Clemente Antonaci e Il Cittadino Leccese (seconda parte)

Albert Anker – La lettura del giornale

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Dopo l’encomio funebre della puntata precedente presentiamo oggi un’altra poesia di Clemente Antonaci  pubblicata nel n. 13 (anno primo) del 12 ottobre 1861 de Il cittadino leccese.

Questa volta il tema è indubbiamente più allegro e anche la forma si adegua utilizzando, come nella poesia precedente, l’endecasillabo, non sciolto ma organizzato come si dirà più avanti. Non ci sembra questo il caso di teorizzare sulla funzione della rima a seconda dei vari generi letterari, anche perché, per quanto essa riemerga periodicamente magari solo come fantasma nell’assonanza, siamo convinti che il vero artista può fare tutto, anche scrivere qualcosa di tragico in rima baciata senza far ridere e qualcosa di comico in endecasillabi sciolti senza far piangere. Né questa consapevolezza poteva mancare al suo autore  col titolo Stornello (lo vedremo anche nel terzo componimento che esamineremo nell’ultima puntata), anche se poi la struttura metrica, di cui parleremo più avanti, ne è distante anni luce. Anche questa volta proponiamo la testata e il testo di quel giorno, testo che, come la volta precedente, trascriveremo non solo per introdurre in nota il nostro commento ma anche per fornire a chi ne sa fruire, ci eravamo dimenticato di dirlo nella prima puntata,  la gioia visiva di un pezzo della nostra storia passata.

Si va da Capodanno a Epifania

Si va da Pasqua grande a Pasquarosa1:

aspetta, aspetta non so quel che sia

temo amor mio di qualche trista cosa.

Il corredo  gli è bello e preparato

Sta nel buffetto2 e tu sei l’aspettato

E di gioielli e vesti n’à di assai

Di lin di seta a colori vari e gai.

Di quei colori che ti piaccion tanto

Della neve, del mar, dell’amaranto3.

Me ne  àn donato a Napoli e Sicilia

Toscana Umbria Lombardia ed Emilia4.

Mie sorelle di vita e di pensiero

Alla culla alla mensa all’origliero5.

Non ti fare aspettar più tempo ancora

Vieni amor mio che non ci vedo l’ora.

Scrivimi per la Vergine Maria

Dimmi se a Capodanno o Epifania.

RISPOSTA

Cara,  se già non fosse pel Pievano6

La da gran tempo si saria finita;

ei  vuol benedirci  (il caso è strano7)

e lo s’invita sempre e lo s’invita.

Non v’à di impedimenti, m’ambizione

Vorria trovar se à cinque piè il montone8.

Proprio il caso di Renzo e Lucia

E don Abbondio che li manda via.

Or ti dico pian piano due paroline,

le nozze le faremo clandestine…..

Il tuo corredo a quel mi dici è grande

ma vi mancano il sai pur due ghirlande,

Il più bel fregio per la tua bionda chioma

Le due ghirlande di Venezia e Roma.

Non so se a Pasquarosa o a Pasqua grande

Potrò portarti quelle due ghirlande:

Non so se a Capodanno o a Epifania

Ma, sacramento! tu sarai pur mia.

La data di pubblicazione indica chiaramente un intento commemorativo della dichiarazione dell’unità della nazione avvenuta poco meno  di sette mesi prima.

Tuttavia, il tema è collocato in una temperie spirituale cronologicamente anteriore e il tutto è una celebrazione delle attese e speranze che un cinquantennio prima aveva suscitato Gioacchino Murat. Da un punto di vista strutturale siamo in presenza di due lettere in versi, ognuna di diciotto endecasillabi con rima alternata ab/ab nei primi quattro, baciata nei successivi dodici e con la ripresa della parola-rima del primo verso (Epifania) nell’ultimo e della rima nel penultimo (quest’ultimo gioco di rime è invertito nella seconda lettera); la prima lettera è quella dell’innamorata Italia che rimprovera a Gioacchino (con i toni con cui una donna qualsiasi si rivolgerebbe al proprio innamorato soldato o generale che sia) i continui rinvii della loro unione; la seconda è la risposta che mette in campo giustificazioni politiche mostrando, però, nel contempo la determinata volontà di realizzare il comune progetto.

Un componimento, insomma, tra l’allegoria e la prosopopea9.

______________

1 Si rimanda di data in data. Nella tradizione popolare del XIX secolo Pasqua grande o Pasqua maggiore o Pasqua d’uovo (per la benedizione delle uova che si soleva fare in quel giorno) o Pasqua d’agnello era  il giorno di Pasqua propriamente detta, quella di Resurrezione;  Pasqua rosa o Pasquarosa o Pasqua rosata o Pasqua rugiada o Pasqua di rose era detta, dal tempo della loro fioritura, il giorno di Pentecoste; Pasqua di Natale o di ceppo, dai doni che ci si scambiava detti ceppi da un tronco o ceppo tutto  ornato di frutta e confetture, il 25 dicembre; Pasqua dei morti era in Toscana il giorno della commemorazione dei defunti, dalle focacce con l’uva secca chiamate il pan dei morti; Pasqua fiorita la domenica delle Palme.

2 Italianizzazione del francese buffet.

3 Il bianco, il celeste e l’amaranto erano i tre colori della bandiera della quale Gioacchino Murat dotò l’esercito napoletano quando nel 1808 divenne re di Napoli; solo il bianco simboleggiava lo stretto legame con l’impero fondato da Napoleone.

4 Allusione alla conquista francese di gran parte dell’Italia.

5 Guanciale, dal francese oreiller, da oreille=orecchia.

6 Parroco, ma l’iniziale maiuscola tradisce la sineddoche (la parte per il tutto, il parroco per la Chiesa).

7 Infatti a Napoli Murat fu amato dal popolo ma detestato dal clero (nel 1809 decretò la soppressione nel Regno di Napoli degli ordini religiosi; in particolare se la prese con l’ordine dei domenicani i cui beni vennero confiscati, i conventi convertiti ad uso prevalentemente militare e le chiese passarono sotto la giurisdizione del clero diocesano).

8 L’ambizione lo spinge a complicarsi la vita. Nella quarta edizione (1729-1738)  del Vocabolario degli accademici della Crusca si legge:  “Cercar cinque piedi al montone, proverbio che vale Non contentar del convenevole, o Metter la difficultà, dove ella non è. Latino nodum in scirpo quaerere.” Dopo aver detto che la frase latina significa Cercare il nodo in un giunco, sempre dallo stesso vocabolario tre citazioni da autori tutti del XVI secolo: la prima dalla commedia Trinuzia (2, 5) di Agnolo Firenzuola: “Ma voi siete un cert’uomo, che cercate sempre cinque piè al montone.”, la seconda dalla commedia  Il furto (4, 8) di Francesco d’Ambra: “Ma poichè la pania non ha tenuto, io non vo’ cercar cinque piè al montone.”, la terza dalla commedia Il servigiale (3, 5) di  Giovammaria Cecchi: “E se vo’ avete fitto il capo nella filosofia, e ne’ libri, e volete trovare il quinto piè al montone”.

9 A beneficio dei non addetti ai lavori e in ossequio al nostro dichiarato odio per il tecnicismo anche nel linguaggio chiariamo che allegoria in italiano indica (le definizioni sono dal De Mauro) quella figura retorica per cui una data immagine esprime un concetto ideale, morale o religioso e prosopopea quell’altra per cui si fanno parlare persone assenti o decedute o si personificano cose inanimate o concetti astratti; quest’ultima voce, poi, ha assunto pure il significato figurato di contegno ridicolmente sussiegoso e arrogante, presunzione.

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