Nature morte

di Vincenzo Ampolo

 

(a Dario V. Caggia)

L’ora dei nostri incontri è generalmente situata in quello spazio un po’ magico che va dal tramonto al crepuscolo.

Il periodo di transizione tra la luce e il buio favorisce il sonno, la trance, la sapienza del silenzio.

Il percorso per arrivare da lui è labirintico, con piccoli viali e gradini che si arrampicano su per la collina, come edera intorno ad un albero.

Ogni elemento del passaggio sembra ripetersi all’infinito, riproporsi in modo ossessivo imponendo il dubbio, la cautela dei passi, la ricerca delle tracce di precedenti ascese.

Il mio Maestro-analista mi aspetta su in alto nel suo santuario, per accogliere i miei sogni, l’angoscia delle immagini perverse e soprattutto la mia richiesta eterna di affetto che mi segue a distanza come un figlio ripudiato.

Dall’inizio della mia analisi, come ogni paziente, ho desiderato con tutto me stesso d’essere “ il caso”, il figlio prediletto, riconosciuto nei meriti e curato amorevolmente della sua ferita narcisistica.

La mia infanzia ha un padre assente, avaro di regali e di carezze. Un padre intento a rincorrere aquiloni, che portava a suo figlio il latte cattivo.

Tra il latte e la scuola, spesso mi appoggiavo ad un albero per vomitare.

Così negli anni ho appreso la tecnica del cacciar fuori il male, rivelarne la consistenza e l’entità, nel tentativo di dissociarmene, diventare altro, libero e purificato.

La depressione ha una storia antica che mi porto appresso in questo pellegrinaggio che sfida l’angoscia del vivere e del morire.

Man mano che si sale su per la collina il paesaggio si allarga.

Chiese alte, stradine con archi e balconi ma soprattutto cortili deserti, freschi di calce abbagliante, con pochi vasi di fiori e gatti sonnacchiosi che riposano immobili. Persino i panni stesi al sole oggi sembrano statici, come in una fotografia.

In quest’estate inoltrata, il vociare del mattino e i rumori festosi della sera fanno pausa per lo spettacolo del tramonto che riempie  il cielo di colori e il paese di ombre lunghe, che si ritrovano tra i sospiri di chi ama qualcosa, o qualcuno, che non ha o che ha già perduto.

Il paese dell’infanzia è la maglia dell’inconscio e lo sguardo che mira ridà colore ai ricordi.

Ma il paese è quello del Maestro e dietro questo paesaggio c’è la sua storia.

Mio padre in casa me lo ricordo poco.

La sua legge, la legge del più forte mi ha sradicato dall’isola di amici che popolavano la mia infanzia.

Mi ha defraudato dell’eredità di una città ormai perduta, imponendomi la sua storia, il suo recinto di terra da rivoltare giorno dopo giorno.

Il suo potere violento e arbitrario ha mostrificato la sua immagine.

Marinaio e libertino, negli accenni di mia madre, moralista come può essere una suora mancata, è diventato un demonio da esorcizzare.

Negli ultimi tempi il Maestro teneva i suoi incontri non più nel grande studio perennemente in penombra, ma in una piccola cella angusta, che un tempo fungeva da precaria sala d’aspetto. Mi parlava a volte di suo padre e del suo essere simile a lui e diverso al tempo stesso. Di come questo medico potente aveva tiranneggiato la sua infanzia e di come al tempo, egli stesso, medico dell’anima, lo rincorresse nei suoi ricordi per carpirne i segreti, svelare enigmi e trovare risposte esaurienti a dubbi angoscianti.

Da qualche anno il Maestro è tornato al suo paese natale e qui mi ha trascinato. Ora lui è la collina intera, gli alberi e quel silenzio di marmo soggetto e oggetto della narrazione.

Mio padre non mi insegna più lunghe poesie nel suo letto, prima che le ali di Morfeo mi trascinino nel regno dei sogni: “ Silenzio bambini, entriamo nel parco dei santi. Silenzio, le teste scopriamo, silenzio e avanti…”

E’ rimasto solo questo brandello, come se un forte vento avesse strappato le vesti dei ricordi.

Al posto di quelle poesie oggi è rimasto il nulla che è ombra e fobia.

Oggi, le mie sedute con il Maestro non costano denaro. Lui mi aspetta sempre ed è disposto come non mai ad ascoltarmi.

Non dice e non nasconde: rispecchia.

Come ieri ritorno a trovarlo, a trovarmi, in questo cimitero a picco sulla città.

Arrivo su in cima con il fiato corto, mi siedo accanto alla sua tomba e riposo.

Quel vagare, come un fantasma tra simulacri di morte, lascia il posto ad un paesaggio immenso ed ai suoi occhi che mi guardano e che oggi ho il coraggio di incontrare senza abbassare i miei.

A volte ho giurato di vedere in quella foto la mia faccia, quella di qualche mese fa con la barba lunga sul mento; una barba che ho tagliato dopo vent’anni per scrupoli di identità.

Oggi gli parlerò del mio dolore di sempre e di una donna che appartiene ad entrambi, alla storia di entrambi.

Scapperò via prima che la sera mi catturi al buio e alla paura. Porterò con me la pace ritrovata che avrà, lo so, il sapore della precarietà.

Presto dovrò ritornare da Lui. Lui mi conosce più di tutti al mondo e sa ascoltarmi senza parlare.

Lo troverò ad aspettarmi su in cima alla collina, in quella piccola cappella dove la sua foto guarda quella di suo padre, come a rappresentare un confronto che non avrà mai fine.

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2 Commenti a Nature morte

  1. Vincenzo ha studiato a lungo se stesso e l’anima di chi ha scritto per l’anima e di chi per quella ha pagato. Il suo non è un resoconto professionale, ma una splendida pagina di introspezione poetica.
    Indaga, Vincenzo, scava nei suoi ricordi, nel tempo tra il tramonto e il crepuscolo lascia tuffare la sua mente gentile nella prepotenza abissale della mancanza. In ogni uomo si aprono buchi a testimonianza di posti lasciati vuoti da sentimenti e da sogni traditi.
    A volte i buchi si trasformano in voragini.
    Chi parla in questi righi ne è stato risucchiato senza pietà nel conflitto col padre e dico direttamente ‘conflitto’ senza iniziare dall’origine naturale definita ‘rapporto’ proprio perchè il dramma interiore del protagonista ci impone da subito la brutalità di questo pauroso precipizio.
    Il narratore s’inerpica su una collina per l’incontro spirituale col proprio maestro-analista, o meglio, con la consolazione che il silenzio della sua tomba potrà dare al suo dolore ancora sanguinante.
    Il protagonista e l’amato e defunto si fondono in un unico cuore palpitante angoscia e ribellione contro il deserto di risposte intorno alla figura del padre. Sebbene questo genitore in entrambe le storie abbia avuto in vita mestieri diversi, l’uno libertino e marinaio, l’altro medico potente e tiranno d’infanzia, sembra che la loro paternità oscura si sia mescolata accomunando anche i destini del narrante e del narrato.
    Le qualità umane di questi padri si rincorrono tra aggettivi come ‘assente, cultore della legge del più forte, avaro di regali e di carezze, demonio da esorcizzare…’, insomma padri troppo egoisti per percorrerere la strada dei figli o per incontrarli, se pure a metà cammino, senza travolgerli con la violenza dei propri detriti.
    L’analista è condannato a guardare in eterno, dalla sua foto sulla lapide, la sepoltura del padre, quasi in un infinito chiedere ciò che infinitamente aveva cercato in vita senza risposte, simbolo dell’angosciante ricerca di un uomo della verità, croce e delizia delle menti.
    ‘La richiesta eterna di affetto’ è l’ombra che incalza sia il ricordo del maestro che la realtà del suo alunno devoto, quello stesso che vuole cacciare fuori il male continuando a parlarne con chi un tempo gli aveva prestato attenzione, con chi aveva vissuto lo stesso suo dramma, con chi ora, dal limbo sconfinato del mondo delle anime, vola oltre i tempi della psicanalisi e apre anche a lui il sipario sull’infinito ascolto, sull’infinito amore, sull’infinito comprendere.
    E il narrante sale, è un’ascesa sofferta costellata di ‘cautela di passi’ e ‘ricerca di tracce di precedenti ascese’ perchè quell’eremo parlante nel silenzio di una sepoltura altro non è che il cammino della catarsi, la purificazione precaria ma urgente di un animo tormentato dalla voragine del non amore.

  2. Non è facile il rapporto con i propri maestri. Il primo passo è riconoscerli. Il debito di riconoscenza può rivelarsi eredità ingombrante. Difficile da gestire, soprattutto in una realtà culturale in cui ci sono cattivi insegnamenti e i padri vengono superati, negati… Così la narrazione è un modo per recuperare questo vincolo di riconoscenza, il simbolico che si nasconde dentro di esso e la sua complessità , per scoprire che in fondo è semplice nominare le proprie radici, come nel raccondo di Vincenzo Ampolo

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