La chiài (la chiave)

di Armando Polito

Chi pensa che questa sia una recensione a scoppio ritardatissimo e per giunta in dialetto salentino del film del 1983 La chiave di Tinto Brass con Stefania Sandrelli nel ruolo di protagonista può tranquillamente passare oltre. Chi, invece, ha altri interessi, per dir così, meno epidermici…, forse mi onorerà della sua attenzione.

A prima vista (anche in filologia è questo il senso di partenza, poi bisogna impegnare le altre capacità sensoriali, e non solo quelle) sorprende che la voce abbia un’unica forma per il singolare e per il plurale: la chiai/li chiai (la chiave/le chiavi). Si tratta, insomma, di quello che in grammatica è definito un sostantivo invariabile, come in italiano il re/i re.  Non ho scelto a caso questa parola italiana perché essa deriva dall’accusativo singolare di un sostantivo latino della terza declinazione [rege(m)], proprio come il nostro chiai è, come l’italiano chiave, dal latino clave(m)1. Quello, però, che è successo a re non è toccato a chiave che, come sappiamo, non è un sostantivo invariabile, dal momento che al plurale (almeno, come si vedrà, quello più antico ed autorevole oltre che l’attuale) è le chiavi e non le chiave. D’altra parte, se prendiamo in considerazione altri casi, quello di  re ci appare inspiegabile: cònsule(m)>il console, i consoli; mìlite(m)>il milite, i militi.  Lo stesso è avvenuto, con coinvolgimento dei due generi, per il teste, la teste/i testi, le testi, da teste(m)=testimone. A questo punto qualcuno mi chiederà: ma perché hai messo in campo sostantivi latini il cui nominativo ha più di una sillaba [miles per mìlite(m)], mentre il nominativo latino del nostro re è monosillabico (rex)? Domanda sacrosanta, anche perché ci consentirà di chiarire la stranezza. Prendiamo il caso di lex=legge, dal cui accusativo lege(m) è nato il nostro legge, che, se avesse avuto lo stesso destino di re, sarebbe dovuto essere la le/le le e non la legge/le leggi. La lingua, come ho avuto occasione di dire altre volte, è quanto di più capriccioso e apparentemente irrazionale possa esistere perché si intrecciano vari fenomeni non sempre facilmente decifrabili e, in qualche caso, ancora indecifrati. Per tornare al nostro re bisogna riconoscere che in origine  esso fu conservatore (cosa storicamente  più consona ad un sovrano…), nel senso che la prima forma nata dall’accusativo rege(m) fu rege, voce diffusissima (all’inizio l’unica) nell’italiano antico. Poi per lui ci fu il taglio della coda (e non della testa…contrariamente a quello che spesso, sempre storicamente, è stato il suo destino), cioé l’indebolimento e poi la scomparsa della sillaba finale atona, fenomeno trasmesso anche al plurale. Perché tutto questo per re e non per legge? Con un pizzico di ironia che potrebbe avere un fondo di verità mi limito a far osservare che il passaggio da rege a re comportava tutt’al più un possibile equivoco con la nota musicale (questa sì, sempre nobile…), quello da legge a le avrebbe ridotto lo strumento principe per la convivenza civile (almeno sul piano teorico…) a qualcosa di troppo simile, e nelle dimensioni grafiche e nel peso concettuale, alla modestia di un articolo.

Dopo esserci aggirati tra gli oscuri meandri dei tre poteri è il momento di tornare a chiai. Ho già detto che è da clave(m), ma bisogna integrare, colpo di scena!, dicendo che clavis fa parte di un gruppo di nomi che all’accusativo possono terminare, oltre che in –em, anche in –im; e proprio da questo clavi(m)2 è derivata  (con sincope di –v– e normalissimo passaggio cla->chia-) la nostra voce di oggi. Una volta formatosi il singolare chiai, era normale che la stessa forma valesse anche per il plurale a causa di una desinenza (-i) che del plurale aveva già tutta la parvenza3.

Un’ultima osservazione: oltre a  la chiai c’era in passato anche lu chiaìnu, una chiave più grossa per le serrature di portoni. Abituati come siamo a considerare –ino come un suffisso diminutivo, ci sorprende il fatto che lu chiaìnu fosse notevolmente più grande de la chiai. E, infatti, in questo caso –ino non è un suffisso diminutivo ma indicante pertinenza, come in vicino, che è dal latino vicìnu(m), a sua volta da vicus=villaggio, per cui il suo significato di partenza era di pertinenza del (dunque che sta vicino al) villaggio4.  Così da chiai si formò chiaìnu, con passaggio dal femminile del nome primitivo al maschile di quello derivato; e in questo, a costo di essere accusato di annegare nella fantaetimologia, io ci vedo un pizzico (e sto esagerando in difetto) di maschilismo…

Chiudo, e questa volta veramente, con l’unica cantilena salentina a me nota in cui questa parola compare.

Ti l’ora ca nascìi

fuèi sbinturàta,

ti tandu parse la sbintura mia:

mi purtàra alla chièsia pi bbattizzàre

e morse la mammàna pi lla ia,

si pèrsira li chiài ti l’Uègghiu santu

e ppuru queddhe ti la sacristìa. 

(Dall’ora che nacqui fui sventurata, da allora si manifestò la mia sventura: mi portarono alla chiesa per battezzarmi e morì per la strada la levatrice, si smarrirono le chiavi della teca dell’Olio santo e pure quelle della sagrestia)

Come si vede, è un testo tutt’altro che allegro5; esso, tuttavia, può essere una tessera di un virtuale mosaico leggibile on line mediante la digitazione, è il caso di dire, di una parola-chiave. Ma questo è un progetto che nemmeno un individualista sfrenato come me può affrontare e realizzare da solo….

______

1 Clavis (terza declinazione) è parente di clavus (seconda declinazione) che significa chiodo; quest’ultima voce italiana deriva proprio da clavu(m) e il passaggio –v->-d– è dovuto ad incrocio con clàudere=chiudere (dalla radice kleid– del greco klèis=paletto, chiave,da cui anche il verbo klèio=chiudere). Sul piano semantico, poi, non ci vuole molta fantasia e non è necessario essere uno scassinatore per capire che un chiodo può essere una forma rozza e primitiva di chiave, come non è necessario essere un maniaco sessuale per capire come chiavàre dal concetto originario e non sempre innocente di inchiodare [Jacopone da Todi (XIII secolo), Il pianto della Madonna, vv, 56-59): Succurri, piena de doglia/ché ‘l tuo figliol se spoglia;/e la gente par che voglia/che sia en croce chiavato] è passato all’attuale, unica, valenza definita oscena da tutti i dizionari. L’incrocio tra chiave e chiudere continua anche in chiavistello, da un latino *claustèllu(m), diminutivo del classico clàustrum (come castellum=fortezza lo è di castrum=accampamento)=chiusura (dal citato clàudere; da claustrum è l’italiano chiostro), con influsso di chiave.

2 Attestato in Plauto (III-II secolo a. C.), Mostellaria, v. 77:  Clavim cedo, atque abi hinc intro, atque occlude ostium: et ego hinc occludam (Dammi la chiave e tu da qui entra in casa e chiudi la porta; io da fuori chiuderò a chiave) ed in Tibullo (I secolo a. C.) nella quarta elegia del secondo libro, della quale riporto, per la loro attualità (anche se, va detto, non tutte le donne sono così) i vv. 15-29 nella mia traduzione (e si sente…): Ad dominam faciles aditus per carmina quaero:/ite procul, Musae, si nihil ista valent!/At mihi per caedem et facinus sunt dona paranda,/ne iaceam clausam flebilis ante domum,/aut rapiam suspensa sacris insignia fanis,/sed Venus ante alios est violanda mihi./Illa malum facinus suadet dominamque rapacem/dat mihi: sacrilegas sentiat illa manus!/O pereat quicumque legit viridesque smaragdos/et niveam Tyrio murice tingit ovem!/Hic dat avaritie causas et Coa puellis/vestis et e Rubro lucida concha mari./Haec fecere malas: hinc clavim ianua sensit/et coepit custos liminis esse canis./Sed pretium si grande feras, custodia victa est,/nec prohibent claves et canis ipse tacet (Tento di procurarmi l’amore della mia signora per mezzo di poesie: andate a farvi fottere, o Muse, se queste non funzionano! Debbo procurarmi i doni per lei commettendo un delitto e una scelleratezza, per non abbandonarmi al pianto davanti alla sua casa chiusa, oppure sarò costretto a fottere qualche offerta votiva esposta in un sacro tempio, ma prima di ogni altro debbo profanare Venere. Essa mi spinge al delitto e nelle braccia di una donna rapace: sia lei a sperimentare le mie mani sacrileghe! La morte colga chiunque raccoglie  verdi smeraldi e tinge con porpora di Tiro la bianca lana di pecora! Costui e la veste di Coo e la luminosa perla del Mar Rosso danno occasione alle fanciulle per manifestare la loro rapacità. Tutto ciò le ha rese cattive: da qui la porta cominciò a sentire (il peso del)la chiave e un cane a fare il guardiano sulla soglia. Ma se tu porti un dono di pregio ogni custodia è vinta, né c’è chiave che tenga e pure il cane tace).

Non posso non notare come la parte iniziale della poesia di Tibullo ricalca lo schema del paraklausìthyron=lamento presso la porta chiusa, sorta di serenata (da parà=presso+klàio=piangere+thyra=porta), un classico della poesia greca che continua nel mondo romano e nel nostro (chi non ricorda, della canzone Ancora portata al successo nel 1981 da Eduardo De Crescenzo, i versi: …e prima o poi farò lo sbaglio/di fare il pazzo e venir sottocasa,/tirare sassi alla finestra accesa,/ prendere a calci la tua porta chiusa…?

3 Le chiave è l’unica forma di plurale attestata negli autori fiorentini dal Trecento (ad eccezione di Dante: Inferno, XIX, 91: Che ponesse le chiavi in sua balia?) in poi e la forma ricorre anche in documenti in prosa, di carattere letterario e non, dove è da escludersi qualsiasi condizionamento metrico o stilistico. La forma attuale si afferma dal XVIII secolo, come dimostrano le commedie del Goldoni in cui compare le chiave nei dialoghi in dialetto e le chiavi in quelli in italiano.

4 Il neutro sostantivato vicìnum (anche nella forma vicìnium) insieme con vicìnitas nei primi secoli del medioevo indicava l’assemblea dei cittadini invitati ad assistere ad un processo particolarmente difficile in cui la testimonianza di alcuni di loro sarebbe stata determinante per l’emissione della sentenza da parte dei giudici; insomma, una valenza esclusivamente laica.  Successivamente vicìnum, vicìnium e vicìnia indicarono solo  quella parte del quartiere cittadino (pittàci) situata nei pressi di una chiesa.

5 Quello della lamentazione (non solo per un amore contrastato come nel caso del paraklausìthyron della nota 2) ma, in generale, per il proprio destino sfortunato è un topos letterario. Riporto la prima quartina di un sonetto di Bartolomeo di Castel della Pieve (XIV secolo), anche per la presenza del plurale le chiave di cui ho parlato nella nota 3: Morte ha tenuto del mio cor le chiave/dal primo dì ch’io nacqui e tien ancora, e con pensieri amari aspetto l’ora ch’ella il dissolva con tempesta grave.  Sul tema vedi pure la nota 8 del post Sul termine “naca”, la culla dei nostri avi del 17 agosto u. s.

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2 Commenti a La chiài (la chiave)

  1. Armando ma hai pensato anche alla “chai” di un terreno? Ricordo che in un terreno agricolo, per indicare il confine non lineare ma zigzagato o anche solo angolato, il punto lo si indicava con questo termine. Ti risulta? Mi pare che venisse contrassegnato con una “fineta” ovvero la pietra issata verticalmente

  2. È vero, per la fretta mi son dimenticato quest’uso metaforico della parola, che coinvolge anche l’ultima pietra che chiude le volte a botte e quella centrale di un arco; e, giacché ci siamo, il derivato “chiamièntu” (da un latino *clavimèntum=inchiodatura) delle “chianche”.

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