Una cena piuttosto movimentata, ovvero lu springitùru e la urràscina

di Armando Polito

Molti dei miei incontri con le parole e il conseguente desiderio, in parte frutto di interesse più o meno professionale,  di approfondire la loro pregnanza semantica e non solo sono dovuti al caso, e gli esiti più o meno soddisfacenti hanno la stessa valenza del segno, positivo o negativo, che certe persone ti lasciano: un arricchimento, comunque sia, della conoscenza e della coscienza.

L’altra sera, nel corso di una cena tra amici in casa mia, il mio sguardo si è posato casualmente su un vassoio di verdure crude assortite (crudités, per chi sa parlare…), nello specifico, cicorie, finocchi e gambi di sedano che mia moglie aveva disposto con una semplicità e naturale armonia compositiva da far invidia al più sofisticato chef (non è quanto si vede nella foto di testa che rappresenta la mia faticosa composizione di qualche ora fa). È stato per me impossibile non ricordare a quel punto a mio cognato, che era seduto di fianco a me, un incidente professionale occorsogli  qualche settimana prima.

Dovete sapere che Giuseppe, così si chiama, è col fratello titolare e gestore di un ristorante e che, appunto qualche settimana prima, era stato benevolmente rimproverato da un cliente neretino perché, a suo dire, sul tavolo mancava lu springitùru.  A quel punto Giuseppe, che, da sempre neretino, non aveva mai sentito quella parola, ha chiesto al cliente delucidazioni sul suo significato beccandosi un secondo, sempre benevolo, rimprovero, questa volta non per la presunta dimenticanza ma per l’emergente presunta ignoranza. Riporto le battute così come,  più o meno fedelmente, si sono susseguite, peraltro in dialetto:

-Comu, no ssai cce ggh’è lu springituru?– (Come, non sai cos’è lo springituru?)

È lla prima fiata ca lu sentu; allora cce gghè?– (È la prima volta che lo sento. Allora, che è?)

Lu springituru ggh’è la verdura ca ti mangi cruta– (Lo springituru è la verdura da mangiare cruda)

Va bbene, mo ti la portu (Va bene, ora te la porto)

È vero che il cliente ha sempre ragione (anche se il piatto da lui richiesto non compare nel menù fisso che di colpo diventa, sempre per il cliente, fesso, ma quel menu, essendo diventato fesso, finisce, in omaggio al noto proverbio, per avere ragione…), ma è vero pure che bisogna fare i conti con (il cognato del) l’oste; e il sottoscritto è piuttosto curioso e tenace nel chiarire le cose.

Da un’indagine sul campo subito seguita al racconto di quanto gli era accaduto fattomi dall’interessato ho potuto appurare che la voce in questione a Nardò non esiste1 e, dopo aver esteso l’indagine al di fuori del nostro territorio fino a Bari, sono giunto alla conclusione che si tratta di un’importazione con adattamento del significato (vedi nota 1) che non è certamente da buttar via (la derivazione da springìre=spingere con aggiunta di un suffisso indicante strumento è pertinente e congrua, dal momento che il piatto in questione ha proprio il compito di fungere da intermezzo tra una portata e l’altra).

La conclusione è stata confermata dalla successiva ricerca in rete, che mi ha segnalato una sola occorrenza presente, guarda caso,  proprio nella pagina di presentazione di un ristorante di Nardò di cui non faccio ovviamente il nome, anche perché sarebbe pubblicità a danno di mio cognato, del quale, nessuno può negarlo, ho fornito solo il nome di battesimo. D’altra parte, neppure Giuseppe in tal senso è innocente, col suo trombino, nome, sulla cui valenza allusiva non  mi soffermo…, adattato e adottato su suggerimento estemporaneo di un mio cugino, Ignazio, per un formaggio, da Giuseppe prodotto,  protagonista qualche anno fa di una trasmissione televisiva locale. Più di un vecchietto, tra gli altri insospettabili,  si presentò nei giorni successivi da Giuseppe per comprarlo; uno, addirittura,  con l’espressione che nell’apparente ipercorrettismo2 forse tradiva la doppia speranza di poter sostituire il Viagra con qualcosa di naturale che avesse anche una funzione preventiva: –Sta bbegnu cu mmi tai nnu picchi ti trombòsi– (Sto venendo perché tu mi dia un po’ di trombosi). Aggiungo e finisco: ho ancora il dubbio che il verbo iniziale della frase, nonostante la successiva proposizione finale, non si riferisse alla strada fatta ma ad un effetto anticipato dovuto alla sola vista di quel formaggio…

Siamo in presenza, insomma, di un uso personale perfettamente decodificabile, forse, solo dal fruitore e, al massimo, dai suoi familiari o conoscenti più stretti. Insomma, springitùru, secondo me e ancor più secondo mio cognato…, non è destinato ad avere successo (trombino sì?…)

Tornando alla cena: il riferimento sintetico all’episodio e il relativo vocabolo hanno fulmineamente propiziato l’intervento di un altro amico commensale, Mimino, il quale, ribadendo di ignorare l’esistenza di springitùru, ricordava però di aver sentito sua madre, originaria di Galatina, usare con lo stesso significato urràscina.

A quel punto mio cognato che, oltre che ristoratore e casaro è anche allevatore, si è sentito in dovere di correggere l’amico con decisione: -Ma cce sta ddici! L’urrascina ggh’è l’uèrgiu erde ca si tae alli animali– (Ma che stai dicendo! L’urrascina è l’orzo verde che si dà agli animali).

Per cercare di riportare un po’ di calma, ma anche per non fare la figura del fesso della compagnia, a quel punto sono intervenuto dicendo (probabilmente il vino ancora ritardava a far sentire i suoi effetti…) che poi le due posizioni non erano inconciliabili e che legata alla civiltà contadina era la interscambiabilità terminologica (ricordo di aver detto proprio così…il vino cominciava a farsi sentire) tra il mondo animale e quello umano, per cui l’orzo verde dell’animale era diventata la verdura dell’uomo; qualche decina di secondi dopo poi il vino cominciò a manifestare i suoi devastanti effetti quando, con quell’aria sofferente, quasi da artista, che uno assume al culmine dell’espressione delle sue poco potenti potenzialità professionali, dissi che tutto era confermato anche sul piano etimologico, essendo chiaro e trasparente come l’acqua cristallina della nostra Palude del Capitano che urràscina era dal latino hòrde(um)=orzo+il suffisso –àscina corrispondente all’italiano –àggine [con idea di negatività, come in somaro>somaraggine/purpu (polpo)>purpàscina (polpo molto grosso e, perciò, meno tenero)].

Il tapino, però, non si era accorto che se nella Palude reale si era paparisciàtu (=aveva sguazzato come un papero) quand’era verde tante e tante volte senza inconvenienti, ora stava annegando in quella metaforica della sua similitudine perché, se il suffisso era ineccepibile, nella prima parte bisognava spiegarsi il passaggio –ea->-a-. Ma, come s’è detto, il vino era buono, dell’attività  di mio cognato, con tutto il rispetto, ho già parlato, l’amico che aveva messo in campo la voce è, con tutto il rispetto, un ex insegnante di educazione fisica; insomma solo io, con scarso rispetto ex insegnante di lettere, ero l’unico attrezzato, almeno in teoria, a chiarire qualcosa. Intanto era passato un po’ di tempo e alla mia presunta illuminazione e ad una tiepida ammirazione da parte dei commensali nei miei confronti subentrarono, era ormai passata mezzanotte, le tenebre reali.

La notte porta consiglio e ciò che non avevo fatto la sera precedente lo feci la mattina successiva, che si aprì con l’ingloriosa (per me) consultazione del vocabolario del Rohlfs, da cui emerse quanto riporto:

urràscina (Aradeo e Galatone), farragine, ferrana, pastura mista di biade diverse [cfr. il calabrese vurràina, furràina e ferràina, dal latino farragine o ferragine, sotto l’influsso dello spagnolo forraje=foraggio]; v. vurràscina”.

vurràscina (Presicce), verràscene (Ceglie Messapico, Ostuni, Massafra e Martina Franca), ferrana (orzo, avena) per foraggio [cfr. il calabrese vurràina e furràina, dal latino farragine o ferragine, con influsso dello spagnolo forraje=foraggio] v. urràscina”.

Esemplare trattamento dei lemmi, se non ci fosse, ripetuta, l’inspiegabile svista dal latino farragine per dal latino farragine(m), che significa miscuglio di biade per il bestiame e, in senso estensivo, mistura e dispregiativo bagattella; esso, poi, è da far=grano, farro + un suffisso da cui l’-àggine/-àscina di cui si è detto sopra. Trascurabile il fatto che la variante ferràina3 compare solo nella prima parte, mentre faccio notare come l’influsso dello spagnolo forraje abbia determinato il passaggio –a– (farragine)>-u– (urràscina).

Ho messo al corrente di tutto i commensali di quella fatidica cena, senza uscirmene con la ridicola osservazione che, o orzo o farro, in fondo sempre di un vegetale si tratta, ma mi sono ripromesso, dalla prossima, di bere di meno (per la serie quando si attribuisce troppo comodamente all’alcol una sbandata che molto probabilmente si sarebbe verificata pure in sua assenza…).

Basterà a non rimediare altre brutte figure?

______

1 Uno spingitùru (da spingìri=spingere) è registrato dal vocabolario del Rohlfs a Taranto, a Grottaglie e a Mesagne, col significato di companatico. Nelle intenzioni del cliente, però, le verdure non dovevano accompagnare il pane ma farne le veci perché dovevano agevolare, col classico gesto della zuppetta, la degustazione dello squacquerone. Proprio la presenza di una –r– in più in springitùru è la spia che esso è il personale adattamento neretino di un termine importato.

2 Erronea correzione nella grafia o nella pronuncia di una forma linguistica, che consiste nel sostituire volutamente, o anche inconsapevolmente, a una forma esatta (nel nostro caso trombino) una scorretta (o di diverso significato: nel nostro caso trombosi) con la convinzione che la prima sia errata. L’equivoco è propiziato, oltre che dall’ignoranza, da una  somiglianza fonetica, anche parziale,  tra la parola sostituente e quella sostituita.

3 Il Rohlfs la dice voce calabrese, ma essa compare addirittura in testi scientifici, e non come nome locale; per esempio, più volte in Francesco Liberati Romano, La perfettione del cavallo, Michele Hercole, Roma, 1669 e in Gioanni Batista Trutta (napolitano, com’è specificato nel frontespizio), Novello giardino della prattica, ed esperienza, Paolo Severino Boezio, Napoli, 1785.

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12 Commenti a Una cena piuttosto movimentata, ovvero lu springitùru e la urràscina

  1. Furrascina, dalle mie parti. E’ l’erba verde tagliata per foraggiare. In genere orzo, che può essere tagliato anche più volte. Gli altri foraggi (veccia, farcula, fave, ecc..) hanno un nome proprio.

  2. Ringrazio l’amico Angelo non perché una parte del suo contributo (“in genere orzo”) sembrerebbe riesumare la mia proposta etimologica da ebbro, ma proprio perché mi dà l’occasione di integrare il mio post dando a quella proposta, ammesso che ce ne fosse stato bisogno, un’ulteriore botta. La forma prevalente di “orzo” in dialetto salentino (le altre varianti coinvolgono solo la parte iniziale) è “uèrgiu”: perciò, se “urràscina” fosse stato da “orzo” avremmo avuto, tutt’al più “uèrgiàscina”. Giacché ci sono do anche il colpo di grazia: “furràscina”, non presente nel Rohlfs, è variante di “vurràscina”, presente, che ho citato. La trasposizione (v>b>f) è assolutamente normale e proprio “furràscina” rende certi che “urràscina” è legato a “farragine/foraggio”, con lenizione e perdita (altro fenomeno normale) della f iniziale.

    • Domanda: i salent. vurràscina, urràscina, furràscina potrebbero avere una relazione con l’etimo dell’ital. borràgine (o borrana)?

  3. l’equivalente di foraggio e foraggiare, cibo, cibare, nel mio dialetto è completamente diverso: si usano infatti i termini cuvernu e cuvernare (governo e governare). Hai dato da mangiare alla mucca? > Ha cuvernata a vacca?

  4. So che questo post non è il luogo adatto per ospitare la mia domanda, ma vorrei sapere qual è il significato del termine neritino “ndandarisciare”.

    • gironzolare, andare da una casa all’altra senza concludere niente, alias (mi sia consentito) “cazzeggiare”. Per quel che ricordo si riferisce allo spostamento da un ambiente all’altro. Se invece la perdita di tempo si consuma nella medesima casa o stanza si utilizza “utare”: “hae ti ‘sta matina ca vai ndandarisciandu” (è da stamane che vai gironzolando senza concludere nulla). “hae ti ‘sta matina ca ueti e non ha cunchiusu nienti” (da stamane giri vuoto senza concludere alcunchè)

      • riflettendo sul termine ricordato da Fabio (che stava per passare nell’oblio) “ndandarisciare” mi viene in mente il din-don delle campane. Che sia da ricondurre a questo? Attendo lumi, chiamando in causa anche Armando, da cui son certo potrò avere sonore bacchettate (e daje co’ ‘ste bacchettate, oggi) per aver osato

  5. La voce non è riportata dal Rohlfs e l’unica cosa che sembra sicura è il suffisso iterativo -isciàre (la classica scoperta dell’acqua calda… ), che presupporrebbe una forma di partenza *ndandàre. Quest’ultima potrebbe essere da inde (=di là)+andàre=frugare (stessa etimologia della voce italiana). Probabile trafila: *indandàre>*’ndandàre (aferesi di i-)>’ndandarisciàre.

  6. dandarisciare potrebbe essere un sinonimo di dondulisciare (dondolare, andare avanti e indietro) oppure onomotopieico di dan-dan il colpo ripetuto del martello sull’incudine

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