Un libro e una mostra. I Bianchi di Manduria. Nuove luci sulle opere della Pinacoteca di Fulgenzio

Il 19 aprile scorso presso la Biblioteca R. Caracciolo, chiesa di S. Antonio a Fulgenzio (Lecce) è stato presentato il volume “I Bianchi di Manduria. Nuove luci sulle opere della Pinacoteca di Fulgenzio” (Edizioni Esperidi).

Hanno introdotto i lavori P. Tommaso Leopizzi (Ministro Provinciale), Mons. Adolfo Putignano (Arciprete di Monteroni) e sono intervenuti Giovanni Invitto (Preside di Facoltà, Dipartimento di Scienze della Formazione, Università del Salento), Giovanni Giangreco (Soprintendenza per i Beni Architettonici e paesaggistici di Lecce), Mons Adolfo Putignano . Modera, Cecilia Leucci (critico d’arte).

Lo stesso giorno è stata inaugurata la mostra curata da Giulio CaprioliI dipinti provenienti dal convento di San Francesco di Manduria: nuove prospettive” nella quale era possibile ammirare 15 tele, provenienti dal Convento di San Francesco di Manduria, realizzate dai Bianchi, pittori che, originari di Melpignano, operarono nella cittadina messapica nel XVI-XIX sec. La mostra è  visitabile fino al 31 maggio 2012.

Noncapiscol’artecontemporanea

umberto Boccioni, Dinamismo di un corpo umano (1913)

 

di Pier Paolo Tarsi

Il titolo dell’iniziativa prende spunto dalla dichiarazione del 2008 dell’ex Ministro della Cultura Sandro Bondi sull’arte contemporanea: “se visito una mostra faccio come molti, cioè fingo di capire. Ma sinceramente non capisco”.
Tale dichiarazione rivela quanto, soprattutto in Italia – paese dell’arte per eccellenza-, sia urgente una cultura dell’arte contemporanea.
“noncapiscol’artecontemporanea” si propone di avvicinare gli studenti liceali, e tutte le persone interessate, a questa specifica dimensione dell’arte.
Per avvicinarli in modo efficace, il progetto si propone di toccare temi sensibili e noti ai ragazzi: il social network Facebook, il design degli oggetti di consumo, le nuove tecnologie, la storia dell’arte.
L’arte contemporanea verrà presentata, pertanto, mettendola in relazione con questi temi, evitando così di trattarla come un’entità autoreferenziale (è così, del resto, interpretata dai suoi detrattori), per ottenere un risultato ancora più importante. Mettendo in relazione Facebook con l’arte contemporanea, ad esempio, gli studenti prenderanno maggiore consapevolezza non solo del’arte più recente, ma del social network che sta trasformando le loro vite.

Gli incontri:

– 3 maggio (14,30 — 17,30) sala conferenze ex Convitto Palmieri: MARCO PETRONI, teorico e critico del design. Direttore culturale Fondazione Plart, Napoli: “Design, merci o opere d’arte?”

– 9 maggio (14,30 — 17,30) sala conferenze ex Convitto Palmieri: TOMMASO ARIEMMA, docente di Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce; “Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook e l’arte contemporanea”.

– 18 maggio (14,30 — 17,30) sala conferenze ex Convitto Palmieri: LUIGI RATCLIF segretario Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani, Torino “L’Italia delle città creative: investire sull’innovazione artistica, investire sui giovani”.

– 24 maggio (14,30 — 17,30) sala conferenze ex Convitto Palmieri: ANNA PIRONTI, responsabile Dipartimento Educazione Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli; “Arte come esperienza”.

– 30 maggio (14,30 — 17,30) Liceo Scientifico “Banzi Bazoli”: ANNA MARIA LIFONSO, docente di Pedagogia e didattica dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce.: “Potevo farlo anch’io? Incontro-workshop sull’arte contemporanea”.

– 18 — 31 maggio: A.R.T.E. Critica della ragione artistica – Mostra di artisti emergenti in dialogo con l’arte contemporanea. Galleria Ex Convitto Palmieri.

L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde

di Armando Polito

Già altre volte ho avuto occasione di sottolineare che il dialetto non ha nulla da invidiare alla lingua comune nemmeno in termini di economicità e il titolo di questo post ne è un’ulteriore prova tant’è che per tradurlo in italiano sono stato costretto a ricorrere ad una circollocuzione.

L’ungulu è sinonimo di primavera avanzata e ai miei tempi le scampagnate tipiche di quel periodo trovavano la loro tappa obbligata nella sosta in qualche campo (generalmente altrui…, lo ammetto) coltivato a fave. Lì si compiva una sorta di rito magico in cui trovava soddisfazione l’antichissimo difetto della trasgressione (vuoi mettere il piacere del rischio dell’arrivo improvviso del proprietario e quello della successiva precipitosa fuga? Altro che il turismo di oggi che ha come meta una zona teoricamente pericolosa e che prevede il programmato ed incruento assalto dei predoni, per giunta a pagamento!) e la soddisfazione della fame che allora di per sé non mancava… Se poi si aveva la lungimiranza (in quel caso l’obiettivo era già stato da tempo individuato e l’invasione programmata) di portarsi appresso nna pezza ti casu, nnu piezzu ti pane e nnu fiascu ti mieru (una forma di formaggio, meglio se piccante, ma il massimo era e rimane la marsòtica, un pezzo di pane, quello fatto in casa e un fiasco di vino, quello fatto di uva…) la goduria era assicurata.

In quei momenti sarebbe stato assurdo pretendere che qualcuno di noi si chiedesse o chiedesse perché ciò che stava gustando avesse  quel nome, anche perché nessuno a quell’età, tanto meno oggi, si pone in situazioni del genere domande di quel tipo.

Sono passati tanti anni ma, se è cambiato tanto nella vita mia e dei miei coetanei, è cambiato poco, in concreto, nella soddisfazione, che allora nemmeno si immaginava, di certe curiosità etimologiche; nel senso che l’origine di ùngulu ancora oggi rimane incerta.

Il Rohlfs1 in forma dubitativa (sarà per via dell’accento?) propone il greco goggýlos=rotondo, riprendendo una precedente ipotesi del Ribezzo2. Irene Maria Malecore3 propone, sempre in forma dubitativa, il latino novùnculus=novellino.

Se sul piano fonetico le tre ipotesi mi appaiono plausibili,  è su quello semantico che manifestano qualche debolezza perché l’idea della rotondità è ben più spinta in altri frutti e ho altrettanta difficoltà a capire come mai proprio il nostro baccello sia diventato il simbolo del prodotto novello, anche se la specificazione nell’espressione fae ti ùnguli potrebbe far pensare proprio alla contrapposizione alle fave secche.

Comunque, siccome i miei illustri predecessori non sono giunti a conclusioni certe, anche un fesso come me si sente autorizzato a dire, sempre dubitativamente (per cui ci sarà tra poco il festival del condizionale…), la sua.

Parto dalla banale osservazione che il baccello della fava ricorda un artiglio o, pensando ad alcune eccentricità del nostro tempo, l’unghia esibita da alcune donne che evidentemente si sarebbero sentite naturalmente realizzate se fossero nate tigri. Unghia in latino è ùngula, di genere femminile, ma in Plauto (III-II secolo a. C.) è attestato anche un maschile ùngulus (in altri codici unguìculus) col significato di unghia del piede.4 Pure in Plinio (i secolo d. C.) compare un ùngulus col significato di anello ma con agganci etimologici, anche se piuttosto confusi,  al dito: “…risulta che primo fra tutti Tarquinio Prisco donò al figlio, che quand’era ancora fanciullo aveva ucciso il nemico, un globetto di oro; da qui continuò l’usanza che i figli di coloro che avevano prestato servizio militare a cavallo avessero questo riconoscimento, gli altri una collana di cuoio. E perciò mi meraviglio che che la statua di quel Tarquinio sia senza anello, sebbene vedo che ci sono dubbi sul nome: i Greci lo chiamarono dalle dita5, presso di noi gli antichi lo chiamarono ùngulo; poi e i Greci e i nostri lo chiamarono simbolo67. In Isidoro di Siviglia si legge: “Tra i tipi di anello ci sono l’ungulo, il samotracio , il Tinio. L’ungulo è fornito di gemma ed è chiamato con questo nome perché, come l’unghia aderisce alla carne così la gemma dell’anello all’oro”8.

Quest’ultimo autore, dunque, rappresenta col suo anello l’anello di congiunzione (potevo rinunciare a questo gioco di parole?…)   tra ùngula e ùngulum; ma basta questo per convalidare la mia ipotesi nata dalla semplice osservazione?

Non credo, anche perché, sempre riferendomi all’aspetto e restando, grosso modo, nell’ambito della stessa immagine, mi viene in mente che ùngulu potrebbe essere da un latino *ùnculus, diminutivo del classico uncus=uncino (ritorna puntuale, come si vede, l’immagine dell’unghia, dell’artiglio). Questa proposta bypasserebbe le imprecisioni del Ribezzo, il dubbio del Rohlfs e le perplessità nascenti dall’ipotesi della Malecore.

Conclusa, comunque, ingloriosamente la disamina etimologica, dopo aver ricordato il verbo derivato scungulàre=sbucciare i legumi (usato anche in senso metaforico per il cibo stracotto e per l’effetto di una prolungata esposizione al sole), passerò in rassegna ora alcuni elementi della cultura popolare in cui il nostro ùngulu da solo o insieme con la fava secca) è protagonista.

Siccome sono stanco (figurati!) lascerò parlare il gallipolino Emanuele Barba 9:

Lu tiempu passa e la fava se coce.

(toscano) Il tempo passa e porta via ogni cosa.

(latino) Fugit irreparabile tempus. (Virgilio)

 Fugit retro juventus et decor. (Orazio)

 

Fava, favazza te binchia e te sazzia.

 (trad.) La fava ti sazia e ti nutrisce.

(toscano) Viver parca,emte arricchisce la gente.

Son meglio le fave che durano, che i capponi che vengon meno.

È meglio il pan nero che dura, che il bianco che si finisce.

(latino) Potus cibique parcitas.

Bonae valetudinis quasi quaedam mater est frugalitas.                                                

 

Do’ facetole a nna botta (ovvero)

Do’ picciuni a nna fava.

 

O palora o scorza d’ungulu.

Dicesi per dinotare che una cosa promessa o parola data dev’essere ferma. Ed usasi per richiamare allo impegno preso chi minaccia di venir meno.

(latino) Promissio boni viri est observatio.

 

Vidire l’unguli fare fave.

Vedere i baccelli divenir fave.

Avere agio di vederne delle belle; ed anche può significare avere la opportunità di vedere il principio, lo sviluppo e la fine di una cosa o fatto.

 

Avendo ripreso fiato mi permetto di integrare con:

Ci chianta fae mangia unguli

Chi pianta fave mangia fave verdi. È l’integrazione del precedente; entrambi costituiscono quasi un inno alla moderazione e alla lungimiranza: bisognerà pur lasciare qualche baccello a seccare in modo da avere l’anno successivo fave da seminare, dalle quali avere, in una sorta di metafora della vita, unguli ma anche altre fave da seminare.

No vvae mai alla spizzaria ci mangia fae ti sera e dia.

Non va mai in spezieria (farmacia) chi mangia fame di sera e di giorno.

Ti santu Lionardu chianta la faa ca è ttardu.

Di san Leonardo (6 novembre) pianta la fava perché è tardi.

Mangia fae ca ti ntòstanu l’osse.

Mangia fave perché ti si rinforzano le ossa.

e di chiudere con un guizzo finale:

Puttana pi nna faa, puttana pi nn’ùngulu.

Il significato metaforico è chiaro: quando la situazione è compromessa, inutile fare sottili distinzioni. Il detto si adatta perfettamente alla morale attualmente dominante in politica: una volta che ci si è ritrovato a propria insaputa intestato un appartamento, perché non accettare il dono disinteressato di una crociera, di un viaggio in aereo, di un piatto di cozze…? Per farla completa: nel detto popolare non mi sentirei di escludere un doppio senso per fava (già ampiamente collaudato nella lingua nazionale) e per ùngulu che a buon diritto può essere considerato un simbolo fallico. Lo stesso si può fare, credo, per il primo proverbio citato dal Barba.

A conforto dell’incertezza etimologica che ancora mi brucia rimane il fatto che l’ùngulu è una gioia per le papillle gustative dei più, soprattutto se consumato, è sempre così, in allegra compagnia, accompagnato, per tornare da dove ero partito, dagli altri gioielli della dieta mediterranea: pane casereccio e vino. Buon appetito!

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1 Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo editore, Galatina, 1976, v. II, pag. 787.

2 Rivista indo-greco-italica di filologia, lingua, antichità, Napoli, v. 14, 1930, pag. 108: il salentino ùngulu=baccello di fava accenna per lo meno a un in conchula…si tratterà dunque, tutt’al più, di greco kogchyle, influenzato per il k in g velare dopo n da greco gòggylos. 

Non c’era bisogno di mettere in campo un in conchula=nella conchiglia; sarebbe bastato il solo conchula tenendo presente che vongola è dal latino cònchula e che, quindi, il passaggio c->v– non è un’anomalia inspiegabile e che a conchula si sarebbero potuto collegare direttamente le varianti vùngulu e vùgnulu di ùngulu. Infine, per la precisione, in greco non è gòggylos ma goggýlos.

3  Proverbi francavillesi, Olschki, 1974, pag. 87. Novùnculus in latino non è attestato, per cui sarebbe stato opportuno far precedere tale voce ricostruita da un asterisco. Oltretutto il passaggio ad ùngulu avrebbe comportato una prima aferesi (vùnculu) e poi la lenizione di v- (che, tuttavia, rimane in alcune varianti: vùngulu, vùgnulu).

4 Epidichus, 623: usque ab ungulo ad capillum (dall’unghia del piede fino ai capelli).

5 Daktýlios o daktýliov, diminutivo di dàktylos=dito. Dattilo è il nome di un piede della metrica classica, formato da una sillaba lunga e da due brevi, proprio come, nel dito,  la sequenza di falange, falangina e falangetta.

6 Sýmbolon, da sumbàllo=mettere insieme.

7 Naturalis historia, XXXIII, 4: …a Prisco Tarquinio omnium primo filium, quum in praetextae annis occidisset hostem, bulla aurea donatum constat: unde mos bullae duravit ut eorum qui equo meruissent filii, insigne id haberent, ceteri lorum. Et ideo miror Tarquinii eius statuam sine anulo esse. Quamquam et de nomine ipso ambigi video: Graeci a digitis appellavere, apud nos prisci ungulum vocabant; postea et Graeci et nostri symbolum.

8 Etymologiae, XIX, 32, 5: Inter genera anulorum sunt ungulus, Samothracius, Thynius. Ungulus est gemmatus, vocatusque hoc nomine quia, sicut ungula carni, ita gemma anuli auro adcingitur.

9 Proverbi e motti del dialetto gallipolino raccolti ed illustrati, G. Stefanelli, Gallipoli, 1902, passim.

Idrusa ritrovata

 

di Giuliana Coppola

 

“Guarda Idrusa

il filo a volte s’intreccia con armonia

leggero

succede a volte

raramente…”.

Leggero, con la leggerezza che le è propria, Wilma m’ha ridonato il volto di Idrusa; ridonato perché l’avevo persa Idrusa, anzi pensavo d’averla perduta ma lei è ritornata quando meno me l’aspettavo con la forza dei versi di un cantico che le appartiene per sempre ed ora è come se fosse stato ieri il tutto. Così il tempo, anche il tempo passato, diventa leggero

…“A volte il filo fa i nodi ed il groviglio

sembra inestricabile e confuso.

Come nella vita”.

Ecco, il groviglio della vita ha fatto incontrare me, Wilma, Maria Corti, Idrusa, Otranto, la sua storia, il suo mare, i suoi silenzi.

Ora tutto ritorna, grazie a questo Sulle orme di Idrusa che rivede la luce; ed è storia lieve come giglio “che dondola nell’aria” giglio bianco “con un lungo stelo grasso” a trattenerlo; questo ho pensato, sussurrando i versi scritti da Wilma; li ho sussurrati tra me e me, quasi una fiaba dolce che si ripete a se stessi, perché scivoli nell’animo, lasci il segno, ma non si sciupi. E d’un tratto anche questo ho pensato, anzi ho provato; ho provato e provo il timore che io possa turbare, sia pur solo leggendo e parlandone e scrivendone, l’armonia del suo andare; possa farle del male, sfiorandola. Sensazione strana, ma mi succede, a volte, con una storia che ho tra le mani e mi diventa così cara che a mia volta ne divento gelosa, gelosa della sua purezza.

Chissà se riesco a far comprendere il mio pensiero; ma è come se, leggendo i versi di Wilma, si segua davvero, orma su orma, il destino di Idrusa,

Libri/ Vittorio Bodini e Leonardo Sciascia

 

“SUD COME EUROPA. CARTEGGIO (1954-1960)”

PRESENTAZIONE IL 30 APRILE A PORTO CESAREO (LECCE)

 

 

Verrà presentato lunedì 30 aprile 2012 alle ore 18 all’Isola Lo Scoglio a Porto Cesareo (Lecce) il volume “Sud come Europa. Carteggio (1954-1960)” (Besa editrice, Nardò 2012), di Vittorio Bodini e Leonardo Sciascia e a cura Fabio Moliterni.

Assieme al curatore Fabio Moliterni, ricercatore di Letteratura italiana contemporanea all’Università del Salento, dialogheranno il professor Antonio Lucio Giannone dell’Università del Salento e Cosimo Durante, Presidente del Gal Terra d’Arneo. A coordinare gli interventi Enzo Pascal Pezzuto, regista del documentario Vino amaro. Tra gli ospiti Valentina Bodini, figlia del poeta.

> Il libro

I percorsi intellettuali di Vittorio Bodini e Leonardo Sciascia occupano un posto di primo piano nella storia della cultura (non solo meridionale) del Novecento. Quello che emerge dal loro carteggio è l’affascinante profilo di due

Retrospettiva di Enzo Sozzo (L’amore per la mia terra)

di Paolo Vincenti

Molti leccesi posseggono, nella propria casa, un quadro di  Enzo Sozzo, il formidabile “pittore delle carrozzelle” come era generalmente conosciuto, il quale ha saputo dare alla Lecce di un tempo che fu un eterno vivere,  grazie ai variegati colori trasfusi sulle sue tele, che ci rendono, con tocco di lieve poesia, tutta intera, la pervasa malinconia che doveva stendersi sui balconi e sui palazzi, sulle vie e viuzze del centro storico, sulle facciate delle chiese e sui giardini, sulle volute barocche, su grondaie, cornicioni, fregi e merletti della Lecce perduta.

Si è aperta da qualche giorno, presso la Galleria“Eugenio Maccagnani”  di Lecce, la Retrospettiva di Enzo Sozzo (L’amore per la mia terra), voluta e curata dal figlio Carlo Sozzo, pittore anch’egli e principale collaboratore del padre fino all’ultimo.

Con i suoi scintillii di luce, la mano ferma e le vibrazioni dei suoi colori, Sozzo rappresenta, nelle sue tele, la propria visione elegiaca di una Lecce, metafora del Sud, con l’immobilità dei suoi palazzi e delle sue piazze, nel  tramonto infuocato dell’estate come nei freddi meriggi invernali, e ancora ci presenta, nella policromia delle sue creazioni, gli ulivi e le casette della campagna salentina, la terra rossa battuta dai contadini, e l’azzurro e il blu delle nostre marine, con il loro sale e il loro sole.

E ancora, le rocce aspre e dure della costa salentina, accanto ai muretti e alle lamie di un  paesaggio ancora incontaminato, pressoché  incorrotto,  quasi

Note sulla chiesa e sul tesoro di S. Caterina d’Alessandria in Galatina

di Domenica Specchia

Galatina custodisce uno degli edifici storico – monumentali più importanti di Puglia: la Pontificia Basilica Minore di S. Caterina d’Alessandria.

La storia di questa chiesa è legata alla famiglia dei del Balzo Orsini e, precisamente, ad Ugo del Balzo d’Orange che, arrivato nel Salento, al seguito del re Carlo I d’Angiò, per i servigi resi alla corona angioina, ricevette da questi, in dono, la contea di Soleto con l’annesso casalis Sancti Petri in Galatina. Alla sua morte tale contea, con il feudo galatinese, fu ereditata dal figlio Raimondo del Balzo che si prodigò di cingere delle prime mura (1350 ca) il territorio galatinese. Nel 1375, alla morte di Raimondo, la contea di Soleto ed il casalis Sancti Petri in Galatina, furono ereditati per volontà testamentaria, dal nipote Raimondello, si presume secondogenito della sorella, moglie di Nicolò Orsini, conte di Nola. Ma, questi non rispettando le ultime disposizioni del de cuis assegnò l’amministrazione del territorio al primogenito Roberto. Raimondello, non condividendo la decisione paterna, decise di allontanarsi dalla sua terra per andare in Oriente a combattere in difesa del Santo Sepolcro. Durante il periodo di permanenza nella Terra Santa, tra l’altro, Raimondello visitò il monastero del monte Sinai che custodiva il corpo di S. Caterina d’Alessandria.

A tal proposito la leggenda narra che Raimondello, prima di tornare nella sua terra, rimase per tre giorni e per tre notti – in veste di penitente – dinanzi al corpo della Santa e, poi, l’ultimo giorno, prima di ripartire, le strappò con i denti il dito con l’anello – simbolo dello sposalizio di S.Caterina con Gesù Cristo – lo nascose sull’orecchio, tra i capelli, e lo portò con sé, facendolo, in seguito, custodire in prezioso reliquiario d’argento. Tornato nel Salento  ed in possesso delle proprie terre, Raimondello, ormai conte di Soleto e signore di Galatina, decise di costruire in terra galatinese questa chiesa, con l’annesso convento.

I lavori iniziati tra il 1383 ed il 1385 furono ultimati nel 1391, periodo durante il quale, peraltro, Raimondello convolando a nozze, nel 1385, con Maria d’Enghien, divenne anche conte di Lecce.

Ben poco sappiamo dell’originario impianto della struttura religiosa; infatti, l’iscrizione greca sull’architrave del portale minore destro e la presenza dell’abside semicircolare nella navatella destra hanno suscitato non poche perplessità in alcuni studiosi che hanno ipotizzato, più che la costruzione ab imis ed ex novo del tempio, la riorganizzazione di uno spazio preesistente condizionante l’asimmetria della pianta e l’icnografia dei due ambulacri.

Non confutando alcuna tesi ma, mutuando  le opinioni espresse da non pochi studiosi riteniamo che, fin dalla prima redazione, l’edificio doveva avere una pianta a sistema centrale (croce greca) che, nel tempo, fu trasformata in sistema longitudinale (croce latina commissa) . In seguito, l’ampliamento della struttura sacra fu caratterizzato dalle tre navate e dai due ambulacri e, in epoca rinascimentale, dalla costruzione del coro ottagonale, poiché Giovanni Antonio, figlio di Raimondello e Maria d’Enghien,

la navata maggiore di S. Cataerina in Galatina, disegno colorato di Cavoti

 

Questo tempio, in stile romanico – gotico, è uno degli edifici che esprime la versatilità con cui l’arte è riuscita a conciliare esperienze artistiche diverse. Il carattere composito dell’architettura in cui si associano, con felice ibridismo, motivi orientali ed occidentali, si sintetizza sulle pagine murarie esterne ed interne, sui nodi strutturali, sulle pareti che, come schermi, rendono immagini coinvolgenti il fruitore nella dimensione spazio – temporale della visione storico – biblico – teologica rappresentata. Per la religiosità dell’impianto, movente principale del ritmo delle membrature architettoniche, dei significativi complementi plastico – figurativi e della palpitante decorazione interna, la sacra costruzione è una forma di verità che arricchisce lo spirito della collettività galatinese identificantesi in essa.

Il conte Raimondello non si contentò di costruire la chiesa dedicandola alla Vergine sinaitica perché “all’incontro vi erano non pochi altri latini, che la greca lingua ignoravano” ma, la dotò, si presume, anche di parte dell’odierno arredo sacro e di reliquie di martiri e santi.  Dei sacri resti che Raimondello portò dall’Oriente parlano ripetutamente i documenti e la letteratura locale ma, è indiscutibile, che le testimonianze soccorrono relativamente in tal senso mentre, gli scritti degli studiosi risultano più incentrati sulla descrizione delle vicende storiche, politiche, sociali ed estetiche della basilica cateriniana che sulla valenza storico – religiosa ed artistica del suo tesoro.

Da quanto è dato intendere la testimonianza più completa rimane la  Nota delle Reliquie che, nel 1536, p. Pasquale da Presicce compilò; inventario che, dopo il 1597, fu ricopiato ed aggiornato dai Padri Riformati. La testimonianza di p. Pasquale da Presicce è fondamentale per comprendere che il tesoro della chiesa di S. Caterina era cospicuo; oggi, invece, è il ricordo del tesoro, più che il tesoro stesso, a sopravvivere. Infatti, perdite, ruberie, trafugamenti, manomissioni sembrano aver ridotto il tesoro basilicale ad un numero esiguo di manufatti. Il Superiore parroco p. Berardo Antico, dell’Ordine dei Frati Minori Francescani, compilò, nel 1982, l’inventario del tesoro cateriniano, descrivendo la consistenza anche relativamente ai sacri resti dei quali, a tutt’oggi, ventidue presentano il sigillo in ceralacca e sono corredati da lettera di autentica degli Arcivescovi di Otranto, Mons. Carmelo Patanè e Mons. Cornelio Sebastiano Cuccarollo, attestanti il tipo di reliquia e il materiale della teca che li custodisce; mentre, gli altri sono conservati in semplici teche, in due reliquiari d’argento ed in una croce reliquiario.

Nonostante la frammentarietà delle notizie e l’obiettiva difficoltà di cogliere un continum tra memorie passate ed annotazioni recenti, si vuole ribadire che, tutti i fatti occorsi nel Casalis sancti Petri in Galatina, tra Medioevo e Rinascimento, risalgono all’iniziativa della famiglia dei del Balzo Orsini, il cui programma foriero di interessi ed emulato dai successori, si completò anche con la donazione di argenti preziosi, di tavole finemente mosaicate e dipinte, di opere pregevoli[1].

Numerose reliquie, alcune icone e diversi oggetti d’arte, custoditi ancora oggi nel museo della basilica cateriniana costituiscono sicuramente “il nucleo, forse più antico” del tesoro della chiesa galatinese.

Prima di Raimondello del Balzo Orsini, non si hanno notizie del tesoro cateriniano; presumibilmente, quindi, chi provvide a dotare la chiesa di manufatti con i quali si magnificava il culto eucaristico rispecchiando lo sfarzo della corte regnante, fu l’Orsini, uomo di grande valore e mecenate di singolare intuito. Ai suoi talenti giovarono i legami con i papi Urbano VI Prignano e Bonifacio IX Tomacelli; con i re Luigi I e Luigi II d’Angiò e Ladislao di Durazzo, con il despota di Morea e con l’imperatore Paleologo. Da questi ultimi, Raimondello ricevette in dono numerose reliquie che si preoccupò di custodire  in preziosi reliquiari per donarli, come donò, al votivo monumento da lui edificato.

tesoro della chiesa di S. Caterina in Galatina (ph O. Ferriero)

 

La relatio tra donazione delle  reliquie e committenza dei reliquiari induce ad ulteriori precisazioni: diversi reliquiari furono portati direttamente dall’Oriente, poichè l’asporto di reliquie dai Luoghi Santi, complete di custodie, fu carattere distintivo del Medioevo. Si annoverano tra queste ultime la Croce reliquiario, non tanto per la valenza artistica, quanto per quella religiosa e sociale perché, come riportato dal compilatore della Nota delle Reliquie essa era “piena di reliquie di tutti i luoghi di Gerusalemme” ed il Cofanetto, che custodiva, in origine, diversi sacri resti di martiri e santi, simile per sagoma a quello, in avorio e bronzo, del tesoro della cattedrale di Troia ed a quello della chiesa conventuale di S. Maria di Zara, in Dalmazia.

E’ da aggiungere che risulta estremamente difficile, se non impossibile, per mancanza di documentazione storica probante, individuare, in maniera semiologica, tutte le peculiarità del tesoro cateriniano; tuttavia, connotazioni specifiche presenti su alcuni manufatti inducono ad ipotizzare che i magistri operarono in stretto rapporto con i committenti anche perché l’attività orafa della cerchia del principe, in genere, è da inquadrarsi nel vasto repertorio della committenza cortese.

Il tesoro, un tempo custodito nella lipsanoteca della basilica, allogata in sagrestia, dal 22 dicembre 2003,  è stato esposto nell’ex – refettorio del convento trecentesco, l’unico ambiente preservato dalla distruzione dai frati Riformati (1597) quando, nel 1657, questi decisero di abbattere la deteriorata casa religiosa propter sui vetustatem, proximamque ruinam minantem, per costruire una dimora più grande.

In questa grande aula rettangolare, caratterizzata dall’affresco dell’Ultima Cena, dipinto sulla porta d’ingresso al salone e da quello delle Nozze di Cana che lo fronteggia, dalla volta decorata con motivi geometrici, in nero su bianco, e dal fregio pittorico con motivi antropomorfi, zoomorfi e fitomorfi, sono stati esposti i numerosi manufatti, in appositi contenitori.

Realizzati in materiali preziosi oro, argento, argento dorato, pietre preziose, oppure semplicemente ricavati da materiali poveri come il legno, questi prodotti sapientemente sbalzati, cesellati, incisi, rappresentano la fede di coloro che, operando in tal senso, contribuirono alla formazione delle coscienze religiose.

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°3.

[13] Nel tesoro di S. Caterina in Galatina si annoverano i seguenti reliquiari: del dito di S. Caterina, della mammella di S. Agata, del braccio di S. Petronilla, della costola di S. Biagio, delle dita di San Giovanni Crisostomo, del dito di San Pantaleone, della pelle di San Bartolomeo, di un osso di San Bonaventura, di un osso di San Cristoforo, del dente di Sant’Apollonia, dei denti di San Donato e S. Lucia e dei resti di San Lorenzo, S. Stefano, San Lino, S. Onorato, S. Cecilia, S. Onorato, di S. Anfrea e  di un frammento della colonna della flagellazione di Gesù Cristo, di una spina della corona di Gesù Cristo e di altri martiri. Inoltre sono custoditi: il micromosaico del Cristo Pantocratore, il rilievo della Vergine col Bambino, l’icona della Vergine Gljkophilousa, il calice e la pace donati anche da Raimondello e l’ostensorio del XV secolo donato da Giovanni Antonio del Balzo Orsini, la croce reliquiario ed il cofanetto. Per una descrizione dei reliquiari e delle opere si veda: D. Specchia, Il tesoro. Problematiche storiche religiose artistiche, Galatina 2001.

Pezza Petrosa e il fascino di una vexata quaestio: “Della patria di Quinto Ennio"

Quinto Ennio

 Si è tenuta il 20 aprile scorso a Villa Castelli, in una sala consiliare affollata e particolarmente interessata, la presentazione del volume di Pietro Scialpi: “Il Parco Archeologico di Pezza Petrosa a Villa Castelli” (Edizioni Pugliesi, Martina Franca 2011).

La manifestazione, organizzata dall’Assessorato  alle Politiche Culturali – Ufficio Cultura e Turismo, in collaborazione con la Pro Loco di Villa Castelli, con l’Archeoclub di Bari e il Touring Club Italiano – Corpo Consolare della Puglia,  è stata preceduta  da una visita guidata a Visita al Parco Archeologico di Pezza Petrosa e al locale Museo Civico che accoglie numerosissimi reperti del sito archeologico.

Dopo i saluti del sindaco Francesco Nigro e dell’assessore Rocco Alò e alla presenza dell’Autore, il prof.  Rosario Quaranta, della Sezione tarantina  della Società di Storia Patria, ha tenuto una relazione che qui, in parte, si riporta.

  

“PEZZA PETROSA”: L’ANTICA CITTÀ SENZA NOME TRA GROTTAGLIE E VILLA CASTELLI

 

di Rosario Quaranta

 

La Rudia Tarentina, segnata nei pressi di Grottaglie, in una carta dell’Ortelio del 1601

“Lungo la strada che da Villa Castelli porta a Grottaglie in contrada “Pezza Petrosa” riposa, ancora chiusa nel mistero archeologico, una vasta e ricca zona di ruderi che, per alcuni studiosi sarebbero i resti di RUDIA TARANTINA, patria del poeta latino Quinto Ennio. La zona, disseminata di ruderi, tombe e di frammenti ceramici, con resti di mura ciclopiche e di una

Libri/ Sulle orme di Idrusa

Protagonista del racconto di Wilma è Idrusa, personaggio di donna otrantina creata da Maria Corti e trasfigurata dalla storia nel mito.

Quella raccontata da Wilma è quasi un’epopea e Idrusa ha la potenza di un’eroina della classicità: è senza età, non è soggetta alle categorie del tempo e dello spazio, incarna l’archetipo di donna proviene dal passato e si proietta indomita nel futuro.

Idrusa ci riporta alla mente il ricordo di donne eccezionali, dotate di una straordinaria e inquietante personalità che si esterna nei rapporti interpersonali o che emerge a livello della coscienza individuale. Idrusa ha la stessa forza di Didone innamorata, che per amore mette in discussione il suo

25 Aprile. Il contributo dei Salentini alla liberazione dell’Italia dal Nazifascismo

 

di Maurizio Nocera*

Ricorre quest’anno il 64° anniversario della promulgazione della Carta Costituzionale, entrata in vigore l’1 gennaio 1948. Si tratta di una data storica per il popolo italiano, che ancora una volta si vede costretto a dover lottare per difenderla da chi la vorrebbe stravolger  e deturpare. Per avere un’idea del periodo incredibile che stiamo vivendo, si pensi, ad esempio, all’ultima assurda proposta di un disegno di legge da parte di cinque dissennati parlamentari del partito di Berlusconi, che avrebbero voluto depennare la XII norma finale della Costituzione, che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista.

C’è chi crede che basti rivedere e cambiare qualche titolo ad un libro di storia oppure raccontare una favola in più nel tanto chiassoso, fastidioso, retorico e continuo apparire in pubblico, per stravolgere il significato di eventi storici così grandi e così alti nella coscienza civile degli italiani. Coloro che intendono stravolgere i significati profondi della nostra storia e i principi sacrosanti della Carta fondamentale dello Stato si sbagliano, perché la lotta di Liberazione e la Resistenza partigiana, condotte  con spirito di abnegazione da centinaia di migliaia di uomini e donne in ogni parte d’Italia, a volte fino all’olocausto della propria vita, sono tuttora valide,

Quell’antico elisir di malvarosa

LETTERATURA GASTRONOMICA

LIQUORE DI MALVAROSA

 

Un elisir dal gusto favoloso che inebriandoti la mente ricorda i misteriosi sapori orientali dei filtri magici

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Dall’alto delle scale esplode la voce di “Zia Assuntina” e, prima ancora di vederne la delicata figura, ne avvertiamo il profumo: un aroma sottile di erbe e di fiori che si porta dietro e che la fascia, come un mistero di altri tempi e di altri luoghi. Poi ne scopriamo il volto, chino sul nostro salire, e, insieme al suo, s’illumina quello di “zia Maria”, che sgrana sorrisi e ammicca divertita, come se tra noi e lei corresse il filo di una cospirazione.

L’invito scocca sempre ai primi freddi, quando gli ultimi venti autunnali hanno già denudato gli alberi e la poesia dei camini accesi è ancora tutta da scoprire. Nell’ampio salotto ci troviamo fra due fuochi: quello del camino che borbotta nel cavo del primo ceppo e quello di Anna, la nipote numero uno delle padrone di casa, che fa scoppiettare la sua giovinezza e semina parole come manciate di coriandoli.

Siamo tutti un gruppo di amici e quando scatta  la fatidica frase “Prendiamo qualcosa?”, tutti in coro affermiamo: Sì, un po’ di “zia Assuntina”. Ovviamente tutti sappiamo che si tratta del liquore di malvarosa che la signorina Assuntina, maestra nell’elaborazione di antiche e complicate ricette, prepara da anni con impeccabile bravura. E’ un liquore dal gusto favoloso che inebriandoti la mente ricorda i misteriosi sapori orientali dei filtri magici. Un elisir che ha creato intorno a “zia Assuntina” un alone di leggenda, tanto che gli amici più che chiamarlo “Liquore di malvarosa” amano identificarlo con il nome della sua fautrice.

ph Nino Pensabene

Non è stato facile conoscerne la ricetta, e se ora la passiamo ai lettori dell’Apollo buongustaio, lo dobbiamo alla nipote Anna che, alternativamente angelo e demone, ha ben saputo usare le sue armi per ottenerla.

Si mettono in fusione, in mezzo litro di alcool, sei foglie di malvarosa, le pagliuzze di tre steli di menta e la buccia sottile di un limone, lasciando a macero per ventiquattro ore. A parte si prepara uno sciroppo, facendo bollire in mezzo litro d’acqua mezzo chilo di zucchero e, quando è freddato, si unisce all’infuso già filtrato. Dopo due, tre giorni si torna a filtrare e si aspetta che invecchi maturando l’aroma.

 

ph Nino Pensabene
ph Nino Pensabene

Da “L’APOLLO BONGUSTAIO”, ALMANACCO GASTRONOMICO PER L’ANNO 1973, a cura di Mario Dell’Arco (Dell’Arco Editore in Roma), pag. 69

Leccesi, c’era una volta / Pasqualino torna dalla Svizzera. 7a ed ultima parte.

 

di Alfredo Romano

PREMESSA

   Dalla stazione di Lecce partivano a frotte gli emigranti negli anni ‘50 e ‘60, tutte le sere: Francia, Germania, Svizzera, Belgio. Il mio paese si spopolava, di giovani soprattutto. Le ragazze da marito restavano ad aspettare. A volte invano. Ne ho viste di donne bionde portate al paese.
   Taluni si facevano valere all’estero. Tal’altri erano meno fortunati. Ma guai a tornare senza i segni di una raggiunta fortuna. Nessuno ti avrebbe perdonato quell’essere andato via per niente.
   C’è un certo Pasqualino che torna al paese con una stangona di donna svizzera e una macchina da fare invidia. Lui fa l’americano. Offre da bere a tutti, ostenta mazzi di banconote, dice che in Svizzera se la spassa, parla perfino in italiano (almeno lui crede). Ma poi alla fine basta un po’ di vino e Pasqualino tira fuori la sua verità.


IL VIDEO:
Premessa di Mina Fabiani al monologo di Alfredo sull’emigrazione italiana all’estero. Segue ballo di pizzica tarantata; Alfredo canta “La ballata dell’emigrazione” di Alberto D’Amico e le strofe di Carnevale del cantastorie Peppinu Camisa di Galatone. Con la partecipazione di Giuseppe Maniglio alla chitarra
.


LU PASCALINU TORNA TE LA SVIZZERA
[trascrizione fonetica]

    “′Mmaculata, ′Mmaculata! fuci, fuci ca è rriatu tela Svizzera lu Pascalinu te le Petruse. È benutu cu ‘Nna machina crossa crossa! Cce stae beddhu benetica?! Tene ‘na facce janca e rrussa, s’have crisciutu puru la barba, tene certi capiddhi

Libri/ Ho provato a non somigliarti, a Poggiardo

“I Caffè della Cultura” giovedì 26 aprile ore 19.00

Sala conferenze del Palazzo della Cultura di Poggiardo

 

Sarà Pierluigi Mele, poeta, autore e regista teatrale tra i più apprezzati, con l’antologia poetica “Ho provato a non somigliarti” (Lupo Editore) il protagonista del nuovo appuntamento de “I Caffè della Cultura” in programma giovedì 26 aprile alle ore 19.00 nella sala conferenze del Palazzo della Cultura

Taranto, Il Miracolo e i lodevoli meriti di Edoardo Winspeare

di Rocco Boccadamo

C’era, un tempo, Taranto:  dei vigneti a tendone, dell’Arsenale, dei marinai e
dei mitili.

A distanza di diversi anni dall’uscita, ho recentemente avuto modo di rivedere il film  “Il miracolo”del regista salentino Edoardo Winspeare, opera a suo
tempo presentata anche alla Mostra di Venezia: è stato un piacere, ancora più
intenso della prima volta, tanto che, quasi, ora mi viene idealmente di
suggerire a tutti i pugliesi e agli italiani in genere di visionare la
pellicola.

Analogamente a quanto si verifica in altri contesti geografici, anche da
queste parti  si svolgono da tempo campagne promozionali volte a sollecitare e orientare i consumi di ogni giorno preferibilmente verso prodotti locali: ciò,
si sottolinea, per favorire lo sviluppo delle aziende della zona e per
assecondare, di conseguenza, la creazione di nuovi posti di lavoro.
Personalmente, condivido la giustezza dell’obiettivo di fondo cui tali
iniziative sono ispirate.

Ebbene, col suo lavoro citato all’inizio, Winspeare – pur non essendo nato e
non vivendo a Taranto – ha svolto, a titolo meramente gratuito, un ruolo di
grande ed efficace testimonial, sia della Puglia, sia, in particolare, del
capoluogo ionico in cui, appunto, è ambientato “Il Miracolo”.

Taranto, fra i grandi centri, costituisce forse, dal punto di vista socio-
ambientale, la più controversa realtà – pressappoco alla pari con Brindisi –
della Regione. Il suo tessuto industriale, incentrato soprattutto su grandi
insediamenti, è andato via via trasformandosi, da autentico Eldorado quale lo
si configurava al momento della ideazione e della realizzazione, in una
gravissima spina nel fianco della città e dell’area circostante, un handicap
preoccupante e pesante; tra i fattori di rischio attribuitile, l’altissimo
indice di inquinamento chiaramente nocivo alla salute, elevati livelli di
talune patologie, specie di natura oncologica.

le Colonne Doriche di Taranto

Ne “Il Miracolo”, nonostante queste deleterie presenze che, del resto, trovano più volte spazio visivo nella sequenza delle scene, Winspeare riesce a
presentare la città in una luce, tanto bella quanto innocente, che le spetta a
buon diritto, in virtù delle sue remote origini e della sua storia: mare, anzi
– nella fattispecie – mari, dai colori intensi, tramonti mirabili e fantastici,
il vecchio borgo che pare infondere una spontanea naturale confidenza e,
insieme, riproporre vecchie e sane abitudini. Alla fine, si ha l’impressione
che le piacevoli inquadrature riescano a prevalere sulle pur diffuse situazioni
di degrado e di saccheggio urbanistico del territorio. Il porto turistico,
finanche le gru dei vecchi e ormai «in pensione» cantieri navali, l’isola di S.
Pietro sullo sfondo in Mar Grande, formano anch’essi immagini che contengono qualcosa di poetico.

Insomma, un ventaglio di bellezze riscoperte, un po’ quasi a volerle far
rivivere.

L’opera di E. Winspeare si può in sostanza configurare come un’autentica
attrazione e un piccolo gesto d’amore verso il capoluogo ionico e dunque, al di là del successo di botteghino e dei responsi della critica piovuti sul film, a
mio avviso gli amministratori della città dovrebbero essere molto grati al
giovane regista, non escludendo, ad esempio, di valutare l’opportunità di
conferirgli la cittadinanza onoraria.

Si pensi alla notevole eco ed agli spunti che le immagini di Taranto, a tutto
campo e a tutta durata nel corso della pellicola, hanno suscitato, suscitano e
susciteranno ai fini del turismo: d’altronde, qui non mancano le belle spiagge
e il mare pulito, soprattutto lungo la falce del litorale ionico che si
protende verso Porto Cesareo e gli altri lidi della penisola salentina.

Nello snodarsi della trama della pellicola, a parte le bellissime immagini
anzi ricordate, è anche dato di riscontrare una serie di semplici ma importanti
modelli e valori. Intanto, piace l’impianto del nucleo familiare, dal cognome
molto tarantino di “Solito”, intorno al quale ruota la vicenda: il padre, che –
sebbene combattuto da contraddizioni e difficoltà – non cessa di darsi da fare,
arrivando, addirittura, a volare alto e a riscattarsi attraverso un
comportamento positivo come si può definire – specie di questi tempi – la
rinuncia a grossi facili guadagni (intervista televisiva al figlio); la madre,
sempre equilibrata e paziente, ma non rinunciataria, come è di solito la gente
del meridione. Assai gradevole il fiorire, sulle loro labbra, di una bella
inflessione e di accenni dialettali: un modo di esprimersi apparentemente ormai desueto, ma, invece, tuttora così pregno di significato.

La figura del giovanissimo figlio, il vero protagonista del film, costituisce,
da sola, tutto un programma e non abbisogna di ulteriori commenti.  Accanto a questo ragazzino dalle incerte doti miracolose, risalta il ruolo del compagno
di classe, paffutello estroverso e simpatico: tale ultimo interprete offre,
anzi, un’immagine di alto rilievo morale, che si estrinseca materialmente con
la continua vicinanza e l’assistenza al nonno ammalato.

L’anziano personaggio versa, purtroppo, in seri problemi di salute, è
costretto ad affrontare un male che lo ha preso dentro e che probabilmente
risale agli anni di lavoro in ambienti non salutari. Egli non ritrae – e come
potrebbe – vantaggi concreti dalla vicinanza del nipote e dell’amico, ma, ad
ogni modo, ne ricava grande giovamento sul piano dello spirito, come dimostra il fatto che riprende ad uscire fra la sua gente della città vecchia, a
passeggiare per le sue strade. Alla fine, chiuderà gli occhi per sempre con
serenità, in un ambiente familiare e accanto a persone care.

Risulta molto indicativa la stessa dedica finale del regista: a mio padre e a
S. Cataldo (protettore di Taranto).

Se è permesso, un sincero “bravo” a  E. Winspeare e complimenti per quello
che, mediante il suo talento e la sua originalità artistica, si sforza di fare
a beneficio dell’immagine di questa terra.

L’acqua di cottura, sciòtta per i salentini

di Armando Polito

* Ázzaminde la sciòtta…ti lu post tua, no tti Spigolature salentine! (Conservamene il brodo…del tuo post, non di Spigolature salentine!)

L’acqua in cui si è cotta la pasta, la verdura, i legumi ma anche quella dell’antica acqua e ssale 1 e estensivamente il brodo poco concentrato è la salentina sciòtta e sciuttulòsa è qualsiasi pietanza in cui la parte liquida è presente più del solito. La voce è dal latino tardo jutta e, piccola rettifica,  non (com’è scritto nel vocabolario  del Rohlfs) da jotta.

Ecco come il lemma relativo è trattato nel Glossarium mediae et infimae

“Il principio dei lavori virtuali” e altre tecniche di innamoramento scientifico

Johann Heinrich Füssli (1741 – 1825) “Eufrosine con la Fantasia e la Temperanza” 1799-1800 (Kurpfälzisches Museum di Heidelberg).

di Raffaella Verdesca

Una buona parte degli studenti italiani, sia moderni che di generazioni passate, sembra non nutrire particolare simpatia per le materie scientifiche. Di questa irriducibile schiera ho fatto parte anch’io fino a qualche giorno fa, momento in cui ho dovuto ufficialmente rettificare la mia posizione dichiarandomi riappacificata, se pur non intima, col mondo dei calcoli.

Sbagliata la dissacrazione dei numeri, fuor di luogo questo continuo sbadigliare davanti a capitoli di Fisica in fondo avventurosi, movimentati da personaggi intriganti come la massa, lo spazio e il tempo, la forza e il campo, i liquidi e i solidi.

La dannosità di questa svogliatezza nazionale è confermata da studi statistici e dimostrata dall’avanzamento di popoli fino a pochi anni fa considerati poveri e fuori lizza dalla competizione delle potenze economiche mondiali, esempio fra tutti l’India, nazione il cui aumento demografico è stato ultimamente supportato dall’inquadramento scientifico dei piani di studio e delle scelte tecnologiche attuate dal governo.

Come un ultrà del calcio che con ogni probabilità non sa neanche cosa sia un pallone, anch’io tifo per il progresso scientifico dei Paesi e volendo mantenere un minimo di coerenza, ho cercato più volte di capire o, nella peggiore delle ipotesi, di rivestire i numeri d’un pizzico di umanesimo.

In realtà le leggi della Fisica, all’apparenza fredde e circostanziate, ben si accostano a certe nostre realtà interiori, quelle cullate da secoli di narrativa e poesia, musica e pittura, in poche parole dalla massima espressione del sentimento artistico.

Senza andare troppo lontano, ho aperto d’istinto alcune pagine di Spigolature Salentine per averne conferma: ho ritrovato Silvana Bissoli, pittrice, che ha trasformato gli ulivi di Puglia in materia viva palpitante sentimento, ho riletto le belle poesie di Elio Ria, mi sono persa nelle delicate e intense storie di fidanzamenti scritte da Giorgio Cretì e ho battuto il ritmo delle canzoni di pizzica salentina intonate da Alfredo Romano e Mina: amori focosi, primitivi, lirici.

Chi può negare di aver affidato ricordi d’amore alle note di una canzone

A Diso, fra arte e devozione popolare

Viaggio nel Salento, a Diso, fra arte e devozione popolare nel saggio di don Adelino Martella

                                                                                              

di Paolo Rausa

Un viaggio alla ricerca delle tradizioni perdute e ritrovate da don Adelino Martella, parroco di Diso nel Salento, provincia di Lecce, che ci invita a intraprendere con il suo ultimo libro ”Il Miracolo e… I Miracoli dei Santi di Diso”, corredato di dati storici, appendici e note di carattere socio-religioso. Don Adelino ci accoglie nella piazza e ci invita a visitarela Parrocchiale dedicata ai cosiddetti “Santi nostri di Diso”, i Santi Apostoli Filippo e Giacomo, a cui la Chiesa è dedicata, il Santo “con la barba” che reca la croce del martirio e il Santo “senza barba”, scaraventato giù dal Tempio e percosso dal bastone. Ci conduce all’interno, desideroso di farci ammirare la navata centrale restaurata “integralmente, senza aggiunte” – ci dice –, ripristinando i colori originali dell’altare e della balaustra antistante in pietra, delle pareti e delle nicchie nonché delle tele realizzate nel settecento da maestranze locali – fra cui quella, imponente, che riproduce la cacciata di Eliodoro dal Tempio misura 8,8 per4,7 metri.

Don Adelino, officiante a Diso fin dal 1986, ci tiene a precisare che il restauro è stato realizzato nel corso di tutti questi anni, sempre con il sostegno attivo e devoto della comunità religiosa locale. La stessa determinazione dimostrata, secondo la leggenda, quando la comunità disina aveva approntato un’imbarcazione per salvare dai marosi  le statue dei Santi collocati su un veliero e li aveva condotti in processione al paese.

La chiesa fu adeguata, con l’edificazione di una struttura architettonica in stile barocco “controllato” – così definita da don Adelino da Andrano, fine

Libri/ Ceramiche apule

Il libro affronta lo studio di un cospicuo e pregevole nucleo di reperti ceramici di produzione indigena apula tra il VII e il II sec. a.C., nell’ambito di una ricca collezione archeologica privata donata al Museo Diocesano di Trani, dove è esposta dal 1998.
Consta di un catalogo, corredato di immagini di riferimento per ogni pezzo, e di uno studio analitico che, attraverso la ricerca di confronti con pezzi editi da contesti di scavo, ne propone un inquadramento stilistico e cronologico altrimenti negato dall’irrimediabile perdita delle informazioni sulla provenienza.
Si cerca di fornire, dunque, strumenti accessibili che, anche nelle mani dei poco esperti, possano giovare alla pubblica fruizione di un patrimonio gelosamente raccolto da un appassionato e poi generosamente donato al Museo con

Cozze de terra

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Nel tempo di Zeus – in età per così dire moderna – ad un certo punto della storia umana, fu scoperta l’alimentazione sofisticata e chi poteva si nutriva con cibi rari che venivano anche da molto lontano. Da quello che sappiamo, però, da ciò che ci hanno lasciato scritto, gli antichi – non tutti naturalmente, solo poeti e scrittori – quando erano stanchi della vita lussuosa che conducevano tutti i giorni, sentivano nostalgia della vita primitiva, quella dei campi, della platonica “cittα del bisogno”, ed invidiavano i contadini che potevano condurla: “Beati voi, guardiani e contadini! Tutte queste fortune, preparate per i padroni, sono a vostra disposizione”, dice Marziale in una delle sue Satire (X, XXX).

In un certo senso, e solo in questo però, Marziale ha ragione quando afferma che certe fortune non le godono i padroni che le hanno accumulate, ma i servi che le sorvegliano. Pensiamo per esempio allo zappatore: d’estate sotto la canicola con la sua zappa da due chili e mezzo puntava nelle fessure del terreno e rivoltava enormi zolle che lasciava esposte al solleone in attesa delle piogge autunnali che le sciogliessero.

Aveva ragione Marziale, perché il contadino – che tempo l’arrivo della sera, avrebbe cambiato colore perché coperto dalla polvere rossa trattenuta dal sudore –, durante la giornata qualche volta rompeva il ritmo del suo lavoro per raddrizzare la schiena dolorante, ma anche per raccogliere qualche frutto nascosto che la terra gli rendeva dal suo profondo. Raccoglieva le monacelle, le lumache marroni in letargo, con il guscio del colore della terra, che apparivano improvvisamente, visibili per il loro bianchissimo opercolo protettivo; le raccoglieva e se le buttava man mano davanti. Allo stesso modo raccoglieva i lampascioni, i grossi bulbi violacei, che a sera metteva nella bisaccia. Erano frutti che il padrone non poteva apprezzare appieno, specialmente le monacelle. Quando il villano interrompeva il lavoro e, al riparo dalla brezza, con la giubba sulle spalle perché il sudore non gli si aciugasse addosso, faceva una fumata con la sua pipa di creta, bruciava una manciata di stoppie e buttava nel fuoco le chiocciole che arrostivano in pochissimi minuti, oppure le mangiava crude prima che iniziassero ad emettere la loro ripugnante bava. Era un privilegio di cui solo lui poteva godere.

Ma il villano, il nostro villano, non raccoglieva quelle chiocciole dal guscio marrone solo quando la terra le rendeva dal loro letargo; con le prime piogge d’agosto, quando uscivano dal letargo estivo in cerca di cibo ne portava a casa panieri colmi e le consegnava alla famiglia per farle spurgare. Erano una leccornia collettiva ed erano dette monacelle per via del colore marrone del guscio e della lamina membranosa bianca con cui il mollusco si chiude all’interno per proteggere il suo sonno. Era la miglior carne del villano, quasi l’unica disponibile, quando c’era. Come gli altri molluschi, di terra e di mare, si chiamava cozza. Tutte le cozze si distinguevano l’una dall’altra per l’aggettivo che le seguiva: le terrestri in tutto erano  sei, anche se una, la cozza palummeddha (Helicella hydruntina), non veniva mai raccolta perché troppo magra ed era facilmente  riconoscibile dall’incavo largo e profondo al centro della sua spirale.

Helicella pisana (ph Giorgio Cretì)

Nel Salento si chiamano cozze tutte le chiocciole. Le limacce si chiamano cozze nude e non c’entrano. Le varietà oggetto di raccolta a scopo alimentare, tolta la palommella, sono, quindi, cinque; le più grosse sono chiamate cirumani, ciammarruchi o anche cuzzuni e sono le famose escargot (Helix aspersa), oggetto di grande commercio e consumo, specialmente in Francia: in molte zone della Terra d’Otranto, però, non sono prese nemmeno in considerazione.

Le cozze più importanti, in ordine di preferenza, sono quindi le cozze moniceddhe o ntuppatieddhi ed anche uddatieddhi e chiuddhi (Helix aperta). La cozza moniceddha è solita rifugiarsi sottoterra con la conchiglia appena affiorante. Se la si tocca emette rapidamente una grande quantità di schiuma creando intorno a sé una barriera dello spessore di qualche centimetro e facendo al tempo stesso un gorgoglìo intermittente abbastanza rumoroso. Se questo suo schiumare e brontolare può essere una tattica di difesa efficace contro alcuni suoi predatori, sortisce però anche l’effetto contrario di svelare la sua presenza al “raccoglitore” umano che, frugando con le mani sul terreno o tra l’erba alta, riesce ad individuarle molto facilmente.

La cozza moniceddha  è molto sensibile alla temperatura ed all’umidità e non appena le condizioni ambientali non sono più ottimali essa entra in ibernazione (se è troppo freddo) o in estivazione (se è troppo caldo o troppo secco) rifugiandosi in una buca scavata nel terreno e sigillando l’apertura della conchiglia con il suo opercolo calcareo. Come tutti gli Helicidae, è una specie ermafrodita insufficiente, cioè ogni individuo possiede sia organi riproduttivi maschili che femminili ma non è tuttavia in grado di autofecondarsi. Ecco perché, molto spesso, in autunno, le cozze moniceddhe si raccolgo a due per volta, i cosiddetti paricchi.

COME MANGIARE LE COZZE DI TERRA

Cozze moniceddhe in soffritto

Kg. 1,5 di monacelle in letargo (con l’opercolo bianco), ml. 50 di olio extravergine d’oliva, 1 bicchierino di vino rosso, sale q.b.

Mettere a bagno in acqua fredda le lumache e poi lavarle, strofinandole, per togliere la terra dal guscio.

Una per una, togliere loro l’opercolo ed eliminarne qualcuna eventualmente morta; passarle man mano in un colapasta, e alla fine sciacquarle bene ancora sotto l’acqua corrente.

Scaldare l’olio in una padella di ferro e versarvele tutte assieme.

Farle saltare per qualche minuto a fuoco vivace, quindi aggiungere il vino.

Far evaporare e poi abbassare il fuoco.

Soffriggerle per un’oretta a padella coperta e servirle calde.

Essendo di dimensioni più piccole rispetto ad altre verietà di lumache, si estraggono dal guscio con l’uso di uno stecchino.

Cozze piccinne ndilissate

Kg. 1,5 di cozze piccinne, ml. 50 di olio extravergine d’oliva, 1 pizzico di origano, sale q.b.,  peperoncino verde fresco a.p.

Lavare bene le cozze, porle in una pentola coperte d’acqua fredda e lasciarle allungare col corpo fuori dal guscio mentre tentano di andarsene. Quando tutte saranno in movimento incoperchiare, accendere il fuoco e tenerlo basso fino a quando i molluschi non si muoveranno più; a quel punto alzare la fiamma e cuocere per un quarto d’ora circa.

Toglierle dall’acqua di cottura, lavarle nuovamente con acqua fresca e scolarle. Salarle, spolverarle di origano, aggiungere il peperoncino fresco tagliato ad anellini ed irrorarle con l’olio d’oliva.

Mescolarle ben bene perché il sale si sciolga e son pronte da mangiare in compagnia come fossero bruscolini.

ph Tommaso Coletta

Cozze piccinne tutte pare

Kg. 1,5 di cozze piccinne, gr. 300 di pomodori a pezzi, 1 spunzale (o un cipollotto verde), 1 ciuffo di basilico, 1 ciuffo di prezzemolo, ml. 50 di olio extravergine d’oliva, sale q.b.,  peperoncino fresco o secco a.p.

Lavarle per bene e mettere le cozze in casseruola assieme ai pomodori tagliati a pezzi, allo spunzale pure spezzettato, al basilico, e al peperoncino spezzato in due; aggiungere ½ bicchiere d’acqua, salare e irrorare con l’olio d’oliva. Farle andare a fuoco moderato per una ventina di minuti, poi son pronte.

Per estrarre la chiocciola dal guscio ci si può servire di uno stecchino, ma esiste un sistema che ad apprenderlo bene è molto più efficace: si prende la chiocciolina tra pollice e indice e con un canino si fora il guscio a metà della prima spira, poi si dà una bella succhiata e l’animaletto resta in bocca; si pone il guscio vuoto in un recipiente messo lì apposta e si continua così finché ci sono chioccioline da mangiare. Ogni tanto si mangerà anche un pezzo di pane dopo averlo intinto nel brodo e si berrà un mezzo bicchiere di vino rosso di media gradazione alcolica, se si vorrà.

Alla fine le labbra saranno infuocate, ma la soddisfazione dello stomaco sarà molto grande.

Sull’argomento si rimanda ad altri articoli pubblicati nei mesi scorsi su Spigolature Salentine:

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/06/30/gastronomia-salentina-lumache-chiocciole-co/

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/07/01/gastronomia-salentina-ricette-con-le-lumache-e-chiocciole-prima-parte/

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2012/01/26/voglia-di-cozze-piccinne/

Anton Dohrn e la stazione zoologica di Napoli

acquario e stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli

di Lucio Causo

Allorché, nel 1874, il professore Anton Dohrn, libero docente dell’Università di Jena, portò a compimento, in gran parte con mezzi propri, la stazione zoologica di Napoli, la scienza europea era sotto l’influsso del darvinismo. E Dohrn apparteneva a quella piccola schiera di studiosi che voleva suffragare con nuovo materiale, ricavato dalle indagini sugli organismi marini, la teoria dell’evoluzionismo. Egli fu il primo a costruire un acquario convenientemente attrezzato e dotato dei necessari laboratori. La grandissima varietà di organismi inferiori della fauna marina del golfo di Napoli offriva un materiale di osservazione incomparabile. I pescatori portavano giornalmente alla stazione quanto pescavano ed innumerevoli esemplari dello stesso organismo passavano dal microtomo al microscopio.  Quando tale stazione cominciò a funzionare, si ebbero gravissime difficoltà finanziarie ed organizzative. In un momento particolarmente critico Dohrn ebbe la felice idea di istituire, accanto ai laboratori, anche un acquario, la cui magnificenza doveva essere tale da attrarre in gran massa i visitatori, permettendo così di sopperire con il ricavato della vendita dei biglietti alle spese d’esercizio di tutta la stazione.

Dopo aver preventivato le spese e gli introiti, il giovane studioso ritenne di poter superare la crisi. Ogni visitatore doveva divenire, senza accorgersene, un mecenate della scienza; vi erano inoltre anche altre fonti di proventi: le

36 imprese ultra-centenarie della provincia di Lecce

Sviluppo del Mezzogiorno: 36 stimoli dal Salento

 

di Francesco Lenoci*

 

 

150 anni di Storia delle Camere di Commercio d’Italia, tra cui la Camera di Commercio di Lecce, a sostegno delle imprese . . .

36 Imprese ultra-centenarie della provincia di Lecce, tra cui una Banca, iscritte nel Registro  Nazionale delle Imprese Storiche di Unioncamere . . .

Cosa posso, preliminarmente, aggiungere io a quanto già detto dal Presidente della Camera di Commercio di Lecce Alfredo Prete e dal Presidente di Unioncamere Ferruccio Dardanello, che  mi hanno preceduto sul palcoscenico dello stupendo Teatro Paisiello, che illumina l’incantevole via Giuseppe Palmieri di Lecce?

Posso citare una meravigliosa frase di un grande musicista e compositore d’orchestra, Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”.

Fuoco . . .  L’Italia per ripartire non ha tanto bisogno di un decreto “Salva Italia”, di un decreto “Cresci Italia”. Il nostro Paese ha, soprattutto, bisogno di ravvivare quel fuoco. Ha, soprattutto, bisogno di riprendere a sognare e di realizzare quei sogni.

L’ho scritto tante volte nei giorni scorsi sulle bacheche di Facebook con riguardo a questo Evento, lo ribadisco oggi 18 aprile 2012 da Lecce:

“Se non si sogna. . . . non si progetta.

E se non si progetta. . . .non si realizza”.

Sognare, progettare, realizzare . . .  è la conditio sine qua non per uscire dalla crisi. La crisi. . .  La crisi che stiamo vivendo (rectius: subendo):

  • è una crisi  che, anche se ha preso le mosse dal sistema finanziario, non

Il Mangialibri/ Incipit

  

  

 di Michele Stursi

 

Esco dalla bottega di Eleonora alquanto rilassato e allo stesso tempo radioso. Questa storia comincia a farsi molto interessante e pian piano matura sempre di più l’idea di scrivere un romanzo tutto mio.

Quante volte, seduto nel mio ufficio, fissando libri, embrioni mai venuti alla luce, sono sprofondato nella desolazione più cupa? Quante volte ho vissuto storie non mie, ho pianto e ho riso, ho sofferto e ho gioito, e tutto a causa di quell’amore smodato per la lettura?

In quegli attimi di deliro mi tormentavo su come si potessero accatastare ordinatamente le parole e dare così l’impressione al lettore di aver scritto una storia. Ma una storia, anche la più fantasiosa e lontana anni luce dalla realtà, deve aggrapparsi in qualche modo alla vita dell’autore. Ho letto una volta che la fantasia è un’isola dispersa nell’oceano e ci si approda pian piano remando contro corrente su una barca che molti chiamano “realtà”. Solo oggi posso dire di essere riuscito a salire su quella barca e d’ora in avanti remerò sino allo sfinimento. Per nessuna ragione al mondo mi lascerò sfuggire quest’occasione.

Mi avvio verso casa, salgo di corsa le scale e mi metto a scrivere. Comincio dall’inizio, dal mio arrivo a Noha. Preparo il foglio bianco sulla scrivania, prendo dal taschino la mia inseparabile stilografica e non appena avvicino la punta bagnata d’inchiostro nero al foglio, suonano al citofono. Mi alzo dalla sedia, mi affaccio alla finestra per vedere chi è, ma non c’è nessuno. “Sarà stato qualche ragazzino”, penso mentre ritorno al mio posto.

Cerco di afferrare nuovamente la penna e non faccio in tempo a scrivere la prima frase che qualcuno bussa alla porta, prima piano, poi sempre più forte e

Libri/ Il poeta buongustaio

 

GIANNI SEVIROLI.  CON NAPOLI NEL CUORE

 

 di Paolo Vincenti

 

“Il poeta buongustaio” (Panico Editore, 2011),  è l’opera prima di Gianni Seviroli, insegnante e musicista che vive e lavora a Maglie, in provincia di Lecce. Anche se parlare di opera prima può sembrare riduttivo per un dinamico operatore culturale che da molti anni scrive e compone, tuttavia questo è il suo primo lavoro organico apparso in volume. E la materia trattata, come si evince dal titolo dell’opera, è affatto originale: quella culinaria, declinata in versi endecasillabi, in terzine, quartine, sestine, a rime alternate o incatenate, strambotti, rispetti, che da un lato testimoniano, in barba alla leggerezza della materia trattata, una notevole padronanza da parte dell’autore delle tecniche di versificazione, la metrica insomma, e della tenuta poetica dei componimenti, e dall’altro confermano la predisposizione dello stesso alla musicalità e al ritmo, che gli viene dalla sua seconda (o prima?) attività artistica suffragata da ampi consensi di pubblico e riconoscimenti di critica, non solo in ambito salentino. Come dire, la varietà del metro,  i tempi interni ad ogni componimento, la facilità della scansione matematica in sillabe, rispondono al suo lungo apprendistato musicale e al fatto di avere, egli, un orecchio allenato, appunto, a cogliere e ad imprimere gli accenti ritmici più giusti all’andamento dei suoi componimenti; e come i versi più

Un 25 Aprile di protesta e riflessione indetto dal Comitato 275

Un 25 Aprile di protesta e riflessione indetto dal Comitato 275
che si batte da anni contro l’ipotesi della SS 275 a quattro corsie.
Dalle 9 alle 13, a Montesano Salentino, Largo Fiera, esibizione
di artisti e performer, fra cui Mario Carparelli, Anna Cinzia Villani,
Ibn Kalb, Claudio Giagnotti “Cavallo”, Giuseppe Cristaldi, Omar Di
Monopoli, Enza Pagliara e le Zie, Officina Zoè, Livio Romano,
Lara Savoia, Paolo Pisanelli, Mino De Sanctis, Salvatore Brigante
e molti altri.

Sempre sullo stesso tema, è in preparazione un instant-book
con interventi di “firme” importanti del giornalismo e del panorama culturale

Leccesi, c’era una volta / Quando esce la taranta. 6a parte.

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 di Alfredo Romano

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IL VIDEO: Alfredo parla del tarantismo. Segue monologo e l’esecuzione di 2 pizziche con la partecipazione di Mina Fabiani e di Giuseppe Maniglio alla chitarra.

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PREMESSA AL TARANTISMO CON QUALCHE DIVAGAZIONE

C’è stato nel Salento, fino a qualche anno fa, un fenomeno detto del tarantolismo, fenomeno che è sopravvissuto finché è resistita la civiltà contadina e che ora è del tutto scomparso. Nella mia terra succedeva che le donne specialmente, alcune donne, ciclicamente all’inizio della stagione calda entravano in una crisi che si potrebbe definire depressiva.

Alfredo Romano

Era credenza che la donna fosse stata morsa da un ragno, la tarantola, un morso magico, dal momento che la donna, al semplice suono di un tamburello o di una fisarmonica, danzava e si dimenava al ritmo del suono e questo le portava giovamento nel fisico e nell’umore.

I familiari, la collettività, consci di questo effetto terapeutico della musica, organizzavano dei veri e propri concerti in casa ad opera di musicisti di tamburello, di violino, di fisarmonica e di chitarra: in genere erano persone del paese. Io ho avuto due zii paterni che suonavano il violino e il tamburello, quello che suonava il violino era il nonno di mio cugino Mariano Romeo, un mastro muratore che qui tutti chiamano Lupo.

I concerti duravano giorni a volte, la donna danzava e mimava con i gesti le movenze del ragno, entrava in trance, percorreva nella sua mente mondi sconosciuti, finché, ad un certo punto, rientrava docilmente nella ragione, tornava in sé, nella sua normalità, dopo aver smarrito il suo orizzonte.

A questo punto ringraziava i musicisti, ringraziava i vicini di casa che avevano assistito alla sua terapia musicale, e ringraziava pure San Paolo, creduto il protettore delle tarantole e dei serpenti. In conclusione, la stessa collettività allora si incaricava di curare chi era entrato nel tunnel della crisi.

Che la musica, il canto, abbiano una funzione terapeutica, è ormai riconosciuto da tutti. La vibrazione sonora infatti non viene percepita solo dal nostro udito, ma viene sentita anche dall’intero corpo e dal nostro mondo inconscio. Il suono armonico viene quindi ad armonizzare, ad alleviare cioè il nostro dolore fisico e mentale.

Tornando alla terapia musicale del tarantolismo, è chiaro che aveva la sua ragion d’essere in un determinato contesto culturale. Ma le crisi, gli smarrimenti della ragione non sono affatto finiti. Solo che oggi la cura si risolve in farmacia o all’ospedale (detto tra noi era molto meglio ballare al suono di un tamburello) dimenticando che certe malattie dell’anima non possono essere curate esclusivamente con la chimica.

Mina Fabiani

Perché le donne erano più soggette a essere «morse dalla tarantola?» Beh sappiamo che allora le donne subivano leggi e costumi repressivi e la crisi era sempre in agguato. Ma io aggiungo un altro motivo: non è che anche l’uomo fosse immune dalle crisi, è che la donna, più dell’uomo, ad un certo punto decideva di entrare in crisi, si abbandonava, tirava fuori la parte di sé più irrazionale e costringeva la collettività a occuparsi di lei (finalmente di lei), si metteva al centro dell’attenzione, lei ballava e aveva un pubblico tutto suo, era protagonista di un evento. Così facendo la donna si riconquistava le sue sfere di libertà.

Al contrario, gli uomini in crisi, in generale non sono capaci di questi abbandoni, non decidono di smarrirsi, di uscire da sé (e farebbe loro tanto bene), perché gli uomini si controllano di più, stanno più attenti, si vergognano, ne andrebbe del loro status di maschi, perfino il pianto è visto come segno di debolezza, quasi che il pianto debba essere un’esclusività delle donne. Non so perché mi viene in mente il pianto di Priamo, re di Troia, di fronte all’eroe greco Achille per ottenere la restituzione del corpo di Ettore, il figlio ucciso dallo stesso Achille. Era il pianto di un re. E piangeva anche Odisseo nell’isola di Ogigia al ricordo della sua donna lontana, della sua patria lontana. E allora… questi uomini, insomma, che piangano pure, visto che piangevano anche gli eroi.

Adesso passo a raccontarvi del fenomeno del tarantolismo nel dialetto del mio paese di origine, Collemeto di Galatina, in provincia di Lecce. Questo perché, prima della pìzzica tarantata, voglio farvi entrare in un mondo magico, un mondo di suoni e ritmi che solo il dialetto può rievocare.

Mina Fabiani, Alfredo Romano e Giuseppe Maniglio in scena.

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 QUANDU ESSE LA TARANTA

Mo’ fazzu cu ssentiti la pìzzica tarantata. Cce gh’ete la pìzzica tarantata? Ete ‘na tarantella. Ndae tante tarantelle a llu Sud: have la tarantella te Napuli, quiddha calabrese, quiddha siciliana… e nnui tenimu puru la tarantella noscia: la pìzzica-pìzzica.

La tarantella vene te taranta. La taranta è ‘nn’animale ca se troa a ttiempu t’estate a lle campagne, a lli tiempi de la metitùra te lu cranu… Se scunde a mmienzu ‘llu cranu la taranta, quandu face quiddhu sole ertu ertu, a quiddhi merisci caddi ca se vite l’aria brillare, ca pare ca sta arde quasi. Le furmìcule stanu scuse sotta terra, se sente lu sonu te le cicale… ca face mutu caddu! Se sente cicì-cicì-ciciiì. Sempre quiste cicale. E allora tìcianu ca la taranta esse te fore e pìzzica le mane e lli pieti te li cristiani.

Giuseppe Maniglio

   E quandu pìzzica la taranta, li cristiani se sèntanu tutti scazzicàti. E basta cu nne rria quarche ssonu te tamburieddhu o te fisarmonica ca vene te luntanu, ca se mìntanu ‘ballare. E ballanu tuttu lu giurnu, a ffiate puru dô giurni, tre giurni, quattru giurni… puru ‘na settimana!

   La taranta, la pìzzica. Nui ‘stu fattu te li cristiani ca su’ ppizzicàti te la taranta e cca se mìntanu ballare, ‘sta cosa la tenìmu scusa intru te nui, comu ‘na sorta te mascìa ca nu’ mbulìmu cu sse saccia.

   E ssentendu vui quistu sonu te pìzzica-pìzzica, vui be putiti ccurgìre te cce ssangu ca tenìmu nui intra lle vene, te cce ffocu ca ne arde intra llu core: ‘stu focu ca vulìmu cu spetterra, cu esse te fore e ccu llu tamu a tutti li cristiani.

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TRADUZIONE IN ITALIANO

QUANDO ESCE LA TARANTA

   Mo’ vi faccio ascoltare la pìzzica tarantata. Che cos’è la pìzzica tarantata? È una tarantella. Ci sono tante tarantelle al Sud: c’è la tarantella di Napoli, quella calabrese, quella siciliana… e noi teniamo pure la tarantella nostra: la pìzzica-pìzzica.

  La tarantella viene da taranta. La taranta è un animale che si trova al tempo d’estate nelle campagne, al tempo della mietitura del grano… Si nasconde in mezzo al grano la taranta, quando fa quel sole alto alto, in quei meriggi caldi quando si vede l’aria brillare, che pare che arda quasi. Le formiche se ne stanno nascoste sotto terra, si sente il suono delle cicale… ché fa molto caldo! Si sente cicì-cicì-ciciiì. Sempre queste cicale. E allora dicono che la taranta esce fuori e pìzzica le mani e i piedi dei cristiani.

Alfredo Romano

   E quando pìzzica la taranta, i cristiani si sentono tutti smossi dentro. E basta che arrivi loro quarlche suono di tamburello o di fisarmonica che viene da lontano, che si mettono a ballare. E ballano tutto il giorno, a volte anche due giorni, tre giorni, quattro giorni… anche una settimana!

   La taranta, la pìzzica. Noi questo fatto dei cristiani che sono pizzicati dalla taranta e che si mettono a ballare, questa cosa la teniamo nascosta dentro di noi, come una sorta di magia che non vogliamo che si sappia.

   E ascoltando voi questo suono di pìzzica-pìzzica, voi potete scorgere che razza di sangue teniamo noi nelle vene, che fuoco ci arde dentro il cuore: questo fuoco che vogliamo che trabocchi, uscir fuori e donarlo a tutti i cristiani.

Caccia ai tesori della Murgia: le orchidee spontanee

Domenica 22 aprile 2012, i referenti del Comitato Locale di Ginosa per il Parco Naturale Regionale delle Gravine Joniche, in collaborazione con il G.I.R.O.S. (Gruppo Italiano Ricerca Orchidee Spontanee)

organizzano:

“CACCIA AI TESORI DELLA MURGIA: LE ORCHIDEE SPONTANEE”

appuntamento in Piazza IV Novembre alle ore 09.00 – 09.30 max, per poi dirigersi in automobile verso Contrada Murgie Soprane (Circonvallazione Nord – Zona Belvedere), dove avrà luogo l’escursione per la ricerca, il riconoscimento e lo studio delle orchidee spontanee presenti

SACRUCORI – opere di Adriano Radeglia

SACRUCORI

opere di Adriano Radeglia

dal 20 al 24 aprile 2011

PALAZZO TAMBORINO Corte dell’Idume 1 – angolo via Guglielmo Paladini – LECCE 

In occasione della settimana santa le stanze inferiori dello storico Palazzo Tamborino ospitano la personale di Adriano Radeglia, SACRUCORI.
L’artista in questa sua produzione fonde le principali espressioni della sua arte, opere in terracotta policroma e olio su tela che parlano di sacro

Uno sguardo al costato trafitto dalla lancia che è l’ultima ferita al corpo di

Lecce e la nostalgia dei giardini

di Vincenzo Ampolo

“ Sto aspettando perpetuamente

una rinascita della meraviglia”

L. Ferlinghetti

Da pochi giorni ho spostato sulla mia pagina di facebook il filmato, a disegni animati, del testo di Jean Giono “ L’uomo che piantava gli alberi”.

La narrazione, parla di un’impresa compiuta da un solo uomo, capace di trasformare un territorio brullo e inospitale in un paradiso pieno d’alberi, corsi d’acqua e animali dalle mille varietà.

Per una serie di circostanze fortuite o d’occasioni non ricercate ho in questi giorni ricevuto diversi stimoli relativi al tema dei giardini ed alla loro magia.

Girovagare per le strade di una Lecce ancora addormentata, in un mattino d’estate, pieno di luce e di ricordi, mi ha ulteriormente suggerito alcune considerazioni che voglio condividere con chi avrà voglia di una sosta rilassante all’ombra delle mie parole.

Già mi ritrovo bambino, nei pomeriggi di primavera a camminare incantato dai colori e dai silenzi odorosi, per i viali alberati che, dal rione San Lazzaro, portavano fuori dal centro abitato, oggi sempre più dilatato, costeggiando ville antiche a cui si aggiungevano, alla fine degli anni sessanta, nuove villette più bizzarre ed estrose.

In realtà le ville più antiche circondavano, e in parte circondano ancora, i viali che segnano i confini dell’antica città, le sue famose Porte.

Su una stradina che, costeggiando l’Ateneo, va da Porta Napoli a Porta Rudiae,

Sabato 21 aprile 2012 – Aspettando la primavera sulle ali di… civette e barbagianni

Il Parco Naturale Regionale delle Dune Costiere da Torre Canne a Torre San Leonardo, in collaborazione con la cooperativa Serapia, il WWF Martina Franca ed il WWF Terre di Basilio, organizza:

ASPETTANDO LA PRIMAVERA SULLE ALI DI … CIVETTE E BARBAGIANNI

sabato 21 APRILE 2012 

mass. Scategna – SS 16 Ostuni – Fasano 

La serata rappresenta l’evento conclusivo del corso per il riconoscimento degli uccelli selvatici svolto nell’area protetta tra marzo e aprile 2012.

Il corso si è sviluppato in 4 incontri, ognuno dei quali ha previsto una lezione presso la Casa del Parco ed un’escursione guidata di birdwatching per

Giorgio Castriota Skanderbeg. Un eroe tra Puglia e Albania

Sconfisse più volte l’esercito ottomano in terra d’Albania

GIORGIO CASTRIOTA SCANDERBEG

Un eroe leggendario

Dopo la sua morte, il figlio Giovanni, non riuscendo ad emulare le gesta del genitore, riparò in Italia, stabilendosi nel ducato di Galatina, avuto in dono da Ferdinando I d’Aragona

di Rino Duma

Ancor prima di Madre Teresa da Calcutta, suora albanese nota a tutti per le sue doti d’infinito amore per le genti povere ed emarginate dell’India, un altro grande uomo, Giorgio Castriota Scanderbeg, suo connazionale, ha lasciato dei segni profondi nella storia europea del quindicesimo secolo. Le sue gesta sono legate alle vittoriose battaglie combattute contro l’esercito ottomano.

Giorgio nasce nel 1405 (?) a Kruja, una bella cittadina posta alle falde di una montagna, al centro dell’Albania, da una delle famiglie nobili di quei tempi, quella dei Castriota. Il padre Giovanni aveva per anni contrastato, con alterne fortune, l’avanzata dell’impero ottomano, interessato ad occupare ad ogni costo l’Albania, terra strategicamente importante per la sua posizione geografica. Da lì i turchi avrebbero potuto facilmente controllare il commercio navale che dall’Europa era diretto verso i paesi mediterranei e viceversa, ma, al tempo stesso, attraversando la strettoia di Otranto, si sarebbero potuti riversare in poche ore nel mondo occidentale della cristianità. Se non ci fosse stata la strenua difesa dell’eroe albanese, oggi staremmo a leggere un’altra pagina di Storia e, forse anche, ci troveremmo a pregare nelle moschee, piuttosto che nelle chiese.

Giorgio Castriota e i suoi condottieri nella monumentale scultura del museo dedicato all’eroe albanese, a Kruja

Giovanni Castriota, purtroppo, fu definitivamente sconfitto dal sultano Murad II e sottoposto ad una resa incondizionata. Per aver salva la vita, fu costretto a pagare un ingente tributo e a “donare” al sultano i suoi quattro figli maschi, dei quali, Stanislao e Reposio furono uccisi, Costantino preferì rinchiudersi in un monastero, mentre Giorgio frequentò la corte di Adrianopoli e ben presto fu avviato all’istruzione militare.

Il giovane albanese percorse brillantemente le varie tappe della carriera militare, distinguendosi per senso del dovere, intelligenza, capacità

Vincenzo Ampolo. Nella vacanza della coscienza

di Paolo Vincenti

“Sono figlio della Terra e del Cielo stellato; datemi presto da bere la fredda acqua del lago di Mnemosyne”: così recita il testo di una laminetta orfica appartenente all’antica civiltà magno- greca e Vincenzo Ampolo, che si abbevera da sempre alla fonte di Mnemosyne, sa che “l’anima riarsa di sete è la più sapiente e la più nobile”, come diceva Eraclito. E Ampolo ha sete, tanta, di conoscenza.

Vincenzo Ampolo è un uomo delle continue rinascite, che sa inventare sempre nuovi progetti culturali e reinventarsi continuamente come artista, nella sua ricerca assidua e partecipativa di arte totale. In effetti, l’immaginario è il luogo del transdisciplinare, e lui conosce bene e frequenta da sempre l’immaginario,con le sue numerose articolazioni simboliche. Vincenzo Ampolo è  psicoterapeuta, scrittore, poeta, pittore e operatore culturale. Attraverso i moderni strumenti di comunicazione di massa, è molto facile conoscerlo ed egli certo non lesina informazioni su di sé e sulla propria

Libri/ Puglia. Passeggiate nei film

Tra il cinema e la Puglia si è instaurato un forte legame. Questa regione non solo produce numerosi film e genera talenti, ma, soprattutto, possiede una forza d’attrazione che risiede tutta nella sua storia e nella sua bellezza. L’incanto del suo paesaggio custodisce le ragioni di uno sviluppo culturale che non si può ignorare. 
Nel libro, partendo dal nuovo e fecondo rapporto tra il cinema italiano e la Puglia, si passa all’analisi di quattro film che hanno come sfondo la Puglia: “Il miracolo”, “Chi ruba donne”, “La casa delle donne” e “La seconda notte di nozze”, con le testimonianze dei quattro registi che li hanno diretti: Edoardo Winspeare, Maurizio Sciarra, Mimmo Mongelli, Pupi Avati.
L’analisi di film ambientati in Puglia offre l’occasione per aprire un discorso più ampio sulla cultura e sul paesaggio privilegiando il punto di vista di un

La donna e la penna

di Maria Grazia Presicce

Gerard ter Borch, Donna che scrive (1655), Maurithsuis, L’Aia

E’ risaputo che fin dai tempi antichi la scrittura è stata prerogativa essenzialmente maschile. A ben pensarci, a qualsiasi  donna dovrebbe provocare uno strano effetto leggere testi scritti da uomini che interpretano ed esprimono sulla carta sentimenti e sensazioni essenzialmente femminili  che non   gli appartengono minimamente anche se magistralmente esposti. Si ha  l’impressione che la donna sia stata  defraudata, spiata negli anfratti più remoti dell’anima senza saperlo, senza darne il permesso.

Infondono, comunque, profonda tristezza tanti silenzi e angosce represse che avrebbero potuto trovare sfogo e conforto su un pezzo di carta e che non l’hanno fatto perché impotenti e, mentre per loro sarebbe stata una consolazione, noi ora avremmo avuto una testimonianza sentita e vissuta e non testimonianza testimone e al maschile    testimoniata.

Non sono adirata con l’uomo che si è assunto la responsabilità di colmare con la penna questi silenzi al femminile.

Possibile, mi ero chiesta, che mai a nessuna donna, nei tempi antichi, sia venuta voglia di prendere in mano una penna al posto dell’ago e dell’uncinetto e anche di nascosto provare a riempire un foglio bianco di emozioni e sensazioni?

Solitudine, noia, rinunzia,sospiri, silenzi e doveri raccontati al cuscino e mai riportati su un foglio. Dovere di figlia di moglie di madre e silenzi.

Silente l’ago che ricamava, nemmeno la stoffa che bucava si lamentava e sul lenzuolo silente, in silenzio ricamava il silenzio della solitudine muta della donna di allora.

Nemmeno le suore nella silenziosità del chiostro osavano usare la penna e l’inchiostro.

I monaci si, loro potevano e dovevano, le monache no.

Oggetto, la penna, carico di significati; simbolo fallico per eccellenza, eccellente simbolo per una società maschilista.

Come poteva la misera donna osare prendere tra le mani un simile oggetto?

Spudorata la penna, spudorata la donna che l’avesse malauguratamente usata! Eh sì, altri tempi, colmi  sicuramente di tante storie non scritte, ma vissute e sofferte!

Queste riflessioni mi hanno indotta a cercare scritti di donne anonime del sud e a soffermarmi su alcune di loro più intraprendenti, che si sono spinte a spedire le loro poesie al redattore di un periodico per vederle poi pubblicate. Chissà l’emozione di quelle donne! Mi piace immaginare che anche se non sono più fra noi, riescano a percepire il nostro mondo e vedendo ancora una volta pubblicate le loro poesie possano ancora gioirne!

La due poesie che seguono apparvero entrambe sul periodico leccese La democrazia, la prima nel n. 4, anno VI del 20 gennaio 1905.

L’autrice è Enrica Capozzi, così presentata in testa al trafiletto che contiene il suo componimento: un’artista  vera nell’anima, che oltre ad essere un’eccellente musicista è anche una vaga poetessa. Queste strofe racchiudono una dolcezza ed un affetto ineffabili, specialmente le due ultime che sono d’un impeto lirico stupendo.

Quando mesto volge a me,

Il  suo sguardo tutto amor,

Nova speme, nova fe’

Sento scendermi nel cor.

 

Sento l’anima sua bella

Aleggiar su l’alma mia…,

E una musica novella

Una vaga poesia

 

Si diffonde nel mio seno…

Guardo lui, poi guardo il sole,

i bei campi, il bel sereno,

Oh, quai sogni, quante fole

 

Van danzando ne la mente!

Qua’ desiri sovrumani

Quando in l’aere vagamente

Scorron dolci sensi arcani

 

In soavissimi ruscelli

In melliflui eterei mari…

E non so quai strani augelli

Quai vetusti e pii giullari

 

Van cantando inni d’amore,

che trasognan l’alma mia,

che sublimano il mio core

in angelica poesia…!

 

Oh, che provo! Oh, qual dolcezza!

Che ineffabili desiri…

Quai susurri, quale ebrezza

Di dolcissimi sospiri!

 

Tale io provo immenso affetto,

Tal soave commozione,

Quai sentia – io credo – in petto

la Fanciulla di Faone.

 

O, che val ch’in altro regno

Io men vivo di Colei?

Che non ho suo alto ingegno,

Che son parvi i spirti miei?

 

Quando splende Diana pallida

E i bei campi e i cori molce,

volo, volo ne la squallida

aria argentea tutta dolce;

 

come un’aquila furiosa

volo, volo in su commossa

ride l’anima desiosa,

freme l’aria fremon le ossa…!

L’altra poesia, pubblicata nel n. 20 del 20 aprile 1904, anno V, è di Emma Bersocchi-Borghi.

Emma Bersocchi-Borghi è una gentile anima d’artista, che il vento della fortuna ha trascinato e confuso nell’anonima collettività di un coro da operette.

Dall’ingegno facile e pronto, dalla sensibilità squisita e quasi morbosa, ella trova il modo di esplicare nelle più varie forme dell’arte tutta la piena del suo sentimento. Forse manca di una coltura adeguata alle naturali disposizioni, ma ella di ciò non ne ha colpa, perché troppo rapide e violente sono state le vicende della giovanissima esistenza. E scrive anche dei libri. Io ho qui sul tavolo un romanzo ed un volume di versi, che conservano tutto il triste profumo dello sconforto. Ne dò un piccolo saggio in questa ballata d’Autunno.

Su pei clivi

Fra gli ulivi

Passa torbido il grecale,

Ed in tetro

Fosco metro

Un lamento all’aria sale.

 

Un lamento

Va col vento

Per i rami disseccati,

Sono i fiori

Son gli amori

Intristiti e sparpagliati.

 

Son le storie

Le memorie

De la morta primavera,

Le speranze

Le esultanze,

che travolge la bufera.

 

Ella in cielo

Guarda il volo

Delle nubi burrascose,

Emigrare verso il mare

Rondinelle frettolose.

 

E sfuggire

Disvanire

Vede il sogno della vita

Nella brezza

Che carezza

La sua fronte impallidita.

Leccesi, c’era una volta / Mio padre Giovannino. 5a parte.

di Alfredo Romano

PREMESSA

D’estate ci si levava presto per la raccolta del tabacco. Si andava sul campo che era ancora buio. Mio padre Giovannino si alzava per primo e, mentre mia madre Lucia preparava il caffè, lui, sigaretta già in bocca, cominciava la perlustrazione del campo che stava nei pressi della casa colonica: andava a fare una verifica della parte di campo con le foglie più mature da raccogliere. La mamma intanto con le tazzine di caffè fumanti apriva la camera che io dividevo con tre fratelli più piccoli e, pur a malincuore, cominciava il rito della sveglia:
“Su, il caffè, alzatevi figli miei, fatelo per amore della mamma vostra!” ‘Na parola, e chi si alzava!
“Va bene, state un altro minuto, ma solo un altro minuto, ché vostro padre mo’ che torna, se non vi trova in piedi, quello si mette a bestemmiare tutti i santi del paradiso e se la prende pure con me.”
E papà tornava, ma io e i miei fratelli eravamo inseguiti ancora dai sogni della notte profonda, non ultimo quello di un mondo senza tabacco.


Il video della 5a parte dello spettacolo di Alfredo con la partecipazione di Mina Fabiani. Dopo il monologo, Alfredo e Mina in “Lu furese ‘nnamuratu”, strofe di tradizione del cantastorie salentino Luigi Paoli.

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SÌRAMA LU GIUVANNINU

Ciaaa!, l’hai chiamati li fiji toi, l’hai chiamati? Sangu te la matòmbula bbuttana! Sta bene lu sole e quiddhi me stanu ‘ncora curcati… Azzàtive! ca li cristiani hanu fattu ‘na sciurnata!
Fràtuma lu Pippi hae dô ore ca stae ddha mmienzu: è sciùtu cu lle citilene…

Libri/ Napoli, fine di un regno antico

Alcuni passi dell’ultimo lavoro di Enzo Parabita: NAPOLI, FINE DI UN REGNO ANTICO. LA CRONACA, L’ECONOMIA, LA POLITICA, LA SOCIETÀ ED IL COSTUME NEGLI ULTIMI ANNI PRIMA DEL CROLLO DEL REGNO DELLE DUE SICILIE (Edizioni Youcaprint).

Ricerche storiche, cronistoria e commenti sugli ultimi anni del regno dei Borbone a Napoli, ricostruiti sulla base delle “Memorie di Raffaele DE CESARE – La fine di un Regno (Napoli e Sicilia) e Ferdinando II”

Ferdinando IV

La rivoluzione siciliana avvenuta nel 1848 era stata una delle tante rivolte popolari poi denominate “la primavera dei popoli”. La rivoluzione siciliana di quell’anno rivestì per l’Isola e per il Regno di Napoli un significato molto più ampio per varie ragioni. Era cominciata ai primi di gennaio 1848 e fu quindi la prima in assoluto dei moti rivoluzionari europei di quell’anno. Sarà di esempio e modello per le altre rivolte che poi scoppiarono in tutta Italia ed in Europa. Da aggiungere che questa rivolta seguiva le tante altre che si erano succedute nel lontano e nel recente passato sull’Isola. Infatti solo nel secolo XIX furono almeno quattro le rivolte degne di nota, specie contro il regno dei Borbone.

La rivolta del 1848 fu l’ultima, ma fu quella che lasciò i maggiori effetti in Sicilia, riuscendo a sconfiggere l’esercito borbonico ed a cacciare i Borbone dall’isola. In particolare la rivoluzione diede vita ad uno Stato indipendente liberal-democratico con un parlamento rappresentativo che poi sopravvisse 16 mesi, dandosi anche una carta costituzionale decisamente progressista. Quest’ultima rivoluzione siciliana produsse anche effetti di catalizzatore per la caduta finale del regno dei Borbone, avviando un processo che porterà all’unificazione al regno d’Italia nel 1860/1861. Dopo il terremoto dell’epoca napoleonica e la soppressione dei principi e dei diritti fissati con la rivoluzione francese, nel 1815 il Congresso di Vienna, indetto dalle nazioni vincitrici per restaurare l’assetto politico dell’Europa e ridefinire i confini geografici delle nazioni, aveva decretato, tra l’altro, la riunificazione dei regni di Napoli e di Sicilia, separati sin dal medioevo.

La denominazione “Regno delle Due Sicilie” aveva origini antiche e fu ereditata dagli eventi storici legati alla rivolta detta dei “Vespri Siciliani” del 1282.

Il Congresso di Vienna impose di riunire terre separate da una antica rivoluzione e poi sviluppate in un proprio percorso storico-sociale. Il Congresso, cancellando gli effetti della vecchia rivoluzione medioevale,sembrò volesse dare anche un chiaro messaggio: nulla di buono potrà nascere da una rivolta ed i cui avvelenati frutti potranno sempre essere annullati. Venne così imposto il regno unitario delle Due Sicilie sotto la restaurazione della dinastia dei Borbone rimesso sul trono di Napoli.

Tale nuovo regno comprendeva gli antichi domini normanni e quelli svevi della Sicilia.

C’è inoltre da evidenziare che i semi della rivoluzione del 1848 erano in effetti molto più antichi ed erano stati gettati in Sicilia già prima del Congresso di Vienna, ovvero nell’anno 1812. Durante il tumultuoso periodo di Napoleone Bonaparte, la Corte ed i componenti della famiglia reale dei Borbone erano stati costretti a lasciare Napoli ed a rifugiarsi a Palermo, rincorsi dalle truppe francesi dopo la conquista di tutto il Regno di Napoli. La famiglia reale e tutta la corte, traghettata nell’isola delle navi inglesi, furono alloggiati a Palermo, dove rimasero sotto la protezione della marina militare britannica, che rimase molto tempo al largo di Palermo in funzione antifrancese ed a protezione dei Borbone. In tale situazione di incertezza politica, l’aristocrazia siciliana fu molto abile a sfruttare la vicinanza del Re e forzare l’impaurito Borbone a promulgare una nuova costituzione, basata sul modello rappresentativo francese. Fu ratificato un parlamento dell’isola ed una struttura di governo per la Sicilia.

Appena il Congresso di Vienna ebbe restaurato l’antico ordine monarchico europeo, Ferdinando IV Re di Napoli e III del Regno di Sicilia, reinsediato alla corte di Napoli come Sovrano del Regno delle due Sicilie, si affrettò ad abolire la costituzione siciliana concessa forzatamente tre anni prima, pur se garantita da un solenne giuramento pubblico sui vangeli. Questo atto, con cui il Re si rimangiava la parola data, determinò un aumento considerevole della diffidenza e dell’avversione dei siciliani verso la corte napoletana ed in particolare verso la dinastia dei Borbone. La sfiducia verso il Re spergiuro divenne totale e la disaffezione verso un regno considerato distante e totalmente avulso dalla realtà siciliana portarono, già prima del 1848, a ripetute sommosse, moti e rivolte, estese spesso alle altre provincie, specie in Calabria. Anche nelle terre di Puglia sopravviveva una radicata avversione al dominio napoletano, con rivolte sanguinose che si ripetevano sin dal medioevo. Avversione radicata in particolare nella nobiltà e nei ceti più colti della società civile, specie nelle province salentine, che mai avevano accettato passivamente le vessazioni e le imposizioni di una corte corrotta ed un Re distante.

Si ricordano nei secoli 1200, 1300, 1400 le ripetute e lunghe ribellioni e vane guerre dei conti di Lecce e di Nardò contro i regnanti napoletani. Ribellioni sempre soffocate nel sangue. Le rivolte nelle terre pugliesi si ripetevano da secoli con moti e sommosse, sempre scatenate delle tasse su prodotti agricoli, in particolare del grano e degli olii e per le cicliche vessazioni dei notabili napoletani inviati dalla lontana Corte di Napoli. Caratteristica fu la tassa sulla calce del XV secolo, che portò alla creazione dei trulli.

La disaffezione ed avversione verso tale Stato era totale e portò quindi ai moti ed alla rivoluzione del 1848 e poi lo sfaldamento di tutto il regno nel 1860 (Capitolo I. Il prologo della caduta. La Rivoluzione siciliana).

 

Alle otto della mattina del 27, da Lecce partirono i tre principi, con una parte del seguito.

Alle nove, Re Ferdinando e Maria Teresa, ascoltata la messa all’Intendenza, ammisero al baciamano le autorità, riunite nella sala del palazzo. La cerimonia riuscì piuttosto fredda. Il Re non rivolse parola a nessuno e si temette che fosse rimasto poco soddisfatto delle accoglienze, ma non si sentiva bene e aveva solo fretta di partire. Ringraziò il dottor Leone e gli fece dire dal colonnello Severino,che si riservava di manifestargli la propria soddisfazione, appena giunto a Napoli.

Leone restò a Lecce e Ramaglia, con l’assistente Capozzi, accompagnò il Re, che scese lentamente lo scalone, appoggiandosi al braccio del generale Daspuro, a cui disse triste: Ricevitò, so ruinat..sent’a capa comm’a nu trommone.

Circa alle 10, i Reali lasciarono Lecce, fra gli applausi della folla che li accompagnò sin fuori le mura. I cocchi reali furono poi seguiti, per alcune miglia, dalle carrozze della nobiltà leccese. La via da Lecce a Bari fu un cammino trionfale. Campi, Trepuzzi, Squinzano, San Pier Vernotico, Campi Salentina e i paesi vicini avevano innalzati i soliti archi di trionfo con iscrizioni più o meno gonfie. Accanto ad ogni arco si trovavano le rappresentanze municipali e le guardie urbane con bandiere. Dimostrazioni più clamorose aveva preparate Brindisi. I brindisini erano tutti fuori dell’abitato, con il sindaco Pietro  Consiglio, col sottointendente Mastroserio, che, zoppo per cronica infermità, aveva fama di zelantissimo ed era temuto persino dal Sozi Carafa.

……………………….

Non c’era biancheria sufficiente. Egli, che aveva sempre avuto un pauroso terrore per i morbi infettivi e specie per la tisi, si vedeva condannato a morire di un morbo, che a lui stesso faceva ribrezzo. Il male procedeva inesorabile e le sofferenze dell’infermo divenivano sempre più strazianti. Fino al 12 aprile, i medici non credettero necessario pubblicare alcun bollettino e più che i medici, non lo ritenne opportuno la Regina, per non allarmare il pubblico.

A Napoli ormai tutti conoscevano la gravità del caso e se ne parlava liberamente, non prestandosi fede alle pietose notizie ufficiose. Il primo Bollettino della salute di S. M. il Re N. S. apparve nel Giornale Ufficiale il 12 aprile, quando la gravità non si potè più nascondere perchè il Re in quella mattina volle ricevere il viatico. ….

Vedendo il corteo religioso, il Re si levò con grande sforzo e si mise a sedere sul letto. Chi lo vide rimase esterrefatto e sconvolto, era l’ombra di Re Ferdinando II. La cerimonia fu commovente. Erano presenti anche i fratelli del Re. L’infermo li fece avvicinare al letto ed a ciascuno rivolse speciali preghiere. Raccomandò al conte d’Aquila di curare l’armata e al conte di Trapani rivolse le stesse raccomandazioni per l’esercito. Solo al conte di Siracusa non disse nulla; abbracciò il fratello e lo tenne qualche minuto stretto al petto e continuava a baciarlo ripetutamente, piangendo senza ritegno. Dal principe di Satriano e dal generale Ischitella, tutti e due presenti, volle la promessa che avrebbero assistito e consigliata negli affari il nuovo Re. Era chiaro che non si faceva più illusioni, preparandosi alla morte con rassegnata dignità e fede religiosa. Il primo bollettino, redatto alle nove e mezzo di quel giorno, diceva: “La recrudescenza della malattia annunciata ieri, è molto aumentata nel corso del giorno e della notte, sino ad esser stato bisogno questa mattina di prescrivere la somministrazione del Santissimo Viatico„ Portava le firme di tutti e sei i medici e chirurgi curanti, in questo ordine: Rosati, Ramaglia, Trincherà, De Renzis, Leone, Capone. In segno di lutto, dal 12 aprile rimasero chiusi tutti i teatri. I bollettini continuarono a pubblicarsi, ogni giorno, sino al 27 aprile nella stessa forma nebulosa.

Anche nei giorni di maggiori sofferenze, che furono dal 26 aprile fino alla morte, con brevi interruzioni, il Re si interessava sempre degli affari di Stato, ma soprattutto e ansiosamente, chiedeva informazioni delle cose della guerra. Lo preoccupava la conferenza sfumata ed il Piemonte.

Napoleone III intanto faceva partire per l’Italia i tre primi corpi d’armata e si preparava a scendervi lui stesso, per prendere il comando di tutto l’esercito. Ferdinando II confidava nell’Austria, che credeva sarebbe stata aiutata da Russia e dalla Prussia. Sperava ancora nell’intangibilità dello Stato della Chiesa. Allarmante fu il bollettino del 13. La mattina del 16, i medici e i chirurgi, a scanso di responsabilità, al principe ereditario consegnarono una relazione scritta della malattia e di tutti i particolari…

L’infermo si riebbe ad un tratto, riaprì gli occhi e balbettò: Perchè piangete?. Io non vi dimenticherò e alla Regina: Pregherò per te, pei figli, pel paese, pel Papa, pei sudditi amici e nemici e pei peccatori. Poi perdette la parola, stese una mano sul crocifisso del confessore, l’altra alla Regina in segno d’addio, reclinò il capo sul lato destro e spirò. L’orologio segnava l’una e mezza dopo il mezzogiorno. Era domenica. La famiglia reale si ritirò subito negli appartamenti. Il cadavere fu lasciato nel letto, guardato dai marinai e da altri familiari, con l’assoluto divieto di farlo toccare (Capitolo XXXI. La salute del re peggiora).

La còppula ti lu cattìu (la coppola del vedovo)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

 (…) Per quella caratteristica mentalità popolare totalmente refrattaria alla concezione di un aiuto a fonte univoca, all’interno della coppola – tra fodera e tetto – spesso veniva a crearsi un habitat di presenze oggettuali i cui campi di riferimento potevano dirsi in netta opposizione. Accanto alla medaglietta sacra (la spiràgghia), riconosciuta tramite di celesti protezioni, o nascostavi da una moglie desiderosa di convertire il marito bestemmiatore, trovava bellamente posto lu pasùlu spiùru (il fagiolo bianco ibrido) le cui anomale macchie scure, ritenute spruzzi escrementizi del diavolo, assicuravano a chi lo portava addosso la benevolenza degli spiriti maligni, dicat il loro aiuto nel realizzo delle covate aspirazioni di ordine materiale. Il tralcetto di gramigna annodato tre volte, al quale ricorrevano le madri per proteggere i figli da infidi trameggi femminili, si trovava a tu per tu col più classico dei pegni d’amore, cioè la furmeddhra (il bottone) che la ragazza appositamente staccava dal più intimo dei suoi indumenti, raccomandando all’amato: “Intra’a lla còppula ti ll’à ttinìre, intr’a lla còppula” (“Nella coppola la devi tenere, nella coppola”). Di contrasto alla ciocca dei capelli della moglie defunta, che già in sede di veglia funebre il vedovo pubblicamente infilava nella coppola, altrettanto pubblicamente protestando “Intr’a llu cirieddhru mi li mentu cu nno mmi nni pozzu mai scirràre” (“Nel cervello me li metto affinché non abbia mai a dimenticarti”) c’era sempre un pezzetto d’unghia che lo stesso vedovo segretamente rifilava al proprio alluce destro, questa volta mentalmente ripetendo: “Cu nno mm’aggia a cchiamàre prima ti lu tiémpu” (“Ché non abbia a chiamarmi prima del tempo”). La ciocca di capelli infatti poteva generare un’affatturazione con la morta, la quale – facendo di quella presenza memoriale una forma di richiamo – avrebbe potuto provocare nna sicutàta a ppassu spiértu (un seguito a passo svelto = morte del marito in breve tempo). L’unghia invece, incarnando il simbolo della continuità, anzi della crescita, valeva a ristabilire il diritto alla vita del superstite, un proseguimento nel cammino terreno – come la crescita dell’unghia appunto – reso più esplicito dalla chiamata in campo del piede destro, antonomastica immagine di consapevole inizio, in questo caso di coraggiosa svolta.

La più importante svolta per un vedovo era quella di passare in seconde nozze, decisione spesso inevitabile, pur se sempre difficile: la donna ca si itìa mannare ti nnu cattìu (che si vedeva chiesta in moglie da un vedovo), pur se ormai zzita fatta ca àuru no spittà (zitella matura che aspettava proprio quell’occasione), si facìa cara a bbinnìre (si faceva cara a vendere), accampando mille scuse – troppo vecchio, troppo povero, incomoda presenza di figli – e più che altro facendo valere il timore di non essere tinùta bbona  (tenuta bene), in quanto – diceva – “A lli spaddhre ti nnu cattìu pirdùra sempre sursu ti màsciu” (“Alle spalle di un vedovo perdura sempre il sorso di maggio”, ossia l’affetto per la prima moglie), il che avrebbe reso il suo matrimonio no llicrézza t’àjara ma muérsu ccuétu an terra pi bbisuégnu (non allegrezza di aia ma tozzo raccolto a terra per fame). Tutta una furba tessitura per costringere l’uomo a pronunciare esplicite promesse, a suggello delle quali – si sapeva – le avrebbe consegnato la coppola (in questa occasione soprannominata menza capu ), autorizzandola a bruciarla quale segno di annullamento del passato, più esattamente di scardinamento del legame affettivo con la prima moglie. (…)

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, 1994 (pagg. 182-183)

Raffaella Verdesca a Vittoria Coppola

 

Quando gli occhi parlano

 

 di Raffaella Verdesca

Chi ha sentimenti capisce quelli degli altri.

Chi è attento riesce ad agganciarsi a parole vaganti fino a fondersi anche col non detto.

Vittoria Coppola, giovane scrittrice salentina, ha fatto parlare molto di sé negli ultimi tempi proprio grazie al suo modo di comunicare per iscritto sentimenti e pensieri capaci d’incastrarsi e di ampliare quelli dei lettori.

Come le note di un pentagramma, ne “Gli occhi di mia figlia” Vittoria ha a sua disposizione battute di vita comune: una ragazza poco più che adolescente, genitori votati a sostituirsi alla sua volontà, un’amicizia profonda tra la protagonista e una compagna di vecchia data, tanti sogni e un prepotente richiamo all’amore.

Questo maestoso sentimento s’irradia dal corpo di una ragazzina insicura e desiderosa di libertà e a lei si accompagna fino al momento delle conferme dovute alla donna o a quello che di lei rimane dopo decenni di nascondigli e rassegnazione. Nelle pagine scritte da Vittoria è la vita che va a scomodare il Destino, sia quello che stupidamente cercano di pianificare genitori distratti

Enzo Fasano, maestro parabitano della tarsia lignea

di Paolo Vincenti

La pubblicazione di un catalogo della collezione d’arte moderna appartenente alla Camera di Commercio di Lecce, di cui mi omaggia Enzo Fasano, maestro parabitano della tarsia lignea, in occasione di una mia recente visita a casa sua, mi suggerisce l’occasione di ricordare, da queste pagine,  la bellezza e l’originalità della sua arte, che ha ricevuto  attestazioni unanimi di consenso dalla più titolata critica,  salentina e nazionale.  Nelle grandi sale della sede leccese dell’ente camerale, infatti, in Viale Gallipoli 39, sono presenti ben quattro opere di Enzo Fasano: “Omaggio a Parabita”( intarsio ligneo di cm 67,5 x 77,5),   “Japigia” ( cm 110 x 75), “Messapia” ( cm 110 x 75) e soprattutto “Salento” (cm 300 x 550). Di quest’ultima macrotarsia, che campeggia sul grande scalone dell’ex  ingresso della Camera di Commercio, scrive Donato Valli ( nella rivista “Terra D’Otranto” n.4, dicembre 1996 ) che  essa rappresenta “ una sintesi organica, programmata, dell’itinerario artistico di Enzo Fasano”.  Nel mezzo di un argilloso paesaggio salentino, si alza un arco con incisi i misteriosi dipinti della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, a destra del quadro una stele dauna, simile ad un salentino menhir, un ceppo con alcune indecifrabili incisioni e contadini che, intenti nel lavoro quotidiano,

Grottaglie/ Santi in terracotta tra Ottocento e Novecento

In margine a una mostra

“SACRALITÀ DOMESTICA. SANTI IN TERRACOTTA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO”

Una piccola corte celeste a Casa Vestita nel Quartiere delle Ceramiche a Grottaglie in uno scenario da favola dove si incrociano storia arte e religiosità

 

di Rosario Quaranta

“Sacralità domestica. Santi in terracotta tra Ottocento e Novecento”: questo il titolo di una mostra  inaugurata il 29 marzo scorso a “Casa Vestita” nel quartiere delle ceramiche a Grottaglie e che sta suscitando interesse e successo straordinari.  Un vero e proprio evento che, oltre a richiamare un buon numero di visitatori, ha solleticato l’attenzione massiccia dei “media” e in particolare del Web veicolando così questa intelligente operazione culturale ben oltre gli stretti confini provinciali e regionali.  Perché tutto questo non sembri inutile esagerazione, suggerisco al cortese Lettore di digitare, magari sul più classico canale di ricerca telematico, le parole  “sacralità domestica a Grottaglie” per verificare on line (è il caso di dirlo) l’impressionante numero di links e di servizi correlati.

C’è da chiedersi come mai una mostra di carattere religioso e popolaresco possa suscitare tanto interesse in un mondo così complesso e sempre meno

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