Come cucinare il lampascione, il re dei bulbi

di Massimo Vaglio

L’estrema versatilità gastronomica, del lampascione, ma soprattutto la straordinaria combinazione fra le sue singolari peculiarità olfattive e le complesse ben dosate caratteristiche organolettiche, lo rendono, a dispetto della sua larga diffusione nei ceti più popolari e nei menù delle bettole paesane, un prodotto molto elegante.

Il loro gusto, che possiamo descrivere: dolceamaro con retrogusto erbaceo e dall’aroma vagamente muscarino, li rende dei bulbi ripetiamo organoletticamente eleganti ed estremamente interessanti e se, com’è auspicabile, incontreranno l’estro dei grandi cuochi, non potranno che assurgere a nuovi fasti divenendo dei protagonisti d’eccellenza della nostra gastronomia.

Nella quasi totalità dei casi i lampascioni, prima di essere sottoposti a cottura, devono essere nettati, privando i bulbi dell’apparato radicale, della parte aerea, se ancora presente, e delle tuniche più esterne. Devono essere quindi lavati diligentemente sotto l’acqua corrente e, per divenire commestibili, devono essere obbligatoriamente cotti.

Quasi tutte le ricette che li interessano prevedono una loro preventiva lessatura; questo fra i vari metodi di cottura, resta quello più consigliabile in quanto li rende più digeribili. Anche questa semplice operazione richiede però degli accorgimenti, anche se minimi.

I lampascioni, a seconda del terreno dal quale provengono, possono essere più o meno amari come pure più o meno teneri. Nel primo caso si potrà ovviare all’inconveniente ponendoli a bagno in acqua fredda dopo averli nettati e provvedendo a cambiare l’acqua almeno due volte al giorno per un periodo massimo di due giorni; di norma è sufficiente tenerli a bagno la nottata antecedente al giorno di cottura.

Nel caso invece ci si trovi davanti a lampascioni molto restii alla cottura, cosa che generalmente si verifica in lampascioni provenienti da terreni molto calcarei, un rimedio può essere quello di lessarli in acqua piovana, cosa che un tempo era facilissimo procurarsi, in quanto quasi tutte le abitazioni erano munite di una cisterna che la raccoglieva affidandone la potabilità ad una vorace e vigile anguilla cui era affidato il compito di divorare insetti, limacce e larve che fossero accidentalmente caduti dentro. Oggi, l’oggettiva difficoltà a procurarsi l’acqua piovana, impone, alla bisogna, il ricorso ad una punta di bicarbonato di sodio aggiunta all’acqua di cottura e il risultato è assicurato lo stesso, anche se potrebbe annullare alcuni principi vitaminici.

Comunque regola fissa rimane quella di sottoporre i lampascioni ad una lessatura non tumultuosa, ma regolando la fiamma al minimo appena l’acqua comincia a bollire, in questo modo i lampascioni cuoceranno prima, in modo completo e soprattutto rimarranno integri.

(continua)

 

 

Lecce/ Incontro con un verduraio “storico”

di Rocco Boccadamo

Martedì 27 marzo, bel mattino di sole, rallegrato dallo zefiro, il mite vento primaverile che soffia da ponente, temperatura gradevole: l’ideale, per una passeggiata in bici.

Nessuna meta prestabilita, tuttavia, dopo i primi movimenti dei pedali, s’affaccia netta la decisione di raggiungere una ben determinata zona del centro storico di Lecce, anzi un preciso obiettivo e traguardo di contatto.

Nelle immediate vicinanze del monastero delle Benedettine e a qualche centinaio di metri dalla chiesetta Greca – due perle dell’architettura religiosa cittadina – il cartello segnaletico indica “Corte Conte Accardo”, breve e stretto rettilineo fiancheggiato da casette o palazzetti d’epoca, con l’unica eccezione, in fondo a sinistra, dell’edificio delle scuole elementari “De Amicis”.

Al civico 18, si apre ed affaccia un piccolo esercizio per la vendita al dettaglio di frutta e verdura, che da sempre, invero, va catturando l’attenzione dell’osservatore di strada scrivente. Notazione architettonica: il primo piano soprastante, abitazione privata, offre una balconata in pietra leccese, un semi arco e una terrazza, che formano un insieme d’autentico amore.

Nessuna insegna, un semplice accesso con “limitare” o gradino, assenza di luci sgargianti, bensì penombra naturale al punto giusto, integrata da una

Antonio Casetti e il Cittadino leccese (seconda parte)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Nella poesia che abbiamo presentato nella prima parte Antonio Casetti ci ha fatto conoscere Nina, la quale non attende certo troppo tempo per rispondergli…per le rime. E lo fa con questa poesia in forma di lettera con tanto di firma (Nina K.) e di data (Napoli, 30 settembre 1868). Se non si trattasse di un’invenzione del letterato che con sottile ironia prende in giro se stesso, se, cioé tutto non fosse fittizio (compresa la firma, per cui non sapremo mai a cosa corrisponda per esteso quel K., ammesso che si tratti di un personaggio realmente esistito), diremmo che il servizio postale allora funzionava molto meglio di oggi se una missiva scritta il 30 settembre risulta pubblicata il 5 ottobre…

Anche questa volta Antonio Casetti non manca di lanciare le sue frecciate contro gli eccessi del secolo passato e del suo, sicché Nina finisce per diventare l’alter ego del letterato che recupera la sua identità grazie al buonsenso di una persona comune che sa guardare in modo disincantato alla vita, consapevole delle sue inevitabili contraddizioni , ricchezze e miserie, senza il cipiglio serioso di certi intellettuali che vorrebbero far credere di essere indenni da certi condizionamenti.

Riti e tradizioni pasquali. La fiera magliese dell’Addolorata

di Emilio Panarese

Tradizioni e riti della settimana santa magliese non sono molto dissimili oggi da quelli ancora vivi in tutta la subregione salentina, in quanto in questi ultimi decenni, così com’è avvenuto per i dialetti e la lingua ufficiale, la nostra società consumistica ha assai livellato e uniformato quelle che una volta erano manifestazioni inconfondibili e peculiari di un agglomerato urbano, nel passato, tranne qualche eccezione, assai chiuso, per le rare comunicazioni e gli scarsi scambi culturali, e quindi poco sensibile alle influenze di costume di altri centri urbani della provincia. Le tradizioni pasquali, come le natalizie, con il fluire del tempo, hanno perduto a poco a poco l’antico connotato, il significato originario, non per un involutivo processo di deculturizzazione o di perdita di identità, ma per una normale dinamica di svolgimento, di ammodernamento, di adattamento della tradizione a nuove esigenze, a nuove concezioni di vita e di fede.

Ne parliamo, perciò, non certo per riviverle o, peggio, per recuperarle, in quanto tale pretesa contrasterebbe con la legge stessa della storia, che è incessante svolgimento, e nella vita e nella storia nulla si ripete, né tanto meno ad esse guardiamo, con sentimento nostalgico ed elegiaco, come ad un bene perduto per sempre, ma senza rimpianto le esamineremo, perché rituali storicamente validi della nostra cultura passata, delle consuetudini degli avi, perché espressione autentica della religiosità aggregativa della comunità magliese, vista nella sua unità, al di fuori della distinzione classista ed angusta di due culture contrapposte: l’egemone e la subalterna (oggi complementari e similari), religiosità aggregativa che tuttavia continua, sia pure di parecchio trasformata, e nello spirito e nelle forme spettacolari esteriori.

Non molte le fonti alle quali abbiamo attinto: la tradizione orale, la letteratura vernacolare magliese in versi (canti popolari, poesie di N.G. De Donno, N. Bandello, O. Piccinno), giornali magliesi (Lo studente magliese, Il sabato, Tempo d’oggi), ma, soprattutto, alcune carte d’archivio dell’arciconfraternita di Maria SS.ma delle Grazie e, per quanto attiene al rituale in uso agli inizi del ‘900 o a quello poco prima estinto, al saggio La gran settimana, che ci ha lasciato il dotto e valente professore magliese, poi preside, Angelo De Fabrizio, cultore appassionato, preparato ed attento di studi folclorici salentini. A loro tutti il mio ringraziamento per i contributi e le testimonianze che ci hanno donato.

La fiera magliese dell’Addolorata

Precede di due giorni la Domenica delle Palme e si svolge nel viale che porta alla settecentesca graziosa omonima chiesa, una volta distante dall’abitato, in mezzo ad orti e giardini bene irrigati, oggi in una zona urbana assai frequentata soprattutto il sabato.

Tre ggiurni nnante la simana santa,

ossia lu venerdìa, ven ricurdata cu nna fiera:

Matonna Ndolurata a mmenzu lli rusci!

E diuzzione quanta?

Nnu tiempu la fiera era ‘mpurtante:

vinìne dai paesi a cquai Maje

cu ccàttane campaneddi e minuzzaje

e tante mercanzie, nu’ ddicu quante!

(Orlando Piccinno)

L’antica fiera del bestiame[1] si è trasformata via via in un chiassoso, vivace mercato con banche e bancarelle di dolciumi, di noccioline, di terraglie, di stoviglie e utensili domestici vari, di cesti di vimini, di vasi di argilla per fiori e, soprattutto, di campane e campanelle, di trombe e trombettine, di pupi e di pupe, di lucerne, di animali domestici vari, tutti di terracotta, verniciati o no, di ogni forma e tipo, ed ancora di palloncini, di giocattoli di plastica, di carrettini, di variopinte ruote con l’asta, di rustici mobili in miniatura (giuochi assai ricercati dai bambini una volta), di fischiettid’argilla e di gracidanti raganelle[2] di legno.

Durante tutta la giornata della fiera, soprattutto la sera, la chiesa dell’Addolorata è meta di devoto antico pellegrinaggio e di raccolta preghiera davanti alla statua di cartapesta di Maria SS.ma che ha la faccia chiusa nella veletta nera e sette spade a raggiera sul cuore.

Lacrime a ggoccia de lucida cira,

la facce chiusa a lla veletta nera

e sette spade a llu core raggera,

vave chiangennu morte e mmorte tira

-stu venerdìa de vana primavera

ca pulanedda d’àrguli rispìra-

cacciata de lu nicchiu a pprima sira

Ndolurata Maria, la messaggera

de l’agnellu Ggesù. Li Grammisteri

de cartapista cu lla purgissione

èssene osciottu tra ale de pinzieri

e Mmaria a rretu, muta a lla passione.

Osci, fischetti an culu carbinieri,

tròzzule e campaneddi ogne vvagnone.

(Nicola G. De Donno)

note al testo:

[1]La fiera dell’Addolorata e quella di S. Nicola vennero istituite nel 1860 con lo stesso decreto borbonico.

[2]Arnese rudimentale di legno a forma di bandiera, costituito da un manico cilindrico rastremato verso l’alto, in cui viene inserita una ruota dentata contro la quale, a contrasto, si fa girare, in senso rotatorio, una sottile lamina (linguetta) che produce un fragoroso gracidìo. Da qui il nome raganella di Pasqua e gli onomatopeici salentini trènula o tròzzula. Allo stesso campo semantico di tròzzula appartengono tròccola, tròttola, trozzella. La troccola “bàttola”, “raganella” o, meglio alla lettera, “ruota dentata che fa rumore” (incrocio del gr. chrótalon “nacchera” con trochilía “carrucola del pozzo”) era anticamente una ruota di ferro a cui erano appesi parecchi anelli, che nel muoversi crepitavano (garruli anuli). Cfr. il caI. tròccula e il nap. tròcula. La tròttola è il giocattolo di legno, simile a un cono rovesciato, con punta di ferro, che si getta a terra, tirando a sé di colpo la cordicella ad esso avvolta. Noi magliesi, con voce aferetica derivata da curru, la chiamiamo urru, bifonema speculare, che imita il suono caratteristico di un oggetto che gira velocemente, producendo lieve rumore. Trozzella “rotella” è voce regionale pugliese, che indica una tipica anfora messapica “di forma ovoidale rastremata al piede, con alte anse nastriformi, verticali, che terminano in alto e all’attacco col ventre con quattro rotelline (da lat. trochlea con suff. dim.). I manici ad ansa con nodi a rotella imitano la carrucola del pozzo (trozza). Ma con tròzzula noi salentini indichiamo pure la ruota del telaio, che fa girare il subbio, cioè il cilindro di legno su cui sono avvolti i fili dell’ordito, ed anche, in senso figur. e dispr. la donna di malaffare, la meretrice, la sgualdrina, che va in giro qua e là, destando mormorìo di disapprovazione tra la gente onesta (“giro”+”rumore”).

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese]

Il santuario dell’Addolorata di Taviano

di Marcello Gaballo

Primo numero della collana Restauri e Riscoperte dell’A.I.RES (Associazione Interdisciplinare per il Restauro), i cui scopi basilari sono quelli di diffondere le informazioni tecniche e storiche acquisite durante i diversi interventi conservativi. Si parte dunque con la chiesa annessa all’ex convento di Sant’Antonio di Padova dei francescani riformati di Taviano, chiesa oggi dedicata alla Beata Vergine Maria Addolorata, i cui lavori ultimi di restauro e conservazione hanno coinvolto sin dal 1999 un cospicuo stuolo di tecnici e storici dell’arte.

Il convento, voluto dal secondo marchese di Taviano e signore di Supplesano Andrea de Franchis (+1659) e sua moglie Luisa Caracciolo, fu realizzato in periferia tra 1643 e 1647, con la partecipazione del popolo tavianese e della comunità minoritica per il tramite del loro procuratore Paolo de Paula. La chiesa, sulle cui date di erezione non vi sono testimonianze documentarie certe, fu costruita, secondo l’ipotesi della storica dell’arte V. Antonucci, nello stesso arco di tempo, secondo il tipico schema icnografico e architettonico minoritico. Essa si presenta oggi alterata nel suo aspetto originario dalle importanti modifiche settecentesche e dalle recenti (1960) addizioni di due campate, del campanile e degli ambienti a servizio della catechesi, nonché dalla distruzione della facciata seicentesca.

Intatte si presentano invece le restanti campate a vela, il presbiterio, il piccolo coro inferiore, le cornici e le decorazioni barocche, così come gli imponenti altari lignei e un cospicuo numero di dipinti, almeno questi scampati alle travagliate vicende della soppressione ottocentesca degli ordini monastici, che riguardò il nostro complesso nel 1867. Fortunatamente si salvò anche il pregevole tabernacolo, pur se decurtato della cupola, probabile avanzo del perduto retablo ligneo dell’altare maggiore che doveva essere anch’esso, come gli altri altari, opera della scuola secentesca di intagliatori francescani, assai attiva nel Salento, fondata dal celebre frate Giuseppe da Soleto.

L’analisi delle frammentarie e poco chiare vicende feudali del centro salentino fa ipotizzare committenze diverse, che ancora meritano approfondimenti, e non è improbabile che un’ulteriore analisi delle testimonianze araldiche visibili nel tempio possano aiutare per definirne l’evoluzione architettonica, distinguendo un primo periodo legato ai De Franchis (XVII sec.) ed un secondo ai Caracciolo (XVIII sec.), anch’essi notoriamente munifici nei confronti dell’ordine minoritico.

Un dettagliato excursus storico, supportato da valida documentazione bibliografica, introduce gli altri brevi ma numerosi saggi, tutti finalizzati a descrivere quanto si è salvato dalla dispersione e che, grazie ai restauri, è pienamente fruibile all’interno della chiesa francescana.

Ci si sofferma in particolare sulle opere pittoriche e sulle opere d’intaglio e scultura, con diciassette schede descrittive e altrettante di restauro raccolte nel nutrito catalogo (pp. 40-91). Tra le prime certamente risaltano il dipinto raffigurante S. Pasquale Baylon, tuttora inserito nella sua imponente macchina d’altare (Cat. n. 6 e Cat. n. 14) e il lacerto della decorazione murale seicentesca con la Natività di Cristo (Cat. n. 12), riscoperto dietro la settecentesca struttura lignea.

Di tutt’altro spessore qualitativo l’inusuale tela della Madonna con il Bambino in gloria incoronata dagli Angeli (Cat. n. 7), che la Antonucci giustamente riconosce come una “bella versione settecentesca della napoletana icona della “Madonna dell’Arco”, conservata e venerata nell’omonimo santuario a S. Anastasia (NA). La stessa storica dell’arte ne ipotizza l’attribuzione all’ambito dei pittori Bianchi di Manduria e la ritiene, verosimilmente, commissionata dal feudatario tavianese Caracciolo di Amorosi, magari in occasione della nascita della primogenita di don Francesco, venuta alla luce nel 1735 proprio nel casale di Sant’Anastasia.

 

Una Galleria d’Arte Francescana tra XVII e XVIII sec. Il Santuario dell’Addolorata di Taviano, a cura di Valentina Antonucci, Mariachiara De Santis, Francesca Romana Melodia, Lecce, Il Raggio Verde Edizioni, 2008, Collana Restauri e Riscoperte diretta da Francesca Romana Melodia e Giusy Petracca, cm. 27×21, 100 pagine, numerose fotografie colore, tre rilievi di Simonetta Previtero. Euro 25,00.

Testi di Valentina Antonucci, Mariachiara De Santis, Adriana Falco, Gaetano Martignano, Francesca Romana Melodia, Simonetta Previtero; prefazione di don Albino De Marco; fotografie di Valentina Antonucci, Mariachiara De Santis, A. Fulvio, G. Martignano, Francesca Romana Melodia, Simonetta Previtero. Supervisione artistica di Giancarlo Montelli.

In Canto (“Fatti di dolore” di Maurizio Nocera)

Edgar Degas (1834-1917)

di Paolo Vincenti

“Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio”: in questi versi della dantesca preghiera alla Vergine di San Bernardo si concentra una delle espressioni più alte, nella storia del pensiero mondiale, dell’amore che l’uomo abbia saputo esprimere in  poesia nei confronti dell’alma madre, la Madonna. Mala storia della letteratura di tutti i tempi è ricchissima di autori che, in prosa o in versi, si sono rivolti alla propria madre per  cantarne la dolcezza, lamentarne l’assenza o vivificarne la presenza,  piangerne la partenza, per sublimarne il volto e l’immagine o per cullarne il ricordo, per scrivere della propria nostalgia, dei propri rimpianti  e travagli, di contrasti ormai sanati, di inquietudini e conflitti pacificati.

Così fa Maurizio Nocera, l’arsapo che continua a volare alto nei cieli della cultura salentina e che ogni tanto ha bisogno di ritornare al nido, là dove la sua avventura è cominciata, per ripararsi dalle intemperie della vita, per far riposare le ali e per cercare nel conforto materno quel caldo che aiuta a riprendere il volo. E quel  nido per l’arsapo-angelo Maurizio è Tuglie, borgo avito, dove sono i suoi ricordi di infanzia e adolescenza, il porto-quiete dove

Adriano Radeglia e le creature che bussano alle porte di chi dorme

Adriano Radeglia, artista pugliese, Mesagne classe 1974.

Diplomato al Liceo artistico della città di Brindisi con indirizzo architettura, ha seguito corsi tesi alla valorizzazione di attività artigianali della propria terra. Dopo un lungo periodo dedicato intensamente alla pittura, che ancora oggi è parte della sua espressione, si avvicina alla materia, l’argilla.

Inizia a creare e rivisitare oggetti tradizionali di uso domestico giocando su una nuova chiave decorativa, attraverso la quale l’evoluzione lo ha portato ad un interesse per il design d’arredo: forme inedite che non di rado si ritrovano a coprire una veste di “utilitá” quotidiana, come lampade o contenitori.

È cosí giunto all’attuale produzione artistica, in una sincronia istintiva tra cuore, mente e mani: le CREATURE, sculture in terracotta policroma che raccontano del mare e della terra.

Intrecci di spine e petali sinuosi, ventose o morbidi uncini danno vita a corpi che appartengono alla terra come all’acqua, non esiste specie nè sesso.

Sono esseri contrastati di colore che assumono anima con lo spiegarsi della propria luce e dello scuro. Tutto diviene movimento al tempo stesso fermo.

Queste le Creature “rubate” alla natura, sembianze naturali oppure aliene?

 

C R E A T U R E

a cura di Antonio Esperti

 

Come nasce una forma vivente? Come si rigenera? Di cosa ha bisogno? Cosa leva e cosa offre il suo corpo? Quali relazioni disegna e a quale scopo? Qual è il suo respiro? E i suoi sogni? Come si muove? Quali sono i suoi appetiti, le paure? Ama?

Mi è difficile raccogliere tutte le dimensioni, le vite, gli sguardi, le domande che bruciano dentro il sangue e le opere, la ricerca di Adriano Radeglia.

Sono le sue “Creature” a narrarsi da sè: lapilli commossi, entità volitive che cantano pre-visioni remote; unità prime socialmente autonome che

Leccesi, c’era una volta / 2a parte: Quando arrivammo a Civita Castellana

di Alfredo Romano 

PREMESSA
Voglio raccontarvi adesso di come venne accolto mio padre quando mise piede per la prima volta a Civita Castellana, in località Terrano. Correva l’anno 1965. Fu scaricato alle quattro del mattino da un furgone Wolkswagen stracarico di salentini, stipati come sardine, nei pressi della casa colonica. Era buio e fu scambiato per un ladro e, come in guerra, mio padre si gettò a terra per scansare due colpi di fucile sparati al suo indirizzo. Pregò Vittorio, l’autista del furgone, di riportarlo al suo paese. Ma, chiarito l’equivoco, si convinse a restare ed ebbe inizio la sua avventura a Civita Castellana. I civitonici a quel tempo ignoravano le piante di tabacco e facilmente le scambiavano per insalata.

 Il video: monologo di Alfredo, poi Mina e Alfredo
cantano “Fìmmene fìmmene

Testo in dialetto salentino (scrittura fonetica).
Quandu iu tenìa sìtici anni, tantu tiempu rretu, paru cu mmàma e ccu lli frati mii, sìrama ne purtau a Civita Castellana, nnanzi Roma, cu cchiantamu tabaccu. Tandu tante famije te tutte le parti te lu Salentu scìanu a Civita Castellana cu cchiàntanu tabaccu.
Partìmme cu llu Vittoriu: era unu te Specchia ca facìa jàggi nnanzi rretu cu ‘nnu furgone. Nci vulìa ‘na sciurnata sana tandu cu rrìi a Civita Castellana, ca percé nun c’era autostrada (sulamente la Napoli-Roma) e sse passava te paese ppaese. Quandu te scia bona, ca certe fiate lu furgone furava puru dô fiate, e se succetìa te notte, tuccàa cu spetti sse fazza mmatìna cu ppozza rriare ‘nu meccanicu. E ‘ntantu, ncarrati comu fiche intru lla capasa, stìame tutti mpassulati e stritti susu cquiddhe muntagne mare te l’Appenninu.
Sìrama partìu pe’ pprimu a Civita Castellana, ca ia ppreparare li chiantinari, e

A Calimera la festa delle essenze

Non è nostra abitudine – come ben sanno i lettori – dare spazio alla pubblicità e quanto segue non fa eccezione a questo fermo costume. Ci pare semmai importante dare visibilità, per logiche che nulla hanno a che fare con il mondo delle sponsorizzazioni, ad iniziative anche di natura imprenditoriale ed economica se queste, come è nel caso in questione, hanno anche ulteriori valenze e possono rappresentare, come prodotti dell’ingegno creativo e dalla spiccata sensibilità etica, modelli esemplari nel coniugare amore per la nostra terra e il rispetto per la sua rigogliosa natura con l’intraprendenza giovanile e la voglia di fare impresa. Ben vengano allora iniziative ispirate da una simile concezione e animate dai modelli di uno sviluppo sostenibile, credibile e auspicabile, come è appunto nel caso dell’idea qui proposta: a chi l’ha concepita rivolgiamo i nostri migliori auguri!

Fiera Mirodìa, la festa delle essenze

Sabato 31 marzo 2012 – dalle 21.00 alle 23.00

Calimera, via Europa (nei pressi della Chiesa dell’Immacolata)

Mirodìa trova casa a Calimera. Il laboratorio artigianale per la produzione di saponi naturali, pensato e realizzato da Simone Dimitri, è un progetto che abbraccia territorio, cultura, sostenibilità ambientale, forme e visioni.

 

L’inaugurazione di questa nuova fucina profumata è prevista per sabato 31 marzo dalle ore 21.00 alle 23.00 con Fiera Mirodìa, una vera e propria festa delle essenze dove sarà presentata la nuova ‘collezione’ di saponi.

Una grande tavola imbandita con gli ingredienti, i profumi, le forme e le storie che hanno ispirato la produzione, accoglierà amici, partner e altre realtà di Calimera che condividono insieme a Mirodìa un legame intimo con il territorio e una visione di sviluppo sostenibile. 

A colorare la ‘tavola dei saponi’ saranno le incursioni di artigiani,

Se dico Francesco Pasca, penso alla “singlossia”

di Paolo Vincenti

Se dico Francesco Pasca, penso alla “singlossia”. Penso all’irrazionale, che stimola la curiosità sempre in fermento di questo intellettuale così anomalo (di “anomalia come arte”, per dirla con Brenot, se è vero che alla base di ogni pratica artistica c’è sempre una follia creativa che smuove qualcosa dentro, spinge, stimola, suscita..) 

Se dico Francesco Pasca, penso a parole in libertà, archetipi, combinazioni alchemiche o a strutture palindromiche, come il famoso quadrato magico “Sator Arepo”, che l’autore cerca nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto .. e il mosaicista è lui stesso, l’autore, che gioca una partita a scacchi con le entità sovra individuali, come il tempo, lo spazio, il reale, il virtuale, e poi Fiato, Thea, Poiesi(es), Giano, Alber(t)o, Guido, ossia le pedine-personaggi nella scacchiera di una complessa rappresentazione trans-modale che sono i suoi libri.

Se dico Francesco Pasca, penso a “diversalità poetiche”, penso all’acronimo del suo cognome (P-pardus A-alatus S-sternit C-cornutum A-arietem),  impresso enigmaticamente dal monaco Pantaleone in una scena di quel libro di pietra che è il mosaico otrantino.

Dico Francesco Pasca e penso al linguaggio multiforme delle sue opere, alle più ardite sperimentazioni verbo-visive che caratterizzano il suo percorso  poetico, filosofico, matematico, e penso ad un viaggio multimediale, fra luoghi reali e mentali, seguendo quel filo rosso che imbastiscono i pensieri

Gli oltre quattrocento anni dell’Osanna di Nardò

di Marcello Gaballo

Furono certamente intraprendenti e di buon gusto i sindaci neritini che nei primissimi anni del XVII secolo vollero realizzare una espressione artistica ed architettonicamente originale come l’Osanna. Ancora oggi il monumento emerge nella sua bellezza stilistica all’inizio della “villa”, nell’ omonima piazza, un tempo subito fuori dalla cinta muraria.

 

Sia stata essa un capriccio umano, un elemento di arredo urbano oppure una eclettica testimonianza storica o ancora solamente un simbolo della fede del popolo neritino, certo è che  essa rimane un’opera davvero singolare, aldilà  delle intenzioni dei costruttori o dei committenti.

Ultimata nel 1603, l’ Osanna fu edificata su aere publico, ad Dei cultura, per interessamento dei sindaci di allora, Ottavio Teotino e Lupantonio Dimitri, rispettivamente sindaco dei nobili e del popolo, come ci è dato di leggere attorno al cornicione della cupola: HOC HOSANNA AD DEI CULTURA À FUNDAMENTIS AERE PUBLICO ERIGENDUM CURARUNT OCTAVIUS THEOTINUS ET LUPUS ANTONIUS DIMITRI SINDICI, 1603.

Il luogo dove sorge doveva già allora essere rinomato, trovandosi di fronte alla porta San Paolo o Lupiensis, che il neritino Angelo Spalletta aveva ricostruito circa quindici anni prima. Era il biglietto da visita della città per quanti giungevano da Lecce e la sua piazzetta doveva essere piuttosto animata per quanti vi si recavano ad attingere l’acqua o per gli acquisti: lì, come risulta dai documenti, vi erano perlomeno “la fontana” e la “beccaria di fore” (la macelleria fuori dalle mura).

Un altro edificio  dominava la piazzetta, l’antichissima chiesetta di S. Maria della Carità, oggi in deplorevole abbandono, che nel 1310 già versava i dovuti tributi ecclesiastici. Fungevano da sfondo le mura aragonesi della città con i suoi coevi torrioni circolari.

È possibile che il nostro monumento dovesse semplicemente riempire un vuoto e quindi essere stato inventato di sana pianta. Piuttosto credibile appare invece un’altra ipotesi, che  dovesse racchiudere al suo interno una preesistente colonna commemorativa, come tante altre possono osservarsi in varie cittadine del Salento ed anche lì poste all’ ingresso del paese.

Qualche Autore infatti ha felicemente ipotizzato che la colonna centrale del nostro monumento sia costituita da un’antica pietrafitta, cioè una delle antichissime stele votive erette dagli avi per le loro credenze votive, successivamente cristianizzata apponendo in cima il simbolo della Croce.
Di fatto le pietrefitte venivano issate su una piattaforma a gradinata, erano di un solo blocco di pietra leccese ed erano alte circa 3-4 metri.

Al di là delle ipotesi, la nostra costruzione  per la sua posizione strategica e struttura architettonica inusuale resta unica, risultando una delle più belle espressioni  del  “rinascimento” neritino, che in quel ventennio si manifesta con incredibile ripresa delle arti, delle lettere, dell’ architettura. Il benessere dei suoi baroni, la pinguedine dei suoi terreni, l’accresciuto numero di residenti e forestieri, la stanno rendendo infatti una tra le più interessanti città del Salento: ovunque vi sono cantieri e ogni convento, chiesa e palazzo viene ampliato ed abbellito.

La rinascita culturale e sociale fa nascere anche ottime maestranze, che da Nardò si attivano in ogni luogo di Terra d’Otranto. Sono gli anni di Giovan Maria Tarantino, degli Spalletta, dei Dello Verde, dei Bruno e di tanti altri abili mastri, tra i quali va senz’ altro ricercato l’artefice del nostro monumento.

Al suo valore storico si associa infine l’affetto dei neritini, che da sempre vi si attorniano la domenica delle Palme, per celebrare il rito della benedizione dei ramoscelli da parte delle autorità ecclesiastiche, in memoria dell’ ingresso trionfale di Cristo in Gerusalemme.

Riguardo l’ ingegnosa struttura ricordiamo solo che la sua cupola poggia su otto colonne, di cui le esterne congiunte tra loro mediante archetti plurilobati di epoca successiva. La base ottagonale fa pendant con l’omonima pianta della vicina chiesetta della Carità ed il binomio, non casuale, richiama ad usi e tradizioni assai importanti per la vita cittadina, tra i quali certamente  i festeggiamenti della prima settimana di agosto in occasione dell’ antichissima fiera dell’ Incoronata.

L’ ultimo restauro dell’Osanna risale al 1996, mentre l’ area antistante è stata completata nel 2001, riportando all’ integrità numerica i gradini su cui si erge il monumento, dei quali cinque erano rimasti coperti dagli innalzamenti del manto stradale. Con i lavori è stata rimossa la ringhiera di ferro degli anni ’40 che la circondava per proteggerla da danneggiamenti.

A distanza di  400 anni il monumento resta un gioiello, unico ed irripetibile, e come tale da conservare e da esibire con orgoglio, ma sarebbe stato opportuno commemorarlo e propagandarlo in maniera appropriata… perché lo merita!

Castro, bellezze naturali e tradizioni

 di Rocco Boccadamo

Un puntino quasi invisibile sulle carte geografiche, una sorta di ombelico segnante il connubio fra gli ultimi strati del verde Adriatico e le vivaci distese, dalle sfumature color blu intenso, del mare Ionio.

Tuttavia, Castro, autentica perla del Salento, è da tempo conosciuta ed amata: sia per le vestigia storiche (antiche mura, castello, torrioni, ex cattedrale), sia per le grotte marine (in primo luogo, Zinzulusa e Romanelli), sia per le incomparabili attrattive turistico – balneari (mare e fondali da incanto). Ormai, si colloca a pieno titolo come méta apprezzata e frequentata non solamente dai salentini e dai pugliesi, ma anche da parte di numerosi turisti e visitatori provenienti dal centro-nord Italia e dall’estero.

Nel Borgo, la torre medioevale più grande vanta, soprattutto, un panorama a dir poco mozzafiato: vi si spazia verso nord, quasi a voler rivolgere un rispettoso saluto ideale alla Serenissima, regina di sempre dell’Adriatico, verso est, dove a portata di mano si trovano, e sovente si scorgono, le coste e i rilievi dell’Albania e della Grecia, verso sud, nella quale direzione lo sguardo, doppiato il capo di Santa Maria di Leuca, sembra invece indirizzarsi all’universo delle civiltà musulmane, importanti e contrapposte. Sostandole accanto, si ha veramente la sensazione di “sollevarsi” dall’esistenza quotidiana

DEFINIZIONI (IN)CALZANTI

di Armando Polito

Sabato, 24 marzo 2012, telegiornale delle 13 su Rai 2. Pierferdinando Casini, intervistato sulla scelta del governo di ricorrere al disegno di legge anziché al decreto per la riforma del lavoro (quella, per intenderci, dell’articolo 18 la cui abolizione, dicono loro, favorirà l’occupazione mentre io dico che servirà solo a fare un 16 così ai lavoratori…), ha dichiarato testualmente: “Il governo ha fatto bene a scegliere la via mediatica”.

Ispirato da tanta proprietà linguistica (e che, so’ fesso?) propongo le definizioni che seguono per alcune locuzioni entrate da tempo nell’uso comune. Avverto il lettore che è libero di interpretare l’in in parentesi  della seconda parola del titolo con valore privativo o con valore preposizionale o con l’uno e l’altro insieme (che è, poi, il valore con cui l’ho usato io).

VOCE NEL DESERTO Espressione: “Mamma, che caldo!”.

ESSERE IN VOGA Far parte dell’equipaggio di un’imbarcazione impegnata in una regata.

OCA CON ZAMPE DI GALLINA Donna stupida e con rughe attorno agli occhi.

VILLANO RIFATTO Bifolco che si è sottoposto ad un’operazione di chirurgia estetica.

TANGENZIALE Strada nella cui costruzione sono intervenuti fenomeni di corruzione prima nell’acquisizione dei terreni, poi nell’assegnazione dell’appalto.

MAFIOSO  Cliente che mette a dura prova la pazienza del suo dentista; infatti non apre bocca nemmeno sotto tortura.

TERRA BRUCIATA È quella che lascia dietro di sé un pompiere incompetente.

ESPRIMERSI SENZA MEZZI TERMINI Parlare stando attento a non mangiarsi le sillabe.

SOLUZIONE ALCOLICA Superamento della depressione con una bottiglia di

La donna che sussurra agli Ulivi

di Silvana Bissoli

Da giorni penso a come presentarmi, a come raccontare un sogno che prende forma, perché, al di là di una semplice autobiografia, c’è molto di più: due vite agli antipodi e un destino comune.

Pensate ad una ragazzina come tante, adolescente, molto amata e piena di sogni, ma con le ali legate, strette dentro una splendida gabbia, condivisa con 3.500 anime.

Pensate a come, riuscita a liberarsi con il coraggio e l’audacia propri di ogni giovane vita che corre incontro al mondo spalancando le braccia, si spaventi della sua vastità e ne resti disorientata.

Pensate a quale emozione quando, determinata a trovare la propria strada, superando mille dubbi e paure, divenuta maggiormente consapevole del proprio cammino, si trovi immersa a vivere l’avventura più intima e personale della sua vita. Un’avventura talmente grande che neppure nei suoi sogni più arditi e fantastici avrebbe potuto concepire. A ogni volo, a ogni caduta, a ogni ferita rimarginata, l’adolescente cresce e si forma, prendendo sempre più coscienza di come tutto fosse stato già scritto nel meraviglioso libro della vita, che racconta la sua storia e si rende conto così che volti, paesi e figure, tutto doveva ricondurla verso quell’approdo, dove il fato l’aveva portata molti anni prima e lì, finalmente, ricongiungersi ai suoi sogni.

Ed ecco che ora tutto ha un senso: quell’incontro magico dei suoi vent’anni, quel richiamo forte e insistente, quegli eventi, solo apparentemente casuali, tutto la riconduceva in quel lembo di terra, tanto distante dalle sue radici, eppure così intimamente radicato.  Un percorso lungo e tortuoso, come difficili sono state le risposte da trovare in quel turbinio interiore che si agitava. E l’elemento in grado di eliminare le distanze e dare tutte le risposte, in una comunione di sentimenti e di azioni, che accompagnano i suoi giorni è lui: l’Ulivo.

Silvana Bissoli con i bambini di una scuola materna di Martano

E così, da dieci anni, le pagine della sua vita si riempiono di storie narrate con e attraverso le forme dell’albero che più di ogni altro rappresenta tutto: dal sentimento alla sostanza, dalla forza alla fragilità, dalla pace alla lotta, dalla gioia al dolore, dalla vita alla morte, tutto è contenuto nella sua simbologia e nella sua materiale essenza…

Una giornalista un giorno la definì “la donna che sussurra agli Ulivi”: è difficile spiegare le pulsioni che creano un legame tanto profondo. Gli Ulivi si donano generosamente e si lasciano docilmente trasformare e interpretare, incisi a fuoco con un segno indelebile che penetra la tavola di legno, un segno che sarà tradotto in sentimenti ed emozioni, quando, chi sensibile e attento con l’occhio del cuore, sentirà il suo respiro, perché è in quel l’istante che “l’Ulivo sussurra agli uomini” e, nella condivisione, consegna la propria testimonianza.

… e la storia continua…

Silvana Bissoli nel primo giorno di laboratorio in una scuola di Otranto

SILVANA BISSOLI PIROGRAFISTA

Nata a Sanguinetto (VR), vivo a Imola (BO), dove lavoro nel mio laboratorio d’arte “L’Ulivo ela Luna” sito in via Carradori,11.

Laureata in Scienze Politiche, giungo all’arte in maniera assolutamente autodidatta, per rispondere ad una spinta interiore, per assecondare un bisogno di esternare ciò che sento, lasciando che i miei lavori parlino per me.

L’incontro con l’artista pugliese Giorgio Fersini, mio maestro di pirografia, è stato determinante per la mia crescita artistica personale, incoraggiandomi ad esporre in pubblico.

La mia espressione artistica ha eletto l’albero dell’ulivo unico soggetto dei miei lavori, trattando questo autentico monumento della natura con la tecnica particolarissima della pirografia, svelandone lo spirito che si contorce ed aggroviglia in un movimento plastico che tende al cielo. All’Ulivo, quasi sempre reale, do voce e così esso diventa per me simbolo, parola, strumento di pensiero. Imparare a leggere tra le pieghe dei tronchi secolari un vissuto, un ammonimento, un incoraggiamento e soprattutto il coraggio di vivere che il tempo non ha mai scalfito: questa la mia ambizione, perché èla Natura, la vera maestra di vita.

Espongo in permanenza presso il mio studio “L’Ulivo ela Luna” e dal2003 inmostre personali e collettive.

Partecipo a concorsi, manifestazioni pubbliche e organizzo laboratori presso scuole e ovunque io sia invitata, perché ritengo indispensabile comunicare in modo personale e diretto, incominciando proprio dai bambini, attenti e curiosi, attratti dal mio lavoro, sia perché la tecnica è sconosciuta, sia per comprendere la ragione della mia ripetitiva rappresentazione.

Infine sono socia dell’Associazione “Musica in Musica” e più specificatamente del progetto “La Placedes Artistes”, che oltre a fare spettacolo, ha come obiettivo proprio quello di portare “l’arte in piazza” e, con una formula gioiosa, sensibilizzare ad ogni forma artistica.

 

 

 

 

 

Per informazioni

L’Ulivo ela Luna

di  Silvana Bissoli

Via Carradori, 11

40026 IMOLA (BOLOGNA) ITALY

Cell. 3397612304

Website: www.lulivoelaluna.com

e-mail: bissosil1@virgilio.it

Per ulteriori informazioni

www.lulivoelaluna.com

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Tuglie. La festa in onore di Maria SS. Annunziata

di Massimo Negro

La festa patronale è la Festa Patronale. Può accadere di essere lontani, fuori regione o lontani dall’Italia. Oppure a pochi chilometri, avendo per vicessitudini della vita, cambiato residenza. Ma la festa è la Festa.

E il suo richiamo festoso è il richiamo delle proprie origini, del proprio paese, della comunità in cui si è cresciuti, della propria terra. E’ come il suono di una banda, una sinfonia di ricordi che si fanno sempre più armonici e squillanti con il passare del tempo.

E’ l’appuntamento per rivedere solitamente persone, vecchi amici che si incontrano raramente durante l’anno. Perchè per la Festa tutti, o quasi, ritornano e la piazza del paese diventa il luogo degli incontri, del “te quantu tiempu ‘nnu te vidi!”, del “a casa comu vane le cose?”, del “ma t’ha spusatu? figghi?”.

E per chi non ci può essere perchè lontano per motivi familiari, di lavoro o di studio, resta comunque ovunque si trovi un giorno di festa. Un giorno in cui non può mancare la telefonata ai genitori, ai parenti ed amici per sapere “comu ete st’annu la festa”.

E così sarà anche quest’anno nei giorni 24, 25 e 26 marzo.

Altri tempi, quando adolescente, iscritto all’Azione Cattolica, con i compagni dell’Oratorio portavo a spalla  in processione una delle statue dei santi. A me solitamente toccava portare quella di S. Antonio, copatrono del paese.
Guai a sbagliare passo, come puntualmente accadeva, o a fare coppia con un compagno di altezza sensibilmente diversa, come spesso succedeva.

Il risultato era che l’asta su cui poggiava la base della statua ti “volava” via e dovevi fare forza per mantenerla poggiata sulla spalla, altrimenti il peso gravava sul compagno di turno o, viceversa, te ne uscivi al termine della processione con la spalla bella segnata dal peso e per un paio di giorni ti rimaneva qualche doloretto. Ma erano altri tempi.

Ma sempre “meglio” Sant’Antonio che la statua della Madonna, ben più pesante anche per via dell’angelo. La terza statua ad uscire per le strade del paese è San Giuseppe, anch’egli copatrono di Tuglie.

La processione principale, quella solenne, nel passato si svolgeva la mattina del giorno di festa.
Partiva al termine della messa delle 10, alla ” ‘ssuta te la messa”, e terminava a ridosso del pranzo. Si camminava per le strade dove, man mano che passava il tempo e ci si approssimava a mezzogiorno, il profumo delle polpette o della carne al sugo cucinata a fuoco lento invadeva le strade e ti accompagnava lungo tutto il tragitto.
Il profumo della cucina delle nostre mamme e delle nostre nonne che preparavano per il grande pranzo.
E il profumo delle polpette, della sagna al forno diventava tentatore come il canto delle sirene per Ulisse. Si partiva in tanti dietro le statue dei Santi e della Madonna e si arrivava solitamente in pochi. Molti si arrendevano strada facendo al richiamo della tavola.

Prima della processione, se non ci svegliamo tardi, era d’obbligo fare un giro alla grande fiera. La meta preferita era andare a vedere gli animali.

La sera tutti alle giostre, con le orecchie piene della musica da discoteca sparata ad alto volume, sentendosi da adolescenti come tanti piccoli Tony Manero (ai miei tempi Travolta andava di moda). Il tagadà, su le mani e senza mani, la barca, su cui immancabilmente mi sentivo male, e tante altre giostre da girare.

Era l’occasione per il primo gelato della stagione. E a Tuglie, per l’occasione, il gelato prendeva, come ancora oggi accade, la forma dalla “banana”. Cioccolato e vaniglia, ricoperti di meringa e noccioline. Fantastica!

La sera tutti ad attendere che la banda di turno suonasse il Bolero di Ravel a chiusura della serata. Poi ai margini della piazza, su una panchina a mangiarci, rigorosamente con le mani, la scapece che poco prima avevamo comprato dalla solita bancarella dei gallipolini.
Altri tempi.

Il giorno dopo la festa, detto della “Annunziateddha”, era il giorno del mercato in piazza. Una distesa incredibile di piatti, pentole e scarpe sparsi ovunque. Con la banda che dalla cassarmonica faceva da colonna sonora a quell’inusuale mercato.

Con passare degli anni la festa è cambiata. Ora la solenne processione si svolge la sera della vigilia, mentre per il giorno di festa la statua della Madonna viene nuovamente portata per le strade del paese per la benedizione dei campi.

I tempi cambiano, ma la festa è sempre la Festa. Anche quest’anno, a Tuglie il 24, 25 e 26 marzo.

 

Nel video che accompagna questa breve nota potrete vedere le foto, scattate negli anni scorsi, della processione solenne che si svolge la sera della vigilia e della seconda, il giorno della festa, per la  benedizione dei campi.

http://www.youtube.com/watch?v=RJZkXPOOqCI

pubblicato su:

http://massimonegro.wordpress.com/2012/03/22/tuglie-festa-di-maria-ss-annunziata/

“Cridi de chiazza”: un quadretto di vita gallipolina degli inizi del secolo scorso dipinto da “Pipinu”

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Mercato pubblico. Questa foto e quelle che seguono, di Stefanelli, sono tratte da Giuseppe Gigli, Il tallone d’Italia, II, Gallipoli, Otranto e dintorni, Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1912

Il ponte a dodici arcate che unisce il borgo alla città

A difesa della nostra bella e unica Terra d'Otranto

 
Forum                                       
AmbienteSalute
Via vico de’ Fieschi, 2 – LECCE     
 
sito web:  

http://forumambiente.altervista.org/

 
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Manifestazione a difesa della nostra bella e unica Terra d’Otranto

 

NO al faraonico scempio SS 16:
Salviamo la bella Terra d’Otranto
dagli ‘Orchi’ dell’asfalto e del cemento

 
 
 

Appello alla partecipazione di tutti gli amanti della Puglia al Sit-in per salvare Otranto ed il suo entroterra dalla voracità di una nuova SS-16 progettata assolutamente “non a misura di Salento”!

“Sì al lavoro che salva e non devasta il Salento: quello della Rinaturalizzazione!”

Una “STRADA PARCO” in una “CANTIERIZZAZIONE VIRTUOSA” davvero, che valorizza il paesaggio!
NON UNA ENNESIMA PERICOLOSA INUTILE STRADA DELLA MORTE AD ALTA VELOCITÀ!

Un sit-in pacifista per riportare i Lumi della Ragione in una regione che li ha smarriti!

Domenica 25 marzo 2012 pomeriggio ore 17.30 Otranto, svolta per gli Alimini, lungo il tratto terminale della SS-16

L’ ecatombe annunciata di oltre 8000 alberi d’ulivo per il progetto della nuova Strada Statale 16 nel tratto Maglie-Otranto, seppure già impressionate come dato di inaccettabile devastazione, è solo uno dei molteplici gravi fattori

La parrucca: forse fummo proprio noi salentini ad introdurla nel mondo occidentale

di Armando Polito

* Perché oggi si è (ac)conciato in quel modo?

**Dice che così gli riesce più facile scrivere quel post per Spigolature salentine…

Probabilmente è la protesi più antica nella storia dell’umanità e il suo successo continua da millenni. Resti di parrucche sono stati rinvenuti in tombe egizie ed i Persiani ne facevano ampiamente uso già ai tempi di Ciro il Grande (VI secolo a. C.) secondo la testimonianza dello storico greco Senofonte (V-IV secolo a. C.): Mandane si reca dal padre portando con sé il figlio Ciro. Appena giunsero e Ciro seppe che Astiage era il padre di sua madre, subito, come fa per natura un fanciullo affezionato, lo abbracciò calorosamente come si fa con qualcuno che si conosce da lunga data e vedendolo truccato con gli occhi dipinti, col viso impiastricciato di colore e la parrucca (komais prosthètois=chiome posticce) secondo il costume dei Medi (tipicamente loro infatti sono queste abitudini, nonché la veste di porpora, la sopravveste, le collane al collo e i braccialetti ai polsi; tra i Persiani, però, quelli che stanno in casa vestono meno pomposamente e vivono più frugalmente), vedendo il trucco del nonno, guardandolo intensamente disse: -Madre, come mi sembra bello il nonno!-1.

schiave dell’antica Grecia alla fontana

Nel mondo greco la parrucca ebbe come nomi più frequenti trìchoma (da thrix=capello) oppure prokòmion (alla lettera ciuffo che sta davanti) accompagnato o no da perìtheton (posto attorno) oppure da prosthetòn (=applicato) ed altri che leggeremo nelle citazioni che seguono; nel mondo romano essa era chiamata capillamèntum (da capìllus=capello) o caliàndrum o calièndrum (dal greco kàllyntron=spazzola, a sua volta da kallýno=abbellire, che è da kalòs=bello), oppure galèrus o galèrum.

Cominciamo dai Greci con una curiosa testimonianza riguardante Mausolo, re di Caria dal 377 al 353 a. C. Diamo qualche notizia preliminare: sposò la sorella Artemisia, che portò a termine il suo monumento funebre da lui stesso iniziato (una delle sette meraviglie del mondo). Fu la sua fortuna, perché da lui ebbe origine il termine mausoleo e ciò lo rese più famoso che famigerato, quale sarebbe stato se fosse prevalso quest’altro ricordo, riguardante il suo dipendente (nuova storia, anzi vecchia…ma veramente lui non ne sapeva niente e i cittadini erano così idioti?) Condalo,  tramandatoci dallo Pseudo Aristotele (contemporaneo del vero, IV secolo a. C.) in Oikonomikà, XV: Condalo, subalterno di Mausolo…vedendo che i Lici amavano portare i capelli lunghi (trìchoma) disse che erano giunti ordini dal re di bandire i capelli a vantaggio delle parrucche (prokòmia) e che dovevano rasarsi. Aggiunse che se volevano versargli una tassa fissata avrebbe fatto mandare dalla Grecia i capelli con cui avrebbe fatto confezionare le parrucche; quelli volentieri versarono ciò che chiedeva e da tanta gente furono raccolte notevoli somme.

E, con finalità non estetiche ma di travestimento, ne Lo scudo (vv. 374-378) del commediografo Menandro (IV-III secolo a. C.):

DAVO Ora però è tempio di agire. Tu, Cherea, conosci un medico straniero, uno sveglio è un po’ sbruffone?

CHEREA Temo proprio di non conoscerlo.

DAVO Bisogna trovarlo.

CHEREA Perché? Posso trovare un mio amico, affittare una parrucca, un mantello e un bastone. Lui poi tenterà di parlare con accento straniero.

Con le stesse finalità, riferite al campo militare, la parrucca è usata da Annibale secondo la testimonianza di  Polibio (III-II secolo a. C.) nel capitolo 78 del III libro della sua opera storica: Mentre l’esercito era in attesa usò pure uno statagemma singolare, certamente cartaginese. Temendo l’incostanza dei Galli e le insidie per la propria vita, in quanto recente era la loro alleanza, fece realizzare delle parrucche (perithetàs trichas, alla lettera capelli messi attorno, posticci) adattate alle forme che si addicono alle più svariate età e le usava cambiandole continuamente, per cui risultava irriconoscibile non solo a quelli che lo vedevano per la prima volta ma anche a chi lo conosceva.

Quasi un piccolo saggio sulle acconciature in genere e sulle parrucche in particolare è quanto ci ha lasciato nell’Onomastikòn (II, 29-30) il grammatico Polluce (II secolo d. C.): Tipi di acconciatura: giardino (kepos), tonsura circolare2 (skàfìon), ciuffo (prokòtta, poco più avanti lo stesso autore ne spiegherà l’etimologia), altra tonsura circolare3 (peritrochalàte). Si parla di prokòtta quando uno ha una lunga chioma solo davanti, cioè nella parte anteriore della testa (kottìs). I Dori così chiamano la testa. Quelli poi credono che la prokòtta non sia nemmeno un’acconciatura ma gli stessi capelli che si trovano sulla fronte. Chiamavano  anche triste acconciatura (pèntimos kurà)  la caduta o la rasatura in caso di ftiriasi, come dice il comico Eubulo. Era chiamata in qualche modo acconciatura (in greco kurà) pure la chioma di Ettore. Anassilao dice: la chioma di Ettore che dura un giorno. Timeo dice che questa acconciatura deve essere più corta intorno al viso e più lunga attorno al collo. Alcuni facevano crescere la chioma lateralmente o dietro, o sul viso in onore dei fiumi o degli dei. E veniva chiamata ricciolo  (in greco plochmòs) o frangia (in greco skollys) o ciocca di capelli. Non considererei la crocchia (in greco kosýmbe). Non è infatti cosa attica la kosýmbe, ma piuttosto il kròbylos, altrimenti detto penèke (forse da pene=tessuto) e prokòmion prosthetòn, non solo per le donne ma pure per gli uomini: quando hanno pochi capelli ne fanno uso.Qualcuno chiama questa protesi pure bella capigliatura (èutrichon).  

Passiamo ora agli autori latini.

Tito Livio (I secolo a. C.-I secolo d. C.) nel capitolo I del libro XXII della sua opera storica, a proposito di Annibale: Aveva risotto al minimo i rischi cambiando ora veste ora i coprimenti del capo (tegumenta capitis). La circollocuzione sarebbe stata  troppo generica perché con sicurezza si potesse cogliere l’allusione all’uso di parrucca se essa non fosse ricalcata sulla già vista testimonianza di Polibio.

Orazio (I secolo a. C.-I secolo d. C.) nella satira 8 del I libro, ai vv. 48-49: Avresti dovuto vedere cadere i denti a Canidia e l’alta parrucca (calièndrum) a Sagana.

Svetonio (I-II secolo d. C.) nel De vita Caesarum, IV, 11, a proposito di Caligola: Neppure allora poteva tuttavia soffocare l’indole crudele e depravata sì da non partecipare con grandissimo piacere alle pene e alle esecuzioni inflitte e frequentava di notte bettole e bordelli celato da una parrucca (capillamèntum) e da una lunga veste.

Giovenale (I-II secolo d. C.) nella satira VI, vv. 115-121 così ci informa sul conto di Messalina: La moglie, non appena aveva sentito che il marito (Claudio) dormiva, osando da augusta puttana indossare una cuffia da notte e preferire una stuoia al talamo palatino, lo lasciava accompagnata da non più di un’ancella ma entrava nel caldo lupanare con una parrucca (galèrus) bionda che nascondeva la capigliatura nera…

Per onorare il titolo sono ora costretto pure io a fare il famoso passo indietro e tornare ad un autore greco che ha lasciato del nostro passato un ricordo che, se corrispondesse alla realtà, farebbe felice Bossi (ammesso che, sia pure con la collaborazione del figlio, fosse in grado di sfruttarlo…).

Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C.) nel libro XII de I deipnosofisti introduce una citazione roportando le parole di Clearco di Soli (IV-III secolo a. C.): E (si abbandonò alla mollezza) pure la stirpe degli Iapigi che erano originari di Creta, venuti (in Puglia) per cercare Glauco ed ivi stabilitisi. I loro discendenti, dimentichi del senso della misura che improntava la vita dei Cretesi, giunsero a tal punto prima di mollezza, poi di tracotanza che per primi truccandosi il viso e portando parrucche (prokòmia perìtheta) indossarono vestiti sgargianti e considerarono cosa vergognosa lavorare e darsi da fare.

Se dobbiamo dar credito a Clearco gli introduttori dell’uso della parrucca nel mondo occidentale saremmo stati, dunque, proprio noi salentini. E ci è poco di conforto, gli amici di Taranto non ce ne vogliano, quanto scrive Pompeo Sarnelli, che nel tomo III di Lettere ecclesiastiche, Bortoli, Venezia, 1716 dedicò al tema un intero capitolo4 dal titolo Discorso historico, e morale contra l’abuso delle perucche negli Ecclesiastici, dal quale riportiamo quanto segue: Clearco ha parlato della Japigia propriamente detta. E son di parere, che intendesse de’  Tarentini, che in quei tempi fiorivano nella Japigia, e che si abbandonarono in ogni sorte di lusso, e di morbidezza5. Nella stessa pagina per corroborare la sua tesi cita una sfilza di autori6: e se Orazio7 (I secolo a. C.) per motivi cronologici può essere preso in considerazione, per gli altri8 , compreso Giovenale?, gli amici tarantini avranno buon gioco a dire che si tratta di un vecchio luogo comune…

_________

1 Ciropedia, I, 3

2 Taglio che lascia i capelli solo alla sommità della testa.

3 Meno spinta della precedente.

4 Pagg. 151-163.

5 Pag. 153.

6 A dire il vero il Sarnelli ricalca tale e quale (con l’omissione di Giovenale, per cui vedi alla fine di nota 8, e di altri minori e più recenti) l’elenco presente in Girolamo Morciano (XV secolo) che dedica al lusso di Taranto il capitolo XX del suo lavoro postumo Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto (nell’edizione rivista da Domenico Tommaso Albanese e pubblicata a Napoli dalla Stamperia dell’Iride nel 1855 alle pagg. 260-265).

7 Sermones, II, 4, 34: Pectinibus patulis iactat molle Tarentum (La corrottaTaranto si vanta per i suoi grossi pesci pettine) ; Epistulae, I, 7, 44-45: Parvum parva decent; mihi iam non regia Roma  sed vacuum Tibur placet, aut imbelle Tarentum (A chi è modesto si adattano le cose modeste; a me non piace la Roma dei re, ma la serena Tivoli e l’imbelle Taranto).

8 Gallio Sollio Sidonio Apollinare (V secolo d. C.), Carmina, 5, 435: Ipsaque, quae petiit, trepidaverat uncta Tarentum (E per quelle stesse cose la profumata Taranto aveva trepidato); Giovanni Pontano (XV secolo) I, XVII, 19: …madens Tarentum (…la rammollita Taranto);  Macrino Salmonio (pseudonimo di Giovanni Salmon, letterato del XVIII secolo): Et Sybaris sequitur luxus, madidique Tarenti (E poi viene il lusso di Sibari e della rammollita Taranto). Ecco la testimonianza di Giovenale (I-II secolo d. C.), Satira VI, Atque coronatum et petulans madidumque Tarentum (E l’inghirlandata e la sfacciata e la rammollita Taranto).

La Festa di Primavera e la fucarazza a Carosino

di Floriano  Cartanì

Carosino torna a festeggiare nella serata del prossimo 24 marzo la Festa di Primavera, una manifestazione che vedrà riunirsi attorno all’antico rito del falò, canti, musica, danze, e l’immancabile sorso di vino simbolo di convivialità. L’iniziativa sarà curata da un apposito comitato che vede in questa antica usanza pagana, un vero e proprio rito di socialità, il quale non consiste solamente nell’accensione del falò, ma considera lo stesso come atto finale di un lungo percorso, che si fa tradizione radicata nel territorio.

La costruzione della maestosa pila per il falò, composta di legnami vari, ha  contagiato la comunità richiamando ragazzi e ragazze attorno ai riti della preparazione e della raccolta collettiva di materiali. Il progetto ha contribuito anche a recuperare il rapporto con i luoghi campestri ed i suoi tempi lenti, fatti di suoni e di racconti orali, che hanno ancora la fragranza della bellezza della semplicità. Tutto è avvenuto con massima naturalezza ed è stato possibile reperire il materiale nei diversi agri (resti di potature di viti, ulivi, ecc.) grazie alla collaborazione di alcuni contadini.

Sono state confezionate diverse fascine utili per la fucarazza e lo stesso  “saramiento” è diventato praticamente il simbolo della Festa di Primavera 2012. Il rito collettivo, cominciato mesi orsono, si concluderà appunto la sera del 24 marzo  in fondo a via De Gasperi a Carosino, dove sarà dato fuoco alla fucarazza. Nell’occasione gli appartenenti al comitato, riconoscibili dalle apposite magliette, distribuiranno ai presenti alcune t-shirt che richiamano la manifestazione, per condividere con la comunità l’evento e ricordarlo nel tempo.

Usanze e cultura dell’antica civiltà rurale, si mescolano mirabilmente ancora oggi a Carosino grazie alla Festa di Primavera. Un magico rito agreste, sospeso  tra passato e futuro, tradizione e modernità, che si consuma tra la notte e il giorno, come il fuoco in cenere. Al limitar della campagna col centro urbano.

Libri a Calimera, da Lucca a Otranto

La libreria Voltalacarta

(via atene, 39 Calimera – accanto all’ufficio postale)
 
invita
 
sabato 24 marzo ore 18.30
alla presentazione del libro di Francesca Caminoli

VIAGGIO IN REQUIEM

edito da Jaca Book.

Alla presenza dell’autrice e guidati da Gianni Ferraris, giornalista, percorreremo un viaggio intimo e profondo.
La storia di un viaggio lungo 12 giorni. L’Italia trapassata senza usare autostrade, da Lucca a Otranto. Un diario. Francesca in compagnia di Guido…

115 pagine di un’intensità tale da lasciare senza fiato”(G. Ferraris).

 

IL LIBRO

“Quando, verso la fine di agosto del 2005, fui improvvisamente attraversata dal desiderio e dal bisogno urgente e inderogabile di essere sul luogo dove mio figlio si era suicidato un anno prima, non sapevo che avrei scritto un, diario del lento viaggio che mi ha poi portato da Lucca a Otranto. Invece, subito la prima sera, sola, in una piccola camera di un piccolo albergo sui Monti Sibillini, mi sono ritrovata a dialogare per iscritto con lui, ad annotare pensieri, cose viste, sensazioni. E così è stato per ogni sera dei diciassette giorni che il viaggio è durato. Forse un modo per fissare i pensieri, per non lasciarli pericolosamente liberi, non so. Al ritorno ho trascritto tutto sul computer. Non avevo intenzione di pubblicare questo diario. E’ dovuto passare del tempo prima che prendessi questa decisione. Che ho preso innanzitutto per ricordare e onorare mio figlio, ma anche perché ho pensato che forse la condivisione di un lutto può essere di conforto ad altri oltre che a se stessi, e infine perché non si dimentichi che nel mondo di oggi, dove ormai si è schiavi di un apparire sempre belli, giovani, sani ed efficienti, dove la morte è diventata quasi un tabù di cui non parlare, c’è anche questo. E fa parte della nostra vita”. (F. Crimaldi)

 

La parrocchiale di Melissano a 110 anni dalla dedicazione

F. Campasena, 1885. Disegno della chiesa di Melissano

di Fernando Scozzi

Una chiesa, una comunità: la parrocchiale di Melissano a 110 anni dalla dedicazione

D.O.M.

Precum effusio

Datori bonorum omnium

et indefessa populi

largitio

ad exitum opus duxerunt

die 8 februarii 1902

In questa scritta, che leggiamo all’ingresso della chiesa parrocchiale di Melissano, è riassunta la storia del sacro edificio, di cui, alcuni giorni fa, abbiamo ricordato il 110° anniversario della dedicazione. La Fede, le preghiere e l’instancabile generosità dei nostri Padri edificarono questa chiesa i cui lavori iniziarono nel 1885, quando Melissano contava appena 1500 abitanti: un agglomerato di casupole affacciate sulla campagna, pochi vicoli ricalcanti gli antichi sentieri campestri e due chiese, fra le quali l’antica parrocchiale, dedicata al Protettore S. Antonio e non più adeguata al culto.

Fin dal 1877, infatti,  il parroco, don Vito Corvaglia, scriveva al Papa Pio IX facendosi ardito a presentare a Sua Beatissima la preghiera come appresso: lo stesso trovasi parroco di una meschinissima chiesa, indegna al culto di Dio e neppure idonea a contenere una popolazione crescente di giorno in giorno:

LECCESI, C’ERA UNA VOLTA / Prima parte: NUI LECCESI SIMU!

Locandina in "Leccesi c'era una volta"

di Alfredo Romano

PREMESSA
Mi fa piacere far conoscere al pubblico degli Spigolatori i testi di un mio spettacolo in dialetto salentino dato alcuni anni fa a Civita Castellana dove vivono cinque mila salentini arrivati qui negli anni 50′ e ’60 del secolo scorso. Per chi non avesse dimestichezza con il dialetto salentino, ho provveduto, in basso, alla traduzione in lingua italiana. 

I due video di questa prima parte dello spettacolo teatro-musicale

1.  Alfredo in “NUI LECCESI SIMU!”

2. Alfredo interpreta “QUA SE CAMPA D’ARIA” di Otello Profazio

Il testo in dialetto
 Allora, simu tutti? Manca quarchedunu? Ci cu pputìti schiattunisciare… sciati e ffacìti cu bbegna! Cce, nu’ stae bonu? Stae ‘ccasa ‘nu pocu maru? L’hae

I Pappamusci di Francavilla Fontana e i riti della Settimana Santa

Si è inaugurata il 20 marzo a Roma, nella Sala S. Rita di Roma, una interessante mostra fotografica su “I Pappamusci”, uno dei più antichi e suggestivi riti legati alle celebrazioni della Settimana Santa, che si svolge a Francavilla Fontana, in Puglia. Alla cerimonia di inaugurazione sono intervenuti, tra gli altri, Vincenzo della Corte, Sindaco di Francavilla Fontana, Giordano Fantozzi, Presidente Nuova Coscienza, S.E. Marcello Semeraro, Vescovo di Albano, Ludovico Maria Todini in rappresentanza dell’Assemblea Capitolina.
A conclusione il baritono di Francavilla, Mario Micocci, ha cantato due  stazioni della Via Crucis.

La mostra resterà nella Capitale dal 21 al 24 marzo.

Attesissimo evento da parte dei Francavillesi e dei tanti turisti che giungono in città durante il periodo pasquale, il rito è poco noto ai pugliesi. Buona quindi l’occasione per richiamare l’attenzione sul pellegrinaggio dei “Pappamusci” e sulla Processione dei Misteri, tradizioni religiose che si

Libri/ Il Salento dei poeti

 

ph Vincenzo Gaballo

 

 

Qui, se mai verrai…

Il Salento dei poeti

di Gianni Ferraris

E’ un audiolibro, è una guida poetico – sonora del Salento a cura del Fondo Verri per i luoghi d’allerta (http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/08/08/luoghi-d%E2%80%99allerta-ottava-edizione/).

Un viaggio nel territorio dei muretti a secco, degli ulivi narrato con le parole di Vittorio Bodini, Girolamo Comi, Ercole Ugo D’Andrea, Rina Durante, Vittore Fiore, Vittorio Pagano, Claudia Ruggeri, Salvatore Toma, Antonio Verri e recitato da Angela Di Gaetano, Piero Rapanà, Simone Giorgino accompagnati dalle musiche di Adria e Bandadriatica.

Qui se mai verrai è l’0maggio a chi ha saputo interpretare la pietra, il vento e il mare, le strade di polvere e i dolori delle malinconie consumate al sole. La luce col suo accecare, il soffoco e il mare. Il Salento insomma, la terra che stai visitando! Che mai potrai sapere nella sua pienezza. Fugge sempre… sempre cangia puntuta e scontrosa… Sensi soltanto, nell’allerta, ti chiediamo. La poesia è accorgersi e dimenticare, sussurro… materia labile. Confondila con gli occhi! Guardala”.  Così Mauro Marino nel risvolto della copertina.

E ancora, Antonio Errico, nella sua introduzione, dice dei poeti di Salento e delle parole della poesia: “…Accade, a volte, che una poesia rassomigli straordinariamente ad una terra. Che nelle sue parole si senta l’ odore del basilico, si vedano i colori dei gerani, si accendano riflessi di orizzonte, rilucano increspature di mare…”

Salento, terra dei rimorsi e della  storia tutta compressa in ogni salentino. Dalle

Canto all’Olivo

olivo monumentale loc. San Nicola Felline – Alliste (foto Roberto Gennaio) già censito nel volume Alberi Monumentali del Salento di Gennaio R., Medagli P., De Santis B.. Ed.Congedo, 2000

di Roberto Gennaio

Olivo

Muto testimone del tempo

Tu sei come il Cristo

Continuamente flagellato dall’uomo e dal vento.

 

Eredità dei miei avi

Tu sei madre a cui tutti hanno attinto al frutto del tuo grembo.

 

Valoroso guerriero dal corpo loricato

Hai saputo resistere all’oltraggio dei secoli e dell’ uomo.

 

Tu conservi nel tuo libro la storia dei messapi, dei saraceni, dei romani.

 

Tu che sei virile re dalla florida corona

Che affondi in questa terra pietrosa e riarsa

Le tue forti mani nodose

Sei il mio rifugio

E al tuo fresco abbraccio

Abbandono il mio spirito e il corpo stanco:

fammi assopire al racconto di elfi e di fate .

Ulivi monumentali: patrimonio dell’umanità e diritto alla tutela

ph Donato Santoro

di Mimmo Ciccarese

 

La Puglia, tra tutte le regioni d’Italia, ha il più rilevante patrimonio olivicolo. Oltre 350.000 ettari di superficie agricola sono coltivati a ulivo (pari al 25% della superficie agricola utile regionale); di tal estensione, il Salento leccese conserva circa 84.000 ettari di oliveti, pari a circa dieci milioni di piante. Il 30% di queste piante sono piante di età ultrasecolare.

Alberi plurimillenari, quindi, distribuiti nella penisola salentina, tra preistorici muretti a secco, dolmen e menhir, “paiare” (tipo di trulli). Queste bellezze uniche si possono ammirare, infatti, in ogni angolo del suo territorio: dalla Grecia salentina all’otrantino, dal Parco del Negroamaro al Capo Leuca, nell’Arneo.

I titoli varietali di Cellina di Nardò e Ogliarola leccese la dicono lunga sulla loro origine; ancor di più le caratterizzano gli appellativi popolari che secondo il modello delle loro produzioni vegetative e fruttifere, le indicano con nomi alquanto esotici: “saracina, morella, cafarella, cascia, nardò, termitara, scisciula, scuranese”. 

Decine di migliaia di alberi sparsi, tra cui spiccano epiteti d’eccezione per il loro regale portamento, scultura o grandezza:”albero del pastore”, “lu gigante”, “lu barone”, “la baronessa”.

La loro longevità è di grende importanza se si considera la loro resistenza genetica a varcare indenni ere di ostilità (atmosferiche, cambiamenti climatici, interessi dell’uomo).

Gli ulivi oggi sono il patrimonio e l’identità connaturata dei

Salento di ieri e contrabbando

di Rocco Boccadamo

I fatti e i costumi delle varie epoche, la vita vissuta che si inanella lungo gli anni e i lustri o in spazi temporali di maggiore ampiezza, possono da soli costituire una fonte di apprendimento e di riflessione assai più efficace ed illuminante di quanto riesca a rivelarsi un pur dotto e ricco trattato: ovviamente, occorre passare in rassegna gli eventi e le abitudini con occhio obiettivo, scrutarne i motivi e gli spunti di fondo con serenità e tranquillamente, come nello scorrere le pagine e i capitoli di una raccolta di volumi.

Soffermiamoci, mediante qualche immagine concreta, sul cappello di queste note, che propone una sorta di raffronto definito e circoscritto.
E’ sufficiente rapportarsi alla metà, finanche agli anni sessanta/settanta, del secolo da poco trascorso, per cogliere, ancora vivi di suggestione, piccoli ma significativi esempi di fatti, azioni e comportamenti della gente che, a vederli collocati ai nostri giorni, verrebbe subito da definire preistorici.
Tutti ricordiamo che il sale (l’utile e diffuso elemento per la cucina e che riguarda il nostro stesso nutrimento) una volta rientrava fra i generi di monopolio, la cui vendita era cioè di competenza e controllo dello Stato, attraverso strumenti e canali dallo stesso appositamente autorizzati.
A quell’epoca, lungo le coste salentine, nei tratti caratterizzati da bellissime scogliere, si registrava un fatto singolare: tante e tante buche delle scogliere medesime che, in occasione delle mareggiate, venivano in parte allagate dall’acqua salata, finivano in un certo senso con l’essere tacitamente e abusivamente prese in consegna da uomini o donne, proprietari di minuscoli fondi agricoli (le marine) posti a ridosso, appunto, delle coste rocciose, che «curavano» (osservate l’estrema proprietà della voce verbale) dette «conche», implementandone il contenuto attraverso pazienti e cadenzati innaffiamenti di acqua dolce piovana, prelevata, non senza fatica, da piccole cisterne. Grazie a siffatto processo, la massa liquida delle «conche», evaporandosi sotto il sole, giungeva a trasformarsi in uno strato di bianco e luccicante sale.
Quei «badanti» non autorizzati riuscivano così ad ottenere il risultato di fare a

I Passiuna tu Cristu e altri canti popolari salentini religiosi a Cutrofiano

Rogier van Weyden, Deposizione (1435-1440)

L’associazione culturale musicale “CARDISANTI” in collaborazione con l’associazione “CARPE DIEM” propone Domenica 25 marzo a Cutrofiano nel santuario delle opere Antoniane (villa S.Barbara) alle ore 19:30 il concerto “QUANTU PATIU NOSTRU SIGNORE” 2° edizione.

Una serie di canti popolari salentini religiosi non liturgici sui temi della Passione di Cristo, una delle più alte espressioni della poesia popolare in musica.

Questo lavoro nasce dal bisogno di far conoscere il senso religioso e i contenuti narrativi di questo antico momento di vita religiosa e sociale della comunità salentina.

Nei tempi in cui la liturgia era in latino, i vecchi cantori partecipavano ai riti religiosi con dei canti, alcuni dei quali in dialetto.

Accanto ai brani tradizionali più noti del ciclo Pasquale salentino, “La Passione” e “Santu Lazzaru” sono riproposti dei motivi legati alla liturgia

Lecce. Il grembiule tra simbolismo e narrazione

Itinerario Rosa

XIV Edizione

Città di Lecce

Assessorato alla Cultura

presenta

 

dal 21 al 25 marzo 2012

94 gradini. Il grembiule tra simbolismo e narrazione

Complesso dei Teatini

C.so Vittorio Emanuele

Lecce

ingresso libero

17-21 h

artisti presenti:

Maria Grazia Anglano, Mauro Amato, Francesca Ascalone, Paola Bitelli, Floriana Brunetti, Luigi Cannone, Daniela Cecere, Enrica Cesano, Francesca Cucurachi, Eliabò, Mirko Gabellone, Rosanna Gesualdo, Lucy Ghionna, Monica Lisi, Patrizia Macchia, Alessandro Matteo, Massimiliano Manieri, Luca Nicolì, Romina Tafuro.

ore 18.30intervento-  “Vecchi e nuovi grembiuli” con  Tommaso Ariemma (filosofo)

ore 19.30- performance: “ Lei, con un grembiule, i suoi seni nel mezzo “di Massimiliano Manieri

23 marzoore 19.00- performance – “La Tetta” de  I parolai di via Adda

25 marzo ore 18.00– balletto- Un grembiule di parole- allievi del Corpo Parlante, Scuola di danza Alessandra Pallara

ore 19.00– incontro “Il grembiule tra simbolismo e narrazione”.    Intervengono Elisa Albano (psicologa) Valentina Vantaggiato (giornalista) e gli Artisti in mostra Coordina Ambra Biscuso

 

Uomini e donne: l’errore di Kant

James Jacques-Joseph Tissot (1836 – 1902), Il ventaglio (1875)

di Pier Paolo Tarsi

Kant non si è mai sposato. “E per niente era un genio?”- direbbe qualcuno, ma non è questo il punto che ci interessa discutere qui. Tale particolare biografico permette di comprendere, e in parte giustificare, l’errore fondamentale del suo grandioso sistema filosofico: la pretesa che le forme trascendentali della conoscenza fossero le medesime in tutti gli esseri umani, tanto di genere maschile quanto femminile.

Quello che tradì il filosofo fu proprio la mancanza di quanto egli sommamente aveva in conto, ossia l’esperienza stessa, non avendo avuto a che fare con una compagna da osservare per un tempo necessario ad uno studio rigoroso della questione, cosa che gli avrebbe certo permesso di comprendere facilmente quanto fosse ingenua e arbitraria l’estensione della sua visione epistemologica anche alle donne. Le forme a priori e le categorie che il filosofo individuò e descrisse meticolosamente nella Critica della ragion pura non valgono infatti, come mostreremo, se non esclusivamente per quegli esseri umani di cui egli poteva avere un’esperienza immediata per appartenenza personale al genere, ossia i maschi stessi.

Per cominciare non siamo certi che il filosofo avesse ragione in merito alle

Aprendo l’animo: due compleanni e una lettera senza tempo

di Rocco Boccadamo

Sedici marzo duemiladodici, sono settantuno, per l’autore di queste righe.

Venti marzo duemiladodici, sarebbero stati novantacinque, per una madre dolce e buona.

La quale, invece, se n’è andata nell’ormai lontano millenovecentosessantasei, contandone soltanto quarantanove.

A più riprese, anni ed età, del presente e di ieri, e, intanto, cade la ricorrenza di S. Benedetto, con i primi garriti, annuncianti l’arrivo della stagione dei fiori.

Secondo le scansioni naturali e astronomiche, i progressivi rosari di primavere conferiscono vie più massa all’accumulo del tempo. E, però, per chi scrive, dal momento del richiamato omega, è come se i relativi rintocchi e calendari si siano rarefatti, l’alba e la controra di una data d’inizio estate, in piena gioventù, sono state rivissute eguali lungo la sfilata del tempo, a ogni risveglio rinnovatosi, sino al lento dischiudersi delle palpebre, il mattino, oggi.

E, ancora, non hanno subito alcuna trasfigurazione, nella mente, il suo volto e l’espressione nel solco del calvario, rievocanti, in fondo, fattezze giovanili, nonostante il tormento del mostro.

Brevi decenni, fianco a fianco, voci e sguardi a incrociarsi e, soprattutto, un mare di semplici, buoni e positivi esempi, da madre a figlio (o meglio, da madre a sei figli).

C’è stato, invero, fonte di conforto, il margine affinché conoscesse, con gli occhi lucidi di gioia, il primo nipotino, lo tenesse con fatica in braccio nel ruolo di madrina, lo accarezzasse, seduta sul letto, nel Natale conclusivo.

Con la penna, il ragazzo di ieri potrebbe, di getto, tratteggiare a iosa altre parole e ricordi, tuttavia, a questo punto, gli sembra prevalente la scelta d’invertire i protagonisti della scena, lasciando parlare direttamente Lei, attraverso una sua lettera, semplici righe manoscritte in un linguaggio umile e approssimativo, fra italiano e dialetto, da quinta elementare e, nondimeno, dal contenuto così particolarmente intenso, emozionante e intriso di profondo valore didattico.

Ero già diciottenne, e, per frequentare l’ultimo anno delle superiori, a Maglie, avevo chiesto, e ottenuto, di non fare il pendolare con la corriera delle autolinee “Sud Est”, ma di fermarmi ”a pensione” presso una famiglia della cittadina.

Sennonché, nella nuova casa, agli inizi, incappai in una fase d’insofferenza e disagio per via di qualche difficoltà d’ambientamento e adattamento, avanzai addirittura l’idea di cambiare, scaricando tale proposito giusto su mia madre.

Di seguito, è riportata, tratta direttamente dall’originale, la sua risposta, al solito equilibrata, saggia, senza toni da cattedra, ma con capacità di convincimento, efficace.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

 Marittima, 29 – 10 – 1959

Caro Rocco,

Mi hanno appena portato la tua lettera e subito ti scrivo.

Noi stiamo bene, lo stesso auguro sempre a te.

Circa la tua richiesta di mandarti qualcosa, che ti devo inviare, se non un po’ di pasta, la salsa, una scatoletta di carne, un po’ di zucchero?

Di patate, in casa non ne abbiamo. Una mattina, alzati presto e fai un salto al mercato, così te ne compri due – tre chili (hai voglia a mangiare!), insieme con qualche chilo di verdura, facilmente reperibile in questi tempi.

Qui, quest’anno la produzione è scarsa, cavoli non ce ne sono.

Se cambi casa, stai attento a non compiere leggerezze, col rischio, magari, a distanza di un mese, di dover cambiare nuovamente. Penso che in nessun posto ti troverai meglio di dove stai adesso, a me la Signora è sembrata buona.

Ad ogni modo, fai come credi, basta che tu sia in gamba e ti faccia sempre i fatti tuoi, senza interessarti degli altri.

Ti mando i soldi per la pensione e, in più, mille lire per il latte e le patate.

Il Battesimo, in cui dovrai fare da padrino, non si sa quando si terrà, perché il compare è ancora a lavorare in Francia. I tuoi zii, invece, sono ritornati, stanno bene; quando vieni, troverai, da parte loro, un pacchetto di sigarette per te.

Tanti saluti dagli zii e dai nonni e infine ti salutiamo noi.

Tua cara mamma. 

P.S.: circa i documenti che hai chiesto, te li farà tuo papà quando ha un po’ di tempo.

 

Nella stessa lettera, piccola nota della sorella Teresa, dodicenne.

 

Caro, Rocco. Pensa a camminare con il naso dritto.

Saluti. Teresa

 

Che aggiungere? Proprio niente, salvo il particolare che restai in pensione presso la Signora di Maglie sino alla fine dell’anno scolastico, facendo, invece, ritorno a Marittima, da mia madre, per prepararmi agli esami di diploma.

Ovviamente, è divenuta immensa la distanza curricolare da quella stagione e l’attuale quotidianità incorniciata dai capelli bianchi non prevede più sessioni di prove scolastiche, essendo, bensì, rivolta a traguardi e mete di tutt’altro genere, e però, sempre sotto lo sguardo della Signora autrice della lettera di cui anzi.

Unum tantum edo, uno e basta! Questo è il corbezzolo

 

Rusciuli del Salento leccese (Corbezzolo Arbutus unedo L.):

ne mangio uno! Uno e basta!


di Antonio Bruno

Il corbezzolo (rùsciulu per il Salento leccese) è un arbusto o alberello sempreverde che può, con una ruvida corteccia scura.
Le foglie sono di colore verde scuro, più chiare nella pagina inferiore, lunghe 4-5 cm., ellittiche, lucide, col margine seghettato. I fiori sono piccoli e a gruppetti, di un colore che va dal bianco al roseo. I frutti sono simili alle fragole, sferici, grandi fino a 2 cm., conuna superficie verrucosa e ruvida.
Di seguito utili notizie su questo frutto del Salento leccese.
 
 
“Rusciuli russi, ci òle rusciuli?”
 
Cantu nna beddha strìa ca’ passa e tice:
 
“Rusciuli russi, ci òle rusciuli?”
 
O Lecce t’amu tantu e su’ felice.
 
Traduzione
 
Corbezzoli rossi, chi vuole corbezzoli?
 
Canta una bella ragazza che passa e dice
 
Corbezzoli rossi, chi vuole corbezzoli?
 
O Lecce t’amo tanto e son felice
 
 
 
Sarà per il loro colore che mi fa pensare al bel rosso delle labbra di questa donna, sarà che questa bella donna li offre con spensieratezza, ma questi frutti mi mettono allegria e sono stati per tanto tempo mangiati da papà e mamme del Salento leccese. Adesso non li trovi mai!
Scrive Gianni Ferraris in Spigolature Salentine: “Terra di profumi, e di colori il Salento. Il cielo è azzurro intenso, il mare passa dal verde al bianco, al nero. E la campagna ha il rosso della terra e il verde intenso della vegetazione. In queste terre ho mangiato per la prima volta nelle mia lunga vita i corbezzoli raccolti dall’albero (rùsciuli in dialetto), ed ho raccolto rucola spontanea. Ne trovi ovunque qui. Ed ho visto ballare la pizzica. Pizzica e taranta, ritmi simili che hanno contaminazioni africane con l’ossessivo suono dei tamburelli.”
Il Corbezzolo Arbutus unedo L. è un arbusto sempre verde tipico del Salento leccese è una specie appartenente all’ordine delle Ericales, alla Famiglia delle Ericaceae e al genere Arbutus.
Gli antichi lo associavano alla dea Carna, protettrice del benessere fisico, rappresentata con un rametto di corbezzolo tra le mani con cui la dea scacciava gli spiriti maligni.
E’ stato descritto da Aristofane, Teofrasto, Virgilio, Plinio, Ovidio e Columella che hanno descritto l’uso dei frutti della pianta attribuendo il nome latino unum edo (Arbutus unedo).
Se Virgilio nelle Georgiche indica questa pianta semplicemente col nome “arbustus”: arbusto, Plinio il Vecchio era entusiasta di queste bacche rosse o di un bell’arancione solo che ne raccomandava un consumo limitato. Plinio diceva “unum tantum edo”, che tradotto significa “uno e basta”.

Questa cautela deriva dalla circostanza che vede alcuni individui che mangiano anche poche corbezzole soffrono di gravi disturbi gastrointestinali ed ebbrezza, quest’ultima determinata dal fatto che quando “i rusciuli”sono maturi contengono una discreta quantità d’alcol. Se vi avvicinate all’albero di Corbezzolo raccogliete i frutti. Si raccolgono quando sono belli rossi e morbidi al tatto.
Un frutto che ti ci possono mandare a raccoglierlo: “Ane! bba cuegghi rusciuli!! E poi dammeli tutti a mie!” che significa “E vai a raccogliere corbezzoli! E poi dalli tutti a me!”.

i fiori del corbezzolo (ph M. Gaballo)

E’ originario dell’Irlanda dove si trova ancora oggi. I Romani possono averlo introdotto nel Salento leccese. Lu rusciulu è quasi estinto eppure lo sapete che si racconta che il corbezzolo ha ispirato i colori della bandiera italiana?
Bianco, rosso e verde: il bianco dei suoi fiori, il rosso dei suoi frutti ed il verde intenso delle sue foglie, ed ecco che nel Risorgimento Italiano divenne un simbolo patriottico, perchè proponeva i tre colori della bandiera che guidava i nostri antenati desiderosi di unire l’Italia, fu per questo motivo che il corbezzolo divenne simbolo della lotta di indipendenza.
Il corbezzolo compare anche nello stemma della città di Madrid.
Oltre ai frutti che i nostri papà e mamme hanno abbondantemente mangiato la pianta sta riscuotendo un successo per la presenza contemporanea in inverno di fiori bianchi, frutti rossi e aranciati e foglie verdi.
La pianta di corbezzolo può raggiungere dimensioni ragguardevoli con un diametro di metri 2,5 e un’altezza di 5 – 8 metri.
Ha infiorescenze terminali che pendono con 15 – 30 fiori. La fioritura avviene a partire da questo mese di Settembre sino al Marzo successivo, il frutto è una bacca che pesa da 5 a 8 grammi, si può mangiare, ha una polpa ambrata piena di sclereidi (sono quelle parti che formano il guscio di molti semi) con un numero variabile di semi, ed è ricchissimo di zuccheri e vitamina C.
Gli uccelli sono ghiotti dei rusciuli, nutrendosene diventano i responsabili della diffusione di questa pianta, ma è anche riproducibile per parte di pianta visto che la pianta del corbezzolo dopo un incendio ricaccia abbondantemente, facendo questa pianta adatta per l’uso forestale nella nostra zona che è ambiente di macchia mediterranea soggetta agli incendi estivi.
 

 
Bibliografia
 
Pizzi – Gentile: Lecce Gentile
Gianni Ferraris: La torre del Serpe
Federico Valicenti: C’era una volta il Corbezzolo
Nieddu, G.; Chessa, I. : Il corbezzolo [Arbutus unedo L.]
Chessa, I.; Mulas, M: Le specie frutticole della macchia mediterranea: la valorizzazione di una risorsa
Morini, S.; Fiaschi, G.; D°Onofrio, C.: Indagini sulla propagazione per talea di alcune specie arbustive della macchia mediterranea
Chessa, I.; Mulas, M.: Le specie frutticole della macchia mediterranea: la valorizzazione di una risorsa

Clemente Antonaci e Il cittadino leccese (terza ed ultima parte)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Conclude il ciclo di puntate dedicate all’argomento un altro “stornello” pubblicato nel n. 5 (anno secondo) del 29 marzo 1862 del settimanale leccese. Rispetto al precedente la struttura metrica appare più “popolare” con i versi, sempre endecasillabi, a rima baciata.

Stornello

Era un mese d’autunno allor che il nido

Va la rondine a porre in altro lido

E mi disser venivi; intesi il core

Come quel tempo che fu primo amore.

E mi vestii color dell’amaranto1

Ed in famiglia ti si attese tanto:

Poi l’altro dì vestii color di neve

E ad incontrarti feci via non breve:

Poi l’altro dì vestii color del mare

San Giuseppe e la tradizione

di Emilio Panarese

 

La festa di S. Giuseppe, che a volte precede di poco la Pasqua, è la prima festa di primavera, legata a ricordi di vecchie tradizioni, in parte scomparse, come la taulàte de S. Giseppe* (le tavole col ricco pranzo per nove poveri servito da una padrona devota) e le pagnuttelle benedette con la rituale massaccìciri bbullente/ca fuma de li piatti sbitterrati, consumata la vigilia e chiamata a Lecce cìceri e ttria: taglierini fatti in casa mescolati con ceci e con qualche taglierino fritto spezzettato sopra.

cìciri e tria, tipico piatto salentino consumato nella festività di S. Giuseppe

 

Puglia ribelle: movimenti antifascisti nella Puglia degli anni di piombo


Martedì 20 marzo alle 18, presso lo Spazio Sociale Zei, il Comitato Provinciale ANPI LECCE, in collaborazione con l’ARCI ZEI, propone una rievocazione cinematografica e un excursus storico sui movimenti antifascisti che animarono la Puglia dal 1969 fino ai primi anni Ottanta, uno dei periodi più critici e controversi della storia della nostra Repubblica.
L’occasione sarà offerta dalla proiezione del film-documentario Benny vive, inchiesta del regista barese Francesco Lopez sulla vicenda di Benedetto Petrone, giovanissimo operaio militante della FGCI assassinato da una squadra di neofascisti dell’Msi la sera del 28 novembre 1977, nei pressi della prefettura di Bari. La pellicola racconta la storia di un ragazzo qualsiasi della

Statale 16 Maglie-Otranto. Morte annunciata del territorio

 
di Fernando Bevilacqua
 
 
Sono allibito dall’atteggiamento preso intorno alla statale 16 dalla gente. E ancora di più dalle associazioni ambientaliste e da tutti quegli organismi che tanto vantano di essere attenti al territorio, alla sua conservazione, alla sua valorizzazione.
 
Bene, osservo l’ambaradam che essi stanno sollevando, di certo animati da buoni intenti, per salvare gli oltre 8000 ulivi e tante altre piante, che verranno fatte fuori per la realizzazione di una morte annunciata: la doppia corsia!!!
 
Ad essa si aggiungono le  due complanari, che tutti “dimenticano” di citare: grandi quanto due strade  e che invaderanno il territorio per una lunghezza superiore alla strada stessa. Queste due complanari devono entrare nelle campagne per servire strutture produttive create in questi ultimi tempi abusivamente e poi sanate con leggi fatte per i soliti furbi.
 
Morte annunciata del territorio. Che è la nostra faccia, il  nostro sguardo, che è noi!  Ed ogni volta che lo guardiamo, ci stupisce sempre di più per la sua bellezza. Sempre di più  mi pare che tutti quelli di cui sopra (cittadini, organizzazioni ambientaliste) stiano cercando affannosamente di collocare per trapianti gli organi di un corpo di un condannato a morte non ancora ammazzato, pur sapendo che il condannato è completamente innocente, colpevole solo di essere utile a tutti, ma non ai pochi (qualche politico, qualche speculatore) che di  quella ricchezza comune ne fanno mortale speculazione.
 
Allora mi chiedo se non sia più giusto per voi, adottatori di ulivi e associazioni ambientalistiche e uomini e donne di buona volontà,  di riconsiderare la

La graffiante satira di Paolo Piccione va Oltralpe

Il 22 e 23 marzo 2012, il vignettista salentino Paolo Piccione sarà ospite dell’Università di Saint Etienne, dove prenderà parte al III SIMPOSIO E MOSTRA DI VIGNETTE DI SATIRA POLITICA DAL XIX SECOLO AD OGGI, presso le Grandes Ecoles – Lycée Claude Fauriel di St. Etienne, in qualità di illustratore e vignettista satirico italiano.

Il 22 e il 23 ci sarà la mostra di vignette satiriche.

Il 23 la Tavola Rotonda su “Le sfide e le limitazioni del fumetto politico in Francia e in Italia oggi”, dove, oltre all’autore italiano, ci saranno due grandi firme della satira francese: Bauer e Coco.

Programma ed info su: http://www.prepas42.org/web/actus/calendrier/2011_colloque_caricature.html

Se ne discute a Maglie. Lo scempio della mega strada a 4 corsie Maglie-Otranto ed altro

 
Forum                                       
AmbienteSalute
Via vico de’ Fieschi, 2 – LECCE     
 
sito web:  

http://forumambiente.altervista.org/

Salento oltraggiato: Stop all’immorale consumo del territorio e alla devastazione del nostro paesaggio

 
 
E’ convocata per lunedì 19/03/2012 alle ore 19.30 presso la sede del Tribunale Diritti del Malato Ospedale Civico “Tamborino” di Maglie, piano rialzato, l’importante riunione sulle maggiori emergenze sanitarie e ambientali in corso nel Salento.
 
 
 
L’ordine del giorno sarà il seguente:
 
 
Scempio mega strada a 4 corsie Maglie-Otranto, primo atto di una tragedia immane e annunciata che sta a propagarsi come una metastasi per altri devastanti progetti di mega-super strade in progetto scellerato per tutto il territorio del Salento. La devastazione sulla Maglie – Otranto per i lavori della mastodontica mega-strada a 4 corsie sta provocando l’ingiustificata e oltraggiosa uccisione di oltre 8.000 alberi di ulivo, moltissimi di essei secolari e monumentali, veri patriarchi verdi del nostro bel Salento testimoni viventi della nostra millenaria storia.
 
Villaggio Paradiso Santa Cesarea Terme, ancora l’ennesima minaccia fatta da immense e mortifere colate di cemento e asfalto dettate da affarismo

Appello agli Young Apulians per salvare gli ulivi della Statale 16 Maglie-Otranto

 

tagli di ulivi sulla Statale 16 Maglie-Otranto (ph Alessandro Colazzo)

 

 

ADOTTIAMO GLI ULIVI DELLA STATALE 16 Maglie-Otranto (Salento)

di Chiara Idrusa Scrimieri


Cari YOUNG APULIANS, questo è un appello a voi cittadini e alle istituzioni. Agli amanti della terra, agli oleifici, ai contadini. Ai salentini e ai forestieri. A chi ha un fazzoletto di terra e a chi vorrebbe averlo. Ai musicisti, ai poeti, agli uomini.
E’ una campagna di adozione, un’occasione per dire la propria e attivarsi con un gesto significativo per la propria terra. 
E’ un appello a quanti, salentini e non, privati cittadini, associazioni, aziende e istituzioni pubbliche vogliano ADOTTARE gli ulivi che stanno per essere espiantati dai lavori di ampliamento della statale 16 che collega MAGLIE a OTRANTO. E questo accadrà entro la fine di marzo. 
Siamo nel Salento e ci sono 8.000 ulivi che cercano casa. L’alternativa è la loro distruzione. 8.000 ulivi sono tanti e possono trovare dimora in buon parte del territorio italiano. 
Le domande pervenute finora arrivano a 1.500. Le Istituzioni sono state costrette a prendere atto di una grande mobilitazione su web per adottare simbolicamente e concretamente le migliaia di alberi a rischio distruzione.

 Sono in corso vertici per la definizione delle procedure, perché la campagna mediatica ha sollevato il caso e le Istituzioni sanno di non poter procedere senza ignorare le nostre istanze. 

Sappiamo che in rete la sensibilizzazione può raggiungere risultati importantissimiABBIAMO BISOGNO DI TUTTO IL VOSTRO SOSTEGNO per diffondere la notizia e smuovere l’iniziativa dei singoli, delle

La marzotica della masseria Bellimento in agro di Nardò

ph Franco Cazzella

di Massimo Vaglio

Sulla litoranea che da Sant’Isidoro porta a Santa Caterina, nei pressi dell’ormai famosa Palude del Capitano ultima appendice, ma non per importanza, dello stupendo Parco Regionale Porto Selvaggio-Palude del Capitano, sorge la masseria Bellimento, una masseria edificata alla fine dell’800 su terreni macchiosi e paludosi che sino ad allora erano stati destinati ad usi civici, ovvero, erano terreni ove gli abitanti di Nardò meno abbienti potevano esercitare liberamente il prelievo di legna da ardere, di erbe e di qualunque altra risorsa vi nascesse.

Il bianco caseggiato, ora fiancheggiato da alberi, sino a qualche decennio addietro si ergeva con minimalista semplicità in una steppa a dir poco brulla, senza un albero che occultasse la sagoma vagamente arabeggiante, un gregge misto di pecore di razza Moscia e di rustiche capre autoctone, insieme a qualche bovino di “razza” Prete costituivano la dote di questa masseria condotta al tempo da patrunu Mario, padre degli attuali proprietari, indimenticabile figura di uomo saggio, di amico e di padrone di casa. Tutte le attività che vi si svolgevano erano condotte con estrema semplicità o come diremmo oggi a basso impatto ambientale, gli animali si alimentavano solo con quello che l’ambiente circostante offriva: frasche della macchia ed erbe sferzate dai salsi dai venti marini. Il caccamo della merce, ossia la caldaia del latte, era alimentato esclusivamente con sterpi di Cisto di Montpellier secchi e di altre essenze neglette, raccolti quotidianamente nella gariga circostante. I semplici, quanto buoni formaggi che venivano prodotti, stagionavano nello stesso ambiente su tavole imbiancate da decenni d’essudazioni saline, ove spesso acquisivano involontariamente pure una blanda affumicatura. Anche qui, l’attrezzatura era a dir poco primordiale, una caldaia di rame stagnato, un tavolo, un ruotolo d’alaterno, un po’ di fiscelle di giunco, una schiumarola e un telaietto con un paio di stamigne. Niente termometri o altre diavolerie tecnologiche, pochi semplici gesti e il coinvolgimento di tutti i cinque sensi nello svolgimento di routinarie quanto semplici operazioni. Il cambio del suono del càccamo, battuto con il ruotolo, avvisava che la ricotta stava per flocculare candida come fiocchi di neve, e che bisognava allontanava il

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