storico-architettoniche; a destra si legge: DIVO ANTONIO PATAVINO SERAF. ORD. PRAECLARO LUMINI/ SANCTITATE DOCTRINA PRAEDICATIONE/ ET MIRACULIS INSIGNI ALTARE HOC POPULUS DICAVIT A.D. MDCXXXVII/ PROTEXI SEMPER ET PROTEGAM.

Su quella di sinistra, successiva di oltre un secolo, l’iscrizione ricorda la concessione pontificia in altare privilegiato per la celebrazione quotidiana delle messe: ALTARE PRIVILEGIATUM QUOTIDIANUM PERPETUUM CONCESSUM A BENEDICTO PAPA XIV, PRO SACERDOTIBUS TANTUM/ FRATUM MINORUM FRANCISCI/ A.D. MDCCXLIX.

Il  riquadro centrale della cappella è occupato da una nicchia in cui trova posto una importante statua in pietra policroma, alta circa 170 cm,  raffigurante S. Antonio, opera certa del celebre Stefano da Putignano (ca. 1470-1540), che la firma annotando sullo zoccolo della base circolare: S. A. DI  PADUA  – 1514 – STEPHANUS  APULIAE  POTENIAM ARCHITECTUS[3]. E’ l’unico caso, come scrive Clara Gelao, in cui lo scultore si firma con tale qualifica: “ciò che gli ha fatto attribuire  senza alcuna prova – dato che non possediamo testimonianze architettoniche documentate come di Stefano – almeno due fabbriche (il registro inferiore del campanile della cattedrale di Polignano a Mare, la chiesa di San Domenico a Monopoli, oltre alla cappella dei SS. Medici nella chiesa matrice di Turi)”[4].

Il santo, in posizione frontale, d’aspetto giovanile e imberbe, con capigliatura corta, riccioluta e ampia tonsura, indossa il saio dei Minori francescani. Scalzo, con la mano destra regge un giglio di epoca successiva, con la sinistra un messale aperto, con copertina rigida provvista di fibbia. Sulle due pagine del libro si intravede un’iscrizione impossibile a decifrarsi, forse riscritta in occasione della ridipintura della statua a causa di discutibili termini (Com/par, inclite, ovom. nobbis).

Una terza iscrizione ricorda il restauro eseguito con il concorso dei fedeli nel 1913.

Il patronato della cappella spettava alla città di Nardò, che aveva designato il Santo comprotettore civico nel 1630.


[1] cfr. M. GABALLO, Araldica civile  e religiosa a Nardò, Nardò Nostra 1996, pp. 46,55.

[2] E. Mazzarella,  Nardò Sacra, a c. di M. Gaballo, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e

Gallipoli, Congedo, Galatina 1999, p.242; M. FALLA-CASTELFRANCHI, I monumenti di Nardò, in B. Vetere, Città e Monastero – i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Congedo, Galatina 1986, p.262.

[3] B. F. Perrone., I conventi della serafica riforma di S. Nicolò in Puglia (1599-1835), I, pp. 29-164.

[4] C. Gelao, Stefano da Putignano nella scultura pugliese del Rinascimento, Schena Ed., Fasano 1990, p. 70.

Lecce e i conventi dedicati a Sant’Antonio da Padova

Lecce, chiesa di Sant’Antonio da Padova, prospetto principale, statua del Santo (ph Giovanna Falco)

di Giovanna Falco

Il 13 giugno la Chiesa cattolica commemora Sant’Antonio da Padova (1195-1231), canonizzato dopo un solo anno dalla morte e proclamato Doctor Evangelicus nel 1946 da Pio XII.

È uno dei santi più venerati: protettore degli orfani, dei poveri, delle reclute, dei sacerdoti, degli sposi, è Santo patrono del Portogallo, del Brasile, della Custodia di Terra Santa, di molte città e centri urbani italiani e, in Terra d’Otranto, di Ceglie Messapica, Fragagnano e di tredici paesi nel leccese[1].

Il Santo Taumaturgo dal 1631 è anche compatrono di Lecce, «quando questa Città prese il Santo per suo particolare protettore, che veramente si fé sì solenne, che non può dirsi maggiore»[2]. La decisione di proclamare Sant’Antonio patrono della città nacque dal suggerimento dato al sindaco Giovan Domenico Veneziano da fra Nicolò de Seracina «huomo di gran Santità, e dotato da Dio dello spirito della Profetia»[3].

Da qui la fondazione del bellissimo altare nel Duomo e di quelli in altre chiese di Lecce, nelle cui nicchie sono riposti dipinti e statue che ritraggono Sant’Antonio da Padova nell’iconografia usuale, con Gesù Bambino in braccio[4].

Quattro fondazioni francescane leccesi, inoltre, sono state dedicate a questo Santo: Sant’Antonio della piazza, Santa Maria di Ogni Bene, Santa Maria dell’Idria, Sant’Antonio a Fulgenzio.

La chiesa di Sant’Antonio da Padova, il cui prospetto attuale si trova in via Ludovico Maremonti, fu voluta da Gian Giacomo dell’Acaya, il celebre architetto di Carlo V. Originariamente il fondatore voleva istituirvi una comunità di suore Clarisse, ma non ottenendo l’approvazione decise di affidarlo ai frati Minori Osservanti, ordine religioso di cui faceva parte il figlio Francesco.

Narra Giulio Cesare Infantino come già nel 1564 ne aveva già fondato uno in Acaya «e vedendo il gran frutto, che questi Padri facevano, mosso dal medesimo zelo, donò à questi una sua casa principale in Lecce nel 1566»[5].

I frati francescani «comprando altro sito contiguo alla detta casa, con concessione di Pio V, fabricarono una commoda Chiesa, e Convento, come hoggi veggiamo sotto il titolo di S. Antonio di Padova»[6].

Lecce, chiesa di Sant’Antonio da Padova, prospetto principale (ph Giovanna Falco)

L’Infantino, oltre a descrivere il sacro edificio, racconta come il 13 giugno di ogni anno si addobbava «tutta la detta Chiesa di bellissimi drappi, con musiche,

Tutino (Lecce). Il castello baronale dei Trane

di Marco Cavalera

Il castello di Tutino fu costruito, negli ultimi decenni del XVI secolo, su una preesistente struttura normanno-sveva (fig. 5). La struttura, che si caratterizza per la presenza – su tre lati – di un profondo fossato, è dotata di una cinta muraria alta sei/sette metri e spessa un metro e mezzo circa. La possente fortificazione – realizzata in pietre di calcare locale e “bolo” – era difesa da ben nove torri, delle quali attualmente ne sopravvivono solo cinque. Alla base è rafforzata da una scarpata e sulla sommità, in alcuni tratti meglio conservati, è visibile ancora il cammino di ronda. Le due torri situate a nord-est, prive di scarpata e di coronamento, sono state più volte oggetto di rifacimenti e rimaneggiamenti.

La costruzione del palazzo baronale comportò l’abbattimento di alcune torri e il riempimento della parte settentrionale del fossato. Un’iscrizione a grandi caratteri latini, incisa lungo la facciata rivolta su Piazza Castello, ricorda il committente di questa imponente opera difensiva, ossia il barone Luigi Gaza da Trani: ALOISIUS TRANE PRIMAE PATRlAE NOMEN GAZA VERO COGNOMEN INTER PRIMOS FORTUNAE NATOS FAVENTE MINERVA AD PRlSTINAM NOBILITATEM EJIUS FAMILIAM REDUXIT IMISQUE AB INFIMIS FUNDAMENTIS EREXIT POSTERISQUE SUIS VINCULA(VIT) (Luigi Trani dal nome della patria di origine, in verità di cognome Gaza, tra i prediletti della fortuna, col favore di Minerva riportò all’antica nobiltà la sua famiglia, lo eresse fin dalle fondamenta e lo destinò ai suoi posteri).

La facciata è stata realizzata con blocchi in carparo ed è alleggerita da eleganti finestre in pietra leccese, sulle cui architravi sono incise delle massime ancora perfettamente leggibili. Da sinistra verso destra si legge:

VINCE IN BONO MALUM (Vinci il male con il bene– (San Paolo)
MELIOR DIES MORTIS QUiM NATIVITATIS     (Meglio il giorno della morte che quello della nascita)
CORONA SAPIENT(I)UM DIVITIE(AE) EORUM (Corona dei sapienti è la loro ricchezza)

MISERICORDIA ET VERITAS CUSTODIUNT REGEM   (Misericordia e verità proteggono il regnante)
QUID PRODEST STULTO HABERE DIVICIAS CUM SAPIENTIAM EMERE NON POSSIT (Che cosa giova allo stolto avere la ricchezza se non può comprare la sapienza?)
VERE PRINCIPUM EST SIMULARE (Fingere è proprio dei principi)

NON ETS (EST) CONC(S)ILIUM CONTRA DOMINUM (Non sia complotto contro il signore).

Sul portale è ancora visibile il drago caratterizzante lo stemma di famiglia[3].

La struttura, allo stato attuale, necessita di tempestivi ed urgenti interventi di consolidamento statico e recupero funzionale.

Il culto di Sant’Antonio da Padova in Capitanata

Orta Nova (FG) Statua di S. Antonio da Padova (ph. Savino Gaeta)

di Lucia Lopriore
“L’Autentico religioso appartiene concretamente al piano della storia. Non collegato solo a periodi intrisi di forte spiritualità e di magistero della chiesa, come il Medioevo o l’età della Controriforma, si manifesta comunque di più quando il “silenzio di Dio” nelle tragedie collettive esaspera la valenza negativa del quotidiano. Con il suo potenziale di annuncio e liberazione, l’autentico religioso continua a rimanere elemento coagulante delle comunità che avvertono vivo il senso del sacro. E questo è ancora coglibile nei centri minori dove la carica culturale tradizionale, incarnata nelle forme della religiosità popolare, resiste meglio alla speculazione razionale e all’imperativo  della tecnologia che irrompe con le sue liturgie.”

Così esordisce Filippo Fiorentino, storico scomparso di recente, parlando della devozione per la religiosità popolare in relazione ai culti presenti nel Gargano.

In particolare, secondo Fiorentino, in quest’area il fenomeno religioso continua ad alimentare processi di coesione sociale, senza essere però solo esperienza storica di rapporto culturale che funziona nella quotidianità o solo coinvolgimento che legittima la realtà sociale plasmandone, attraverso il Vangelo, gli stili di vita e le scelte. La fede ha incontrato sempre la vita, il sentire, l’operare, il produrre della gente.

Nelle turbolenze esistenziali, nella ricerca del benessere e del progresso tecnologico, le comunità “marginali” del Gargano hanno sperimentato sia liberazione che secolarizzazione attraverso la dimensione culturale, attraverso la figura di affidamento miracolistico del Santo protettore. Così il culto per Sant’ Elia patrono di Peschici, o per San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, o per San Valentino a Vico, o per altri santi patroni venerati in questa zona, rappresenta l’evento determinante per la popolazione del luogo.

Il Gargano è da sempre la terra delle tradizioni. Osservando più da vicino questo fenomeno strettamente connesso a contesti di religiosità popolare, emerge lo stimolo per analizzare attentamente tale fenomeno attraverso la devozione dei Santi patroni.

Da tempi immemorabili, in ogni centro urbano che si rispetti tutti dovevano contribuire ai festeggiamenti del Santo patrono. Artigiani, commercianti esercenti arti e professioni ogni anno erano invitati a versare laute somme per le spese dei festeggiamenti.

Alcune categorie, come ad esempio quella degli appaltatori, erano obbligate dai comuni a versare una quota sugli appalti (vendita di carne, farina, neve, sale,

Appunti sulla torre del Fiume di S. Maria al Bagno nota come Quattro Colonne

di Salvatore Muci

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa.

I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per baroni e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare a Nardò.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa della fertile Puglia.

In obbedienza a quanto promulgato da Napoli, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far scorta di acqua e viveri.

Come già evidenziato nei precedenti contributi, in tutto il regno sorgono dovunque le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto neritino.

Volendo fare un elenco esse sono, nell’ ordine: Torre del Fiume, S. Caterina, dell’ Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Torre Lapillo, Castiglione (diruta) e Colimena. Tutte queste, fatta eccezione di quelle di Uluzzo e Castiglione, sono a pianta quadrata e dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, classificate come “della serie di Nardò”.

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).

ciò che resta di una delle torrette angolari di Torre del Fiume

L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera della Sommaria di Napoli, viene dato nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, col contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare.

Se alcuni mastri erano giunti dalla capitale partenopea nella nostra provincia per realizzare alcuni dei fortilizi, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera di Napoli che sovrintendeva alla realizzazione del sistema costiero.

ciò che resta di un’altra delle torrette angolari di Torre del Fiume, comunemente nota come “Quattro Colonne”

La fortuna dei documenti sopravvissuti ci permette oggi di attribuire con certezza gli artefici di alcune di esse, almeno per la zona di Nardò, che trovano i massimi esponenti nel clan degli Spalletta, neritini, tra cui Vincenzo e Angelo, rispettivamente padre e figlio, che certamente realizzarono le torri dell’Alto, de Castiglione, de Crustamo (Uluzzo) e del Fiume, oggi più nota come 4 Colonne, essendone sopravvissute le torrette angolari del fortilizio crollato nella sua parte centrale.

Le Quattro Colonne a S. Maria al Bagno-Nardò (ph Mariaurora Trentadue)

Vediamo dunque come si arriva a quest’ultima. La Regia Camera il 22 giugno 1595 invia una lettera a Pietro Castiglione, ingegnere della R. Corte che si trova in provincia di Terra d’Otranto per ispezionare diverse fortezze, con l’ordine di recarsi a Nardò e consegnare ai predetti Spalletta pianta e disegno; purtroppo la lettera arriva quando il Castiglione è già rientrato in Napoli.

Con altra lettera del 26 settembre si ordina all’ Audienza Hidruntina di provvedere essa a fornire l’utile, servendosi di un architetto del posto, che poi risulterà essere il leccese mastro Giovanni Perulli, il quale in data 11 ottobre effettua il sopralluogo e fornisce il relativo disegno ai neritini incaricati dell’esecuzione. Il 22 novembre mastro Angelo Spalletta dichiara al notaio leccese di ricevere il progetto e che la pianta della torre sarà di palmi 72 de quatro senza i 4 spontoni segnati al modello con la caduta ordinaria d’ogni 10 palmi uno; che sia piena di masso di palmi 34 con una cisterna di palmi 8 de quatro in mezzo alla sala della torre; l’altezza della torre sarà di palmi 85 con la barba; la fabbrica sarà tutta d’opera netta di taglio di fuora, e di dentro sarà d’opera netta di taglio solamente dove bisogna e ricerca… Alle cantonate delli spontoni li pezzi abbiano d’essere di lunghezza palmi 3, e di larghezza 1 palmo e mezzo per fortezza della torre sino alli palmi 20 solamente; che la torre si faccia distante dalla bocca del fiume dove i vascelli dei nemici spesso vennero a fare acqua, di palmi 200 circa.

Due anni dopo i lavori non sono ancora iniziati perché l’università riceve i primi 300 ducati dalla Regia Camera, cui se ne aggiungeranno altrettanti qualche mese dopo “in fabrica et constructione turris maritime dicta del Fiume”.

Finalmente Angelo e Vincenzo Spalletta si impegnano nel 1597 alla realizzazione della torre con Cornelio Carriero da Montescaglioso ed Ercole Mazzo da Tutino, a patto che essi mastri Angelo e figlio siano tenuti darli tutta la monizione, così di calcie, terra, petre, quatrielli et pezzi lavorati e l’ acqua dove si trova e mancando il fine siano obligati essi mastri Angelo e figlio di darcela a loro parere ali sotto di detta torre, quanto più si può accostar la carretta.

Dopo dieci anni, nel 1605, la torre risulta ultimata ed efficiente[1], visto che l’8 maggio il sindaco di Nardò Benedetto del Castello rilascia procura al cassiere Scipione De Vito di riscuotere presso la Percettoria in Lecce il denaro speso dall’università per pagare il salario ai militi in essa presenti[2].

In essa dovevano esserci almeno due caporali, che nel 1607 percepivano una paga di 71 ducati[3].

Nel 1609 troviamo tra i caporali Gian Francesco Scaglione[4] e l’anno dopo tra i militi risultano Pietro Vincenti e Donato D’Aprile, che percepiscono mensilmente circa 13 ducati[5].

Tra l’estate 1616 sino a tutto il 1617 il caporale risulta Giovan Leonardo Vecchio di Galatone e suoi compagni Francesco e Giorgio Ferraro[6], che ricevono in consegna dei barili di polvere mandati dai castelli di Lecce e Gallipoli.

Il periodo d’altronde fa registrare numerose incursioni ottomane o corsare di provenienza balcanica, ma anche mediorientali e nordafricane, per cui ogni torre doveva necessariamente essere pienamente efficiente e le spese erano a carico dell’università più vicina: nel biennio 1595-96 l’amministrazione comunale di Nardò deve sborsare ben 762 ducati.

Diminuite le incursioni dal mare il personale delle torri deve affrontare un altro fenomeno dilagante, quello del contrabbando, e soprattutto quello del sale, tanto che occorre incrementare il personale adibito alla sorveglianza del territorio, registrandosi dunque il raddoppio del numero dei cavallari. La nostra torre, come le altre del litorale neritino, resta sempre sotto la sovrintendenza della Comarca di Cesaria.

Nel 1695 il caporale è Tommaso De Ferraris[7] e due anni dopo l’università di Galatone, cui in parte erano accollate le spese di gestione dell’immobile, come da accordo preso con la regia Segreteria e con il Preside alle Armi di Terra d’Otranto, si impegna a realizzarvi la porta alla guardiola ed altre riparazioni, compresa la scala del ponte, oltre ad acquistare un moschetto, ad integrazione dell’armamentario; parte delle spese necessarie vengono accollate all’università di Nardò[8].

Nel gennaio 1730 il capo torriero è Angelo Longo e suo compagno ordinario Filippo Cordigliano; in servizio risultano anche Pietro Stasi e Antonio Francone[9], probabilmente di Galatone, come lo erano Giuseppe Francone e Nicola Marsalò, cavallari nel 1777.

Nel 1790 cavallari sono Pasquale Vonghia e Fortunato Giuri di Nardò[10].

Non si registrano vicende importanti dopo questa data se non un arresto nelle immediate vicinanze, su delazione del canonico Lombardi, del giovane esperto in lettere Nicola Ingusci e del farmacista Francesco Rocca, giunti dal bosco della Sila calabrese per la via di Copertino, portando con sé un sospetto e sovversivo foglio stampato a carattere liberale.

La torre, con quelle di Squillace e di S. Caterina, è soggetta a vincolo del ministero solo dal 1986, grazie alle segnalazioni del circolo culturale “Nardò Nostra”, che se ne occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione non più in commercio.

 

Le foto sono della Fondazione Terra d’Otranto


[1] G. Cosi, Torri Marittime di Terra d’Otranto, Galatina, Congedo Editore, pp. 98-101.

[2] Archivio di Stato di Lecce (ASL), not. F. Fontò di Nardò, (66/1), 1606, cc. 149r-149v.

[3] ASN, Percettori e Tesorieri – vol. 6234, (J. Bonvicino), c. 63r.

[4] ASN, Torri e Castelli – vol. 126, c. 145r.

[5] ASN, vol. 6234, c. 34v.

[6] ASN, vol. 135, c. 19r.

[7]ASN, vol. 128, c. 248r.

[8] G. Cosi, Torri… cit., p. 21; il documento citato è stato riportato dallo storico Mario Cazzato.

[9] ASN, vol. 131, cc. 19r-28v.

[10] ASL, atti not. B. Ravenna di Gallipoli (40/38) 1790, c.183v.

Cucuzzano: due anime e due volti

Ritaglio di una cartolina di Montesano Salentino (1927). Archivio Telemele.

di Marco Cavalera

Cucuzzano è un piccolo borgo di poche anime, un tempo dedite all’agricoltura e all’artigianato, con pochi giovani squattrinati e molti anziani che custodiscono gelosamente i risparmi sotto il materasso, con il volto scavato dal sudore e dalla fatica, aspro in superficie ma tenero nell’animo come le rocce calcaree delle campagne salentine.

Cucuzzano ha due volti e due anime: nei periodi di festa sembra Disneyland, tutto addobbato con luminarie sfarzose, a volte esagerate ma mai oltre i limiti della decenza, vivace come una qualsiasi metropoli del Nord. Nei mesi più freddi il paese si svuota, non solo fisicamente, ma anche mentalmente.

Cucuzzano vanta una classe dirigente obsoleta, sempre la stessa da 30 anni, riciclata come le pagine di un rotocalco rosa, che si specchia nella popolazione che rappresenta.

I giovani che lavorano lontano dal paese li riconosci dalle macchine lussuose che guidano con una mano sul volante e il braccio teso fuori dal finestrino. Si tratta di Audi, BMW, Alfa Romeo, tutte acquistate rigorosamente di seconda mano. Parlano con tipico accento nord italiano, che assumono mediamente dopo due mesi di permanenza fuori dal paese. Curiosamente ed inspiegabilmente tutti con cadenza romagnola, indipendentemente dalla regione in cui sono emigrati.

I giovani che servono lo Stato nelle forze armate, invece, li riconosci dalle loro donne: belle, colte e opportuniste.

I ragazzi che risiedono a Cucuzzano tutto l’anno non hanno un segno distintivo particolare. Si riconoscono dal loro abbigliamento e pettinatura alla penultima moda, parlano solo di calcio, di donne e motori anche se non praticano sport, sono perennemente single (nella realtà, perché con la fantasia arrivano ad asserire di essere stati gli amanti della Belen di turno) e non hanno mezzi di locomozione degni di tale nome (a parte la Panda 50 taroccata da auto di Formula 1). Non conoscono la crisi perché non hanno mai assaporato il gusto agrodolce ed effimero del benessere.

La festa patronale spezza una monotonia che a volte infastidisce lo stesso residente, che litiga con il malcapitato tutore dell’ordine rivendicando il diritto – a suo dire sacrosanto – di poter circolare nel paese liberamente, noncurante della festa, delle bancarelle e della processione. Tutta quella gente, secondo il cucuzzanese oltranzista, invade il suo territorio alla stregua di moderni pirati Turchi, gli stessi che devastarono e distrussero il paese nel 1484, e poco importa se questi novelli corsari provengono dai paesi vicini; lo tzunami, proveniente dai paesi vicini, avvolge tutto ciò che incontra sulla sua strada.

Cucuzzano è un mondo a sé, uno storico locale fa risalire l’origine del nome al sostantivo cucuzza: animo e spirito duri come il cetriolo, afferma con orgoglio il professore di lettere in pensione; vuoti come una zucca precisa il sottoscritto, con giudizio più distaccato ed oggettivo.

Passeggiando tra i vicoli stretti del paese si respira un’aria di antico frammista al moderno. Non è raro osservare una persiana di alluminio bianco impostata su una vecchia porta di legno celestina, o una casa del centro storico intonacata con tinte “appariscenti” fucsia, rosso red passion, giallo canarino e verde olio oliva extravergine. Rigorosamente una diversa dall’altra, come ogni famiglia si deve distinguere dal vicino odioso, che si è fatto la casa bella solo perché ha lavorato 10 anni in Svizzera.

Il motivo del nuovo che copre il vecchio si riflette chiaramente sulle piastrelle marroni appiccicate sulla bella facciata in carparo del palazzo più antico del paese, Palazzo Baronale, della cui imponente fortezza cinquecentesca, rimane solo una torre angolare. Quelli che a prima vista appaiono appartamenti costruiti in serie, come una qualsiasi villetta a schiera di una località qualsiasi della costiera salentagnola, in realtà sono delle stalle riutilizzate come civile abitazione. Il vecchio celato dal nuovo, come la strada principale del centro storico, via Fosso, realizzata sul riempimento di un fossato di difesa di cui conserva solo il nome.

Cucuzzano in origine era di proprietà vescovile. Non sorprende, quindi, la presenza di tantissime cappelle, nicchie, edicole votive sparse per il paese.

I nobili del paese possedevano tutte le terre del circondario, coltivate prevalentemente a tabacco. Il ricordo vola fino a pochi decenni fa, file interminabili di “talari” (telai di legno che si stendevano per appendere le foglie di tabacco e farle essiccare) caratterizzavano le stradine del paese, e alla prima nuvola all’orizzonte partiva il tran tran delle tabacchine che correvano qua e la per mettere al riparo il prezioso prodotto ed evitare che la pioggia mandasse in fumo giorni e giorni di duro lavoro condotto sotto il feroce sole estivo del Salento.

L’odore del tabacco si percepisce nelle strade di periferia, dove si affacciavano i garage adibiti a magazzini improvvisati.

Le abitazioni più antiche del paese hanno il tetto a doppio spiovente coperto da tegole in terracotta prodotte in un paese vicino, le case della periferia hanno il tetto a doppio spiovente coperto da tegole in pvc importate dalla Cina. Le prime sono essenziali e squadrate, le seconde monumentali ed eclettiche, a seconda del gusto del geometra. Numerosi sono gli scheletri delle case costruite e mai terminate, forse perché il proprietario ha finito i soldi, forse perché il figlio è emigrato al Nord.

Cucuzzano non è riportato sulle guide turistiche, non esistono pubblicazioni sulle sue origini e sui suoi – scarsi e mal tenuti – monumenti storici ed artistici, ma si sa che nelle campagne sorgeva un insediamento preistorico distrutto dall’avidità dell’uomo moderno. Si dice che qualcuno abbia raccolto dei piccoli frammenti di storia e li abbia consegnati alle “autorità competenti”; quasi a nessuno interessa sapere dove sono conservati. Laddove insisteva un sito archeologico ora fa bella mostra di sé un insediamento industriale, anch’esso pressoché inutile per l’economia del paese.

La locale squadra di calcio fa il tutto esaurito quando gioca in casa e anche nelle trasferte ha il suo seguito. Può darsi che gli spettatori vadano allo stadio perché dagli spalti si ha una visione suggestiva degli ulivi secolari nelle campagne circostanti, ma non ne sono convinto più di tanto, e penso a quelli sradicati per fare posto la struttura sportiva.

Questo, in sintesi, è Cucuzzano, uno dei tanti paesi del Salento di cui è difficile innamorarsi a prima vista, in cui i giovani sognano di andare via, lasciare il profumo di tabacco dei vicoli del centro abitato, gli umani pettegolezzi della gente, il campo sportivo tra gli ulivi, il centro ricreativo adibito ad osteria, le proprie “terracate”, per andare a fare “fortuna” in una ricca metropoli del Nord, alloggiare al 5° piano di un palazzo freddo e arido come la steppa, respirare fumi e smog, rispecchiarsi in fiumi neri come la notte senza stelle e senza luna e ritornare di rado nel paese ad ostentare un effimero benessere e uno sterile “beneavere”.

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