Racconti/ Il castello di sabbia

 

disegno di Raffaella Verdesca

di Raffaella Verdesca

 

Solitamente l’ora di cena spopola le strade di mezzo mondo, ma l’ora di cena in piazza Castello a Crotone le annulla del tutto.

Sera fuligginosa e pigra.

Malkon guardava il cielo, prima che accadesse il fatto.

“Aprite! Aprite! Aiuto!” si alzarono le sue urla disperate ad accompagnare il suono sordo dei pugni contro il portone.

Nelle sue invocazioni, il ragazzo non aggiunse di essere rimasto chiuso dentro la fortezza di Carlo V, ma anche se fosse stato lucido e calmo, lì fuori non avrebbe trovato nessuno ad ascoltarlo: tutti a tavola.

Dopo un paio di tentativi di fuga, Malkon si rassegnò a prendere fiato.

Ricordava di essere entrato nel castello per vedere il panorama del porto e del mare. Ci veniva spesso da quando viveva a Crotone, e ora era diventato il suo posto preferito.

Nei momenti di libertà andava fin lassù a visitare le mostre o a guardare le stelle, tanto in casa sua non si poteva proprio stare. Non era distante da lì, gliel’aveva trovata il ‘Caporale’ poco dopo il suo arrivo. Quel giorno aveva scoperto le stradine irte e contorte del centro storico della città, la sua casa era lì. Gli era stata assegnata pezzo dopo pezzo, quasi a rate. Infatti, i primi tempi aveva dovuto sistemarsi nello sgabuzzino perché la famiglia di marocchini che ci viveva non era stata ancora trasferita in un nuovo alloggio. In quel periodo aveva camminato solo lungo il corridoio e nel bagno: interdetta tutta l’altra area calpestabile. Questo l’aveva indotto a immaginare quel posto grande e spazioso, perciò quando la famiglia Sharif finalmente se n’era andata, gli era stata riservata un’immensa delusione. Oltre al bagno, al suo sgabuzzino e al corridoio, infatti, esisteva solo un’altra stanza che fungeva da camera da letto, da dispensa e da cucina. E pensare che lui quegli Sharif li aveva detestati e perfino invidiati! Ecco dunque che per Natale Malkon aveva avuto la sua bella casa delle bambole! Si sarebbe adattato a viverci e anche bene, se al piano di sopra non ci fosse stata Ivanka, un’ucraina col vizio delle canzoni popolari sparate al massimo volume, e a fianco Rajid, un cittadino iraniano con la fissazione del mondo del cinema. Per questo motivo, Malkon lo sentiva ogni sera recitare, ripetere, urlare e sussurrare le preghiere del Corano! Diceva che gli servivano per esercitarsi e che erano gli unici testi che lo spingevano a dare il meglio di sé nell’interpretazione, in caso gli fosse stato richiesto di calarsi in più personaggi.

Perciò c’era poco da star tranquilli tra quelle quattro mura, anche perché entrambi i suoi vicini avevano i suoi stessi orari.

Il castello di Carlo V era invece immenso, spazioso, aperto. Malkon a volte ci andava a riposare, proprio come aveva fatto quella sera. Si era accovacciato per terra e si era lasciato andare alla stanchezza.

Che giornata infernale era stata quella! La mattina nei campi a raccogliere pomodori e tutto il pomeriggio in giro per la città a scaricare mobili e cianfrusaglie dai furgoni del ‘Caporale’.

Questo era il comandante di tutti quelli che, come lui, si trovavano a Crotone senza famiglia e senza lavoro. Il ‘Caporale’, come in una favola, in pochi giorni era capace di trovare ai poveri mercenari cento lavori e almeno altri mille disperati pronti a unirsi a loro per formare una nuova grande famiglia. Peccato che di tutti questi lavori ne venissero pagati solo la metà e peccato ancor di più che la nuova comunità familiare avesse tanto l’odore di merce!

“Olà!” gridava dal furgoncino il ‘Caporale’ ogni mattina, passando a prendere i suoi braccianti per portarli nei campi.

Con queste tre lettere, il povero analfabeta era convinto di parlare tutte le lingue del mondo e in una circostanza simile, impararle non sarebbe stata affatto una cattiva idea.

Dopo aver caricato Malkon, il furgone continuava il suo cammino già pieno di uomini e si fermava per l’ultima volta davanti al cimitero per prendere quattro nigeriani e, da qualche giorno, anche due afgani di Herat.

Quelli del giro apprezzavano molto i neri perché avevano resistenza nel lavoro e mangiavano poco, mentre degli afgani ammiravano la virtù del silenzio. La razza polacca, nel lavoro dei campi, sarebbe stata la migliore di tutte, se solo avesse unito al mangiare poco il non bere molto. Il ‘Caporale’, infatti, si lamentava continuamente del dannato attaccamento alla birra dei cinque polacchi della sua truppa, una dannazione che non li faceva mai arrivare puntuali la mattina a prendere il furgone.

Malkon Sokovich, cittadino uzbeko, doveva essere stato per loro un bel rompicapo, dal momento che era un giocattolo che non avevano mai avuto.

I capi si erano comunque decisi a rischiare, data la sua prestanza fisica, e il bel giovanotto biondo era entrato a schiarire tutto quel nero della nuova grande famiglia di disgraziati.

Malkon si era adattato subito ai ritmi della vita calabrese e a Crotone aveva trovato tanti amici.

Rajid era quello con cui parlava di più. Per fortuna nei loro incontri l’iraniano non si esercitava nella sua ‘preghiera teatrale’, ma spesso raccontava storie del suo Paese e chiedeva a Malkon di parlargli della sua terra. Rajid era vestito quasi sempre di abiti tradizionali, diceva di usarli per comodità più che per amor di patria e, da come viveva la sua religione, c’era da credergli.

I suoi occhi nero brillante lavoravano meglio delle braccia poiché non si lasciavano sfuggire nulla e questa volta non avevano potuto non accorgersi di una comica stranezza del compagno.

“In Uzbekistan avete tutti questi buffi capelli?” aveva chiesto a Malkon proprio durante la pausa pranzo della mattina. Doveva aver fissato a lungo la sua capigliatura per non riuscire ad evitare questa curiosità.

“No, per fortuna non tutti hanno una nonna da uccidere come ce l’ho io: è da lei che li ho ereditati!

Sono capelli sottili, un po’ schizzati, ti pare?”

“Mi sembra eccome! Però mi piacciono, hanno carattere nonostante il loro colore insipido.”

“Giudichi insipidi tutti i capelli che non siano nero pece come i tuoi?” aveva ribattuto Malkon interessandosi alla piega che aveva preso la conversazione.

“Forse!” era stato pronto Rajid “Biondo a parte, ti assomigliano: non stanno mai a riposo, fingono di rassegnarsi alla volontà divina, ma intanto guardano su, giù, un po’ a destra, un po’ a sinistra. Addirittura ce ne sono alcuni che si azzuffano tra loro!”

“In Iran fumate oppio?” aveva riso l’amico tornando verso il campo. “Quando finirò di lavorare qui non sentirò più la schiena, vuoi che mi preoccupi dei miei capelli?”

“Tu no, ma il ‘Caporale’ ti ha preso a lavorare anche per quelli!” si era affrettato a spiegargli Rajid. “Un giorno l’ho sentito dire che gli ricordano gli scalini sconnessi di Crotone, le sue colline brulle d’estate, la lieve inclinazione della colonna.”

“Hai cambiato copione per recitare, Rajid? Lo sai che è blasfemo usare i miei capelli al posto del Corano? Sarebbe già bello pensare che il ‘Caporale’ distingua le scarpe dai cappelli, figuriamoci se avesse pure questa vena poetica! Ingenuo che sei! L’unico peccato è che la mia capigliatura non abbia messo una buona parola con lui per farmi lavorare di meno e guadagnare di più!”

“Lascia che questa parola la tua testa la metta con qualche impresario a Cinecittà il giorno del mio provino, dal momento che reciterò un pezzo su di lei! L’ho già scritto!” quello continuò a scherzare mentre il ‘Caporale’ cominciava a dare chiari segni d’impazienza.

Ripensando a queste battute allegre, Malkon aveva chiuso gli occhi sul terrazzo del castello e ora se ne ritrovava prigioniero.

Dopo aver battuto infiniti pugni e calci al portone, l’uomo rimpianse il motivetto di “Verka Serduchka”, trasmesso a centoquaranta decibel dalla sua amica Ivanka, l’unico mezzo che avrebbe forse attirato l’attenzione di qualcuno in questo frangente.

Riprovò, afflitto, coi calci.

“Che succede?” gli arrivò da fuori la voce dialettale di una donna.

“Sono rimasto rinchiuso nel castello!” urlò Malkon emozionato dall’insperata presenza.

Dall’altra parte si udì sbuffare: “Tra tutte le cose che c’erano da fare, proprio lì dentro ti dovevi andare a cacciare?”

“La prego, mi faccia uscire da qui!” implorò il poveretto.

Silenzio.

“Mi devi scusare, giovanotto,” disse la voce dopo che la sua padrona ci aveva pensato su “ma al posto tuo, io mi sarei già calata dal ponte.”

“Sono almeno dieci metri di altezza!”

“Però non ti saresti annoiato! Mi dispiace dirtelo, bello mio, ma a quest’ora qui, in giro, non c’è neanche un cane!”

“Basta bussare alle case, chiamare il 113, il 115!” s’infervorò Malkon in preda a una crisi di nervi.

“Cosa, cosa? Bussare alle case all’ora di cena? Ma neanche per sogno! Chè qua, se gli fai andare il boccone di traverso, ti menano pure! Devi aspettare che arrivino alla frutta. In questa città la gente lavora, non credere! Se non lo può fare con le braccia, lo fa di certo con la mente, ma stai tranquillo che si spezza la schiena comunque! C’è mio figlio, per esempio, che per quanto ha fatto lavorare la testa per cercare un impiego, l’ha già mandata in pensione! E ci ha solo trent’anni.

Vossignoria ce l’hai un lavoro?”

“Raccolgo pomodori.” rispose quello sconsolato.

“E quello lavoro me lo chiami?” si scandalizzò la signora ridendo “Quello è uno svago!” e intanto si appoggiò al muretto aspettando le nove. “Pure tu mi dovevi capitare oggi!” sbuffò sventolandosi per la rabbia. “Ringrazia Dio che a Michele mio ho lasciato già tutto cucinato, altrimenti non avresti incontrato neanche me stasera!”

Crollata ogni speranza, Malkon si afflosciò sul lastricato. Aveva trovato qualcuno che superava Rajid!

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