Detti e proverbi delle genti del Capo di Leuca

 

“Alli pacci mini petre? – Detti e proverbi delle genti del Capo di Leuca”, di Oronzo Russo

 

di Paolo Rausa

“Se a Llèviche no vvei de vivu, vei de mortu” (Se a Leuca non vieni da vivo, verrai da morto). Non poteva iniziare che da Leuca questo viaggio nella cultura popolare salentina, per la precisione nel sud del Salento, l’ultima propaggine d’Italia dove il Capo fa da spartiacque  e la terra sembra protendere “il suo grembo aprendosi da ogni lato al commercio dei popoli e lei stessa, come per aiutare gli uomini,  slanciandosi ardentemente verso i mari”, così scrive nella Naturalis Historia Plinio il Vecchio.

Una terra ricca di storia e di cultura dunque, dove il mito del suo biancore splendente (Leucade) si riverbera sulle due fanciulle (Rìstola e Meliso), che ormai prive della passione ardente sono pietrificate, forse per rammentare agli uomini che il sentimento d’amore quanto più è intenso e travalica la dimensione umana tanto più spiace agli dei – ne sono invidiosi – ed è punito nella metamorfosi delle rocce. Una terra che ha conosciuto la poesia di Vittorio Bodini (E’ qui che i salentini/dopo morti fanno ritorno/col cappello in testa), di Girolamo Comi, di Salvatore Toma, di Rina Durante, dei romanzi di Maria Corti, dei tanti poeti che hanno scelto di esprimere nella lingua dialettale le aspirazioni di un popolo, forse genti come dice bene l’autore di questa raccolta Oronzo Russo, le sue passioni, i desideri, i fermenti, le ansie e le disillusioni. Che ha tratto dalle sue viscere alimento per il corpo e per l’anima, informandone la cultura dalle alterne vicende delle stagioni e mirando alla conquista sfibrante e infine illusoriamente vittoriosa sulla natura, desiderando di piegarla ai propri bisogni ma restandone avvinta sino alla fine dei giorni.

Oronzo Russo, salentino di Spongano, ma poi vissuto nelle serre di Tricase, a una manciata di “palmi” dal Capo, ha raccolto una mole impressionante di “detti e proverbi delle genti del Capo di Leuca” – è il suo sottotitolo -, più di duecentocinquanta, raggruppandoli per argomenti, per quanto sia difficilissima la loro classificazione per la ricchezza e la polivalenza dei contenuti. 

L’autore ha circoscritto la ricerca nell’area tricasina e in quella adiacente, che è omogenea per lingua e cultura, dal momento che la lingua dialettale leccese presenta diversità in tutto il territorio provinciale (già le inflessioni dialettali di quest’area divergono da quelle immediatamente settentrionali ma ancor più da quelle del nord della città capoluogo di Lecce): segno da una parte di fenomeni culturali ricchi e complessi ma dall’altra anche molto frammentari.  Naturalmente il fatto linguistico rispecchia la storia sociale e politica di questo lembo di territorio “de finibus terrae”.

I “detti e proverbi” popolari, insieme a tutte le altre forme espressive artistiche e artigianali, dai canti di lavoro alle nenie alle serenate alle litanie e ai canti rituali, alle rappresentazioni sacre e profane, ai balli indiavolati e dai ritmi forsennati rivelano una vivacità culturale mai sopita e semmai alla ricerca di forme espressive sempre diverse e innovative. Sarebbe interessante mettere insieme tutti questi elementi culturali per disegnare una storia del costume popolare che riversa nelle forme espressive primitive, ma molto forti sul piano del coinvolgimento emotivo, le proprie condizioni di vita, sempre precarie e dipendenti dalla (buona) sorte e dall’intercessione dei santi. Ecco perché l’aspetto scaramantico e i fenomeni di una religiosità ancestrale sono le risposte all’ansia di una vita fatta di stenti, legata ai capricci delle stagioni, diffidente, intesa a mettere da parte quel poco che possa dare un minimo di sicurezza. La condizione di miseria atavica spinge a moltiplicare gli sforzi con un impegno sempre individuale, mai con una visione collettiva e di prospettiva di rivolta nei confronti dei ceti dominanti.

Questi detti e proverbi fanno riferimento e traggono ispirazione per lo più dalla cultura popolare vissuta e dagli argomenti più disparati, dal rapporto con i figli, all’istruzione come strumento di dominio (Ci sape liggìre e scrivere, cumànna), all’arte del padre che passa ai figli (L’arte de lu tata è mmenza mparata), alla necessità di guardare gli avvenimenti da diverse angolazioni e sapendo ritornare sui propri passi, senza che questo sia visto necessariamente come un  fallimento sociale (bellissimo il “Ci face e corde vane reta pe’ reta), e poi all’eredità, ai cattivi e buoni affari,  al previdente accumulo di poche e, a prima vista, insignificanti cose per volta – le pietre dei campi – che con tempo dà corpo alla costruzione della casa e della vita (Petra su petra ozza parite), a quelli tratti dalla attività contadina, laddove dall’osservazione della natura e delle stagioni si traggono gli auspici per superare le difficoltà della vita (Sparàgna ‘a farina quannu ‘a mattra è cchina, ca quannu ‘u funnu pare picca te serve lu sparagnàre), sulla morte intesa come livellatrice e portatrice di giustizia universale, sul ruolo della donna sempre vista negli aspetti più deteriori e misogini (Quannu ‘a fimmana se mparòu cu legge e cu scrive, ‘u munnu ccuminciòu a scire alla mmersa), di cui si teme il fascino e l’incantamento, ma della quale si sanno anche apprezzare  le arti domestiche riassunte nel lapidario dittico (Focu ardi e pignàta fervi). Non potevano sfuggire alla sana riflessione popolare le battute pronte e salaci sul matrimonio e quelle, per lo più diffidenti, sull’amicizia (L’amici suntu comu lu mbrellu: quannu chiove nu lli trovi mai), su un buon bicchiere di vino, che dà ristoro e conforto, sugli altri elementi essenziali per un’economia primitiva, l’olio e il pane (Pane e oju ggiùstane ‘a tovala), oppure sull’incitamento a non perdere mai la fiducia finché rimangono risorse (Finca nc’è oju ntra lla lampa nc’è speranza) e infine su Dio e sui Santi, a cui si chiede l’intercessione per mantenere la buona salute e per assicurarsi un raccolto abbondante. Un mondo quindi quasi mitico che cerca di trarre dalle limitate risorse di cui dispone quella linfa vitale e quel giocoso e ambivalente senso della vita per affrontare le mille insidie della società e che sa cogliere a fin di bene le opportunità di un amore, di un’amicizia, di un rapporto, quel senso remoto delle cose, di cui  soprattutto rimpiangiamo oggi la mancanza.

“Alli pacci mini petre? Detti  e proverbi delle genti del Capo di Leuca” di Oronzo Russo, Edizioni dell’Iride, Tricase, 2011, pp. 173.

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