Come si costruisce il meridionalismo moderno (?)

di Giovanni d’Elia

Qualche passante distratto, giovedì 21 giugno 2012, leggendo il manifesto appeso dinanzi alla Mostra permanente dell’Artigianato di Lecce e sbirciando al suo interno, oltre a restare estasiato dai manufatti ivi presenti, di sicuro avrà pensato: “Ma cosa c’azzeccano i Messapi con gli attuali scempi del territorio?” (di cui ha lungamente discusso Oreste Caroppo) e ancora: “perché si parla di ambiente, tradizioni popolari e storia dei Messapi…dentro un negozio di artigianato?”.

Beh, prima di rispondere a queste domande, concedetemi poche righe per un breve prologo.

C’è un Salento che ha vissuto due storie. Una fatta di dimenticanze, abbandono, scempi ambientali e perdita della memoria. Va bene, è storia passata. L’altra, recente ed attuale, fatta di recupero della memoria, tutela dell’ambiente e un grande fermento culturale.

Solo che questa seconda storia è un po’ ambigua. Il recupero della memoria a volte è incompleto e fatto in maniera strumentale, penso, ad esempio, alla riscoperta di vecchi canti popolari, come le pizziche, e alla progressiva scomparsa di numerosissimi altri canti, forse un po’ lenti, “noiosi” e tristi e quindi poco “vendibili” nel mercato turistico (come i canti di lavoro, le nenie funebri, i canti di protesta, i canti dal carcere, ecc.). La tutela dell’ambiente, dal canto suo, è sbandierata dal sistema istituzionale ed imprenditoriale della Puglia come una conquista ottenuta grazie agli investimenti nelle energie rinnovabili, che, però, non è esente da criticità. Vi faccio un esempio. Io sono proprietario, poniamo di qualche ettaro di terra. Chiamo un’azienda operante nel settore del fotovoltaico e concedo loro la mia terra in cambio di un diritto reale di godimento. L’azienda mi concede una cospicua somma di denaro in cambio dell’utilizzo (solitamente) ventennale del suolo. Se magari sul mio fondo insiste una pajara, un cumulo di pietre che secondo alcuni studiosi si può trattare di una specchia (antico trono oppure torre di vedetta, forse risalente all’epoca messapica o giù di lì) oppure semplicemente una serie di piante autoctone, che attribuiscono al complessivo paesaggio agricolo un’aura di unicità… beh, poco importa. Si rade tutto al suolo, per necessità tecniche e senza che la Soprintendenza dei beni culturali ci metta bocca (cosa vuoi che sia un cumulo di pietre?). E quel fondo non può essere nemmeno adibito a pascolo, perché per evitare incendi, coloro che si occupano della manutenzione degli impianti gettano quantitativi enormi di diserbanti, tanto che le pecore che ci brucano muoiono avvelenate. Ecco che ad un tratto il visitatore distratto (magari lo stesso che è entrato durante la conferenza), percorrendo la strada in prossimità del mio fondo, d’un tratto si risveglia dal torpore, guarda fuori dal finestrino della sua auto e vede… un bellissimo paesaggio fatto di macchia mediterranea, alberi d’ulivo secolari, pietre e muretti a secco… interrotto da cumuli di silicio.

Ora immaginate che questa scena si ripeta per tutto il Salento, quasi in ogni feudo comunale, e immaginate di vedere, oltre ai parchi fotovoltaici, anche numerose pale eoliche e (forse) qualche centrale a biomasse, ossia una centrale ove si dovrebbero bruciare determinati materiali, ma dove ci va a finire un po’ di tutto (penso alla famigerata Copersalento, una centrale che dispensava diossina a gogò, spauracchio per gli allevatori locali che si sono visti, negli anni, abbattere numerosissimi capi di bestiame intossicati dalla diossina. Pensate a chi ci vive…).

Ecco, dopo questo prologo torniamo alle domande iniziali. Il 21 giugno, con la conferenza La fratellanza sallentina ieri e oggi, i Messapi e il meridionalismo moderno. Tutela dell’ambiente e amore del territorio, organizzata dal portale web www.laputea.com in collaborazione con il Consorzio degli Artigiani della Provincia di Lecce, si è voluto riflettere sulle pratiche virtuose che il Salento ha la possibilità di porre in essere solo se chi lo amministra a vario titolo, o chi lo promuove, dismette gli occhiali blu (per usare un eufemismo di kantiana memoria) e guarda la realtà con i suoi colori e le sue sfumature. Ma per abbandonare gli occhiali blu occorre interrogarci sulla nostra storia, partendo dalle origini, da quando un popolo, frutto di miscugli con altri popoli, decise di insediarsi su questo territorio, di adornarlo, adorarlo, coltivarlo, difenderlo e garantire alle poleis la philia, ossia quel sentimento fatto di fratellanza, amicizia e amore. L’amore per il territorio e le sue genti, che Re Arthas, l’illuminato dinasta messapico, amico di Pericle e fautore della fratellanza sallentina, seppe garantire in un periodo di grande splendore per la cultura messapica. Una cultura che ci ha regalato un artigianato artistico unico nel suo genere, che probabilmente ha tramandato nei secoli la coltura della vite e dell’ulivo e che ha dispiegato tra le genti l’amore per il territorio, mutuato, oggi, in rispetto per l’ambiente e l’ambiente antropizzato.

Dunque l’ambiente va tutelato non solo impedendo gli scempi del territorio, come la costruzione di nuove costosissime (in termini monetari e ambientali) strade che – a conti fatti – servono solo a far decongestionare un traffico altrimenti gestibile per poche settimane all’anno, oppure come la proliferazione selvaggia di impianti che di “verde” hanno solo l’etichetta e che già ora superano abbondantemente il fabbisogno energetico regionale; ma va tutelato anche riflettendo sul progressivo impoverimento della biodiversità: flora e fauna che un tempo popolavano questa terra oggi sono ormai scomparse, come, per esempio, il platano orientale (sotto il quale filosofi e medici svolgevano le proprie lezioni), la cicogna bianca e nera, o il pollo sultano viola (una volta massicciamente presente in Salento, oggi del tutto scomparso). 

Allo stesso modo l’ambiente antropizzato abbisogna di interventi di tutela volti al recupero della memoria. Se è vero com’è vero che i megaliti, di cui il territorio salentino è riccamente dotato, sono beni culturali, simbolo dell’identità di un popolo, frutto della sua storia arcaica, come, del resto, i muretti a secco, le pajare, le neviere, li cafausi, accanto a cripte, chiese e palazzi, allora è nostro dovere non solo difenderli da atti vandalici e tentativi di sminuzzarne il valore, ma è soprattutto nostro dovere valorizzarli e renderli fruibili a chiunque voglia conoscerli.

Accanto al patrimonio materiale, il patrimonio culturale immateriale del Salento necessita di interventi di tutela che ne mantengano la memoria. A tal proposito urge la costituzione di archivi e musei che conservino e rendano fruibile la mole sterminata di musiche, canti e racconti che rappresentano l’architrave della cultura orale salentina.

Ebbene, neanche ciò basterebbe a salvaguardare la nostra cultura, in quanto il patrimonio immateriale abbisogna di quello materiale per trarre la sua linfa vitale. Ecco perché l’artigianato tipico ed artistico rappresenta il completamento della cultura popolare salentina.

C’è uno sparuto pugno di soldati della memoria che ogni giorno combattono una battaglia a difesa della propria tipicità. Non sono molto dissimili dai Leoni di Messapia che sconfissero i potenti spartani per difendere la libertà delle poleis sallentine. Sono soldati contemporanei, che lottano non con i giavellotti e le spade, ma con il martello, lo scalpello, il tornio, combattono con le mani sporche di colla e con i vestiti inzuppati di colori e sudore. Sono gli artigiani che creano e ricreano i simboli più autentici di una identità collettiva, frutto di incontri, sconti e fusioni: lampade, quadri, intarsi o anche un semplice fischietto sono il frutto della memoria, dell’amore per il proprio territorio, un territorio da cui traggono ispirazione e a cui donano le proprie opere, per abbellirlo, venerarlo, onorarlo.

Ecco, il 21 giugno, pressappoco abbiamo parlato di ciò, lo abbiamo fatto con Fernando Sammarco, storico e autore del libro Arthas il grande, leone di Messapia, Luigi Chiriatti, etnomusicologo, scrittore e fondatore della casa editrice Kurumuny, Oreste Caroppo, ambientalista, nonché con il presidente del Consorzio degli Artigiani, Giuseppe Petrucci.

Abbiamo parlato di amore del territorio, che ognuno di noi, abitante o visitatore che sia, dovrebbe coltivare. Si, coltivare, perché la cultura – frutto dell’amore – è coltivazione. Non a caso.

www.laputea.com

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7 Commenti a Come si costruisce il meridionalismo moderno (?)

  1. Perfetto, solo che “li cafàusi” mi pare una doppia forzatura: dal punto di vista linguistico il suo singolare (cafàusu) è una creazione inizialmente più o meno individuale che ha poi frustrato l’aspirazione dei suoi pochi fruitori alla sua diffusione e all’evoluzione da deformazione del solito nesso inglese a quasi toponimo e da questo a nome comune (l’autore, spero, non mancherà di chiarire queste mie quasi misteriose parole…), figurarsi poi il passaggio dal singolare al plurale…; da un punto di vista storico (non sto dicendo architettonico) non l’accomunerei ancora a muretti a secco, paiare, neviere e simili, anche perché nella conservazione dell’antico bisogna rispettare, più che mai in tempi di ristrettezze economiche, delle priorità dettate dalla cronologia e dall’importanza del manufatto.

    Non vorrei, perciò, che ai responsabili (che fra qualche anno saranno impegnati con lo smaltimento del silicio…) politici venisse offerto il facile alibi che, se proprio bisogna salvare qualcosa, questo andrebbe fatto (ma sempre in teoria…) , tutt’al più, con una pagghiara, con un trullo (purché, sia ben chiaro, non disturbino il tracciato, non sempre retto, anche e soprattutto in senso metaforico… , di qualche superstrada) ma non con il cafàusu che per qualche decennio ancora varrà poco più di un water rotto, poi nulla, perché, a differenza di un trullo, di una pagghiara e simili, paradossalmente avrà pagato lo scotto della sua immersione in un ambiente densamente antropizzato alla cui vandalica stupidità avrà versato il suo esiziale tributo, nonostante il disperato tentativo di salvarlo da parte di qualche inguaribile pazzo che, comunque, ha, per quel che può valere, tutta la mia ammirazione.

    Non suscita la mia ammirazione, invece, il passaggio dalla scienza all’invenzione, che sembra l’espediente oggi più in voga per attrarre sensazionalisticamente spettatori o lettori. Sarò grato a chiunque mi citerà la fonte (intendo quella originale, antica, greca, latina o ostrogota che sia) che ha autorizzato a scrivere “Arthas…amico di Pericle”. Ciò che io so è solo quanto riferisce Tucidide (VII, 33, 3-4): “Demostene ed Eurimedonte, essendo pronto ormai l’esercito proveniente da Corcira e dal continente, attraversarono con tutta la spedizione lo Ionio in direzione del Capo iapigio; e muovendosi da lì approdano alle Cheradi, isole della Iapigia e fanno salire sulle navi centocinquanta lanciatori di giavellotto iapigi di stirpe messapica e avendo rinnovato con Arta (in greco Artas, e la dentale non è aspirata), che essendo un dinasta, aveva procurato loro i lanciatori di giavellotto, un’antica amicizia, giunsero a Metaponto d’Italia”.
    Nulla aggiunge Esichio nel suo lessico alla voce Artas: “Arta grande e splendido. Tucidide”.

    Le parole di Tucidide, dunque, non autorizzano a supporre un’amicizia diretta tra Pericle e Arta ma tutt’al più l’esistenza di una delega (nemmeno a firma di Pericle…) di rinnovo di alleanza militare nelle mani di Demostene ed Eurimedonte. D’altra parte, il pezzo citato di Tucidide si riferisce a fatti che avvennero nel 413 a. C. e Pericle, pace alla buonanima!, era morto da sedici anni, per cui parlare di amicizia tra i due, trascurando il fatto che allora non esisteva l’aereo…, sarebbe azzardato anche in un romanzo storico…

    La differenza di significato la lascio giudicare ai lettori, pur dovendo riconoscere, ahimè, che “amicizia” oggi non significa più comunione di affetti ma convergenza di interessi prevalentemente economici da tutelare (o da sviluppare…), se necessario, anche con le armi, proprio, insomma, come è da intendersi, purtroppo, l’”amicizia”, di cui si parla nel post.

    Chiudo con una considerazione di carattere generale: il nostro passato è così ricco, pur nelle sue miserie, che sarebbe da stupidi non riconoscere che esso non ha bisogno, per una sempre discutibile esigenza di nobilitazione, di superfetazioni di qualsiasi tipo. Sarebbe come se, avendo un bellissimo edificio antico, gli aggiungessimo, pur con la buona (quando c’è…) intenzione di renderlo più bello, degli elementi decorativi che subito nel lettore attento, per quanto antichizzati e in armonia col resto, susciterebbero più di una perplessità…

    Insomma, l’originale, nella sua integrità, è sempre un’altra cosa…e noi Salentini, se non riusciamo ed essere originali, dovremmo almeno rispettare l’”originalità” (l’ho scritto tra virgolette perché ha un doppio significato) dei nostri antenati. Solo così il nostro meridionalismo (non a caso mi è piaciuto nel titolo del post il punto interrogativo tra parentesi che accompagna “moderno”) potrà essere nuovo e diverso, autentico e vero.

    • Fa sempre piacere ricevere commenti costruttivi ed articolati, come il tuo.
      Ciò detto, cerco di rispondere con le poche informazioni che ho a disposizione. Anzitutto non conosco l’origine del nome di quella piccola struttura aperta, con volte a stella, in tufo, che identifico come cafausu. Sentivo dire da qualcuno che il suo nome è la dialettizzazione del termine anglosassone coffee house, ma ho l’impressione che la struttura sia più vecchia persino del nome…
      Poi, perché lu cafausu non andrebbe accomunato, per esempio, ai muretti a secco, che citi nella risposta? Non credo che fare una “selezione” sia il modo corretto per tutelare il patrimonio materiale del territorio, altrimenti si finisce per fare lo stesso discorso che fanno oggi con la musica popolare. Un canto eseguito dagli Ucci, di 50 anni fa, per esempio, è più o meno importante di un canto realizzato dagli Aramirè 7 anni fa? Con quali criteri si può salvaguardare e valorizzare il patrimonio culturale materiale e immateriale? Se lo facciamo con un criterio cronologico rischiamo di mortificare quello storico-identitario o quelle che l’UNESCO e oggi il “nuovo” Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio chiama “espressioni di identità culturale collettiva”. Al contrario, l’obiettivo dovrebbe essere quello di favorire la conoscenza e la fruibilità di tutto il patrimonio, senza ulteriori “selezioni per qualità” (uso ancora la terminologia adottata dall’UNESCO), ma inventariando, catalogando e diffondendo la conoscenza di ogni singolo aspetto della nostra cultura, vecchio e nuovo. A tal proposito, se da questo dibattito nasce qualche informazione in più sullu cafausu, ben venga, vuol dire che un piccolo obiettivo lo abbiamo raggiunto.

      Venendo all’altro punto da te sollevato, preferisco non entrare nelle fonti storiche, anche perché non mi compete e non possiedo i titoli per farlo. La dicitura “Arthas…amico di Pericle”, non me ne volere, ma l’ho presa a piè pari dall’intervento del prof. Fernando Sammarco. Del resto quest’articolo vuol essere non solo uno spunto di riflessione, ma anche una sintesi (forse troppo estrema, per motivi di spazio) di quello che è uscito dalla conferenza del 21 giugno che – lo dico con velata ironia – è stata pubblicizzata anche su questo portale e aspettava la partecipazione anche di gente che avrebbe potuto rispondere direttamente, durante la conferenza, ai relatori, suscitando, magari, un bel dibattito. Peccato non sia avvenuto sui temi da te sollevati ora, in questa sede.
      Però voglio entrare nel merito del termine “amicizia” e mi chiedo da dove ti viene la certezza per cui io, nel mio post, ho voluto dare il significato che tu intendi al termine “amicizia”. Non aggiungo altro e non voglio entrare in sterili polemiche, ma attendo con curiosità una risposta…
      Chiudo con un’altra domanda. Dove cogli le “superfetazioni” o gli “elementi decorativi” sul nostro passato nel mio post? Mi pare di aver fatto solo qualche cenno alla storia del Salento, parlando prevalentemente della situazione attuale, a brevi tratti (sempre per motivi di spazio). Quindi mi chiedo…dov’è che si legge tutto questo?
      Ah, per quanto possa servire, ecco il video della conferenza: http://www.youtube.com/watch?v=_AfmATk2qyY

  2. Caro Giovanni, anche a io ritengo che ogni espressione valida della cultura di qualsiasi tempo vada conosciuta e tutelata. Visto, però, che ancora oggi si sperpera denaro pubblico per sponsorizzare eventi (così pomposamente li chiamano…) che di culturale hanno ben poco, penso che sarebbe meglio dirottare le poche risorse a salvare le cose nate prima, che pagano un tributo più alto all’incuria e all’abbandono. Tra un manoscritto medioevale importante in condizioni pietose e una cinquecentina rara che potrebbe aspettare ancora qualche anno o decennio (non secolo…) il buon senso mi spingerebbe, avendo risorse per salvare una sola di queste due testimonianze del passato, a salvare il primo.

    Legato strettamente alle fonti storiche è il concetto di ”amicizia” sul quale farò chiarezza dicendo che anche per me, come per te, è uno dei più nobili sentimenti; solo che quando vedo scritto che “Arthas” era “amico di Pericle” mi infurio, perché si tratta di un’affermazione priva di ogni fondamento, anche se “amico” dovesse essere inteso in senso esclusivamente militare. Ora, però, so chi ne è il padre (ad essere sincero, lo sospettavo…) e, servendomi del video della conferenza (tutto è importante…), preparerò un apposito post in cui affronterò anche il problema dei rapporti tra cultura, editoria, comunicazione, marketing e altro.

    A proposito di conferenze, ironia per ironia (ma la mia non è velata…), se dovessi partecipare a tutte queste manifestazioni che ormai si sono ridotte per lo più ad una passerella di autori (?), sedicenti critici, presentatori, politico/i di turno, sponsor, addetti stampa, divulgatori dei divulgatori, signore in prima fila belle e imbellettate ma con un sorriso da ebete che la dice lunga sulla ragione della loro presenza e chi più ne ha più ne metta, non avrei tempo per dormire e mi si gonfierebbe il fegato, pur tornando a casa soddisfatto per essere stato l’unico incosciente, anzi cosciente, non dell’entourage ad aver rotto le uova nel paniere e aver rovinato sì bella festa … fatta alla cultura.

    Le uova nel paniere mi piace romperle dopo, a fuochi sparati, attraverso la rete che, paradossalmente, appare come un’occasione d’incontro e, perché no?, di scontro meno virtuale e pilotata di certi eventi. Sarà mia cura, dopo aver visionato la registrazione di cui mi hai gentilmente comunicato il link, scrivere un apposito post che potrai leggere e segnalare al diretto interessato entro la fine della prossima settimana, se la redazione del blog manifesterà ancora comprensione nei confronti delle mie reali o presunte intemperanze…

    Dopo aver letto quello stesso post capirai meglio perché ho parlato di “superfetazioni “, cui oggi aggiungo in anteprima “indotte”, in quanto figlie dirette di “Arthas amico di Pericle”. Un cordiale saluto. Armando

    • Armando, apprezzo, come ho avuto modo di fare finora, le tue risposte, solo non mi trovi d’accordo. Vero è che le risorse sono limitate. Vero. Ma se dovessi fare riferimento alla normativa esistente (perdonami, è solo deformazione professionale, nient’altro) allora tutelerei allo stesso modo sia il manufatto antico che quello più recente. Allo stesso modo perché entrambi, in contesti diversi, hanno rappresentato un piccolo elemento di identità, un’espressione culturale che ha la medesima importanza nel momento storico in cui sono stati realizzati.
      Per fortuna è stata superata da tempo l’impostazione (nata con il regime fascista, ma sopravvissuta per più di 50 anni) per cui il bene culturale vada tutelato secondo un criterio cronologico e/o estetico. Oggi, soprattutto per ciò che riguarda il patrimonio culturale materiale demoetnoantropologico, sta passando l’idea (per fortuna!) per cui tutto è importante, purché rappresenti un elemento identitario collettivo (sul concetto di “identitario” qualcuno avrà da ridire, ma non sono parole mie, anche se le condivido…).
      Ciò detto, il problema che tu poni…non si pone…! Visto che grazie alla lungimirante (è ironico…) azione di marketing territoriale intrapresa mirabilmente (continuo ad essere ironico…) dalle istituzioni locali in sintonia con alcuni (pochi a dir il vero) privati, tutte le risorse pubbliche (e private) sono gentilmente concesse ad ancor più poche attività culturali. E sottolineo “attività”, non “beni” e non “patrimonio”, come a dire che si investe massicciamente ed esclusivamente, che ne so, nello spettacolo di Benigni che legge Dante senza dare la possibilità alla gente di conoscere Dante e cosa ha scritto. Non so se rendo l’idea…

      Per quanto riguarda il resto, beh…dato che la conferenza l’ho progettata io, insieme al Consorzio degli Artigiani, posso assicurarti che l’obiettivo era quello di costruire una riflessione proprio sul tema del meridionalismo, partendo da tre concetti che ritengo necessari: storia, ambiente e tradizioni popolari (in cui un ruolo importante è quello dell’artigianato tipico ed artistico), tre temi legati tra loro proprio dal concetto dell’identità, un’identità meridionale, inclusiva e basata sulla memoria.
      Ah, vedi che non è stato invitato alcun politico e che l’evento non era “pilotato”. Se fossi venuto te ne saresti accorto e avresti rotto le uova nel paniere anche dopo, anche in rete, ma con maggiore consapevolezza, anzi no, scusa, con consapevolezza.
      Cordialmente,
      Giovanni

  3. Vedi, caro Giovanni, la nostra buona fede non basta e se non si colgono certi particolari si crede illusoriamente di avere maggiore consapevolezza, anzi, scusa, consapevolezza…Meno male che resta il video col prof. Sammarco che, mentre annuncia al mondo che Artas (anzi “Arthas”…) era amico di Pericle, brandisce il suo libro, anzi uno dei suoi libri che mi ricordano tanto (basta leggere i titoli…) la serie dei vari Rambo & C. Sarebbe come se io, per illustrare la trattazione del tema “pane” in Plinio sventolassi non il testo del naturalista latino ma il foglio su cui è pubblicizzato l’ultimo modello di pagnotta uscito dal mio forno affermando che la sua progettazione ha seguito le istruzioni pliniane (magari utilizzando una traduzione altrui perché il latino non lo conosco sufficientemente o non lo conosco affatto). Troverai ulteriori dettagli nel post che ti avevo promesso, che ho già inviato ieri e la cui uscita, credo (non dipende da me), è imminente.

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