Un dialogo sulle pagine di “Piccoli seminaristi crescono”: Luciano Provenzano e l’autore Alfredo Romano sui ricordi e il significato di un’esperienza che li accomunò

Parte prima: recensione di Luciano Provenzano

E dunque, “lu vinu se lu futtira tuttu iddhi (…)!” (pag. 52)
Dato però che “un bicchiere di vino rosso” veniva dato ai seminaristi “nei giorni di festa grande” (pag. 48), e che di quel vino era stata fatta “offerta” al seminario, potrebbe essere che il vino di suo padre lo abbia assaggiato anche “Alafridus”1 (pag. 88), autore della storia, e che quindi non se lo siano bevuto “tuttu” soltanto “iddhi”!
Ogni narrazione ha inclusa una mistificazione, che è in fondo il punto di vista di chi la sviluppa, e che può essere disvelata nel suo porsi come assoluto scritturistico – o narrante -, mediante l’apporto di uno diverso ad essa strettamente collegato ma non coincidente.
Narrazione esilarante, l’intero libro, di mano esperta nel tessere l’insieme della vicenda biografica dell’autore adolescente, con sottili dettagli di nomi e circostanze, comprensibili nel loro essere ripresi e riportati così vividamente in luce a distanza di mezzo secolo considerando il diario – “il quaderno” (pag. 67) – che meticolosamente l’autore deve aver vergato in quegli anni.
Implacabile verso il sistema di regole e metodi che la vita di seminario implicava, pur con tentativi di rivalutare al fondo l’esperienza: “Se sono quel che sono lo debbo anche al Seminario (sempre annotato con una reverenziale maiuscola nel libro) per cui ne parlo e ne scrivo con tenero affetto” (pag. 9), e addirittura: “Se tornassi indietro rifarei lo stesso percorso”(pag. 9), e ancora: “Niente è stato inutile” (pag. 88). Pur tuttavia la critica più radicale di fatto è costituita dalla scelta dell’autore di essere “non più credente” (pag. 20): cinque anni di seminario, che avrebbero dovuto contribuire a forgiare un pastore di anime, di fatto non hanno forgiato neppure un’anima credente, che appare come dichiarazione del più completo fallimento di quella esperienza!

La ferrea disciplina delle regole in vigore e della severità di chi preposto a farle rispettare è attenuata appena da taluni sporadici episodi di iniziativa volontaria di qualche singolo educatore: “Don Giorgio Crusafio che amorevolmente (…) strofinò le croste fino a farle scomparire”, “Don Raffaele (…) piegato sui miei piedi mi risolse il problema” (pag. 82), e ancora: “Don Giorgio mi offrì di andarci con la sua nuova fiammante bicicletta” (pag. 85). A prevalere è comunque il clima di carattere repressivo per ogni naturale istanza di apertura al mondo, al punto che addirittura “i ritagli stropicciati” di giornale che avvolgevano le uova che la mamma gli porta la domenica divengono per il seminarista l’occasione di sbirciare “quel mondo là fuori sconosciuto e proibito” (pag. 53) e indurre al lapidario “quel nostro vivere senza colore, senza luce e senza amore” (pag. 63).

Provo a rivalutare quegli anni, anche per me tanti, in quello stesso luogo, e stessi personaggi, compreso l’autore, egli in quinta ginnasio ed io in prima media. L’epoca: vedeva in uso – è personale esperienza – da parte di ‘maestri’ elementari ancora la ‘bacchetta’ per all’occorrenza bacchettare, appunto, prevalentemente sulle mani ma anche altrove gli allievi!
La geografia: anche se discusso, “Il terzo occhio” un’idea la offre, del mondo del monaci bambini in Oriente. E testimonianze sono anche “gli Shaolin che portano in giro per il mondo la loro storia: un saggio e vecchio monaco che compie una sorta di rito di iniziazione nei confronti del piccolo discepolo. Gli insegna a dominare il suo corpo attraverso la meditazione, gli illustra le potenzialità delle arti marziali, lo allena a focalizzare le sue energie. Il segreto non e’ la forza materiale, ma la preghiera, ovvero la forza del pensiero.” (http://archiviostorico.corriere.it/2001/settembre/07/kung_dei_monaci_bambini_co_10_0109071857.shtml)
E ancora: “Nel Bhutan, a Paro il Dzong (monastero) dove è stato girato il film di Bertolucci “Piccolo Bhudda” (…); quindi nei pressi del villaggio di Lhuentse abbiamo trovato il Dzong dei monaci bambini. Centinaia di monaci bambini ci si sono fatti attorno (…) (L’avventura di Spessotto e Francescon in Bhutan http://www.stile.it)
Tener conto di questi apporti potrebbe in qualche modo fornire una diversa angolatura all’esperienza descritta nel nostro libro, considerando un po’ più l’essenziale apporto mirato alla crescita, per chi ci è passato, pur fra tutte le contraddizioni e i limiti evidenziati in esso. Questo per una possibile risposta all’iniziale quesito dell’autore: “Ma la vita non è tutta un odio-amore? (pag. 9). Potrebbe – e lo è per frangenti – esser tale, ma con preciso orientamento fra quei due di sentimenti: che sia l’amore a trionfare, ché già solo restando in bilico, nell’incertezza, l’altro prepotentemente incede.
Ciò a sua volta non scarta ma include pienamente l’evidenza di Armando Polito che in un “commento dei lettori” al libro mette in luce il “perseverare di certi atteggiamenti e di certe regole, pur obbligatoriamente edulcorati dall’evoluzione dei tempi” (pag. 117) che andrebbero considerati, a giusta ragione, come il male della Chiesa ancora oggi, arroccata nelle proprie certezze assolute e troppo spesso incapace di aprirsi a dialogare con il mondo.

(1) Alafridus è anche lo pseudonimo dell’autore su you-tube (n.d.r.)

 

Parte seconda: replica di Alfredo Romano

Caro Luciano,
ho scoperto adesso, grazie a Pier Paolo Tarsi,  il tuo commento-recensione al mio libro su Spigolature Salentine e, naturalmente, non può che avermi fatto piacere. Trattandosi di argomento inusuale nel panorama editoriale, è pacifico che chi ha vissuto la mia stessa esperienza, come nel tuo caso, si rispecchi in quel che ho scritto. A dire il vero ce l’ho messa tutta a esser sincero con i miei ricordi, ma capisco che ricordare è anche “mistificare”.
Quanto al non credente non l’ho scritto per svelarmi, no: più che altro volevo sottolineare che anche un non credente si può appropriare della bellezza del canto gregoriano o di una canzoncina alla Madonna di bella fattura; ho anche voluto sottolineare che il bello, da qualunque parte esso venga, appartiene all’umanità intera. Chi l’ha detto poi che il non credere più da parte mia a un dettame religioso sia stato un fallimento? Certo, questo può essere visto così da parte degli educatori che ho avuto. Semmai si può parlare di fallimento per la mia classe considerando che siamo entrati in 21 e solo uno è arrivato alla meta. Ma l’essere diventato agnostico non è stata una reazione alla severa educazione impartitami in seminario: semplicemente è stato un processo evolutivo privato di estrema serenità. Rispetto naturalmente ogni credenza religiosa, ognuno è libero di dotarsi di tutte le risorse che vuole per superare l’angoscia della morte. La fede insomma per me appartiene solo alla sfera privata di una persona e ho imparato a non giudicare a seconda del credo o no che professano uomini e donne di tutto il mondo. Si chiama tolleranza questa, una buona virtù che ci avrebbe risparmiato nei secoli, e ancora oggi, le guerre di religione con milioni di morti, per non dire i tribunali dell’Inquisizione di triste memoria.
In quanto al vino, il “se lu futtìra tuttu iddhi” di mio padre… beh, mio padre produceva sempre un vino rosato di negramaro, mentre (questo lo ricordo bene) quelle poche volte che ci servivano il vino a tavola è sempre stato color rosso scuro: il vino di casa mia l’avrei riconosciuto tra mille.
Grazie per il vivo interesse che mostri per Piccoli seminaristi crescono.

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3 Commenti a Un dialogo sulle pagine di “Piccoli seminaristi crescono”: Luciano Provenzano e l’autore Alfredo Romano sui ricordi e il significato di un’esperienza che li accomunò

  1. Una delle cose belle di Spigolature è che a volte i commenti dei lettori ad alcuni pezzi sono più interessanti dei pezzi stessi. Questo dialogo di due “piccoli seminaristi ormai cresciuti” è composto appunto da due commenti ad una mia recensione del libro di Alfredo pubblicata qualche giorno fa. Gli interventi meritavano una visibilità a parte per diverse ragioni: per la bella recensione stesa da Provenzano e arricchita di profonde riflessioni, per il bel confronto tra i due che mostra come vari siano i valori e i significati che si possono attribuire ad un’esperienza che ha accomunato due giovani vite, per il fatto infine che dimostra con un esempio quanto la rete stia cambiando la fruizione della letteratura, agevolando il confronto diretto tra un autore di un libro (libro nato a sua volta in un blog!) ed un qualunque lettore che, sempre per mezzo della rete, ha la possibilità immediata di un confronto partecipativo e attivo con l’autore stesso. Mi pare un’ulteriore attestazione del buon servigio offerto dalla rete per il confronto, per la narrazione, per le nostre vite. Saluti

  2. Rileggendoti, caro Luciano, ho trovato di non aver risposto a tutti i quesiti che mi avevi posto, quesiti che mettono in luce quelle che a prima vista sono palesi contraddizioni. Tu estrapoli dal testo del mio libro:

    a) “Se sono quel che sono lo debbo anche al Seminario per cui ne parlo e ne scrivo con tenero affetto (pag. 9)
    b) “Se tornassi indietro rifarei lo stesso percorso” (pag. 9) “Niente è stato inutile” (pag. 88)
    c) “i ritagli stropicciati” di giornale che avvolgevano le uova che la mamma gli porta la domenica divengono per il seminarista l’occasione di sbirciare “quel mondo là fuori sconosciuto e proibito” (pag. 53) e indurre al lapidario “quel nostro vivere senza colore, senza luce e senza amore” (pag. 63).
    d) “Ma la vita non è tutta un odio-amore? (pag. 9).

    a) Certo che debbo molto al Seminario (scusami volutamente la maiuscola, caro Luciano, il Seminario è sempre stato il mio “convitato di pietra”), perché, aspirando al sacerdozio, ho potuto studiare, cosa che non mi sarebbe stata possibile dal momento che provenivo da una famiglia modesta e, come tutti quelli di Collemeto, sarei finito in Germania a lavorare in qualche cantiere. Ti assicuro, però, che mi sentivo veramente vocato al sacerdozio, insomma non sono entrato in Seminario al fine di sfruttare la situazione. In questo caso non avrei resistito un giorno di più.
    b) A distanza di tempo, mi sono riconciliato con quel passato e proprio per questo ho avuto la serenità di scriverne.
    c) I “ritagli stropicciati”. Beh, se non altro era la prova del sapere cosa c’era “oltre la siepe”, non ti pare? Se vuoi, in nuce, s’affacciavano i primi germi di quella curiosità intellettuale che è il motore della conoscenza. Quanto al quel “vivere senza amore…”, sì, mi mancava l’affetto familiare, in fondo eravamo dei bambini e immagino che anche tu abbia pianto talvolta sotto le lenzuola e, se non c’erano le lacrime, ti sarai sentito almeno desolato qualche volta.
    In quanto alla disciplina, se ho resistito cinque anni in Seminario, vuol dire che c’era una meta che mi guidava e che mi faceva sopportare la severa regola così simile a quella del piccolo Buddha. Ora tu potresti dirmi: ma di che cosa ti lamenti allora? Caro Luciano, non mi lamento della severa disciplina, mi lamento semmai di una certa disciplina non necessaria a volte, gratuita quasi. Se per la prima volta nel Seminario di Nardò (ultimo anno1965) nacque spontaneamente una “rivolta” nella mia classe, ciò sta a significare che avevamo la consapevolezza che la dirigenza aveva varcato il confine delle regole. Mi riferisco a quella nuova punizione (ne faccio menzione sul libro) che consisteva nel non ammettere i genitori di un seminarista in parlatorio la domenica mattina per via che aveva combinato qualche marachella nel corso della settimana. Oppure, quando si faceva il bagno a mare durante le colonie estive, il seminarista che al suono del fischietto usciva per ultimo dall’acqua, era escluso dal bagno successivo [s’andava a mare ogni due giorni]: sicché c’era sempre un punito ad ogni bagno di mare. Ed elencherei dell’altro ancora, ma mi basta. Chissà, può darsi che in seguito a quella “rivolta” qualcosa sarà cambiato negli anni successivi. Ma questo non mi è dato di sapere.

    d) La vita come odio-amore. Certo che anch’io mi auspico che trionfi l’amore nel mondo. Ma tu sai meglio di me che l’odio e l’amore sono facce di una stessa medaglia. Regalami l’oggetto più bello del mondo, ma se me lo ritrovo sempre davanti finirò per odiarlo. Non calza? Perfino tra due persone che si amano serve un tirammolla, perché si può diventare anche schiavi dell’amore e finisci per odiare. Insomma la vita tende sempre a una giusta misura: viviamo tutti in un mondo di opposti. Ma se mi chiedi dove sta la virtù, io non saprei risponderti. In questo momento però (e non sembri una stravaganza), mentre scrivo, di una cosa sono certo: che il nostro Presidente del Consiglio se ne deve proprio andare, perché l’odio ha travalicato ogni limite e siamo tutti smarriti in questo tunnel che ci pare senza uscita.
    Un abbraccio
    Alfredo

  3. Caro Alfredo, concordo con te per quanto riportato nei punti a,b,c,d, della risposta all’amico Luciano Provenzano, che colgo l’occasione di salutarlo pregandolo di non sbagliare a scrivere il mio cognome sull’uovo fresco che gli ho consegnato e che, una volta lesso, non vada a finire a qualche mio quasi omonimo. Scherzi a parte, anche io, se tornssi indietro, rifarei lo stesso percorso, perchè se nella vita ho sempre saputo adattarmi alle difficoltà e superarle e sopportare sacrifici, LO DEVE ALLE FERREE REGOLE CHE SCANDIVANO LA NOSTRA VITA IN SEMINARIO. Forse troopo rigide per dei ragazzini, di età compresa tra i 10 ed i 15 anni, ma che, almeno per me, sono servite a forgiarmi. Vorrei in questa sede precisare che, in occasione del 1° Raduno di “Ex Seminaristi” da me organizzato qualche anno fa, al quale parteciparono ex Seminaristi, ex Professori ed ex Educatori, il “nostro” amatissimo e stimatissimo Rettore del tempo, chiese pubblicamente scusa se mai, in qualche modo, con il suo atteggiamento troppo rigido, avesse contribuito al “depauperamento” delle vocazioni. Scrosciante appauso e…commozione.
    Io lancio qui l’idea: nel 2014 ricorrono i 50 anni (mezzo secolo) dell’inaugurazione del “Nuovo Seminario”, quale occasione migliore per rivederci e …confrontarci? Io l’idea l’ho lanciata e sono deciso a portarla avanti, possiamo risentirci.
    Cordiali saluti ad Alfredo, Luciano e a quanti leggeranno queste poche righe.
    Enrico CIARFERA

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