Ricordi dall’Ariacorte: ‘a Valeria ‘e l’Ancilu

di Rocco Boccadamo

Si mantengono permanentemente verdi, taluni ricordi, anche lontani, succede anzi maggiormente proprio per i lontani, quelli relativi alla prima età, giacché, allora, la memoria recava molto spazio e, perciò, le vicende e i volti vi si sono allocati saldamente e permangono vivi e presenti anche a distanza.

In questi appunti, si rievoca un quartiere del paesello, il mio quartiere, l’Ariacorte, uno dei più antichi e caratteristici angoli del piccolo borgo.

Lì, sono nato e ho vissuto sino a 19 anni.

In fondo, l’Ariacorte, con le sue brevi stradine, i suoi incroci, i suoi angoli, è stata, per la mia persona, una seconda culla, una “naca” secondo il gergo paesano, che, prodigiosamente, abbassava le fiancate man mano che crescevo, aprendomi alla vista orizzonti viepiù ampi.

Mi era cara, l’Ariacorte, mi è stata cara dai primi passi, sino a quando non ho lasciato il paese. Ma, l’amo tuttora, rivedo le sue vestigia, anche se cambiate dal punto di vista degli abitanti, e rivedo me stesso, dei tempi sereni e leggeri che si vivevano con piacere, ancorché si disponesse di poco, un tutt’uno di comunità, di sparuto insieme, dai vecchi ai giovanissimi, ai neonati, ci si conosceva indistintamente, ognuno sapeva, degli altri, confidenze, piaceri e dispiaceri, notizie buone e meno buone.

A distanza di molti decenni dalle mie prime esperienze, dell’Ariacorte, mi sovvengono fra le altre, in maniera particolare, due figure, alle quali mi è venuto spontaneo, in quest’occasione, di dedicare il titolo delle note, una coppia di coniugi, Valeria e Angelo.

Mi ricordo dei suddetti, marito e moglie, che ancora versavano in età media, sui quaranta o cinquanta, mentre io sgambettavo con il mio brio, la mia intraprendenza, il non stare fermo un attimo, girare ovunque, infilarsi normalmente anche nelle case dei vicini, il che non era difficile, per il semplice motivo che le porte erano lasciate aperte, vigendo l’abitudine di considerarsi, nel gruppo di strade del rione, semplicemente una famiglia allargata.

Valeria e Angelo, figure unite e affiatate, non avevano avuto la gioia di vedere la loro casa allietata e confortata da prole, vivevano soli: però, penso di poter dire, pur con i limiti dei ricordi di bambino e di ragazzo, che, tutto sommato, si facevano buona compagnia, intensamente, a vicenda.

Marittima

Valeria aveva, specialmente, le mani fatate, sapeva fare  tante cose.

Grazie alla sua abilità, alla sua iniziativa e al suo impegno, era riuscita a emergere in seno alla comunità, arrivando, dopo aver fatto la normale trafila da operaia per lunghi anni, al ruolo di maestra, di “mescia”, del magazzino, ossia a dire di una delle quattro manifatture di tabacco che operavano nel paesello.

Un compito di responsabilità e, soprattutto, di capacità di coordinare, di ascoltare, le 60 o 70 operaie paesane, amiche e magari parenti, che lavoravano in quell’opificio: era lei a guidarle, ne controllava il lavoro, le seguiva, però senza supponenza, davvero una buona “mescia” di magazzino, Valeria.

Questo faceva a tempo pieno per 3 – 4 mesi all’anno, praticamente da novembre a marzo, nei restanti periodi, solitamente, accompagnava il marito Angelo in campagna, aiutandolo a coltivare le loro piccole proprietà o a raccogliere qualche frutto, ma soprattutto ella, grazie alle mani fatate, era bravissima nella tessitura a mano.

Sicché, nel locale a piano terra della sua abitazione, aveva sistemato un antico, semplice ma efficace telaio in legno, di legno duro, di quello buono che dura a lungo, “ strumento” che, talvolta, passava di generazione in generazione, magari a quello stesso telaio avevano lavorato la mamma e la nonna di Valeria.

A un certo punto era pervenuto a lei, ponendosi non come comune mezzo di lavoro, bensì a guisa d’attrezzatura prodigiosa, attraverso la quale ella tirava fuori la sua capacità di artigiana, o meglio, d’artista tessitrice.

Sì, anche su questo fronte, era una maestra, Valeria, non una semplice tessitrice.

Di comuni operatrici, n’esistevano in ogni famiglia, era abitudine che ciascun nucleo, appunto, avesse in casa un telaio, mediante il quale, con ore e ore di paziente lavoro, si predisponevano i tessuti da utilizzare per il confezionamento dei corredi delle figlie femmine.

Valeria aveva imparato e fatto esperienza già in casa dei suoi genitori prima di sposarsi, successivamente s’era messa a lavorare, a tessere, per conto delle altre famiglie, la sua attività non era un lavoro incentrato sui tessuti che poi sarebbero stati utilizzati per il grosso, l’ordinario del corredo, bensì un lavoro fine, si dedicava a realizzare eleganti coperte, o copriletti, o tovaglie di pregio, talora in materie prime particolarmente delicate, come  lino o seta,  articoli davvero di  altissima qualità che oggi, basta osservare in una vetrina dei negozi di lusso capi magari neppure  realizzati manualmente o artigianalmente, segnerebbero prezzi di vendita considerevoli.

Durante i pomeriggi e/o le giornate intere nel locale terraneo di fronte al telaio, Valeria vedeva passare innumerevoli famiglie, generazioni di ragazze e giovani che si rivolgevano a lei per l’approntamento di manufatti di particolare pregio, gli ultimi, i migliori, che avrebbero fatto fare bella figura ai fini del “giudizio” dei compaesani, parenti e familiari sulla qualità del corredo.

Già, corredo. Una parola che, al paese, era pronunciata quasi mai, allora si parlava di “dota”, con la a finale, a volersi riferire a tutti i capi di biancheria o di arredamento per la casa degli sposi, della camera da letto o dei tavoli da pranzo, che avrebbero composto il corredo che la donna portava, giustappunto, in dote.

L’arte della tessitura praticata da Valeria era ineguagliabile, ella era, forse, l’unica o la più brava del paese, per cui aveva sempre una clientela in coda e, talvolta, a chi si presentava, doveva dire “ guarda che avrai da aspettare un bel po’ di tempo”, ma non v’era chi non fosse paziente ad attendere il proprio turno, tanto era ambìto il poter dire “io ho quattro, cinque elementi del mio corredo realizzati da Valeria”.

Da parte sua, il marito Angelo passava prevalentemente il suo tempo in campagna, faceva il contadino in via permanente, da giovane s’era saltuariamente spostato fuori del paese, per attendere al lavoro nei frantoi oleari o della vendemmia e della vinificazione dei grappoli, soprattutto nel Brindisino.

Due persone fatte l’una per l’altra, sconosciuta una parola a tono elevato, o una discussione, vuoi fra loro e tanto meno nei rapporti con i compaesani.

Molto devote, non mancavano mai alle novene, alle funzioni dei periodi prossimi alle grandi festività, per l’appunto, religiose.

Sia Angelo, sia Valeria, erano benvoluti da chicchessia, anche da noi ragazzini, che, nonostante le nostre intemperanze, ci “sforzavamo”, in fondo, di sopperire, nei loro confronti, alla mancanza diretta di prole.

Sovente, abitando ad appena venti – trenta metri di distanza, mi recavo e trascorrevo ore nel locale di Valeria. In qualche occasione, l’aiutavo nei lavori preparatori a quella che sarebbe stata la sua opera di tessitura, piccole fasi, ognuna con la sua importanza nel processo d’insieme.

Dei filati, realizzati mediante la paziente filatura, in casa, con il fuso, della relativa materia prima di produzione familiare, o acquistati sottoforma di balle dal commerciante ambulante Pasqualino Distante, che girava fra i paesi con il suo calesse e la trombetta d’ottone per richiamare e attirare i clienti, una delle prime cose che si faceva era di trasformarli in matasse, in grandi matasse, attraverso un arnese o attrezzo chiamato “macinula”.

A seguire, da dette matasse, con una lunga asta metallica detta “cusifierru” – recante in alto una circonferenza e in basso una punta sottile – che si faceva ruotare su una base in legno massiccio d’ulivo, durissimo, con una o due piccole incavature, base detta misula, infilando, attraverso la punta sottile, coni di canna già appositamente predisposti, denominati canneddri e canneddre, con la rotazione a forza di mani e di braccia del cusifierru poggiato sulla misula e partendo dal capo della matassa, si realizzavano innumerevoli, centinaia o migliaia di cilindretti di filato avvolto.

A tale lavoro di incannulatura, s’aggiungeva quindi un altro stadio denominato di orditura, nel senso che si formavano lunghissimi segmenti di filato, successivamente raccolti a guisa di salsicce: dopo di che, partiva il lavoro al telaio di Valeria. La quale, attraverso determinate sezioni dell’attrezzatura chiamate” lizzi”, ordinava detti filati continui a seconda del tipo di tessuto e del capo da realizzare.

La tessitura vera e propria consisteva nell’intercalare, a questi segmenti tesi lungo le varie parti del telaio e assicurati, nella loro consistenza iniziale d’avvio processo, a una sorta d’asse cilindrico posto all’estremità posteriore del telaio stesso, altri filati. A tal fine, si faceva andare avanti e indietro, da destra a sinistra o viceversa, una piccola barchetta di legno detta spoletta, all’interno della quale si sistemavano i ricordati canneddri o canneddre, azionando contemporaneamente una pedaliera per ottenere i giusti movimenti per l’intreccio, ricavando così il panno di tessuto vero e proprio o finale.

Questo, il lavoro di massima di una tessitrice,

Nel caso di Valeria, merita di sottolinearlo, intervenivano, però, tecniche ben più fini, che presupponevano, ovviamente, tempi maggiori e mutevoli a seconda della complessità, delle dimensioni e del pregio del capo realizzando, con lavoro di forbicine, di piccole cuciture, di sistemazione di fili, di disegni di trame sul tessuto, un processo che, al termine, dava luogo a vere e proprie opere d’arte.

Valeria e Angelo, due personaggi dell’Ariacorte che, pur non essendo gli unici, rammento con maggior piacere e intensità di sentimento.

Non avendo figli, la loro casa, compreso il locale occupato dal telaio, è pervenuta a diversi eredi nipoti, i quali, come spesso accade in situazioni di beni indivisi, non l’hanno utilizzata direttamente, sicché, a distanza d’anni, l’immobile ha finito con l’essere venduto a terzi, è arrivata gente di fuori, turisti che ormai rappresentano una componente indicativa della popolazione del paesello.

E’ vero, i nuovi proprietari sono presenti solo nei tre mesi estivi, salvo qualche breve puntata nel resto dell’anno, nondimeno, quando capita di scoprire quell’uscio socchiuso o si nota qualcuno che entra o esce, anche se sono mutate le facce, le fogge e il modo di muoversi, sembra di vedere gli abitanti di un rosario di stagioni fa, ovvero Valeria e Angelo.

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