ZUCCHERO E ZERO

di Armando Polito

Chi crede che il titolo si riferisca agli pseudonimi, rispettivamente,  dei cantanti Adelmo Fornaciari e Renato Fiacchini può tranquillamente dedicarsi alla lettura di qualche altro post; ai più giovani per i quali gli artisti appena citati appaiono come dinosauri di difficile identificazione dico che la lettura del post, comunque, non presenta controindicazioni,  neppure se hanno qualche problema col diabete o con la matematica e non solo con quella, come constateranno con lo… zuccherino finale che ho preparato per loro.

La prima parola del titolo di oggi è emblematica di certe scelte più o meno razionali che la lingua opera. Dico più o meno razionali perché a monte di quelle scelte ci sarà stato pure un motivo, anche se non sempre è agevole ricostruire il percorso evolutivo.

Intanto non guasta ricordare che l’estrazione dello zucchero dalla barbabietola risale alla metà del XVIII secolo e che l’unico zucchero prima esistente era quello estratto dalla canna: originaria dell’India, fu  poi esportata alla fine del VI secolo a. C. dai Persiani che ne estesero la coltivazione nel Medio Oriente, opera completata dagli Arabi con coinvolgimento della Spagna (nell’VIII secolo) e della Sicilia (nel X secolo).

Le prime importazioni dello zucchero da canna in Europa avvennero ad opera di Genovesi  e Veneziani a partire dall’XI secolo e agli inizi del secolo XIII Federico II di Svevia reintrodusse, dopo che gli Arabi ve l’avevano portata, come abbiamo visto,  per la prima volta,  la coltivazione della pianta in Sicilia. Lo zucchero estratto, costosissimo, era utilizzato per la preparazione di farmaci e come dolcificante solo da qualche Paperon dei Paperoni dell’epoca. Con la scoperta dell’America la canna da zucchero fu portata dagli Spagnoli a Cuba e nel Messico, dai Portoghesi in Brasile, dagli Inglesi e dai Francesi nelle Antille, territori che ancora oggi detengono il record di produzione. Poiché lo zucchero americano era di qualità migliore e a basso costo (leggi schiavi; ma, non ci avevano detto che la delocalizzazione era figlia della globalizzazione?) le coltivazioni spagnole e italiane vennero abbandonate e l’importazione da quei paesi dello zucchero ne determinò la diffusione e il connesso calo di prezzo (economia di scala, ben nota agli economisti fin dal XVIII secolo).

Se la sostanza può derivare dalla canna o dalla barbabietola, zucchero per tutti è dall’arabo sukkar, ma questo, per le pur succinte notizie storiche date, è certamente di origine indiana (in pali sakkhara), come i greci sànchari  (Arriano, II secolo d. C.; ma vedi nella nota 4) sàncharis  e sàncharon (Dioscoride, I secolo d. C.)1 e i latini sàccharon (evidente trascrizione del greco sàncharon) e sàccharum (Plinio, I secolo d. C.).

Proprio Plinio nel capitolo 17 del libro XII della Naturalis historia così scrive: Saccharon et Arabia fert, sed laudatius India: est autem mel in arundinibus collectum, gummium modo candidum dentibus fragile, amplissimum nucis avellanae magnitudine, ad medicinae tantum usum (Lo zucchero nasce anche in Arabia ma è di gran lunga più pregiato in India: è miele colto nelle canne, candido come gomma, che si rompe con i denti; quello più grosso ha le dimensioni di una noce e si usa solo in medicina).

Questo miele raccolto nelle canne può alludere alla prima fase dell’estrazione dello zucchero  o la canna non è affatto quella che poi sarebbe stata classificata come Saccharum officinarum L. ?  Si tratta di una vexata quaestio che ha impegnato gli studiosi già in passato senza giungere a risultati certi. Così se il botanico tedesco Kurt Sprengel (XVIII-XIX secolo), ricalcando il Salmasio (XVII secolo),  identificava il sàccharon pliniano nella Bambusa arundinacea2, una varietà di bambù che dalle giunture dei nodi secerne una specie di miele, altri autori3, basandosi su una diversa interpretazione non solo di Plinio ma anche di altre fonti sia greche che latine4, credevano di riconoscervi proprio la canna da zucchero.

A parere mio ha ragione Sprengel, ma il lettore sarà libero di farsi la sua opinione tenendo conto delle fonti  che ho citato nel testo e nelle note.

La forma dialettale neretina è vicinissima all’arabo sukkar così come lo era la forma italiana obsoleta zuccaro. Il primo esempio, letterario, risale al XIV secolo ed è il verso finale del sonetto 37 delle Rime di Malatesta Malatesti: la vita fele e zuccaro la morte. Tuttavia risale allo stesso periodo la forma zucchero, presente, per esempio, passim, nel Viaggio in Terrasanta di Leonardo Frescobaldi.  È solo nella seconda metà del XIX secolo che zucchero prenderà il sopravvento, tant’è che il Leopardi nel verso 27 del componimento CXCVI della Crestomazia italiana così scrive: Silvio lo zuccaro infonde, e destro appresta.  Dopo il sobbalzo provocato nel lettore dal verso in questione, subito rientrato per considerazioni di ordine cronologico (ma a volte ritornano…), ecco una testimonianza non letteraria di qualche secolo prima. Così scrive il medico bolognese Baldassarre Pisanelli a pag. 148 del suo Trattato della natura dei cibi e del bere, Bonibelli, Venezia, 1596: Il Zuccaro si chiama mele di canna, perché si cava dalle canne di mele, e per esser buono: conviene ch’egli sia ben cotto, sodo, e bianchissimo, come è quello che volgarmente da Medici è detto Tabarzet. Egli tira al caldo, ma non quanto fa il Mele, e non è anco tanto astersivo, e però più diletta allo stomaco, al polmone, et al petto, ch’il Mele, in tutte le vivande è gratissimo, Eccetto che nella Trippa, perché postovi sopra la fa puzzare, come sterco di Buoi fatto di fresco, Mollifica la gola, et il petto, come anco fa quel Zuccaro, che si chiama Candita, che la raucedine.

Se qualche ragazzo ha preso quattro al tema di italiano (si usa ancora?…) per aver scritto il zùfolo o il zampino e simili  non ha che da esibire al titolare della materia il Zuccaro e quel Zuccaro presenti nel testo appena riportato. Se ciò non bastasse, come giustizia reclama, ad elevare il voto da quattro a sei, esibisca il leopardiano E intanto riede alla sua parca mensa,/fischiando, il zappatoree rivendichi il diritto di usare l’articolo che gli pare, dal momento che il buon Giacomo, come s’è visto, nelle mani di Silvio aveva messo lo zuccaro. A questo punto può succedere (non saprei dire quanto grande sia la probabilità…) che l’insegnante sottolinei come il Leopardi si sia concesso quella licenza per motivi metrici, altrimenti  avremmo avuto un ottonario invece del settenario. Il ragazzo, però, può replicare dicendo che questo non vale per lo zuccaro di Silvio e, per la prosa,  nemmeno per Alessandro Manzoni che in Sopra una staffilata dl Monti ai Romantici scriveva: …non m’importa un zero di scena o non di scena…e in una lettera del 14 settembre 1806 indirizzata a Giovan Battista Pagani:…non voglio essere il zimbello di nessuno, e massime d’un libraio… e, ma gli esempi potrebbero continuare pure con altri autori, nella redazione del 1827 dei Promessi sposi (cap. XIV): …tanto che egli divenne il zimbello della brigataccia (in quella definitiva: tanto che divenne lo zimbello della brigata…).

Il voto, ridimensionato,  non supera il sei? Niente paura! Una capatina nell’aula di informatica, un salto all’indirizzo http://books.google.it/books?id=RJIoKBLCwl0C&pg=PA143&dq=il+zappatore&hl=it&sa=X&ei=Wbu_T67rLafV4QSn8L21CQ&ved=0CGUQ6AEwBw#v=onepage&q=il%20zappatore&f=false

e, senza tergiversare, spiattellare all’insegnante la pagina 123 di Giovanni Tolu , opera di Enrico Costa, Zedda, Cagliari, 2007, ove si legge: Fatti alcuni passi udimmo abbaiare un cane, che comparve sulla porta della casa, distante una trentina di passi dal cancello. Quasi subito venne fuori un zappatore, il quale, dopo aver imposto al cane di tacere, guardò verso di noi e si fermò con senso di sgomento. In un attimo sbucarono dalla casa sette carabinieri, che si schierarono sul piazzale, come per meglio esaminarci. Il zappatore, certamente, aveva pronunciato il nome di Cambilargiu.

Questa volta per l’insegnante non c’è scampo e non può arrampicarsi sugli specchi parlando di licenza magari indotta dalla presenza di quei sette (manco due!) carabinieri, peraltro in servizio…

Ecco come un elaborato, sia pure in modo sofferto, può spiccare il volo dai bassifondi della mediocrità alle vette dell’eccellenza.  Il bello è che la cosa può essere sfruttata strategicamente (anche se una sola volta…ma l’effetto benefico può durare a lungo) pure con l’insegnante di matematica: basta proferire nel bel mezzo di un’interrogazione il nesso il zero, ascoltare in rispettoso silenzio la scandalizzata reazione del docente, altrettanto pacatamente invitarlo ad un abboccamento chiarificatore della questione con il collega di italiano… e la cosa è fatta. Nella circostanza come prova aggiuntiva e specifica converrà esibire: I primi versi però non mi piacciono un zero (Vincenzo Monti, Epistolario, Lettera a Clementino Vanetti del  20 maggio 1780) e di Galileo Galilei, tratti dal Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632): …cominciando dall’unità, anzi dal zero; …il minimo grado sia il zero; …mille rispetto all’infinità è come un zero

Basta ed avanza per essere accusato di corrompere i giovani, nonché, dopo l’ultima sparata sulle prove INVALSI, di essere un bieco sobillatore, ma sfido chiunque a dimostrarmi che esiste sistema didatticamente più efficace della scenetta appena terminata. Tuttavia, siccome non voglio fare, modestamente, la fine di Socrate, passo ad altro, anche perché nel frattempo alla defezione dei lettori  interessati ad Adelmo Fornaciari  si sarà appena aggiunta quella degli ammiratori di Renato Fiacchini;  e, come al solito, mi rifugio nel sarcasmo (altro che patto…) generazionale (non sembra, eppure è una forma d’amore…): quando nacqui io per tenermi buono mi ficcavano in bocca la pupatella (voce di origine napoletana, diminutivo di pupa), un aggeggio a forma di bambola ottenuto mettendo un pò di zucchero al centro di una pezza di cotone che poi veniva chiusa ai quattro lati e la parte apicale contenente lo zucchero (la testa della bambola) veniva separata dal resto passando attorno un numero adeguato di giri di filo di cotone. Poi venne il ciuccio (ho il sospetto che alcuni siano stati progettati nella galleria del vento…) e il suo matrimonio con lo zucchero divenne opzionale, ora probabilmente sta per essere lanciato sul mercato qualche aggeggio elettronico che risparmierà al neonato la fatica di succhiare e che, eventualmente, assolverà in modo virtuale pure ad una funzione dolcificante del secreto salivale.

Sì, ma anche se lo zucchero del ciuccio tradizionale nel frattempo dovesse avere un effetto lassativo molto spinto,  non sarà, forse, mai il bambino5 di quel distico che ai miei tempi  accompagnava l’evento: Bbambinièddhu zzuccaràtu/sentu puzza: cce, t’ha ccacatu? e neppure quello, terreno e celeste nello stesso tempo,  di  A nnatu (È nato) dell’album Mamminieddhu zzuccaratu (1994) del Canzoniere grecanico salentino ; per capirlo sarà sufficiente l’ascolto all’indirizzo

http://canzonieregrecanicosalentino.net/index.php?option=com_content&view=category&layout=blog&id=37&Itemid=54&lang=it

__________

­­­­­­­1 De materia medica, II, 104: (traduco dal testo dell’edizione Operum medicorum Graecorum quae exstant, v. XXV, curata da C. G. Khün, C, Cnobloch, Lipsia, 1829, pag. 231): Si chiama pure zucchero (sàncharon) una specie senza dubbio di miele che solidifica in India e nell’Arabia felice, trovato nella canne, simile alla struttura del sale e che come il sale si sbriciola sotto i denti . Facilita lo svuotamento dell’intestino, favorisce la digestione diluito con acqua e bevuto. Giova in casi di cistite e ai reni, spalmato elimina pure gli offuscamenti delle pupille.

2 Historia rei herbariae, A spese della taverna dei libri e delle arti, Amsterdam, 1807, v. I, pagg. 170 e 256.

3 Vossio (XVI-XVII secolo), Mattioli (XVI secolo), Mundella (XVI secolo) ed altri.

4 Per le latine:

Lucio Anneo Seneca (I secolo d. C.), Epistulae morales ad Lucilium, 84: Aiunt inveniri apud Indos mel in harundinum foliis, quod aut ros illius caeli, aut ipsius harundinis humor dulcis et pinguior gignat Dicono che presso gli Indiani si trova miele sulle foglie delle canne, generato o dalla rugiada dell’aria o dalla linfa dolce e grassa della stessa canna); Marco Anneo Lucano (I secolo d. C.), Pharsalia, III, 237: Quique bibunt tenera dulces ab harundine succos (E quelli che bevono dolci succhi dalla tenera canna); Caio Giulio Solino (III secolo d. C.), Collectanea rerum memorabilium, LII: Quae palustria sunt arundinem creant ita crassam ut fissis internodiis lembi vice vectitet navigantes. E radicibus eius exprimitur humor dulcis ad melleam suavitatem (Questi luoghi palustri fanno crescere una canna così rigogliosa  che un internodo spaccato a metà è in grado di trasportare dei naviganti a mo’ di barca. Dalle sue radici si estrae un succo dolce che ha la gradevolezza del miele); Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo d. C.), Etymologiae, XVII, 7: In Indicis stagnis nasci harundines calamique dicuntur, ex quorum radicibus expressum suavissimum sucum bibunt; unde et Varro ait: Indica non magna in arbore crescit harundo;/illius et lentis premitur radicibus humor,/dulcia cui nequeant suco contendere mella (Dicono che negli stagni dell’India nascono specie di canne e che ne bevono il succo estratto dalle sue radici, per cui anche Varrone dice: La canna indiana non raggiunge grandi dimensioni e dalle sue flessibili radici viene spremuto un succo con il quale non possono competere i dolci mieli).

Per le greche:

Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, XV: (Nearco) intorno alle canne (in India) riferì che producono miele senza che ci siano le api.

Nel Periplo del mar Rosso, attribuito dubitativamente a Lucio Flavio Arriano (II secolo d. C.) tra i prodotti portati dall’interno ai mercati sulla costa è citato anche il meli to kalàminon legòmenon sànchari, alla lettera miele di canna detto zucchero.

5 L’associazione metaforica del bambino con lo zucchero è frequente nella tradizione popolare meridionale. Valga per tutti il siciliano O Bamminu bamminieddu,/siti duci e siti bieddhu; chidda notti chi nascistivu,/oh chi friddu chi sintistivu!/La mammuzza v’allunà, San Giuseppi vi ‘nfascià (Giuseppe Pitré, Canti popolari siciliani, Pedone-Lauriel, Palermo, 1871, v. II, pag. 14), presente anche con varianti irrilevanti in area calabrese.

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