Lecce, l’ultimo impagliatore di sedie

 

di Rocco Boccadamo

 

Nell’odierna mattinata, la bici di seconda mano, ma non per questo meno efficiente, dell’osservatore di strada, ha una meta precisa e immodificabile, ovvero il cuore storico maggiormente nascosto della capitale del barocco.

Né l’itinerario subisce deviazioni a seguito del fugace abbacinamento dei sensi del velocipedista per opera di un’ammiccante e inequivocabilmente indicante reclame di biancheria intima femminile “Let it flow”.

Perciò, una decina di minuti di corsa leggera e le due ruote giungono a guadagnare la destinazione.

Ad esser precisi, la lavagnetta del programma contemplava la ricerca di una figura avanti con gli anni, stanziale della zona, con cui provare a ripercorrere sequenze di fatti, vicende, sensazioni ed emozioni, dentro le mura ideali di un ambiente estremamente circoscritto e a cavallo delle generazioni man mano succedutesi.

Sennonché, il passaggio lento e attento fra vicoli, stradine, vicoletti, corti e cortili, non lascia scorgere la minima ombra di persone, a prescindere dall’età anagrafica.

Le porte e porticine delle modeste case, spesso assicurate da rudimentali catenacci, indicano, attraverso biglietti o semplici rettangoli di carta, la residenza e/o presenza preponderante di stranieri, i quali, in genere, suggeriscono “passare di sera”.

Di conseguenza, al curioso, non resta che bussare all’uscio socchiuso di un terraneo, al cui interno s’intravvede una donna intenta a lavare il pavimento. Alla domanda se è conoscenza dell’eventuale presenza, lì intorno, di qualche anziano, la signora non risponde, limitandosi ad invitarmi a rivolgermi all’angolo, dove, in una bottega, potrò trovare suo marito.

Così, al civico 75 di Via Antonio Galateo, quartiere Rudiae, a pochi metri da due caratteristiche e carine corti, appellate l’una “del Barone” e l’altra “di S.Stefano delle canne”, vengo ad imbattermi in Alfonso, settantanove almanacchi ben portati, ancora prestante, vispo e lucido, il quale, in una bottega con volta a stella, si o no tre metri quadrati per tre, esercita il mestiere di impagliatore di sedie, precisamente di quelle suppellettili d’arredo, ormai rare, abitualmente denominate “con seduta o sedile in paglia di Vienna”.

Alla mia richiesta di dedicarmi una manciata di minuti, l’artigiano, sarebbe forse più giusto definirlo artista, aderisce di buon grado, non senza, peraltro, seguitare, in contemporanea ad una serie di discorsi, particolari, racconti e confidenze che vanno inanellandosi, nel suo lavoro.

Fa l’ìmpagliatore di sedie da quarant’anni e passa, dopo brevi, precedenti parentesi dedicate ad altri mestieri e lavori, come camionista trasportatore di bombole di gas, panettiere, fruttivendolo, venditore di caldarroste e i non dimenticati trascorsi sportivi come calciatore e allenatore della Pro Patria Lecce in seconda categoria. Prima ancora, ragazzino, si era improvvisato guida a beneficio dei soldati americani in libera uscita, interessati alla localizzazione di qualche “Bocca di rosa” locale. Del resto, chiosa l’uomo, ad un certo punto non poteva non prevalere in lui l’orientamento a concentrarsi sul mestiere di impagliatore, insegnatogli, nella fanciullezza, dal padre.

Notazione particolare, il genitore, cieco sin dall’età di tre anni, aveva a sua volta appreso quell’arte in un istituto per non vedenti, portandola poi avanti per l’intera vita, unicamente mediante il fantastico intreccio fra manualità e mente.

Adesso, che potrebbe e dovrebbe fare il pensionato (però, come si campa con i 500 euro al mese del mio assegno?) dice, Alfonso, che non bisogna dare eccessivo rilievo ai mutamenti di mestieri o attività, ciò che importa è non starsene con le mani in mano. Parole, di certo, estremamente sagge.

Ha un unico figlio, il nostro impagliatore, più due nipoti, tutti abitanti accanto a casa sua.

La bottega del personaggio in questione è uno scrigno di piccoli ma indicativi oggetti, fra cui alcuni vecchi orologi, tutti rigorosamente sincronizzati, e un’antica radiolina; ovviamente, spiccano, ammucchiate, diverse sedie obsolete, utilizzate, a pezzi, per qualche riparazione, insieme con l’unica materia prima impiegata nell’attività: il guscio di canna d’india (d’origine, per l’appunto, indiana o d’altre aree asiatiche), ordinata a importatori di Firenze o Genova, che, in matasse di lunghi e sottili filamenti, ha un costo intorno a 80 euro per chilogrammo.

In tema di attrezzi, Alfonso adopera un cacciavite e minuscoli “punticeddhri” (specie di fiammiferi), per tenere fermo il filo durante l’impagliatura.

Il ripristino di una seduta o sedile prevede sei passaggi di filo, due orizzontali, due verticali e infine due, particolarmente di fino, in diagonale. Così operando, si è sicuri, a prova di sfondamento, per decine d’anni.

E’ in fondo fiero, Alfonso, della sua attività, in certo senso anche orgoglioso della circostanza di essere rimasto l’ultimo ad esercitare quel lavoro in tutta Lecce.

Capita che, sovente, turisti in transito lungo la sua via si fermino a curiosare o a fargli domande o a fotografarlo; sul banchetto, ha una busta contenente due istantanee appena pervenutagli dal Canada. In un’occasione, dal suo laboratorio è passato anche il noto critico d’arte Vittorio Sgarbi; saltuariamente, infine, dai giornali locali gli è stato dedicato qualche servizio.

Precedenti a parte, per lo scrivente, si è trattato soprattutto dell’incontro con una figura dell’umanità che se ne sta in penombra, dietro le quinte, nondimeno rivelandosi viva e palpitante; è stato come prendere in mano il filo che lega il presente al passato, agli estremi, oggi, un impagliatore di sedie, in Lecce, nei pressi della Corte di S. Stefano delle Canne, ieri, al suo paese natio, l’omologa figura de “u ‘mpaia segge”, che girava con una sgangherata bicicletta per raccogliere le suppellettili da riparare.

Un esercizio suggestivo, che ha lasciato, dentro, segni profondi.

  

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