Gardner (come deve andare)

Claude Joseph Vernet, Naufragio nella tempesta (1754)

di Paolo Vincenti

“La Tempesta”, un dipinto di Joseph Vernet del 1777, rappresentava molto bene il clima di paura e di smarrimento che aveva respirato di fronte all’orrore del mare.

William James Gardner: ecco un uomo che conosceva il mare e soprattutto gli infiniti pericoli ed insidie che la grande distesa azzurra reca in sé. Aveva viaggiato a lungo per mare, ne aveva scrutato gli abissi di nostalgia e gli infiniti orizzonti che l’avventura marina regala a chi decide di sfidare se stesso e la propria paura, le proprie angosce di uomo, salendo su un’imbarcazione e partendo alla volta del proprio destino. Aveva viaggiato a lungo per sapere che al mare si va ma dal mare, spesso, non c’è ritorno. Aveva persino imparato che si parte alla volta del proprio destino spesso soltanto nelle intenzioni,  ma quella che si incontra è poi una parvenza di destino, almeno del proprio, e invece ci si scontra con quello degli altri, scritto male da altre vite, da altri sogni, e si ritorna stanchi e delusi a casa, più sconfitti che mai.

E se stare in mare è dura, tornare a terra è ancora più faticoso, perché si vive come divisi in due, dilaniati fra la nostalgia di casa e quella del mare, senza poter scegliere mai, senza saper scegliere mai.

Aveva assaporato l’aria acre della salsedine marina e ascoltato, nelle lunghe mattine di sole e d’azzurro, lo stridio dei gabbiani che volano bassi,  tracciando quelle spirali che nessuna geometria può spiegare ma solo il cuore vecchio di lupo di mare può capire. Aveva viaggiato tanto da sapere che sulle navi il trattamento è cattivo, come poi scrisse nei suoi reportages, il cibo è cattivo, la paga cattiva e le prospettive ancora peggiori.

Sapeva che la vita sulle navi è scomoda, che la vita sulle navi è ingrata e stancante ed è squallida a volte anche la compagnia. Gardner: un uomo che aveva conosciuto isole e popolazioni, aveva fatto esperienza e masticato amaro, e aveva appreso di infinite leggende fiorite da una sponda all’altra del suo lungo navigare.

Leggende che parlavano di mostri marini, di minacciose presenze, di strani incantesimi che avvincevano i marinai in alcuni posti, di segnali radio da nessun posto, di apparizioni inspiegabili nelle brume del mattino o nella corrente della risacca.

Gardner: un uomo che era abbastanza disgustato dal mare, tanto da decidere di cambiare vita, da capire che era tempo di smettere di navigare e magari cominciare a scrivere. E scrisse tanto, opere che ebbero anche un discreto successo, quasi tutte ambientate, e non poteva essere diversamente, sul mare.  Ma ora, in  un pomeriggio rosso come un pomodoro d’estate,  si trovava seduto sui faraglioni a scrutare il mare e il cielo, come tante volte aveva fatto nella sua esistenza. Ma fra la contemplazione della bellezza della natura e  quella sensazione di benessere sottile e perverso, di fronte alla infinita vacuità del tutto, quest’ultima si era sempre più fatta strada in lui: il dubbio, cioè, che tutto fosse stato vano, che tutto fosse perso, abbandonato a se stesso, come una nave senza timoniere sbattuta dalle onde, che tutto fosse sbagliato, che l’uomo si fosse arreso, come un mezzo marinaio buttato fra le onde, che tutto fosse concluso.

Marina in tempesta con astanti, attr. a Carlo Bonavia (Napoli 1755-1788)

Sentiva di dover fare un’altra scelta, ora, un’altra inversione di tendenza, un altro cambio, l’ennesimo passaggio. Sentiva quel richiamo forte, troppo forte per poterlo tacitare, il richiamo del mare, ancora, dopo tutti quegli anni di terra, dopo tutti quegli anni di vita addomesticata e conforme. Perché, si chiedeva insistentemente, perché, perché quell’assillo, quel tormento continuo, come se tutto fosse stato sbagliato, come se l’uomo fosse perso, arreso, battuto. Troppo forte il desiderio di cambiare rotta, di prendere un’altra delle sue coraggiose decisioni, un’altra delle sue scelte drastiche, come drastica è l’eminenza azzurra del mare, e spietata e inesorabile.. sapeva di dover rispondere a quella domanda insistente, martellante nella sua testa, e di doverlo fare  proprio quel pomeriggio.

Non che la cosa fosse programmata da chissà quando:  lo aveva appreso in quel momento, aveva capito che non poteva ritornare a casa ancora una volta con un nulla di fatto in mano, come una resa, come un abbandono. Non poteva ritornare a casa, dopo quel pomeriggio, e immergersi di nuovo fra le sue carte, come se niente fosse, nella tranquillità apparente del suo studio dove tutti gli oggetti, dai quadri, alle funi, alle bussole, gli ricordavano continuamente quanto quella fosse una situazione transitoria, un accomodamento, ma non il suo destino, non il suo approdo. Aveva capito di dover salpare ancora una volta, l’ultima, ma di doverlo fare; non aveva la minima idea di quale sarebbe stato l’approdo, dopo tanta confortante tranquillità di appartamenti e di moquette, di vestaglia di seta e penna in mano, di sigaro e musica dal grammofono… non avrebbe mai capito perché, ma decise di andare ancora una volta, per non sentire più quell’amarezza di sconforto, quell’inquietudine di cose perdute che lo stava divorando, fino a scarnificare le sue carni, fino a rodergli il cuore.

E sentendo che tutto era tornato indietro di nuovo, nel volo di quei gabbiani stanchi, che tutto era distante come se non gli fosse mai appartenuto, ebbe voglia di saltare, quando, come un’immagine prima sgranata che diventa piano piano nitida, sentì chiara e forte la consapevolezza di poter salpare, anche senza nessun nave stavolta…

Non si voltò indietro quando andò, perché altrimenti non sarebbe stato così facile; andò e basta, come un giorno va, come la vita va, come tutto sempre va, come deve andare…

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