Strappate le catene agli schiavi: 22 arresti

di Veronica Valente

Arrivavano in Italia con la promessa di un lavoro regolare, con la speranza di un futuro migliore. Ma era una trappola. Centinaia di extracomunitari, una volta raggiunte le coste del Belpaese, sarebbero stati “catturati” da una spirale di soprusi, e spogliati di un bene che non ha prezzo: la dignità.

Qualche giorno fa è stato scritto un importante capitolo sui diritti dell’uomo. Le “catene” agli schiavi del nuovo millennio sono state tolte ed ora sono ai polsi dei loro aguzzini. Sono ventidue i destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Carlo Cazzella – su richiesta del pm della Dda Elsa Valeria Mignone – ed eseguita la scorsa notte dai carabinieri del Ros, coordinati dal comandante Paolo Vincenzoni, e del comando provinciale di Lecce, sotto la guida del colonnello Maurizio Ferla. All’operazione “Sabr”, dal nome di uno dei caporali arrestati, sono riusciti a sfuggire in sei.

Gravissimi i reati caduti sulle loro teste, oltre alla riduzione in schiavitù, la Procura ipotizza: associazione a delinquere, tratta di persone, intermediazione illecita,  sfruttamento del lavoro, estorsione, violenza privata, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici,  falsità materiale commessa dal privato, favoreggiamento dell’ingresso di stranieri in condizioni di clandestinità.

Stando alle indagini, iniziate dal Ros nel gennaio del 2009, e continuate  fino ad ottobre dello scorso anno, l’organizzazione avrebbe speculato sulle condizioni di disagio degli extracomunitari reclutati, in gran parte, dall’Africa con la promessa di un lavoro dignitoso e ben retribuito. Ma una volta raggiunti i campi sarebbero incappati in un’altra realtà. Il lavoro era durissimo e remunerato al di sotto della soglia di povertà: dodici, quattordici ore al giorno per raccogliere pomodori e angurie, valevano solo 22, massimo 25 euro, in parte trattenuti dagli stessi caporali per la fornitura di alimenti e bevande e per il trasporto sui campi. Un guadagno simile rendeva impossibile ai braccianti anche solo il pensiero di poter ritornare in patria.

A questo vanno ad aggiungersi condizioni di vita disdicevoli: gli alloggi in casolari, lontani chilometri dai centri abitati, erano fatiscenti, senza acqua corrente, servizi igienici e corrente elettrica. L’organizzazione si sarebbe interessata solo al loro sudore.  Per questo avrebbe avuto la premura di procurare ad alcuni dei suoi schiavi permessi di soggiorno falsi. “Ora te li sfianco fino a questa sera”, avrebbe detto un caporale al datore di lavoro.

Nessun rispetto quindi tanto meno per il loro credo religioso.  Alcuni musulmani durante il “Ramadan”, mese sacro di digiuno, hanno lavorato comunque senza mangiare e bere sotto il sole cocente trovando forza nella disperazione e nel bisogno di soldi (sebbene alcune volte non siano stati neppure retribuiti).

Ma, alla fine, il desiderio di libertà ha sovrastato il bisogno economico. Le  vittime nelle campagne di Nardò hanno trovato il coraggio di ribellarsi e chiedere aiuto alla Giustizia. Le loro dichiarazioni hanno fatto da “apripista”, consentendo agli investigatori di fare il resto. Le indagini, condotte con metodo tradizionale e con le intercettazioni, hanno infatti permesso di disegnare l’organigramma dell’associazione: una stuttura piramidale con al vertice gli imprenditori locali, beneficiari di contributi europei. Sono sette i salentini, principalmente neretini, che avrebbero tenuto le redini del sodalizio, accordati tra loro in una sorta di “cartello”. I padroni a loro volta si sarebbero affidati ai reclutatori, il cui compito era far arrivare risorse umane dall’estero, organizzando i cosiddetti “viaggi della speranza”. A seguire c’erano poi i caporali o capi cellula, la cui funzione era invece quella di gestire gli spostamenti massici di extracomunitari nei confini nazionali, per coprire la richiesta di lavoro stagionale. In pratica i braccianti venivano spostati come pedine in altre regioni (Sicilia, Calabria e Puglia) a seconda delle esigenze. I capi squadra invece si occupavano, tra le altre cose del trasporto degli immigrati, nei campi.

E, infine, alla base della piramide, centinaia di braccia disperate.

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