Mia madre Lucia che amava le bambole

1972. Mia madre Lucia (1919-1994) al tempo in cui stavamo a Civita Castellana per la coltivazione del tabacco

 di Alfredo Romano

Mia madre aveva una passione smodata per le bambole, anche in tarda età non smetteva di circondarsi di bambole: vedevi bambole sul divano, sulla macchina da cucire, sul letto grande e sui lettini, sul piano della specchiera e della cucina e, quelle che erano di troppo, le teneva chiuse nell’armadio.

A parte la bambola del soggiorno di tutto punto vestita che aveva il marchio di fabbrica, le altre erano bambole particolari. Si dà il caso che quando mia madre s’imbatteva in manichini di bambole logorati dall’uso, ormai inservibili, lei li raccoglieva con somma pietà e se li portava a casa. S’intendeva di cucito mia madre e così, con i rimasugli di merletti, lane e panni vari colorati stipati in un cassetto del comò, in quattro e quattr’otto trasformava il manichino in una bambolina sorridente quasi sempre d’aspetto zingaresco. Talvolta poi, non disponendo della capigliatura, ricorreva a un berrettino di lana che poggiava sul capo della bambolina quasi la volesse riparare dal freddo.

Bambola nella casa di Collemeto. I vestiti di tutte le bambole, eccetto l’ultima in basso, sono stati confezionati da mia madre.

Ma questa smodata passione di mia madre per le bambole nascondeva una mancanza della quale non si fece mai una ragione. Dopo il matrimonio, i miei genitori dovettero aspettare dieci lunghi anni per l’arrivo di un figlio e il primo a venire al mondo fui io. C’era tanta neve quella notte e mio padre Giovannino, armato di retrocarica, uscì sul limitare della porta per annunciare al mondo, con una scarica di proiettili, che gli era nato un figlio maschio: “Masculu ete!” gridò ai quattro venti.

Due anni dopo nacque Aldo e tutti erano felici e contenti. Al terzo parto, però, quando la levatrice annunciò l’arrivo del terzo maschio, Angelo, mia madre non riuscì a trattenere le lacrime.
“Ma come, piangi? Dovresti essere contenta!” protestò la levatrice.
“Avrei voluto una femminuccia” disse sconsolata mia madre. Ma anche il quarto figlio le nacque maschio, Eugenio. Rimase incinta una quinta volta, ma, al quinto mese di gravidanza, ebbe un aborto spontaneo che la stava portando al Creatore. E anche il quinto figlio mancato era maschio. Con quest’ultimo episodio, mia madre non ebbe più la possibilità di avere figli e salutò la speranza di una sua femminuccia, giacché diceva sempre che La mamma cu lla fìja lu mèju stozzu se nturtìja[1].

Bambola nella casa di Collemeto

Qualche anno dopo la triste vicenda di mamma, nel corso dei festeggiamenti patronali di S. Pietro e Paolo a Galatina, mio padre ci fece montare nella sua Seicento e ci portò a “vedere la festa”: le luminarie, la banda, i venditori di giocattoli, di noccioline, di gelati, di zucchero filato e quant’altri. Mio padre, però, fu attratto da una riffa dove un napoletano verace si sgolava per convincere gli astanti a comprare un biglietto per la vincita di una bicicletta o di una bambola. Mio padre puntò sulla bicicletta. Ci fu lunga attesa, si estrassero i numeri e mio padre andò a vincere proprio la bicicletta, quella bicicletta che in casa sarebbe stata così preziosa. Mio padre e noi fratellini saltavamo di gioia. Ad un tratto, però, e senza motivo apparente, mia madre scoppiò in un pianto dirotto. Mio padre non capiva e nemmeno noi piccoli: abbiamo vinto la bicicletta e la mamma piange?
“Lucia, ma non ti senti bene?” la scosse mio padre.
“Voglio la bambola” se ne uscì mia madre singhiozzando.
Eravamo esterrefatti. Dapprincipio mio padre smadonnò per un po’, ma poi, anche se a malincuore, si rivolse al venditore napoletano e gli chiese di scambiare la bicicletta con la bambola. Al venditore conveniva lo scambio e, volgendosi a mia madre, chiese:
“Signora, quale bambola preferisce?”
“Quella” rispose mia madre indicando con un dito la bambola che aveva già adocchiato.

Bambola nella casa di Collemeto

Di ritorno a Collemeto, mia madre pose la bambola al centro del letto grande sulla coperta: e se la guardava e se la guardava, e le parlava e le parlava, e le sorrideva e le sorrideva, e l’accarezzava e l’accarezzava. In casa era arrivata una sorellina, la sua femminuccia che non era nata mai. 

Passarono alcuni anni, era il 1965, e, in una fase non buona per l’economia familiare, i miei presero la decisione di emigrare a Civita Castellana per dedicarsi, come altri salentini, alla coltivazione del tabacco. Mia madre si sarebbe portata anche la sua bambola, ma non era possibile, sia perché nel furgone del caporale si stava come sardine, sia perché la cosa sarebbe stata oggetto di riso. Sicché si arrese: svestì la bambola e chiuse manichino e vestitino in una valigetta che nascose in un angolo dell’armadio.

Bambola nella casa di Collemeto

Poiché mi ero iscritto al liceo Colonna di Galatina, trascorrevo i quattro mesi di vacanze estive, si fa per dire, nel duro lavoro della raccolta del tabacco a Civita Castellana. A ogni inizio d’anno scolastico, però, ritornavo a Collemeto per riprendere il liceo, distante solo sei chilometri. Sebbene ragazzo, abitavo in casa da solo e mi facevo anche da mangiare. I miei compagni di liceo di Galatina, però, sapendomi solo in casa, spesso venivano a trovarmi per farmi compagnia e per studiare insieme. Così per tre lunghi anni. L’ultimo anno, però, accadde qualcosa le cui conseguenze non avrei mai immaginato. Era il mese di marzo del 1969 e a Collemeto si festeggiava San Tommaso d’Aquino che, pur non essendo il santo protettore del paese, godeva e gode ancora di una certa venerazione. Per l’occasione si doveva esibire nel corso della serata un complesso di musiche popolari salentine. Per questo, mio zio Vito, la cui abitazione era di fianco alla mia, aveva messo a disposizione il rimorchio del suo autocarro che, a sponde abbassate, avrebbe funzionato da palco per il complesso. Il rimorchio fu posto proprio davanti casa.
Sapendo della festa, i miei compagni di liceo avevano organizzato un’incursione a casa mia non solo per fare la corte a qualche donzella collemetese, ma anche per fare bisboccia. Così arrivarono a sorpresa con un tacchino da spennare e un bel po’ di bottiglie di negramaro. Io che ho sempre considerato sacri gli ospiti che mi entrano in casa, mi adattai all’evenienza. Sicché, mentre alcuni di noi spennavano il tacchino, altri motteggiavano, scherzavano e imitavano i nostri professori suscitando risate a più non posso. Tralascio di raccontare il modo con cui cucinai il tacchino (non ero ancora un cuoco esperto), ma tutti si adattarono alla pietanza accompagnata da bevute degne di memoria. Intanto s’era fatto tardi e il complesso davanti casa aveva smesso di concertare.

Casa di Civita Castellana. La bambolina col berrettino di lana in testa.

Fu a questo punto che i miei compagni di liceo, chi più avvinazzato, chi meno, pian piano si trasformarono in lanzichenecchi volti a devastare la mia casa. Donadei raccattò le uova che mia zia Adelina mi donava cordialmente ogni settimana e, uscito in giardino, le usò per fare tirassegno contro un nemico invisibile con accompagno di imprecazioni; Rizzo aprì il vecchio armadio e scoprì la mia tonaca da seminarista che mia madre aveva conservato per ricordo. La indossò, raccattò la scopa di saggina, uscì davanti casa, montò sul palco-rimorchio e, dimenando la scopa a mo’ di chitarra, si esibì in una canzone rock degli anni Sessanta.

Bambola nella casa di Civita Castellana

Era notte, ormai tutti a letto, ma si aprivano porte di qua e di là delle case per biasimare quell’indiavolato con la tonaca che non faceva solo chiasso, ma sfidava anche il sacrilegio. Tarantino intanto, anche lui rovistando nell’armadio, ti andò a scoprire il manichino della bambola di mia madre. Bene, grazie alle nostre ampie stanze salentine, i miei compagni di liceo ebbero modo di giocare a palla col manichino fino a ridurlo in pezzi. Io imploravo l’uno e l’altro, ma ormai l’orda era in piena. Il chiasso dei miei amici “stranieri” a Collemeto fece il giro del paese e persi anche la reputazione dei miei concittadini.

Presa la maturità classica, me ne tornai per sempre a Civita Castellana. A 24 anni venni chiamato alle armi (avevo rimandato per motivi di studio). Di stanza prima a Foligno, poi a Trento: 14 mesi quale artigliere pesante campale. A dicembre del ’74 morì mio nonno materno Pasqualino e mia madre si recò a Collemeto dove mancava da anni. E avvenne ciò che doveva avvenire: aprendo l’armadio per cullarsi la sua amata bambola, s’avvide che era scomparsa: erano rimaste le sole vesti. Tornata a Civita Castellana, mi scrisse una lettera per darmi la notizia che il nonno era morto, nient’altro, nessun cenno alla bambola. A marzo del 1975 mi congedai e tornai a casa con tanta voglia ridiventare un libero cittadino. A casa mi accolsero con tanta festa. Mia madre fece passare qualche giorno, poi un pomeriggio in cui stavamo soli in casa mi chiese conto della sua bambola. Sicché non si era dimenticata. Io non potetti che dirle la verità e le raccontai della disavventura della bambola con i miei compagni di scuola. Restò di sasso e prese a singhiozzare. Ero così mortificato che avrei fatto qualsiasi cosa per consolarla. “Non ti perdonerò mai per questa cosa che mi hai fatto” mi disse. Divenni uno straccio, mi sarei sprofondato sotto terra.

Bambola nella casa di Civita Castellana

Intanto riprendevo il mio lavoro in biblioteca e, quando arrivò il primo stipendio dopo il militare, la prima cosa che feci fu di correre in un negozio rinomato di bambole. Chiesi al negoziante la bambola più bella che c’era. Infiocchettò la scatola e di corsa verso casa: ché non vedevo l’ora di arrivare. Quando mia madre mi vide con quella scatola che reggevo a due mani:
“Ma che porti, figlio mio?”.
“Apri la scatola, mamma, c’è una sorpresa per te.”
Mamma l’aprì e, quando scorse la bambola, non credeva ai suoi occhi: una bambola tutta sua.
”Perché, figlio mio, hai speso tutti questi soldi?” chiese come per farsi scrupolo.
“Ti piace la bambola, mamma?”
“Sì, è proprio bella!”  Una breve pausa, poi di scatto mi volse lo sguardo e:
“La bambola mia, però, era più bella!” Ma lo disse con leggerezza, accennando un sorriso, ché non voleva mortificarmi. Capii che nessuna bambola al mondo avrebbe potuto sostituire la prima.
Con la bambola stretta al petto, la vidi dirigersi nella stanza col letto grande e la pose al centro della coperta: e se la guardava e se la guardava, e le parlava e le parlava, e le sorrideva e le sorrideva, e l’accarezzava e l’accarezzava. Anche a Civita Castellana era tornata la nostra sorellina, la femminuccia di mamma che non era nata mai.

Questa è la bambola che regalai a mia madre, per un atto di riparazione, quando stavamo a Civita Castellana. Poi se la portò a Collemeto. Dopo la sua morte, questa bambola, ed altre, è ritornata nella mia  casa di Civita Castellana. E…  me la guardo e me la guardo…

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[1] La madre con la figlia il miglior boccone si attortiglia (proverbio salentino). A dire che tra madre e figlia c’è un sentire e un accordo che non potrebbe darsi tra la madre e un figlio maschio.

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9 Commenti a Mia madre Lucia che amava le bambole

  1. Quanto mi somiglia Lucia! Ho amato e continuo ad amare bambole e giocattoli: ho avuto due figlie femmine, a differenza della protagonista della storia. A me le bambole sono servite a trascorrere le ore più liete dandomi, tra l’altro, una tale esperienza in fatto di accudimenti neonatali, da trasformarmi in una perfetta mammina per mio fratello già all’età di nove anni. Miracoli dei giochi sulla psiche! A Lucia, invece, le bambole servirono ad esorcizzare il suo desiderio mancato di avere una figlia femmina e la dolcezza nostalgica con cui quella si rivolgeva alle sue creature di plastica la può descrivere solo suo figlio Alfredo: struggente tenerezza, rispettoso ricordo, adorazione sentimentale. Le fotografie delle belle bamboline così ben curate mi colpiscono, mi aprono mondi appartenenti a una donna che, oltre al suo ricordo e all’immenso affetto dato e avuto, ha lasciato la sua immagine scolpita su ogni volto di bambola, i suoi sogni infranti appesi ad ogni loro biondo capello, la sua pura ingenuità infiocchettata sugli abitini spesso confezionati dalle sue stesse mani. Grazie, Alfredo, per questa ventata di aria buona! E’ bello sapere, oggi, che c’è stato qualcuno che le bambole le sistemava sulle coperte del letto e non era costretto a vederle camminare per strada!

  2. Veramente dolce ed emozionante. In molte case di carissime signore, soprattutto quelle che sole e senza figli hanno il grande letto vuoto, al centro di questo c’è una bambola. Vecchia o vecchissima. Ma ne ricordo una in una casa di Acquarica, che mi ha colpito in particolare. Vi rivelo che se anche nobile e novantenne, la donna ormai ferma con lo scialle sulla sua poltrona, donna a cui nulla mai mancò in vita, ancora adesso mi parla con affetto di quella bambola che orgogliosamente tiene nella preziosità dei suoi arredi (pur stonando largamente con il resto). La bambola è quella sacra, quella storica. “Le due mie zie che ci giocarono morirono di parto”- così ferma sul mobile, quasi come reliquia, sta la bambola ed io non posso che sorridere. A volte la psiche dell’uomo ha bisogno anche di piccole cose di cui prendersi cura, a cui affezionarsi, ed è giusto che sia così. Grazie ancora Alfredo per queste belle memorie.

  3. Ma mi vuoi vedere morto? Mi ha spezzato il cuore questo racconto. Ma che mi vuoi tanto male? E’ una storia semplice ma bellissima e mi hai descritto tua madre in un modo così delicato che adesso le voglio un gran bene come fosse la mia.
    Ti abbraccio
    Salvatore Armando Santoro

  4. E’ un racconto molto bello e delicato che lascia trapelare tutto l’amore di un figlio (altro che figlie femmine!! :-) …devo dire però che, come neo-mamma di una bimba, l’intesa che si costruisce tra mamma e figlia è fortissima, spesso esclusiva (benchè il papà sia adorato..) ed è fondata su l'”essere femmina”, su un diverso modo di approcciarsi alle cose del mondo fatto di sguardi accattivanti, sorrisetti maliziosi, vanità innocenti e moine che conquistano…insomma, la mia piccola già conosce inconsapevolmente l’arte della seduzione e tutti noi, femmine e maschi, grandi e piccini, ne rimaniamo vitime…decisamente una “bambola”…ma pericolosa! :-)

  5. Grazie Alfredo. E’ molto emozionante incontrare l’animo di persone che sono vissute nell’imperativo categorico di celare sentimenti e di badare solo agli aspetti pratici della vita.
    Queste persone care di un’altra epoca sembrava che “facessero peccato” mostrando le proprie debolezze.
    E’ bello scoprire che, però, i sentimenti e i valori improntati all’amore e al rispetto, non hanno tempo e per sempre sono l’unica strada possibile per la serenità e l’armonia.
    Grazie per l’emozione che ci ha fatto provare!

  6. ……bellissimo ed emozionante questo tuo racconto…mette soprattutto a nudo i tuoi nobili sentimenti di attaccamento alla tua mamma ed ai tuoi affetti…..

  7. Lo struggimento di ricordi così profondi hanno in sè una dolcezza che prende l’animo sin nel profondo e ci riporta tutti all’infanzia passata e ai profumi della fanciullezza,, a quel sentire il vissuto d’allora che aveva la magia di bambole e balocchi.che non conoscevano ancora l’elettronica moderna.
    Grazie di questo dolce passo a ritroso, ogni tanto fa bene guardare dietro e cogliere quanto di bello e di buono ha lasciato dentro di noi.

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