Leccesi, c’era una volta / 2a parte: Quando arrivammo a Civita Castellana

di Alfredo Romano 

PREMESSA
Voglio raccontarvi adesso di come venne accolto mio padre quando mise piede per la prima volta a Civita Castellana, in località Terrano. Correva l’anno 1965. Fu scaricato alle quattro del mattino da un furgone Wolkswagen stracarico di salentini, stipati come sardine, nei pressi della casa colonica. Era buio e fu scambiato per un ladro e, come in guerra, mio padre si gettò a terra per scansare due colpi di fucile sparati al suo indirizzo. Pregò Vittorio, l’autista del furgone, di riportarlo al suo paese. Ma, chiarito l’equivoco, si convinse a restare ed ebbe inizio la sua avventura a Civita Castellana. I civitonici a quel tempo ignoravano le piante di tabacco e facilmente le scambiavano per insalata.

 Il video: monologo di Alfredo, poi Mina e Alfredo
cantano “Fìmmene fìmmene

Testo in dialetto salentino (scrittura fonetica).
Quandu iu tenìa sìtici anni, tantu tiempu rretu, paru cu mmàma e ccu lli frati mii, sìrama ne purtau a Civita Castellana, nnanzi Roma, cu cchiantamu tabaccu. Tandu tante famije te tutte le parti te lu Salentu scìanu a Civita Castellana cu cchiàntanu tabaccu.
Partìmme cu llu Vittoriu: era unu te Specchia ca facìa jàggi nnanzi rretu cu ‘nnu furgone. Nci vulìa ‘na sciurnata sana tandu cu rrìi a Civita Castellana, ca percé nun c’era autostrada (sulamente la Napoli-Roma) e sse passava te paese ppaese. Quandu te scia bona, ca certe fiate lu furgone furava puru dô fiate, e se succetìa te notte, tuccàa cu spetti sse fazza mmatìna cu ppozza rriare ‘nu meccanicu. E ‘ntantu, ncarrati comu fiche intru lla capasa, stìame tutti mpassulati e stritti susu cquiddhe muntagne mare te l’Appenninu.
Sìrama partìu pe’ pprimu a Civita Castellana, ca ia ppreparare li chiantinari, e rriau te notte, a ‘nnu fondu ca stia fore paese ca se chiamava Terrano. Ma quandu pijàu cu scinda te lu furgone… e nnu’ ba ssente sparare dô corpi te fucile mancu a ddece metri te tistanza?
“Sangu te ddhu porcu!” tisse sìrama scundènduse rretu llu furgone “A cquai sta nne spàranu, Vittoriu! Viti ci giri te pressa e tturnamu rretu… ca facìmu ‘ncora ttiempu santalostiammaculata, Vittoriu! Ma comu, me ticisti ca me porti cchiantu tabaccu… ma tie cquai an guerra m’hai purtatu sangu te quiddhu porcu! Comu, a cquai vieni ffatichi e te pìjanu puru a schiuppiettate?!”
E cquiddha no? era la patruna te lu fondu ca, sentendu rriare ‘nna màchina te notte, s’ia nfacciata ‘lla finescia cu la schiuppetta e ss’ia misa sparare cu ttutti li sani sentimenti.
‘Nsomma sìrama se fice capace e rrestau. Cchiù ddhai, dopu tre mmisi, rriamme tutti a Civita: iu, la mamma e li frati mii. Do’ ettari ìame cchiantare sangu te ddhu porcu! Vale a ddire tocèntumila chiante te tabaccu, comu tocèntmila santi te lu paratisu: a una una, sempre ngucciati cu ddhu sangu te palu, ca mancu ‘na machinetta!
Lu bellu foe ca quandu lu tabaccu zzaccàu ccriscìre, quiddhi te Civita Castellana, passandu, ne ddumandàvanu:
“Leccesi, ma cce spiecate cche ppiante state a piantà? Ché a noi cce pare insalata.”
“Sangu te ddhu porcu: nsalata?” imu tittu nui “Ma quisti cce sta bènanu te la Luna? Put’essere ca nu’ ccanùscianu lu tabaccu? Ma nci pote essere gente susu la terra ca nu’ ccanusce lu tabaccu? Povera nnui a ddhu simu ccappati! a ddhu simu ccappati povera nnui! a ddhu simu ccappati! a ddhu simu ccappáaaaaati!!!”

Traduzione in italiano (traduzione non colta: ho lasciato il ritmo e l’impronta del dialetto salentino).

Quando tenevo 16 anni, tanto tempo fa, emigrammo a Civita Castellana, vicino Roma, per piantare tabacco. A quel tempo tante famiglie da tutte le parti del Salento si recavano a Civita Castellana per la piantagione del tabacco.
Partimmo con Vittorio, che era uno di Specchia che faceva viaggi avanti e indietro con un furgone. A quei tempi ci voleva una giornata sana per arrivare a Civita Castellana, perché non c’era ancora l’autostrada (solo la Napoli-Roma) e si passava di paese in paese. Quando andava bene… ché certe volte il furgone bucava pure due volte di seguito e, se capitava di notte, toccava aspettare che si facesse giorno per vedere un meccanico. E, nel frattempo, ce ne stavamo serrati come fichi nella in un vaso di terracotta, lì tutti infreddoliti su quelle montagne amare dell’Appennino.
Mio padre e mio fratello Angelo partirono per primi a Civita Castellana, ché avevano da preparare i semenzai. Arrivarono di notte in una campagna fuori paese che aveva nome Terrano. Ma, giunti al casolare, appena presero a scendere dal furgone, e non vuoi che neanche a dieci metri di distanza partirono due colpi di fucile?
“Sangue di quel porco!” gridò mio padre nascondendosi dietro al furgone “qui ci sparano addosso, Vittorio! Fai subito marcia indietro e torniamo indietro ché facciamo ancora in tempo santalostiammaculata, Vittorio! Ma come, mi dicesti che mi porti qui a piantare tabacco… ma tu in guerra m’hai portato sangu te quiddhu porcu! Come, vieni a faticare e ti prendono pure  a schioppiettate?!”
E quella era stata la padrona del fondo, no? Proprio la padrona del fondo che, non immaginando che il furgone arrivasse di notte, pensando a dei ladri, s’era affacciata dalla finestra con un fucile e si era messa a sparare con tutti i sani sentimenti.
Insomma mio padre si dovette capacitare e restò. Più in là, tre mesi dopo, arrivammo tutti noi della famiglia a Civita Castellana: io, mia madre e i miei fratelli Aldo ed Eugenio. Due ettari  di tabacco s’avevano da piantare sangue di quel porco! Due ettari vuol dire 200 mila piante di tabacco, come 200 mila santi del paradiso, una ad una, sempre piegati col quel caspita di palo, ché manco fossimo stati macchinette!
Il bello fu che quando il tabacco prese a crescere, quelli di Civita Castellana, quando passavano vicino al fondo, ci domandavano:
“Oh, leccesi, ma cce spiecate cche piante state a piantà? Ché a noi cce pare insalata (dialetto civitonico).”
“Sangue di quel porco!” ci siamo detti “Insalata? Ma questi che vengono dalla Luna? E’ possibile che non conoscano il tabacco? Ma ci può essere gente sulla terra che non conosce il tabacco? Poveri noi dove siamo capitati! dove siamo capitati poveri noi! dove siamo capitati! dove siamo capitáaaaaaaati!!!”

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4 Commenti a Leccesi, c’era una volta / 2a parte: Quando arrivammo a Civita Castellana

  1. Insalata?! Oh, poveri noi, dove siamo capitati!
    Cari civitonici, se mai aveste conosciuto prima Alfredo Romano, ci avreste pensato due volte ad esprimere con leggerezza questo lapalissiano errore d’individuazione ‘colturale’.
    Invece, poveri voi, vi è toccato salire idealmente su un palco ad espiare l’imprudente cantonata. E Alfredo non perdona, pur essendo un buono d’animo. Eh già, confondere il tabacco con l’insalata quella volta ha messo a nudo la vostra scarna conoscenza delle tradizioni dei vostri nuovi vicini leccesi e a dura prova la loro pazienza. Vada per le schioppettate, chè a quelle, quando vanno a vuoto, bastano due parole di spiegazione per rimediare, ma il disinteresse verso le ragioni dell’immigrazione dei fratelli-salentini d’Italia va immortalato in un copione amaro e scherzoso, laddove l’istrionico Alfredo interpreta la sua gente e il suo dialetto con scanzonata disinvoltura e impressionante realismo. Un’attenzione particolare merita anche l’esecuzione degli antichi canti popolari in un duetto davvero ammirevole ed emozionante: Mina e Alfredo, radici diverse che si fondono in un’unica nota vibrante.
    C’erano una volta i leccesi…e sempre ci saranno.

  2. Raffaella, più che commentare, riscrive il racconto quasi, e con notazioni appassionate che aggiungono valore a quel mio innato desiderio di raccontare una storia, quella della nostra emigrazione a Civita Castellana a lungo dimenticata. Con la scusa di far ridere, certo, ma anche con quel sottofondo di amaro che uno si porta dentro per tutta la vita. Quel ridere di noi stessi, di noi leccesi, è stato l’unico modo per espugnare le armi di un noto avversario che si chiama ignoranza e paura della diversità culturale. E’ una ricchezza questa, c’è un tesoro vicino e tanti non hanno occhi per vedere, né orecchie per sentire e così restano miserabili per tutta la vita e non bastano i soldi in tasca per ben vivere e campare.
    Tanti anni fa scrissi una poesia in proposito destinata ai civitonici, gli abitanti di Civita Castellana. Voglio qui riproporla, se non vi dispiace.

    IO NON VI PERDONERÒ
    (A quelli di Civita Castellana che non sono mai usciti di casa)

    Io non vi perdonerò
    Civitonici o cari
    l’avermi dissacrato Lecce
    questo magico suono
    che vibra al vento della Grecia
    e schiude agli occhi un barocco
    solare d’incanto
    Io non vi dirò il vino
    allietarvi il demone dei giorni tristi
    i profumi aleggiare
    sui nostri orti le nostre
    tavole d’ogni dio imbandite
    cristallino il mare
    a mitigare le nostre
    estati io non vi dirò
    L’occasione stupidi
    avete perso di dire
    a un leccese favorite
    la vita l’amicizia
    l’ospitalità gli arcani
    misteri per voi avrebbe
    svelato canti d’amore
    di morte fatiche millenarie
    per voi cantato davanti a un camino
    l’ultima fiamma un bicchiere
    l’ultimo tozzo di pane
    l’anima avrebbe spartito

    1983, Civita Castellana

  3. Grazie Alfredo, come sempre con la tua autoironia, sei riuscito a farmi sorridere….E’ bello leggere di se stessi del prorpio passato anche se non personalmente vissuto, lo sentiamo comunque nostro.
    E’ come una legame di “sangue” lo senti anche se non lo conosci.
    Spero che i Civitonici abbiano posto riparo al loro comportamento riuscendo in questo modo ad arricchirsi di noi… leccesi.
    Tu ne sei la prova vivente.

  4. Grazie Alfredo.
    Come sempre con la tua autoironia sei riuscito a strapparmi un sorriso, e mi hai fatta tornare indietro nel tempo, anche se è storia che io personalmente non ho vissuto, ma che sento mia, come i legami di “sangue”: anche se non li conosci li senti.
    Si sono arricchiti i civitonici, conoscendoti e credo (spero) che abbiano fatto ammenda.
    La poesia che dire…. stupenda!
    Esprime tutto ciò che noi siamo, e questa sera Alfredo mi sento ricca anch’io.

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