Il Mangialibri/ Incipit

  

  

 di Michele Stursi

 

Esco dalla bottega di Eleonora alquanto rilassato e allo stesso tempo radioso. Questa storia comincia a farsi molto interessante e pian piano matura sempre di più l’idea di scrivere un romanzo tutto mio.

Quante volte, seduto nel mio ufficio, fissando libri, embrioni mai venuti alla luce, sono sprofondato nella desolazione più cupa? Quante volte ho vissuto storie non mie, ho pianto e ho riso, ho sofferto e ho gioito, e tutto a causa di quell’amore smodato per la lettura?

In quegli attimi di deliro mi tormentavo su come si potessero accatastare ordinatamente le parole e dare così l’impressione al lettore di aver scritto una storia. Ma una storia, anche la più fantasiosa e lontana anni luce dalla realtà, deve aggrapparsi in qualche modo alla vita dell’autore. Ho letto una volta che la fantasia è un’isola dispersa nell’oceano e ci si approda pian piano remando contro corrente su una barca che molti chiamano “realtà”. Solo oggi posso dire di essere riuscito a salire su quella barca e d’ora in avanti remerò sino allo sfinimento. Per nessuna ragione al mondo mi lascerò sfuggire quest’occasione.

Mi avvio verso casa, salgo di corsa le scale e mi metto a scrivere. Comincio dall’inizio, dal mio arrivo a Noha. Preparo il foglio bianco sulla scrivania, prendo dal taschino la mia inseparabile stilografica e non appena avvicino la punta bagnata d’inchiostro nero al foglio, suonano al citofono. Mi alzo dalla sedia, mi affaccio alla finestra per vedere chi è, ma non c’è nessuno. “Sarà stato qualche ragazzino”, penso mentre ritorno al mio posto.

Cerco di afferrare nuovamente la penna e non faccio in tempo a scrivere la prima frase che qualcuno bussa alla porta, prima piano, poi sempre più forte e più velocemente, come un rullo di tamburi. Nascondo foglio e penna nel cassetto della scrivania per andare ad aprire. Stranamente però appena chiudo il cassetto smettono di bussare.

Dallo spioncino non riesco a vedere nessuno. Inizio a preoccuparmi, ad avere paura; chiudo la porta a chiave e vado a stendermi sul letto.

Mi lascio andare per un attimo in un sonno leggero e all’improvviso sento accarezzarmi i capelli.

Scatto in piedi.

Il cuore pulsa selvaggiamente, mi guardo intorno, tutto tace come prima, niente sembra essere fuori posto. Mi metto a girare per la stanza, a controllare sotto il letto, nell’armadio, nel bagno, ma niente. Mi lavo la faccia con acqua ghiacciata e appena sollevo la testa vedo riflesso nello specchio il volto di un uomo. Chiudo e riapro in maniera istintiva gli occhi e quel rapido batter di palpebre sembra sbriciolare pian piano l’immagine riflessa. Corro nella stanza da letto, prendo il telefono per chiamare Chiara, ma è occupato; riaggancio, mi siedo sul letto, nel silenzio sento il battito del mio cuore salire su per la gola e poi tamburellare sulle tempie. Mi raggomitolo stremato, in cerca di un riparo da qualcosa che mi assilla, mi perseguita, ma che non so dire bene cosa sia. E lentamente cado in un sonno leggero.

All’improvviso mi pare di sentire un suono, mi rigiro più volte e quel suono continua incessantemente; appena prendo coscienza, mi rendo conto che suonano al citofono. Terrorizzato salto giù dal letto, a piccoli passi mi dirigo verso la finestra e dietro la tenda cerco di sbirciare per strada. È Chiara che aspetta sotto casa, sembra alquanto agitata, solleva la testa verso la finestra, mi intravede e fa cenno di aprirle.

«Scendi, di corsa!» – mi urla dalla porta. La sua voce arriva ai miei orecchi deformata dall’eco; le vibrazioni di quelle onde sonore mi percuotono i timpani, mi schiaffeggiano; sento ricomparire quel terrore che poc’anzi mi aveva percosso nel profondo delle mie emozioni.

«Sali, facciamo un caffè» – cerco di spegnere così il fuoco di paura che arde in me, riemergendo pian piano nella quotidianità.

«Pasquale ti prego, devi venire un attimo con me. Ora, subito!» – e ritorno in apnea, a subire quest’orda di strani eventi che da quando sono a Noha si susseguono incessantemente, uno dopo l’altro, come capitoli di un romanzo.

Prendo cappello, giacca e un vecchio bastone, fino a qualche giorno fa prigioniero in un polveroso sottoscala, e scendo di corsa le scale. Chiara mi fa strada, taciturna e pensierosa. Stradine piccolissime e lastricate ci portano nel cuore del paese. Tutto tace apparentemente, sembra quasi che non ci sia nessuno, ma da dietro le finestre occhi attenti scrutano il passante, orecchi aguzzi penetrano il silenzio pomeridiano per cogliere un sussurro, un insignificante battito del cuore. Arriviamo in una specie di piazza il cui perimetro è delimitato da altissimi pini, nel mezzo si erge uno strano monumento rivestito interamente in pietra leccese. Man mano che ci avviciniamo mi accorgo di un fumo nerastro, che ondeggia tutt’intorno; guardo Chiara negli occhi, ma quel candido viso segnato da strisce di lacrime opaline non tralascia alcuna spiegazione. A passi piccoli, cadenzati dal mistero, mi porto vicino a quello che ora sembra ricordarmi la vecchia cisterna chiamata “Trozza”, e incredulo scorgo pagine di libri avvitarsi tra le fiamme, sgretolarsi sotto il peso del vento, tormentarsi in quell’avvilupparsi di lingue di fuoco. Una calda cenere biancastra svolazza tutt’intorno, sulle mie labbra e sui miei occhi arrossati sento posarsi il peso di una storia oramai cominciata.

Raccolgo frammenti di pagine per la maggior parte bianchi. Non riesco a capire il senso di tutto ciò, il motivo per cui qualcuno abbia dovuto fare un falò di vecchie pagine bianche in mezzo a una piazza e tanto meno la ragione per cui Chiara mi abbia portato qui.

«Ti avevo detto di lasciar perdere» – scoppia in un pianto interrotto da bruschi singhiozzi. «Ma cosa? Chiara perché piangi? Non crederai che questo fuoco, appiccato sicuramente da qualche pazzo, sia collegato alla storia di quella biblioteca?». E mentre cerco di calmare mia sorella, un frammento venato da strisce d’inchiostro nero si posa sul mio braccio, lo afferro e tento di interpretare quelle quattro parole scritte in un’indecifrabile calligrafia. La vista mi si annebbia, comincio a tremare, mi guardo intorno per convincermi che si tratta solo di un brutto sogno. Davanti ai miei piedi si posa un altro pezzo di carta bruciacchiato e incredibilmente anche quello riporta la stessa frase ma in un’altra calligrafia: “Arrivo. Ho abbandonato per sempre Milano” e ancora Arrivo. Ho abbandonato per sempre Roma”.

tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010

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2 Commenti a Il Mangialibri/ Incipit

  1. Ci sono tanti modi di ‘accatastare ordinatamente le parole per creare una storia’ e questo è sicuramente uno dei più stupefacenti che io abbia mai letto. Suspance, macchie d’inchiostro che si trasformano in rumori, odori, corpi. Un’emozione simile la devo forse al primo romanzo di Zafon.
    Miche Stursi non è da meno, sa come piegare le parole al mondo interiore e a quello esteriore rendendo a ognuno vita e bellezza.
    Non ci rimane altro da fare che aspettare di soddisfare la nostra curiosità di lettori alla prossima pubblicazione di Stursi su Spigolature!

  2. Non c’è emozione più grande, credo, di quella che, scomposta in mille sfaccettature, dalle pagine del tuo libro ritorna a te, dopo essersi riflessa nel prisma dell’animo dei tuoi lettori. Grazie Raffaella del bel commento.

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