La cripta di sant’Angelo in Uggiano la Chiesa

La cripta di sant’Angelo in Uggiano la Chiesa

Una fulgida testimonianza dell’influsso bizantino nella Valle dell’Idro

 

di Dania Nachira

Nella valle dell’Idro, nella zona meglio nota alla gente del luogo come “Le Padule”, in agro di Uggiano la Chiesa tra la frazione di Casamassella ed Otranto, sorge Monte Sant’Angelo.

Qui la natura sembra proseguire il suo corso indisturbata, da sempre, con una folta macchia mediterranea ben rappresentata da pini, lentischi, cespugli di edera che si inerpicano sul pendio del monte ricoprendolo quasi interamente, se non fosse per il costante e sapiente lavoro di generazioni di contadini del luogo che, negli ultimi secoli, hanno bonificato e terrazzato, strappando lembi di terra alla vegetazione spontanea per far spazio agli ulivi.

In realtà, sia la natura che l’uomo in epoca moderna hanno soltanto nascosto ed in parte contribuito con la loro opera a preservare e a distruggere quel che rimane di un luogo che conserva interessanti testimonianze medievali.

Si riconosce, infatti, una fortificazione sulla sommità del monte con torre a pianta quadrata di dieci metri di lato, con spigoli orientati ai quattro punti cardinali.

Sullo spigolo est si innesta la cortina muraria, di cui sono visibili venti metri circa ben conservati, probabilmente facente parte di un recinto fortificato.

In quel che resta della torre non c’è traccia del varco di ingresso, poiché non si trova il piano di calpestio originario sommerso da diversi centimetri di terra. La muratura, costituita da grossi e piccoli blocchi tenuti insieme da una malta tenacissima, e spessa fino a due metri sui lati esterni, lascia presagire che la torre fosse abbastanza alta e probabilmente aveva piani in tavolato ligneo comunicanti con scale a pioli o scale ricavate nello spessore della muratura stessa.

Libri/ Ripari trulliformi in pietra a secco nel Salento

RIPARI TRULLIFORMI NEL SALENTO

di Paolo Vincenti

E’ stato pubblicato qualche anno fa un pregevole volume ad opera di Francesco Calò: “Ripari trulliformi in pietra a secco nel Salento,” edito dalla tricasina casa editrice Progeca di Carmelo Carangelo.

Il volume, patrociniato della Regione Puglia, con Prefazione del Consigliere regionale Antonio Buccoliero, offre un affascinante viaggio fra queste caratteristiche abitazioni salentine,  che costituiscono il fiore all’occhiello di una terra che ha tanto da offrire ai suoi visitatori ed anche ai residenti. Anzi, il libro è una ottima occasione proprio per noi, abitanti della provincia, per ricordarci queste bellezze della secolare architettura rurale  che il nostro paesaggio offre e per riflettere anche su una urgenza, fortemente sentita dall’autore del libro e da tutti coloro che hanno a cuore il patrimonio culturale salentino,  vale a dire il recupero e la salvaguardia dei ripari trulliformi,  che rischiano di scomparire, fra non molto, abbandonati come sono  all’incuria e

Olivi del Salento.4

ph Mino Presicce

L’ulivo che a gli uomini appresti

 
la bacca ch’è cibo e ch’è luce,

 
gremita, che alcuna ne resti

 
pel tordo sassello;

 
l’ulivo che ombreggi d’un glauco

 
pallore la rupe già truce,

 

Non vuole,

per crescere, ch’aria, che sole,


che tempo, l’ulivo!

 

Il mese di agosto nei proverbi salentini

Acostu ti li mmuta li chimere!

(Agosto ti fa passare i colpi di testa! perchè il caldo estenuante mette a dura prova chiunque, facendo svanire ogni pensiero, sia esso cattivo o buono).

Acostu ‘ccite l’ omu e marzu nd’ hae la nòmina

(ancora per risaltare la fiacca determinata dal caldo estenuante di agosto. Letteralmente: agosto ammazza l’uomo e marzo ne ha la condanna).

Lugliu e acostu: mugghere mia no tti canoscu

(per tutto l’anno la coppia dorme nello stesso letto, ma in questi due mesi è solita dormire separatamente)

Acostu manda littri cu tti riccugghi li zzìnzuli

(Agosto manda messaggi perchè tu possa metter via le masserizie e gli attrezzi. La pioggia attesa per i primi di settembre, e oggi diremmo la riapertura delle scuole, interrompono le ferie, un tempo trascorse in campagna).

Mara alla pastanaca ca ti acostu no ggh’è nnata,

ma cce dicu nata, armenu siminata!

(triste destino per la carota non ancora spuntata in agosto o perlomeno seminata).

Mara a queddha rapa

ca ti acostu non è siminata

(ancora un consiglio per l’agricoltore, che in agosto  avrà dovuto seminare le rape).

Acostu gnòrica l’ua e lu mare

(in agosto il negramaro è ormai maturo e il mare varia il suo colore a causa del cielo che tende ad essere nuvoloso).

Note storiche su torre Squillace, detta Scianuri, sul litorale di Nardò (Lecce)

 

di Marcello Gaballo

torre Squillace (ph M. Gaballo)

Sul finire del XVI secolo la città di Nardò è un cantiere aperto e si registra il rifiorire di ogni attività edile pubblica e privata, civile e religiosa. I documenti già attestano la presenza di decine e decine di complessi masserizi, specie nelle vicinanze della foresta dell’Arneo, rinomato luogo di caccia per cervi e cinghiali per ricchi proprietari e cortigiani al servizio della celebre famiglia dei duchi d’Acquaviva d’Aragona, che aveva scelto di dimorare in città.

Ma la tranquillità dei luoghi viene turbata in questo quarto di secolo dalle continue scorrerie di orde di barbari e corsari, che dal mare possono sbarcare in un qualsiasi punto della estesissima costa, in particolar modo nel nostro distretto, costellato da numerosissimi insediamenti produttivi fortificati e non.

In obbedienza a quanto promulgato a Napoli nel 1563 e 1567, ci si preoccupa di difendere il pingue territorio con la fortificazione della costa, ricorrendo a collaudati sistemi di avvistamento come le torri, alcune delle quali anche adatte a fronteggiare sparuti manipoli di pirati assetati e famelici e perciò bisognosi di far provvista di acqua e viveri.

In tutto il regno sorgono le torri, più rade nei tratti di scogliera alta ed impervia, più ravvicinate in tratti di costa bassa, come nel tratto ionico di nostro interesse.

torre Squillace nel corso dell’ultimo restauro del 2009 (ph M. Gaballo)

L’incremento maggiore si ha sotto il governo dei vicerè don Pedro da Toledo e don Pedro Afan de Ribera (1559-1571).  L’ordine di realizzarle, promulgato dalla Regia Camera di Napoli attraverso il suo presidente Alfonso de Salazar, avviene nel 1563, indirizzato ai regi ingegneri, che devono perciò erigerle su tutta la costa del regno, con il contributo delle universitas che distano meno di 12 miglia dal mare. Alcuni mastri giungono da Napoli nella nostra provincia, altri si formavano in loco, sino a diventare essi stessi i principali referenti della Regia Camera, come sono stati i neritini Vincenzo ed Angelo Spalletta, padre e figlio.

Furono essi i più abili costruttori, realizzando poderose torri a pianta quadrata, che dall’ architetto Faglia, massimo studioso del sistema torriero del Regno, sono classificate come torri “della serie di Nardò” (Fiume, S. Caterina, dell’Alto, Uluzzo, Inserraglio, S. Isidoro, Squillace, Cesarea, Chianca, Lapillo, Colimena).

La peculiarità di questa serie, oltre la pianta, è data dalla scala esterna, spesso aggiunta successivamente, la conformazione troncopiramidale, la presenza di caditoie (una o due per lato ed in corrispondenza delle aperture), la cornice toriforme marcapiano che divide la parete verticale da quella a scarpa, i beccatelli in leggero sbalzo, la cisterna nel piano inferiore e la zona abitabile in quello rialzato, la scala interna ricavata nel notevole spessore murario, la guardiola posta sulla terrazza.

Ad ogni torre era assegnato almeno un caporale e un cavallaro, entrambi stipendiati dall’università locale, ed ognuna di esse disponeva di un armamentario (un documento notarile elenca un  mascolo di ferro, uno scopettone, uno tiro di brunzo con le rote ferrate accavallato, con palle settanta di ferro).

La torre allora denominata Scianuri fu iniziata in località San Giorgio, in corrispondenza del porto omonimo, negli ultimi mesi del 1567, ma i lavori restarono fermi per oltre un anno a causa delle difficoltà finanziarie della competente università di Copertino. Risulta completata nel 1570, ad opera del mastro copertinese Pensino Tarantino, avendo richiesto circa ottomila ducati per la sua realizzazione. Sei anni dopo viene dotata di scale mobili e vengono completati gli infissi, registrandosi ulteriori spese sostenute ancora dai copertinesi, che nel frattempo avevano anche provveduto a retribuire i cavallari ad essa deputati.

Nel 1640 viene dotata della scala esterna in pietra, che ancora può vedersi, pur nel suo deplorevole stato.

Tralasciamo ogni altra notizia certa e documentata nel corso dei secoli, ricordando solo che la nostra torre nel 1707 ospita nelle sue prigioni sedici turchi, naufragati lungo la costa, per osservare la rigorosa quarantena prevista per scongiurare la peste.

Da un sopralluogo del 1746 viene attestato che non abbisogna di alcuna manutenzione, per essersi conservata molto bene.

lo stato di degrado di torre Squillace che ha sollecitato l’intervento di recupero (ph M. Gaballo)

Nel secolo successivo viene data in custodia alle guardie doganali (1820), quindi all’Amministrazione della  Guerra e della Marina  (1829). Nel 1940 i soldati dell’Esercito vi installano una postazione di artiglieria, rimasta attiva fino all’armistizio del 1949.

La torre, con quella di S. Caterina e del Fiume, è stata vincolata dal Ministero nel 1986, grazie alle pressanti segnalazioni del circolo culturale Nardò Nostra, che se occupò con una mostra itinerante e con una pubblicazione.

Festeggiare sant’Oronzo mangiando in suo onore un galletto di primo canto

CIVILTA’ CONTADINA DI  FINE OTTOCENTO

NNU JADDHRUZZU PI’ SSANTU RONZU

 

PER LA FESTIVITA’ DI SANT’ORONZO I CONTADINI REGALAVANO AL LORO PADRONE UN GALLETTO DI PRIMO CANTO

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

L’uso leccese di festeggiare sant’Oronzo mangiando in suo onore un galletto di primo canto, traeva origini da un’antica leggenda secondo la quale il Santo – consacrato vescovo personalmente dagli apostoli Pietro e Paolo – aveva  celebrato la sua elezione sgozzando un gallo ai piedi di san Pietro, che da poco approdato sulla costa di Bevagna dimorava nella macchia d’Arneo. Un gesto altamente simbolico in quanto, rifacendosi al racconto evangelico, cioè alla valenza di rimprovero che il canto di un gallo nel pretorio di Gerusalemme aveva avuto nei confronti di san Pietro, con l’uccisione della bestia il neo Vescovo aveva voluto attestare la vittoria spirituale del Principe degli Apostoli, ormai così forte nella fede da non avere bisogno di svegliarini.

Partendo da tali presupposti ne conseguiva che, ammazzando il pollo in onore di sant’Oronzo, in definitiva si recava tributo a san Pietro, ed era proprio in virtù di questa coordinata di approccio che l’usanza, nata in ambito cittadino, aveva messo radici anche nelle campagne, dove, però, le originarie intenzioni puramente laudative avevano sviluppato significanti a pretto interesse categoriale.

I contadini si facevano sì dovere di allevare uno o più galletti per il 26 di agosto, ma solo per farne un  presente al signor padrone, mai nell’intento di regalarlo a un loro pari o, meno che meno, per usufruirne personalmente; e questo anche quando particolari situazioni (buone condizioni economiche,

Ruggiano. Le zigaredde di Santa Marina

di Massimo Negro

Ruggiano. Gli amici abitanti di questo piccolo centro mi perdoneranno ma, prima di arrivarci il giorno della festa dedicata a Santa Marina, il 17 luglio, non ne conoscevo l’esistenza. Mai sentito nominare. Leggendo e approfondendo gli aspetti religiosi e le peculiarità delle tradizioni e delle credenze che ruotano intorno a questo centro e al Santuario dedicato alla Santa, devo dire che non la conoscenza è a me colpevolmente imputabile.

Ruggiano rappresenta un importante punto di riferimento nella storia delle nostre tradizioni e, in particolare, in questo percorso di descrizione e sommaria rappresentazione della devozione a Santa Marina.

Esterno 1

La santa che secondo la tradizione è la santa bella per eccellenza. La santa che con la sua bellezza, come abbiamo avuto modo di leggere nella nota su Muro Leccese dedicata alla Chiesa di Santa Marina, fece invaghire il governatore del luogo e che per il suo rifiuto a cedere alle sue lusinghe fu martirizzata.
La santa che sfuggendo alle grinfie del diavolo che si era manifestato nelle vesti di un drago squarciandogli la pancia, non solo è ricordata come la protettrice delle partorienti ma è soprattutto celebrata come la santa del bel colorito.

Nel passato, come abbiamo avuto modo di leggere in più occasioni, la religione si è spesso sostituita alla medicina, quando la medicina del tempo non riusciva a trovare una soluzione e soprattutto quanod si riteneva che “non era cosa per medici”. E questo accadeva anche per i casi di ittero. Allora si ricorreva a Santa Marina, la santa bella, la santa del sano colorito.

A Ruggiano è presente un Santuario dedicato al culto di Santa Marina. Qui accorrevano a piedi, in pellegrinaggio, i malati di itterizia (anticamente chiamato “male d’arco” in quanto si riteneva responsabile della malattia l’arcobaleno).

Esterno 2

La tradizione voleva che i pellegrini prima di arrivare a Ruggiano, dovevano fermarsi ad orinare nei pressi di qualcosa che avesse la forma di un arco, recitando i seguenti versi:

Arcu pint’arcu, tie sì bbèddu fattu.
Ci nò ttè saluta, de culùre cu ttramùta.
Ieu sempre te salutài e la culùre no ppèrsi mai
”.

Giunti nel piazzale del Santuario poi, si acquistavano le “zigaredde”, i tradizionali nastrini colorati che, una volta strofinati alla statua della Santa, acquisivano il potere di prevenire la temuta malattia.

Interno 1

Ruggiano è un piccolo centro agricolo a circa un chilometro da Salve. Percorrendo la statale che porta da Gallipoli a Santa Maria di Leuca, attraversato il centro di Salve dopo una ripida discesa molto suggestiva per il panorama che si può ammirare, scendendo dalle ultime propagini delle serre salentine, si giunge a questo piccolo centro. Qui a partire da una preesistente chiesa di origine medioevale, nel ‘600 le maestranze locali ne hanno ampliato il sito costruendo il Santuario così come appare adesso. Nel ‘700 venne realizzato il bell’altare che si può ammirare all’interno e rifatta la facciata.

Statua 1

Parcheggiata la macchina all’ingresso del centro, ho seguito il flusso della gente che a piedi si indirizzava verso il Santuario. Oggi come allora all’esterno del Santuario si trovano le “zigaredde”.

Statua

Quando sono arrivato, di prima mattina, la chiesa era stracolma per la celebrazione della messa e il flusso di gente e di devoti per il tempo che vi sono stato, è stato sempre consistente e costante a testimoniare come ancora oggi certe tradizioni e devozioni sopravvivono e sono partecipate.
Non ho visto nessuno, come vuole la tradizione, strofinare sulla statua della santa i nastrini colorati, ma tantissimi si avvicinavano con in mano un fazzoletto. Prima lo strofinavano sui piedi della santa e poi se lo passavano sulla faccia, conservandolo poi in tasca o nella borsa.
Vi devo confessare che questa visita è stata bella ma al tempo stesso emozionante per la semplicità del luogo e dei gesti delle persone.

Statua 4

Statua 3

Taranto e il suo porto

 

di  Daniela Lucaselli

 

Le mie spigolature questa volta riguardano il  porto di Taranto, uno dei luoghi più celebri della città ionica. Ubicato sulla costa settentrionale del golfo è costituito da una rada, denominata mar Grande e da un’insenatura interna più piccola chiamata Mar Piccolo.

Il porto comunica col Mar Piccolo tramite un canale di scarsi fondali, il Ponte di Pietra di Porta Napoli. A sua volta il Mar Piccolo è messo in comunicazione con il Mar Grande a mezzo di un altro canale più a sud, artificiale, il canale navigabile con il ponte girevole in ferro.

Il porto è una struttura che impera al centro della città e nel cuore del Mediterraneo.

In passato era uno degli approdi più ambiti e sicuri del Mediterraneo. Il sito, infatti, dove ebbe origine Tarantos era abitato sin dall’epoca preistorica da genti che ebbero contatti con le popolazioni dell’Egeo (1) e ricoprì un ruolo egemone fino agli inizi dell’età ellenistica.

La scelta di questa confortevole meta favorì lo sviluppo  della città in età classica ed ellenistica e le assicurò l’interesse di Roma che la utilizzò per il commercio con il sud del Mediterraneo.

Le fonti letterarie, infatti, attestano che in età classica il porto era un “rifugio” importante per le navi militari. Nella seconda metà del IV secolo a. C., la struttura portuale era operativamente attiva nell’esportazione dei prodotti dell’artigianato, quali vasi, rilievi in pietra tenera, mosaici, che inviava in Sicilia, in Grecia e in molti Paesi del Mediterraneo.

La sua decadenza ebbe inizio nel III secolo, dopo che Taranto cadde sotto il controllo dell’autorità di Roma: gli eventi si susseguirono e ne determinarono la storia e il destino. Le guerre annibaliche, il saccheggio e la distruzione del 209 crearono uno dei momenti più critici per la vita della città e di

L’Inferno di Capitan Black a fumetti: una possibile proposta formativa per le scuole medie salentine

di Pier Paolo Tarsi

Premessa

Qualche giorno fa, proprio dopo aver scritto sul Capitano il brano che potete leggere qui, intenzionato a prendere parte alla presentazione di un libro recentemente pubblicato da Lupo Editore, mi sono recato nello spazio espositivo appena inaugurato dall’editore stesso nel centro storico di Copertino. Neanche a dirlo, avevo sbagliato giorno: la presentazione si sarebbe tenuta il giorno dopo! Ho approfittato a quel punto per curiosare un po’ tra gli scaffali colmi dei tanti testi pubblicati dall’editore, accompagnato dalla voce narrante del disponibilissimo signor Lupo in persona che mi introduceva con entusiasmo al contenuto di ogni libro sul quale mi soffermavo. Tra i tanti lavori di grande interesse, la mia attenzione è ricaduta ben presto su un prodotto dal formato grande, dalla copertina colorata e attraente, avvicinandomi alla quale ho letto a grossi caratteri neri: Nfiernu!

Felice coincidenza: avevo appena scritto sulla necessità di far riscoprire nell’ambito della scuola dell’autonomia risorse come questo poeta dimenticato della nostra terra e lì, davanti a me, campeggiava una versione a fumetti di una parte della grande opera del Capitano, una concreta e

Nardò. Il guardiano delle ore

Nardò, piazza Salandra, orologio civico (questa e le restanti ph dell’articolo sono di M. Gaballo)

di Daniela Cosentino

Quando ero piccola come tutti i bambini frequentavo le lezioni di catechismo. La signorina delle “cose di Dio” ci raccontava delle storie affascinanti sulla creazione dell’uomo.

Io immaginavo Dio che modellava l’uomo dal fango a sua immagine e somiglianza. La parte della storia che mi interessava di più era quando Dio prendeva questo “pupazzo” e gli soffiava dolcemente sul viso; da quel momento non era più “fango”, perché era diventato un essere vivente, un uomo,.

Ho imparato, diventando più grande, che quel soffio vitale, quell’anima Dio se la riprende e la stessa ritorna a Lui nell’attimo in cui l’uomo esala l’ultimo respiro.

Questo associare l’anima al vento è  un’idea che ho ritrovato studiando la letteratura greca. I greci chiamano il vento “anemos”, niente di più appropriato. E’ l’anemos, che rende vive cose inanimate. E’ il vento che muove i panni stesi al sole e li dondola, li sbatte, li attorciglia in una danza senza tempo. E’ il vento che rende vivo il mare e lo spinge contro la sabbia e la scogliera in un alternarsi di abbracci e carezze, ora dolci ora brutali. E’ il vento che modella le dune del deserto e ne scolpisce la forma cambiandola eppur lasciandola sempre uguale. Il vento, l’anemos, l’anima del mondo. E noi uomini, pervasi da questa scintilla divina, tentiamo a volte di ripetere ciò che Lui ha fatto con noi. Cerchiamo di dare la vita ad oggetti inanimati e ci riusciamo… sentendoci per un momento creatori e non solo creature.

Il dialetto è a volte più espressivo dell’italiano e per indicare che un orologio è funzionante dice “sta camina”, quando non funziona “s’è firmatu”. Di tutti gli oggetti che ci circondano l’orologio è sicuramente uno tra i più affascinanti. Ho un ricordo di mio padre che ogni sera prima di andare a letto dava la corda al suo orologio da polso. Gli dava “l’anima” per farlo camminare un giorno intero. Le sensazioni dell’infanzia rimangono per sempre nel cuore e ne risvegliano altre: i rintocchi di una pendola in casa di una vecchia zia, l’orologio a cipolla con lo scatto, proprietà di un distinto signore, i rintocchi dell’orologio della piazza.

Piazza Salandra, il cuore di Nardò. E in una notte d’estate, con le finestre aperte, la mia mente registra lentamente un suono, un altro ed un altro ancora. I rintocchi dell’orologio della piazza scandiscono la mia notte insonne e mi fanno compagnia. Poi , come nella migliore tradizione, l’alba mi consegna nelle braccia di Morfeo. Al risveglio, i rintocchi dell’orologio, così chiari nel silenzio della notte, sono svaniti con la luce coperti dai rumori.

Un’idea si fa strada nella mia mente: parlare con chi per anni ha dato pazientemente vita a quest’orologio che fa parte di me, di noi tutti.

E’ Aldo Spano la persona che voglio incontrare. Il motore dell’orologio, il suo anemos. Preparo l’incontro. Mi annuncio con una telefonata. Prendo un

Ivan non lavora più nei campi di Nardò

di Gianni Ferraris

Ivan non lavora più nei campi di Nardò, è fuggito via.  Lui ha 26 anni, è arrivato dal Camerun per studiare  ingegneria al Politecnico di Torino, in estate invece scende al sud, in Salento a raccogliere angurie e pomodori per mantenersi gli studi. A Nardò sono decenni che i lavoratori neri fanno i braccianti nei campi. Da due anni, alla buon’ora, il comune, spinto dai sindacati, in primo luogo dalla CGIL, ha messo in piedi un campo di accoglienza fatto di tende blu. Non troppo vicino al paese, in realtà.  Passare vicino alla masseria Boncuri mette angoscia, li vedi a decine sciamare per strada verso il supermercato lontano, sotto il sole, quando non sono nei campi oppure muoversi per andarew chissà dove. Al sindaco di Nardò, Marcello Risi    non risulta quel che invece è noto ai ragazzi del campo e ai sindacati, Boncuri è sovrappopolato. Almeno 350 persone contro le 200 previste.  Inoltre, per quant origuarda la mancanza di acqua calda dice:  “ci stiamo lavorando, in settimana la faremo arrivare” solo che siamo in agosto, la stagione sta finendo, è da giugno che le cose stanno così.   Prima di andarsene, i negretti,  potranno farsi una doccia tiepida, forse.  E poi c’è la sciagura più infame, il caporalato che decide chi  dovrà lavorare, li porta nei campi e a fine giornata intasca 5 euro per il trasporto e altri per il lavoro procurato. Fatto sta che 12 ore sotto al sole a schiena piegata fruttano ai ragazzi non più di 20 euro. I proprietari delle terre non ne sanno nulla (?), per loro è tutto regolare.  I caporali sembrano cosa altra, diversa, lontana dai loro campi pieni di immigrati portati dai caporali.  E non sono bianchi i kapò,  macchè, sono scelti fra loro, i neri. Criminali ce ne sono di ogni colore. Le scorse settimane però qualcosa è mutato, Ivan si è messo alla testa dei suoi amici ed è diventato leader. Per la prima volta uno sciopero dei braccianti contro i caporali. Le loro t-shirt avevano una scritta: ingaggiami contro il lavoro nero. Hanno fatto un composto casino, sono arrivati dal prefetto di Lecce, sono stati ricevuti, hanno parlato.  Anche il PD, dopo lungo sonno provocato dal caldo, ha fatto, tramite la deputata Bellanova, una interrogazione parlamentare.  Ivan la sera prima della manifestazione pacifica davanti alla prefettura venne minacciato di morte dai caporali. Oggi, grazie a lui e ai suoi amici, esiste anche in Italia una legge contro il caporalato.  Però la notte fra l’11 e il 12 agosto Ivan ha dovuto fuggire. Dal tempo dello sciopero non trovava più lavoro e altre minacce proseguivano.   

L’invocazione a due santi per tenere lontana la morte

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

SANTA CISARIA E SSANTU MARTINIEDDHRU

I CONTADINI INVOCAVANO I DUE SANTI TAUMATURGICI PERCHE’ CONVINTI CHE TENESSERO LONTANA LA MORTE

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Con l’avanzare della vecchiaia e il proporsi sempre più frequente degli acciacchi propri dell’età, i vecchi entravano nel clima depressivo dell’incombente fine e se da una parte, per non tradire alla loro rassegnazione cristiana, si dicevano pronti a “partire” (“Stàu cu llu  pete ssuétu a lla partùta”), dall’altra cercavano di esorcizzarne lo spettro ricorrendo allo scongiuro: 

Sbatte lu palùmmu sbatte l’ale

Santa Cisària nganna lu male;

 

intra’a lla limma lu palùmmu patésce,

Santa Cisària la ita llunghésce;

 

cappa tagghiàta no tt’à ddulire

ca Santu Martiniéddhru ti face criscìre”.

(“ Sbatte… il colombo sbatte le ali / Santa Cesarea inganna il male [il padre, ossia il diavolo che lo tenta]; // nel bacile, il colombo soffre: / Santa Cesarea allunga la vita; // mantello tagliato [ridotto a metà] non te ne dolere  // ché San Martinello  ti fa ricrescere [ridiventare intero]”).

Ricorso al magico-religioso che, come si può notare, risulta imperniato sulle figure protettrici di due santi le cui note agiografiche venivano astutamente convogliate a proprio tornaconto.

Per sfuggire all’imposizione paterna che la voleva sposa di un ricco mercante, Santa Cesarea era ricorsa a uno stratagemma: la mattina delle nozze, prima di calarsi dalla finestra e raggiungere il convento scelto a suo rifugio, aveva versato un po’ d’acqua in un catino, sistemandovi poi dentro un colombo impastoiato. Col suo sbattere d’ali, la bestiola aveva

La dieta mediterranea e il “Mal di Prostata”

La dieta mediterranea cura anche il “Mal di Prostata”, parola di andrologo

 

di Lamberto Coppola*

Il Mal di Prostata” contrariamente a quanto si può pensare, non è solo una prerogativa della “terza età”, ma affliggere l’uomo nelle varie età della vita.

La prostata è una ghiandola dell’apparato genitale maschile che normalmente ricorda, per dimensioni e forma, una piccola castagna.

È situata alla base della vescica, anteriormente all’ultimo tratto dell’intestino retto, nel punto di incrocio tra le vie urinarie e le vie seminali. Infatti essa è attraversata dall’uretra, che costituisce l’ultima porzione delle vie urinarie, e dai dotti eiaculatori che costituiscono l’ultimo tratto delle vie seminali. La prostata è quindi una ghiandola che per l’uomo riveste un’importanza particolare in quanto permette di mantenere una giusta acidità all’urina,

Note storiche e vicende feudali su Taurisano, dalle origini all’Ottocento

di Sonia Venuti

Esistono diverse teorie sulla nascita e sull’origine del toponimo e della città di Taurisano,  e sono tre le più accreditate che vanno da quella del monaco ed erudito del  ‘600 Luigi Tasselli secondo il quale il nome Taurisano  è una derivazione del nome Taurus o Taurius o Taurisanus, di un centurione Romano stabilitosi nella zona, in una villa in cui nei tempi antichi si addestravano “alli giuochi dei tori”; questa villa s’ingrandì con il decadimento degli adiacenti casali di Varano, Pompignano, Ortenzano  e Cardigliano,  che a causa delle razzie dei saraceni e dall’opprimente peso dell’imposizione delle tasse le popolazioni abbandonarono, per stabilirsi in un posto più sicuro. Teoria questa che sposa quella dello storico Arditi, secondo il quale però l’appellativo Taurisano specificherebbe la presenza di un bovile, un luogo adatto a pascere i tori e atto alla riproduzione di “tori sani”, da qui Taurisano.

Secondo altri la nascita di questo agglomerato ha una connotazione tutta religiosa,  accreditando la nascita dello stesso intorno alla primitiva cappella di S.Maria della Strada e  del mercante miracolato, per concludere che il paese esistesse già alla fine del XIII sec., al tempo dell’infeudamento del territorio per opera di Tancredi d’Altavilla, allorquando le popolazioni si trasferirono nel feudo di Taurisano costruendo le loro casupole intorno al castello feudale di Hugo de Tauresano, che oltre alla protezione concesse loro un trattamento fiscale più vantaggioso.

Concettualmente possiamo datare la nascita di Taurisano intorno agli anni 1268-1269, anche se per essere esatti già alla fine del XII sec. l’ultimo re della dinastia Normanna, Tancredi d’Altavilla, volendo ricompensare venti capitani leccesi per essersi distinti a fianco del suo avo Roberto contro Guglielmo I il Malo, conferì loro il titolo di Cavaliere e li nominò Baroni di  altrettanti feudi dipendenti dalla Contea di Lecce, che qualche anno dopo fu aggregata al Principato di Taranto, infeudando così il territorio di Taurisano insieme alla terra di Specchia e donandoli a Filiberto Monteroni o Montoroni.

Quella dei Monteroni o Montoroni è una delle famiglie più antiche in Terra d’Otranto e tenne il feudo di Taurisano fino al 1256 e dal 1444 al 1536.

Nel 1228 il sovrano Federico II di Svezia organizzò la sesta crociata e nel 1240 concesse il Principato di Taranto, di cui faceva anche parte la Baronia di Taurisano, al figlio naturale Manfredi che però, avendo molti contrasti  politici con i pontefici, indusse Innocenzo IV ad offrire la corona dell’Italia Meridionale a Carlo D’Angiò,  che accettò ben volentieri accorrendo in suo aiuto, sconfiggendo Manfredi  a Benevento e insediandosi sul trono di Napoli col nome di Carlo I, e la sua dinastia regnò per due secoli. Al suo seguito, molti nobili francesi arrivarono nel Salento, che fu lottizzato e dato in loro possesso al punto che molti feudi furono frantumati per poter accontentare tutti.

Barone di Taurisano fu nominato Hugo che poi diverrà De Tauresano. Fu in questo frangente, diventando vassalli dei Del Balzo Orsini, che il casale di Taurisano conobbe il suo periodo di massimo splendore che non si ripeterà più nella storia. Fu in quello stesso periodo che fu edificata la chiesa romanica di S. Maria della Strada introducendo il culto della Vergine del Santo cordone da Valenciennes, città delle Fiandre francesi.

Gli stessi feudatari per dare un’impulso all’incremento demografico e all’economia agricolo-pastorale del villaggio, attuarono un’imposizione fiscale morbida.

Questa fase di prosperità e serenità durò poco perché con il consolidarsi del sistema feudale francese, sia borghesi che servi della gleba furono gravati in tutti i feudi da tasse e balzelli per far fronte alle condizioni pietose in cui gravava il regno.

Le scorrerie degli Ungari e dei Saraceni, le epidemie carestie e terremoti, desolarono la Terrad’Otranto che con  le guerre di successione tra Angioini ed Aragonesi visse il suo completo tracollo.

Primo feudatario di Taurisano del periodo aragonese fu Roberto di Monteroni che nel 1452 ricopriva la carica di Goverantore di Taranto, essendo stata la sua famiglia al fedele servizio di Giovanni del Balzo Orsini principe di Taranto. A Roberto successe il figlio Raffaele che ingrandì i suoi domini con la donazione del feudo di Sammarzano da parte della madre Adelisia Taurisano, riscosciutogli in seguito dal sovrano napoletano Ferdinando I d’Aragona.

A Raffaele successe Francesco Monteroni, del quale si ricorda come impresa

Il centauro e la spuddhitrìna

di Armando Polito

Da sempre il comportamento umano, e sottolineo umano, è soggetto a cambiamenti, ma il processo di trasformazione (non mi sento di chiamarlo evolutivo) nella fattispecie ha subito negli ultimi decenni un’accelerazione progressiva (anche qui l’aggettivo ha tradito il significato letterale del padre sostantivo) e imbroccato strade che è eufemistico definire pericolose, sicché la morale oggi appare più legata al suo significato etimologico-filosofico (ciò che attiene al comportamento) con la sua progressiva subordinazione ad una graduatoria, sempre più purtroppo condivisa, di quelli che in passato sarebbero stati considerati, senza ombra di dubbio, disvalori.

La sessualità, in particolare, da questo punto di vista ha registrato forse i cambiamenti più macroscopici sotto la spinta, da un lato, della sacrosanta liberazione femminile, dall’altro, della ineluttabile perdita di credibilità del cattolicesimo caparbiamente ancorato ad una visione antiquata del sesso considerato peccato se praticato al di fuori del matrimonio.  In altre occasioni su questo ho fatto conoscere il mio pensiero che qui riassumo nell’antico detto il troppo storpia.

Ad ogni modo, il tramonto del maschilismo e della sessuofobia hanno comportato anche l’obsolescenza di alcune voci dialettali, fra cui spuddhitrìna, che definiva una ragazza ribelle e libera, un po’ troppo per i gusti dell’epoca, in cui nell’immaginario maschile la donna seria (a partire, naturalmente dalle rappresentanti familiari del gentil sesso, che sempre lo erano…) doveva essere tutta casa e chiesa, quasi un essere amorfo, privo di passioni e forse anche di sentimenti.

Ogni etimologia illumina diacronicamente e sincronicamente un fenomeno umano e la nostra voce di oggi non si sottrae certamente a questa costante. Spuddhitrìna risulta formata da s– intensiva [dal latino ex=lontano da(lla norma)] e puddhitrìna, diminutivo di puddhìtra, con lo stesso significato ed etimologia dell’italiano puledra,  dal latino medioevale pollètra(m)1, a sua volta dal classico pulla=piccola di animale. Il passaggio dal mondo animale a quello umano nel significato metaforico di giovane vivace dev’essere stato immediato nella civiltà contadina, così come il suo slittamento nella sfera sessuale di cui sono testimonianze i significati, sempre metaforici, di cavalcare e di correre la cavallina (altre spie del maschilismo…). Così la nostra spuddhitrìna, dall’originario significato innocente, è slittata a significare giovane donna di costumi piuttosto facili, ancorché non prostituta.

Il processo è antichissimo e la spuddhitrìna non è altro che la versione femminile del centauro e del satiro, figure etimologiche in cui si fondono l’uomo e la bestia. Il centauro (nella foto in basso una statua ritrovata nel 1736 nel giardino di Villa Adriana a Tivoli, ora custodita a Roma nei Musei Capitolini, copia di un originale ellenistico attribuito a Aristeas e Papias), si sa, è metà uomo e metà cavallo, una creatura rozza, selvaggia e a volte brutale; il capostipite della razza era nato dall’amore sacrilego tra Issione, re del Lapiti, e da Nefele, una sosia della dea Era (altro nome di Giunone, la moglie di Giove, che, almeno in questo caso non può essere considerato, per restare in tema, un cornuto).

Il satiro2 (la sua iconografia si confonde con quella del sileno; nella foto in basso un satiro con una baccante, affresco pompeiano custodito al Museo Archeologico di Napoli) era un uomo con orecchie, coda e talvolta zoccoli di cavallo. Le sue caratteristiche più salienti erano l’aggressività ed una sessualità spinta che amava esercitare inseguendo nei boschi le ninfe, non certo con l’intenzione di spiegare loro il teorema di Pitagora… Non a caso satiro e ninfa hanno dato vita a satirismo e a ninfomania. Tra l’altro amava esercitare la sua attività preferita in branco e quest’ultima parola non può non evocare quella puntualmente utilizzata dalle cronache nel commentare il delitto forse più odioso (e poi ci autoproclamiamo superiori alle cosiddette bestie, che non hanno mai commesso reati di tal fatta..): lo stupro.

Il maschilismo imperante, che non concepiva la donna come protagonista nemmeno nel male, nella fattispecie ha dovuto arrendersi all’arte e all’araldica che hanno introdotto, sia pur tardivamente,  la figura della centauressa o centaurella: nella foto in basso la fontana di epoca barocca di piazza Duomo a Taormina, lo stemma della stessa città e quello di Stare Drogi (Bielorussia) .

Oggi la spuddhitrìna potrebbe essere rappresentata come nell’immagine che ho tratto da http://freeforumzone.leonardo.it/lofi/Barzellette-o-/D4188180-8.html)

Così la par condicio è rispettata e nessuno mi accusi di aver chiuso con un tuffo nel maschilismo e nella celebrazione della donna oggetto: comunque sia, al di là dei legittimi gusti di ognuno, vuoi mettere questa centauressa finale col centauro iniziale? Totò avrebbe detto: “Ma mi faccia il piacere!”.

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1 La voce è riportata da tutti i dizionari come ricostruita; in realtà essa è ampiamente attestata nel latino medioevale (Du cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Favre, Niort, 1883, tomo VI, pag. 393).

2 Dal latino sàtyrus, a sua volta dal greco sàtyros. Nonostante un certo aggancio semantico, satira (composizione moraleggiante) ha un’altra etimologia: dal latino sàtura(m)=componimento misto di prosa e versi, da satura=piena, ricca.

Libri/ Maurizio Nocera su Salvatore Toma

 

da http://neobar.wordpress.com/

 

 

LETTERATURA DISSIDENTE:

 

MAURIZIO NOCERA SU SALVATORE TOMA

 

di Paolo Vincenti

“Salvatore Toma è nato a Maglie l’11-12 maggio 1951 e qui morto nell’agosto del 1968 in seguito ad una colluttazione d’amore. Ma non erano passate che poche ore dal suo disastroso decesso, che il cielo lo rispedì sulla terra per mancanza di prove. Ora vive su una enorme quercia, si nutre di beffe e raramente guarda a terra. Ma più che per le sue divine poesie, Salvatore Toma è famoso per la sua acrobatica precisione nel beccare il vasino, abilità maturata col fatto che non volendo scendere mai più dall’albero, i monellacci del luogo glielo spostavano, divertendosi a vedere come se la cavava. Ed è appunto per questo incalcolabile virtuosismo che nel 1993 ha vinto il Premio Nobel. Si narra che in quell’occasione, unanimemente richiesto di esibirsi, i giudici scappassero in tutte le direzioni come pazzi inferociti, ma furono da lui tutti puntualmente beccati anche a distanze mostruose. In questi ultimi tempi gli è presa la fissazione dei fumetti, ma guai a portarglieli via perché sbraita come una bestia! Quei maledetti monellacci, ora che lo scherzo del vasino non funziona più, gli hanno messo in testa che i fumetti sono dei meravigliosi dolcetti che si fanno in provincia di Rovigo. Poveri poeti. Scherzi a parte, Salvatore Toma è un tipo decente, presentabile, un po’ volutamente folle, ma in definitiva un buono. E’ sposato con una cara moglie-madre, piovutagli dal cielo (senza colluttazione…perciò è sfortunato al gioco) e ha due strepitosi bambini che gli fanno da papà e gli stanno sempre appresso, perché se lo perdono d’occhio un istante, ma solo un istante, lo si ritrova subito su quella maledetta querciaccia… Capito ora?”

Questa era la auto-presentazione, in un italiano un po’ precario come la sua vita, che a Salvatore Toma era piaciuto fare per il suo libro  Forse ci siamo (Pensionante dei Saraceni 1983) e che viene ripresa in quarta di copertina di  questa ripubblicazione, Ancòra un anno (là dove bisogna sempre rimettere l’accento sulla ‘o’ di  ‘ancora’ perché, in prima battuta, la correzione

Giudice Giorgio, regina delle masserie del neritino

di Marcello Gaballo

Il territorio del comune di Nardò è straordinariamente ricco di strutture masserizie, tra le più variegate per tipologia ed estensione rispetto ad altri territori a vocazione contadina del Salento e della Puglia.

Il territorio del secondo comune della provincia si affaccia sul mare, nel tratto di costa ionica di circa 22 Km. compreso tra Torre del Fiume e Punta Prosciutto, estendendosi per circa 2000 ha. anche nell’ interno, arrivando ad ovest sino al confine provinciale Lecce-Taranto.

Il suolo è pianeggiante con qualche ondulazione che, nella parte Sud, si eleva in collinette che fanno parte del sistema orografico delle Serre Salentine, propaggine delle Murge, abbassandosi con varia pendenza verso il mare.

Il cuore del territorio neritino è rappresentato dall’Arneo, che fino a qualche decennio addietro ha rappresentato la zona più importante dal punto di vista economico-agricolo, caratterizzata dal latifondo e dal bracciantato, il quale, nel primo e secondo dopoguerra, ha occupato buona parte di quelle fertili terre, con scontri sociali che hanno scritto le pagine più accorate della storia contemporanea del Salento.

L’ amenità dei luoghi e la fertilità dei terreni, un tempo occupati da foresta e macchia mediterranea, ha spinto i diversi proprietari a realizzarvi, nel corso dei secoli, insediamenti produttivi come le masserie, spesso fortificate per frequenza delle incursioni piratesche dalla costa.
Molte masserie dell’Arneo si impongono per la bellezza architettonica, la varietà delle tipologie, l’imponenza delle dimensioni, l’alto livello degli elementi fortificativi, il raccordo con le vie di comunicazione e la compiutezza delle espressioni collegate all’attività produttiva agricola e pastorale.
Fra tutte ritengo che una in particolare meriti il titolo di regina, la masseria Giudice Giorgio, una delle masserie strategicamente più importanti, sulla strada statale 164, Nardò-Avetrana (da secoli denominata strada tarantina, a circa 10 km dal centro abitato di Nardò.

la torre cinquecentesca

Caratterizzata dall’imponente torre cinquecentesca a pianta quadrata, a tre piani, dei quali l’inferiore, cui si accede attraverso un artistico portale bugnato, leggermente scarpato, fu adibito un tempo al deposito e alla lavorazione delle olive. È collegata a vista con le masserie Bovilli e Roto Galeta, che tuttavia non possono competere con essa in altezza e particolarità architettoniche.

Il pianterreno, voltato a botte ed assai più antico rispetto al resto, era collegato al primo piano da una scala a pioli  che portava alla scala in muratura impostata a circa

Parabita. Notti d’estate 2011

a cura di Sonia Cataldo

 

Apre la sezione culturale della rassegna estiva

Notti d’estate 2011 della Città di Parabita

organizzata dall’associazione Cantieri culturali Aperti – Emergenze Sud,

la  presentazione dei libri

 

SALENTO, AMORE MIO (Kowalski) di Pierfrancesco Pacoda

e

PUGLIA FUORI STRADA (Progedit) di Vittorio Stagnani e Corrado Palumbo

 

che si terranno domenica 21 agosto alle ore 20,30
in Piazza Umberto I
Parabita

Franco Ventura: gli stupori di un pittore-poeta salentino

di Paolo Vincenti 

 Franco Ventura è un pittore ed un poeta del sud.  Da Sannicola, dove vive ed opera, egli canta “i sassi nudi come ossa dissepolte, vetusti ceppi scoppiati, colori d’uragano e di incendio” della sua terra, il “Salento”, un Salento umile eppure forte, un Salento “pietroso”, “maschio” come i suoi contadini, colmo di disperazione eppure mai rassegnato.

E’ difficile separare la pittura dalla poesia che, in Ventura, sono tutt’uno. Il “sapore agreste” del suo Salento è un sapore acre, amaro, è il sapore di un mondo fatto di fatica, di povertà e di sofferenza ma da tutto questo Ventura trae la forza per andare avanti  e nelle difficoltà e negli stenti di quel mondo trovano linfa vitale i suoi quadri e le sue liriche. La sua pittura testimonia il  fortissimo legame con la sua terra, terra che sembra quasi impastare i caldi e morbidi colori delle sue tele, conferendo ad esse una cifra stilistica del tutto personale.  Protagonista, nelle sue opere luminose ed espressive, è la cultura contadina, dalla quale il pittore proviene per storia personale e formazione, ed essa cultura permea di se tutta la produzione dell’artista e dà una immediata

20 agosto 1647. L’olocausto di Nardò (seconda parte)

di Marcello Gaballo

Filippo II re di Spagna

Agosto 1647
Il 2 agosto 1647 il duca giunse inferocito e assetato di vendetta, portando con sé le truppe dei suoi amici, il duca di San Donato, il principe di Presicce, il marchese di Cavallino, il barone di Lizzanello e quello di Seclì, con cui era imparentato.
Con un esercito di 4000 uomini incendiò e razziò i dintorni, torturò tutti i cittadini che trovò per strada. Nella stessa giornata fu ucciso a Lecce il neritino don Ottavio Sambiasi, di nobile stirpe, da sempre antigovernativa.
Pur con diversi danni, la popolazione resistette per due giorni e due notti.

10-13 agosto
Nei giorni seguenti il popolo tornò a sollevarsi e offrì al duca l’occasione per intervenire ferocemente, arrestare i capi e seminare ovunque strage e morte.

Riporto, per chi già non lo conoscesse, quanto descritto dal neritino Francesco Castrignanò (Nardò 1857 – 1938) a proposito della strage, ordinata dal conte, dell’intero Capitolo della cattedrale di Nardò:

O coru, o scanni antichi gnuricati,
di do sieculi e cchiù! – Li sagirdoti,
santi cristiani, stianu quà ssittati,
urazziuni dicendu; li dioti
qua nnanzi eranu puru nginucchiati
e cchiù dha mmienzu ntra gindarmi moti,
stia lu Conte, cu l’uecchi spalangati
sobbra a femmine e masculi rriccoti.
Dhi canonaci tanta cumpassione
sintianu di lu populu ffamatu,
ca dissira allu a lu Conte: “no so bone
li tasse ci sta minti … ghè piccatu”
sapiti cce rispose lu birbone?
“Lu capitulu tuttu mprigiunatu!”
Papa Giuanni Culucci e Binidittu
Tronu. Nucciu Filippu e Roccamora,
do’ Gabilluni e do’ Pumpuni ancora
a ncastieddhu, di notte, cittu cittu

fora purtati. Quale mai dilittu
abbianu fattu ccu li dissunora?
Disse lu Conte “fuggillatu mora
ci a lu re, contru me, ricorsi ha scrittu!”

E di espra sunata, inti di agostu,
dretu Rranfa (lu cielu nci chiangia)
fece dhi santi nunni fuggillare.

Mone, ci ncora, passu di dhu postu,
pinsandu a ddhi nnucenti e a queddha dia,
mi sentu ncapu li capiddhi azzare!.

 

Testimone credibile dei fatti fu il neritino Giovan Battista Biscozzi, che scrisse una dettagliata cronaca degli eventi, preziosa per le notizie trasmesse, riportata da Nicola Vacca in “Rinascenza Salentina”.

Il 14 agosto da Conversano, ove si trovava il duca, giunse l’ ordine di arrestare i neritini Paduano Olivieri, Giuseppe Spada, Giovan Domenico Scopetta e Giovan Francesco Calignano.
Subito dopo lo furono anche Pietro Spinelli, i baroni Pietro Antonio e Guglielmo Sambiasi ed altri.

16-17 agosto
il 17 agosto 1647  Cesare Di Paolo venne prelevato a forza dal copertinese convento francescano di Casole,  in cui aveva trovato asilo,  e fu decapitato vicino all’attuale chiesa dei SS. Medici,  mentre Giuseppe Olivieri fu preso a Leverano e decapitato nelli  patuli e tutte due teste furono portate nel castello, per essere esposte sul Sedile della città.

Eliminato il Sindaco riempì le carceri di inermi cittadini che non erano dalla

Simpatico, ma sciupato!

“Mangia e non pensare!”

di Raffaella Verdesca

“Ditemi voi se non è troppo magro!” esclamò a gran voce Cristina nel corridoio dell’ospedale, vedendo comparire il nipote durante l’orario delle visite.

Il brusio di approvazione delle compagne spinse l’anziana signora ad emozionarsi per dimostrare ancor meglio la sua disperazione.

Gianluca sorrise schernendosi davanti a quel gruppo attempato di sconosciute: “Che stupido che son stato a chiedere dov’era la tua stanza, nonnina! Bastava solo affacciarsi per riconoscerla dalla tua  solita lagna. Scommetto che ti lamenti che son troppo magro anche quando non mi vedi!

Intanto, buonasera a voi, signore, e scusate questa piccola divagazione familiare!”

Il coro di sorrisi sdentati esibito in risposta, fece capire al ragazzo che lì dentro l’età media non superava la speranza d’incontrare una bella ragazza in degenza ed era di poco inferiore ai settant’anni.

“Non state a sentire mia nonna! Se fosse per lei dovrei mangiare primo, secondo e terzo anche a merenda!”

“La nonna ha ragione, invece.” parteggiarono per l’amica le presenti “Guarda che bel giovanotto alto che sei, ma senza carne, però!”

“Sono nel reparto di Medicina Generale o al banco macelleria della COOP?” rise Gianluca divertito.

“Che simpatico!” pensò ad alta voce una delle vecchiette “Simpatico, ma sciupato!” si corresse poi subito dopo temendo di essere linciata dalle altre.

“E’ naturale!” esordì allora nonna Cristina gonfia di tutto il suo diritto di parentela “Cosa volete che ne venga fuori da un signorino che si alza a mezzogiorno,…”

Boato di disappunto.

“…beve cinque bicchieri d’acqua e ci annega dentro fette di mela con flessioni?”

“Dai nonna, smettila!” cercò di opporsi il nipote in visibile imbarazzo.

“Ho appena cominciato invece!” lo zittì risentita la donna prima di continuare il sermone: “Sapete poi che fa il nostro giovin signore? Si veste, legge i giornali

Sulle tracce dell'Asso

Ecco la "bocca" della vora delle Colucce in cui si riversa il torrente Asso

 

di Armando Polito

Nel suo intervento al mio post sulla naca del 17 agosto u. s. l’amico Marcello citava alcuni idronimi ricordando nel contempo il torrente Asso. Oltre a Naca, Nelu, Ngonga e Patùli anche Asso molto probabilmente è un idronimo, neppure tanto originale, visto che Asso si chiama pure un affluente dell’Orcia, a sua volta affluente dell’Ombrone nella Toscana meridionale e che Auser era l’antico nome del Serchio, sempre per restare in Toscana. Non è finita: per andare più indietro nel tempo scomodando il mondo greco, un fiume Assos nella Troade è citato due volte da Plutarco (Vite parallele: Silla, XVI, 12 e XVII, 5) e, per andare ancora più a ritroso, apsu in accadico significa acqua profonda. I più antichi riferimenti al nostro torrente che son riuscito a trovare sono contenuti in due atti.

Il primo risale al 31 dicembre 1427 (incredibile, allora i notai lavoravano pure nell’ultimo giorno dell’anno…): “…item in pertinenciis Neritoni in loco nominato de Ponte terrarum ortos quatuor, iuxta terras Philippi de Epifanio,

Lotte contadine a Taurisano

di Sonia Venuti

Fatalismo, servilismo, insolenza, malcostume, ipocrisia, si radicarono nella popolazione Taurisanese, così come in tutta la popolazione meridionale, nell’arco dei due secoli di dominazione spagnola, determinando la disgregazione della vita comunitaria e gravissimi ritardi sociali, e favorendo la formazione di una mentalità querula basata sulla remissività, sulla rinuncia, sulla rassegnazione, che sarebbero sfociate in seguito nel clientelismo e nell’assistenzialismo da una parte e nella reazione malavitosa dall’altra.

Nonostante quest’atteggiamento così radicato soprattutto nelle masse contadine, anche Taurisano recepì i primi sussulti di idee liberali, che si facevano strada in tutto il territorio italiano, dopo l’abolizione della legge sulla feudalità , portando alla condanna di un gruppo di Taurisanesi per società segrete e moti carbonari, tra cui due ecclesiastici.

Alla fine del’800 e inizio ‘900, l’aspetto sociale del paese iniziava a trasformarsi, con l’avvento di una nuova borghesia che essendo in possesso di capitali liquidi frutto del commercio di olio vino e fibre tessili, andava direttamente in conflitto con le tradizionali famiglie degli agrari nelle lotte per l’assunzione del controllo della pubblica amministrazione, ricorrendo a volte a

Vaste. Fiera delle Trozzelle

Museo di Vaste, trozzella messapica

“FIERA DELLE TROZZELLE 2011”

A VASTE DI POGGIARDO  

Appuntamento in Piazza Dante a Vaste il 18 agosto 2011 con la tradizionale “Fiera delle Trozzelle”, organizzata dalla Pro Loco di Vaste, con il patrocinio e la collaborazione dell’Amministrazione Comunale di Poggiardo e dell’agenzia di servizi ITALIAAMBULANTE di Poggiardo.

Obiettivo della manifestazione è di valorizzare il simbolo dell’antica civiltà messapica, la trozzella, recipiente dalla forma di un anfora dal corpo panciuto che deve il suo nome alle quattro coppie di rotelle, le trozze, disposte alle estremità dei manici, usato dalle popolazioni messapiche per il trasporto dell’acqua, simbolo dell’antica civiltà salentina.

La manifestazione inizierà alle ore 21:00 e prevede una mostra-mercato di antiquariato e artigianato tipico locale, con l’ormai tradizionale dimostrazione al tornio della lavorazione della terracotta. Non mancherà, naturalmente, uno

“Ero nato sui mari del tonno”. Omaggio al poeta gallipolino Vittore Fiore. Tutto il programma

Lupo Editore

LUG Liberal’arte – Gallipoli

Città di Gallipoli

Presentano

ERO NATO SUI MARI DEL TONNO

La letteratura a Gallipoli in omaggio a Vittore Fiore

Dal 18 al 21 agosto a partire dalle 20,00

Riviera Nazario Sauro 137 (Gallipoli, Lecce)

Fare un giro nella città di Gallipoli vuol dire tuffarsi in un mondo dove il nuovo e il vecchio si incontrano proprio su una delle coste più belle d’Italia: la costa ionica. Grazie alla sua posizione sul mare incontaminato e il suo clima mite proprio di queste latitudini del nostro Paese, la città ha guadagnato una incredibile reputazione turistica e non solo per l’estate.

Ma Gallipoli non è solo meta di turismo oramai conosciuta a livello nazionale e internazionale, ma diventa anno dopo anno un luogo in cui creare e fare cultura.

Il chiostro del Convento dei Domenicani sito in Gallipoli, realizzato intorno al XV secolo e racchiuso tra via Rosario, via Ferrai e Riviera Nazario Sauro, rappresenta un’importante anello di congiunzione tra la presenza dei Basiliani nella città di Gallipoli ed il successivo arrivo dei frati Domenicani e per anni è stata la cornice ideale per l’organizzazione di eventi musicali, teatrali ed artistici nel centro storico di Gallipoli.

Il meraviglioso edificio, dopo anni di chiusura, ha recentemente ritrovato tutto il suo fascino, grazie al progetto Comunale “Liberal’arte”, pensato per attività formative, informative e culturali, nell’ambito del programma regionale Bollenti Spiriti e farà da location ad un ciclo di serate culturali a “Km0” che vedranno protagonisti scrittori, musicisti, artisti e aziende di prodotti enogastronomici locali.

“ERO NATO SUI MARI DEL TONNO” alla sua prima edizione sarà un momento di alto livello culturale e che nel tempo sarà un punto di riferimento per le

La festività del Ferragosto: una duplice identità religiosa e civile

 
 
Dormitio Mariae

di Daniela Lucaselli

La festività del Ferragosto, il 15 Agosto, è una ricorrenza tutta italiana, sconosciuta in tutti i paesi europei, ad eccezione della Francia. Nel calendario, è  una festa che ha una duplice identità sia religiosa che civile, in quanto da un parte la sacralità cattolica celebra l’ Assunzione di Maria Vergine (madre di Gesù) in cielo e dall’altra la tradizione popolare festeggia questo giorno all’insegna della scampagnata, del divertimento, delle gite fuori città, di momenti trascorsi serenamente e allegramente al mare, in montagna o in collina. Caratteristici e tipici, visto anche le alte temperature stagionali, i rinfrescanti e suggestivi bagni in acque marine e fluviali a mezzanotte.

La celebrazione del Ferragosto (il termine deriva dalla locuzione latina feriae Augusti, riposo di Augusto) fu istituita dall’imperatore Ottaviano Augusto nel 18 a. C. e si inseriva nel calendario di altri antichissimi eventi ricorrenti nello stesso mese, come i Consualia, teso a celebrare i raccolti e il termine dei principali lavori agricoli. Il  Ferragosto in passato nel mondo contadino aveva lo scopo di concedere un adeguato e meritato periodo di riposo, detto anche Augustali, dopo le grandi fatiche profuse durante le settimane precedenti.

Secondo un antico modello religioso, che trova la sua origine molto prima che nel 18 a. C. Augusto istituisse alle calende dell’ottavo mese le Feriae Augustales, era il tempo anche del ringraziamento. In tale circostanza era radicata l’usanza da parte dei lavoratori di porgere gli auguri ai padroni, che ricambiavano tale gentilezza con una mancia. Nel corso dei festeggiamenti, in tutto l’impero si organizzavano corse di cavalli e gli asini e i muli, usati come animali da lavoro, venivano dispensati dalle dure fatiche, restavano a riposare e venivano ornati con ghirlande e fiori. Tali  tradizioni vengono rimembrate ancora oggi durante il Palio dell’Assunta che si svolge a Siena  il 16 agosto. Sempre in quel periodo hanno origine le processioni con i carri di donativi ( in latini donativa o liberalitates: ricompensa eccezionale), i covoni (un fascio di steli di grano falciati alla base, con in sommità le spighe), le conche ( tradizionale contenitore domestico di liquidi, realizzato in rame con due manici ad ansa, usato soprattutto dalle donne nel passato per portare a casa l’acqua dalla fontana tenendolo in equilibrio sula testa) offerti ai santuari fuori dell’abitato, dove i credenti cattolici hanno successivamente sostituito i primitivi altari con quelli consacrati all’Assunta e a San Rocco.
Da queste cerimonie derivano anche quei riti notturni, quali i fuochi, i canti, i balli eseguiti davanti ai santuari e ritmati dal suono di un antico tamburo di capra, caratteristico della nostra Magna Grecia.

Il 15 agosto non è solo un giorno di festa popolare ma, come abbiamo accennato, è anche una ricorrenza di grande valore sacrale per i cristiani, cattolici ed ortodossi: l’Assunzione di Maria in Cielo.

L’Assunzione della Vergine di Andrea del Sarto

L’Assunzione di Maria in Cielo è un dogma cattolico (proclamato da papa Pio XII nella Costituzione apostolica “Munificentissimus Deus” (“Dio generosissimo”) il 1 novembre dell’anno santo 1950) nel quale viene affermato che Maria, “terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo”. Nel Cristianesimo il trapasso di Maria, madre di Gesù viene chiamato dormizione (in latino dormitio), in quanto, secondo alcuni teologi, Maria non sarebbe veramente morta, ma sarebbe soltanto caduta in un sonno profondo, dopodiché sarebbe stata assunta in cielo.

La Dormizione e l’ Assunzione non sono la stessa cosa. Dal punto di vista temporale le due  ricorrenze liturgiche coincidono. La Dormizione di Maria si festeggia il 15 agosto nella Chiesa ortodossa e tradizionalmente nella Chiesa cattolica di rito bizantino, mentre l’Assunzione si celebra nello stesso giorno nel calendario liturgico cattolico di rito romano. La Chiesa cattolica e quella ortodossa affermano la dottrina dell’Assunzione.

Le prime indicazioni sull’Assunzione di Maria – Sant’Efrem il Siro († 373); Timoteo di Gerusalemme (sec. IV);  Sant’Epifanio († 403) –  risalgono al periodo compreso tra la fine del secolo IV e la fine del V. Fonti antiche ci riportano  la leggenda del ramo di palma.
Specifici riferimenti a questi avvenimenti li troviamo in alcuni testi apocrifi:
La Dormizione della Santa Madre di Dio, attribuita a San Giovanni il Teologo, ovvero l’Evangelista (sec. VI) e Il Transito della Beata Maria Vergine, attribuito a Giuseppe d’Arimatea e posteriore al primo, narra della Madonna che aveva chiesto al Figlio di avvertirla della morte tre giorni prima. E così accadde. Il secondo anno dopo l’Ascensione, Maria stava pregando, quando le apparve l’angelo del Signore. Teneva in mano un ramo di palma e le disse: “Fra tre giorni sarà la tua assunzione. “La Madonna convocò al capezzale Giuseppe d’Arimatea e altri discepoli del Signore e annunciò quanto aveva udito. In quel momento Satana incitò gli abitanti di Gerusalemme a prendere le armi, dirigersi contro gli apostoli, ucciderli e impadronirsi del corpo della Vergine per bruciarlo.
Ma una cecità improvvisa impedì loro di attuare il piano. Gli apostoli fuggirono con il corpo della Madonna, trasportandolo fino alla valle di Giosafat, dove lo deposero in un sepolcro. In quell’istante – narra il Transito della Beata Maria Vergine – li avvolse una luce dal cielo e, mentre cadevano a terra, il santo corpo fu assunto in cielo dagli angeli.

Un augurio per questa festività è rivolto a tutti coloro che vorranno vivere, nel rispetto della libertà di pensiero e di fede, questo giorno con spirito religioso e animo popolare.

Torrepaduli. La scherma di San Rocco

di Massimo Negro

A pochi giorni dalla festa di San Rocco ripesco nel mio archivio fotografico e in qualche partizione sperduta della mia memoria, le foto e i dialoghi di un caldo pomeriggio di agosto della scorsa estate, passato a Torrepaduli, piccola frazione di Ruffano, dove è sito il Santuario dedicato a San Rocco.

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Questo piccolo paesino è ormai diventato un centro di notevole attrazione non  solo per la devozione verso San Rocco, che da sempre ha fatto muovere devoti da tutta la provincia per rendere visita al santo, ma soprattutto in questi ultimi anni, per la ormai famosa danza delle spade.
Un rito etnico, sociale, musicale e con il tempo sempre più culturale che si svolge nel piazzale antistante il santuario nella notte tra il 15 e il 16 agosto. Un evento che richiama migliaia e migliaia di visitatori, attirati da questa sorta di duelli che si svolgono al suon ritmato dei tamburelli.
La danza delle spade ha origini antichissime ed è presente in molti paesi d’Europa; non solo nella latina Spagna o nei vicini Balcani, ma addirittura, riti di questo tipo, si possono rintracciare in Scozia. Ma ci si può spingere anche oltre arrivando in alcuni paesi dell’Africa del nord e via via più lontano.
Non è un semplice ballo. Non è un musical casareccio in cui si mima un duello con i coltelli e, per certi versi, anche il semplice termine “duello” si può considerare non esaustivo. Secondo alcuni studiosi nasce come rito di iniziazione, di passaggio; c’è chi amante dell’esoterismo ha ritenuto di rintracciare nella forma circolare delle ronde alcuni collegamenti  e rimandi con riti ancestrali. Se ne raccontano tante e come spesso accade per tutto ciò che ha antiche origini popolari, la documentazione storica spesso non è presente e la tradizione orale può spiegare alcune cose ma fino ad un certo punto e sino ad un certo tempo.
Le versioni a noi più vicine parlano di duelli che servivano per affermare la supremazia di una famiglia o di una singola persona sul gruppo. Rito, o duello che fosse, si svolgeva con armi vere e non semplicemente mimando l’utilizzo del coltello. Le lame erano concrete e affilate.
Ma su questi aspetti consentitemi di fare un passo indietro e di lasciar spazio al contributo sempre ben accetto degli studiosi della materia.
Veniamo invece al pomeriggio passato a Torrepaduli, in occasione di un workshop sulla danza delle spade.

A prescindere dalle origini, la danza delle spade si svolge secondo regole e codici precisi. Nulla di scritto, non c’è un bando di gara, non c’è un allegato tecnico da leggere prima della danza ma ci sono regole d’agire e soprattutto comportamentali che vengono tramandate di generazione in generazione e che nessuno si permette di non osservare, pena l’esclusione dalla ronda e forse anche l’essere “banditi” dal luogo.

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Le regole non vengono imparate e trasmesse per semplice osservazione visiva. La modalità è molto è più complessa. La trasmissione avviene nell’ambito della famiglia. E’ l’anziano che inizia i giovani alla danza e sono quest’ultimi che la coltivano e la tramanderanno a loro volta a chi verrà dopo. In ogni passaggio generazionale ognuno ci mette anche un po’ del suo stile personale, per cui non è esattamente una mera riproposizione di regole apprese, ma una interpretazione in chiave personale pur nell’ambito di alcune regole immutabili.
Ogni famiglia ha il suo stile. Ogni stile è frutto di una serie di fattori non ultimo anche il lavoro che il “duellante” svolge. Chi fa il barbiere sarà portato a compiere dei gesti come se avesse in mano un rasoio, movimenti più stretti e dall’alto verso il basso; chi miete il grano farà dei gesti più ampi e circolari.

Chi può duellare? Non è per tutti. Consentitemi questa sorta di risposta semplicistica.
I “duellanti” sono circondati da un cerchio, una ronda, di altri “duellanti” che ne prenderanno il posto man mano che la danza procede e gli sconfitti dovranno lasciare il centro del cerchio. Nelle ronde in cui sono presenti gli anziani, l’accesso è selezionato e vi può accedere solo chi è conosciuto e ha dato prova di conoscere le regole e di non essere un attaccabrighe.
Proviamo a dare una definizione di attaccabrighe.
Primo esempio concreto raccontato quel pomeriggio. Un giovane un po’ su di giri aveva cercato di entrare nella ronda senza permesso. Dopo l’ennesimo tentativo a fronte di altrettanti rifiuti, è stato con fermezza accompagnato a debita distanza come persona non gradita. Non si è più ripresentata.
Secondo esempio molto più grave. Quando si duella l’obiettivo è colpire al tronco l’avversario, non bisogna mai puntare alla faccia in quanto la cosa è considerata come un gravissimo gesto di offesa. Capita che succede e quando capita la persona viene “invitata” a non farsi più vedere da quelle parti, soprattutto se le intenzioni provocatorie erano per così dire dolose e non colpose.
Il duello inizia con la cosi detta apertura, cioè mimando il gesto con cui si sfila il coltello dal fodero. I gesti successivi mirano a far assumere delle posizioni attendiste, durante le quali i duellanti si osservano e cercano di capire i punti deboli dell’avversario, o posizioni di invito a combattere, a colpire facendo visibilmente vedere il punto del corpo verso il quale si chiede di essere colpiti.
Il braccio che entra tra le braccia dell’avversario, non parato, puntando al corpo, è il colpo che viene portato a buon fine.
Come scrivevo ad inizio della nota, la Notte di San Rocco è diventata un evento che richiama un’enormità di persone. Molti turisti e ormai anche molte telecamere. Questa sorta di spettacolarizzazione di antichi riti sta causando qualche malessere in particolare tra i più anziani. Per loro la danza delle spade è un rito, l’essere lì nel piazzale è una forma di devozione verso il santo. Non è un divertimento, non è un gruppo folk, è una cosa seria.
Le telecamere e l’umanità molto varia e molto eventuale che accompagna quelle ore delle notte, qualche fastidio ed imbarazzo lo creano.
Quest’anno non so se andrò la notte in attesa delle ronde. E’ da un po’ di anni che l’eccessiva confusione (anch’io incomincio a diventare un po’ anziano) mi porta a non essere presente. Se Dio vorrà ci sarò la mattina presto del 16 per ascoltare messa e, al termine, se come ogni anno sono già pronti, fare colazione mangiando un bel panino con i pezzetti.

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Note di ferragosto: fichi, brufichi e zampagnuli

di Rocco Boccadamo

Perché pensare al Ferragosto solamente come culmine del rito modaiolo delle vacanze estive, con oceaniche migrazioni verso spiagge e monti e interminabili rosari di sagre eno –  gastronomiche e feste varie, stile vip e non?

La ricorrenza, a parere di chi scrive, merita considerazione anche sotto l’aspetto di sintesi, di celebrazione intensa e di sublimazione dei sapori, dei gusti e dei piaceri, che la stagione più attesa dell’anno reca con sé.

Fra le godurie per la soddisfazione del palato, occupano certamente un posto d’eccellenza i fichi, senza, beninteso, tralasciare, in parallelo, gli omonimi frutti di genere femminile.

Fra le due apparentemente identiche accezioni di specialità, mette ovviamente conto di fare non pochi distinguo, fra cui uno con sfaccettature del tutto particolari.

I primi, ossia i fichi, risultano, ormai da molti anni, portatori di un handicap non indifferente: ancora prima di raggiungere lo stadio di maturazione, diventano, purtroppo in notevole quantità, verminosi, marciscono dentro e cadono in un poltiglioso guazzetto ai piedi dell’albero.

Provvidenzialmente, una iattura analoga, non si verifica, nemmeno un po’, per le “gemelle” dell’altro genere, le quali tengono e campeggiano bene in auge, proprio specialmente d’estate.

Ritornando alla precipitazione dei fichi, sembra che la relativa causa vada ricercata nell’abbandono da parte dell’uomo – contadini, agricoltori o semplicemente proprietari di detti alberi da frutta – di una vecchia, buona abitudine, consistente nel proteggere e cautelare l’ingrossamento e la maturazione dei succulenti frutti, mediante il ricorso ad un sistema naturale, quello dei “brufichi”, in corretto termine agricolo – tecnico, caprifichi.

Nelle campagne, crescevano e, per la verità, tuttora crescono esemplari di piante di fichi selvatici (maschi?), i cui frutti, in dialetto “scattareddri” o “brufichi” , non arrivano mai a piena maturazione, registrando appena un

La notte di San Rocco a Torrepaduli

Santuario di San Rocco a Torrepaduli

di Stefano Tanisi

Nella calda notte di Ferragosto a Torrepaduli di Ruffano si tengono i festeggiamenti in onore di San Rocco, che conservano intatto il fascino della tradizione. Dentro il santuario i devoti di San Rocco gli chiedono grazia o lo ringraziano per il miracolo ricevuto.

Nella piccola cappella continuamente si recitano lodi e preghiere, si bacia ardentemente e si accarezza il simulacro ligneo del Santo che lo rappresenta come un giovane pellegrino, con ai suoi piedi un piccolo cane che gli lecca la piaga sulla gamba, provocata dalla peste. È questo forse l’aspetto più spontaneo e squisitamente devozionale che non si è mai perso, che continua di anno in anno come succede da secoli. Fuori dalla cappella, invece, si svolge l’aspetto più magico e spettacolare: sotto il ritmo incalzate dei tamburelli si svolge la nota “danza dei coltelli”. Si comincia alle 23, dopo che la statua del Santo è rientrata nella sua chiesa, per durare fino alle 5 del mattino seguente, quando al primo suono delle campane si annuncia la prima Messa: così l’aspetto religioso prende nuovamente risalto rispetto a quello profano.

La “danza dei coltelli” consisteva appunto in un duello di coltelli, danzato a ritmo della pizzica salentina. La sfida avveniva fra le comunità Rom per la contesa del territorio e delle mercanzie, aspetto quindi che in origine non apparteneva propriamente alla popolazione torrese e ruffanese. Ora questa tipica manifestazione è simulata come svago.

Tra i più interessanti e storici documentari sulla “danza dei coltelli” troviamo il cortometraggio “Osso Sottosso Sopraosso. Storie di Santi e di coltelli la danza scherma a Torrepaduli” girato nel 1983 e realizzato da Annabella Miscuglio (Lecce 1939 – Roma 2003) e Luigi Chiariatti, con la regia di Annabella Miscuglio e le riprese di Nicolai Ciannamea.

Nel 2004, su iniziativa dell’Associazione Ernesto de Martino – Salento e il Comune di Ruffano, questo filmato è stato pubblicato per le edizioni di Kurumuny (Numero 11 – Quaderni dell’Associazione E. de Martino – Salento), allegato insieme ad un volume, dove si ricorda la figura della compianta Miscuglio (Per informazioni: www.kurumuny.it).

Libri/ “La Pizzica Scherma di Torrepaduli” di Ermanno Inguscio

di Paolo Vincenti

La pizzica scherma  è la principale attrazione della festa di San Rocco di Torrepaduli, frazione di Ruffano. Nella magica notte agostana della danza delle spade, infatti, la piccola frazione diventa il centro del mondo per migliaia e migliaia di visitatori e turisti che, fra il 15 ed il 16 agosto, si riversano nelle affollate contrade di questo paesino del medio Salento.

Per l’occasione, Torrepaduli diventa via vai di commercianti, che alla secolare fiera di San Rocco espongono i loro prodotti,  di fedeli, che si recano nel Santuario torrese per pregare davanti alla statua del Santo di Montpellier, ed  incrocio di culture e scambio vitale e prezioso di pareri, idee, esperienze che si confrontano, in questi tre giorni, nel segno del protettore degli appestati, Rocco, il santo spadaccino. Nella notte dei tamburelli e dei coltelli, girano nelle danze i destini degli uomini e delle donne che ballano al centro della piazza, sotto lo sguardo vigile del Santo, il quale, ogni anno, benedice questa festa, che rende Torrepaduli un punto di riferimento nell’ambito del folklore e delle tradizioni popolari salentine, sia per gli amanti del nostro territorio che per gli studiosi. I ricercatori, infatti, hanno sempre qualcosa da scoprire su questo culto e su questa danza antica e misteriosa che ancora non ha svelato del tutto il suo fascino segreto ma continua ad ammaliare con un sibilo lungo che difficilmente le nuove tecnologie offerte dalla modernità massificante e la omologazione culturale di questi ultimi anni riusciranno a spegnere.

Fra gli studiosi più attenti, vi è Ermanno Inguscio, il quale all’ombra del Santuario torrese è nato e cresciuto e al fenomeno della danza delle spade ha dedicato diversi libri, come quest’ultimo: La pizzica scherma di Torrepaduli. San Rocco: la festa, il mito, il santuario, edito da Lupo (2007). Questo libro, patrocinato dal Comune di Ruffano,  con una Prefazione di Gino

Libri/ Osso Sottosso Sopraosso

di Paolo Vincenti

E’ stato ripubblicato “Osso sott’osso sopraosso- Storie di Santi e di coltelli –la danza scherma a Torrepaduli” di Annabella Miscuglio e Luigi Chiriatti, per le edizioni Kurumuni-libri, di proprietà dello stesso Chiriatti, con il patrocinio dell’Associazione E.De Martino-Salento e del Comune di Ruffano.

Questa è una iniziativa editoriale un po’ insolita, come tutte quelle che riguardano Chiriatti, in quanto raccoglie una serie di interventi che abbracciano  un arco temporale molto ampio.

L’iniziativa, come spiega Chiriatti nell’introduzione del libro, in cui ricorda con affetto la studiosa, nasce da un debito di amicizia nei confronti della Miscuglio, che aveva condiviso molte esperienze con l’autore e che è scomparsa nel 2003.

Annabella Miscuglio, nata a Lecce nel 1939, scrittrice e documentarista, da sempre in prima linea sul fronte dell’impegno femminista, aveva iniziato realizzando vari cortometraggi sperimentali di ricerca su luce, forma e

La bianca casetta cubiforme di Porticelli

di Rocco Boccadamo

La denominazione “Porticelli” identifica il tratto mediano della fascia costiera di Marittima, nel Salento, fra Castro e Marina d’Andrano, delimitato a nord dalle Marine dell’Aia e sul lato opposto dalla zona “Serriti”.

L’appellativo “Porticelli” trae storicamente origine dalla presenza di minuscoli seni o rientranze lungo le brune rocce bagnate dal mare, con contatti carezzevoli in situazioni di “biancata” (calmo), altrimenti con l’infrangersi lieve o forte delle onde.

Anche mio padre possedeva, giustappunto  nel comprensorio di “Porticelli”, un fondo agricolo di terra rossa e rocce, con strati degradanti fino alla scogliera demaniale, immobile acquistato grazie ai primi risparmi del lavoro integrati dalla paga di soldato volontario nella guerra in Africa Orientale.

Successivamente, nell’ormai lontano 1949, egli prese la decisione di farvi costruire, ad opera di un capomastro del paese, Vitale T., una casetta nelle immediate vicinanze del mare, quasi affacciata sull’incantevole seno “Acquaviva”, destinata a dimora di soggiorno, durante l’estate, dell’intero nucleo familiare: marito, moglie e cinque figli, più un sesto in arrivo.

Beninteso, nulla di particolare, solamente un vano di medie dimensioni, con annesso cucinino cui si accedeva dall’esterno, investimento pensato e negoziato in regime d’assoluta economia.

E, però, la nuova casa presentava una caratteristica insolita, essendo fatta non di pietre – come la quasi totalità delle costruzioni insistenti sui fondi agricoli – bensì di conci (in dialetto, “piezzi”) di tufo, estratti localmente da cave appositamente scavate a mano, conci poi saldati fra loro con malta (“conza”) di graniglia di tufo, ovvero della stessa materia prima, frammista a calce viva resa

Ancora un falso storico su Benedetto XIII

quadro di Benedetto XIII che si conserva presso il convento domenicano di Bergamo. E’ di autore ignoto, datato XVIII secolo

di Giuseppe Massari

Sfogliando e scorgendo fra le pagine di una pubblicazione curata dai domenicani di Bergamo, per festeggiare i novant’anni del loro ritorno al servizio religioso della città lombarda, “Domenicani a Bergamo”, Edioni Kolbe, dicembre 2010, abbiamo fatto una scoperta. C’è una scheda biografica sul papa gravinese con questo titolo “Venerabile Papa Benedetto XIII”. Il volume, oltre a trattare di tutti i santi e beati domenicani, raffigurati in opere d’arte conservate nel convento bergamasco e diventati oggetti di una mostra celebrativa per il novantesimo anniversario, presenta, anche una serie di immagini relative ad oggetti ed arredi sacri. Ogni opera raffigurata od oggetto sono accompagnati da schede  biografiche, didascalie e note critiche, soprattutto per quanto riguarda alcuni dipinti di pregio e di valore.

Per quanto riguarda Benedetto XIII, vi è un quadro che lo raffigura, ed è quello che si conserva nel convento domenicano di Bergamo. Forse, una copia dello stesso che si conserva altrove. Ma non è questo il problema e il nocciolo del discorso. E’ ben altro e riguarda il titolo riservato al capitolo e al p

Notte di San Lorenzo. La notte delle stelle cadenti…

Piccole meteoriti per grandi desideri: 10 Agosto la notte di San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti…

di Daniela Lucaselli

Nei ricordi più remoti, tra magia e realtà, è sempre presente con il suo intramontabile fascino, lo splendore della notte tra il 9 e il 10 agosto. Un evento, un momento unico ed irripetibile nella grandiosità dell’attimo, dell’istante in cui si avvera e che stupisce gli occhi increduli e sbalorditi di tutti coloro che,  incontrandosi  in spiaggia, in piazze pubbliche, in luoghi all’aperto, con il nasino all’insù, guardano fra la costellazione di Cassiopea e quella di Perseo, attenti  per osservare, ammirare e godere incantati  questo fenomeno spettacolare delle stelle cadenti regalato dal firmamento notturno. Il cielo oscuro si illumina per magia,  la scia luminosa delle stelle si avvicina a noi come per regalarci una speranza di un sogno da realizzare. Le stelle cadenti con la loro luce sanno incantare ed emozionare. L’anima vibra in attesa che l’evento tanto desiderato si realizzi.

Ma le stelle cadono per davvero nella nostra atmosfera? Se ciò fosse malauguratamente accaduto noi oggi non esisteremmo più.  Allora cerchiamo di saperne di più…

Nel periodo estivo, e precisamente dal 25 luglio fino al 18 agosto, l’orbita della Terra , che si trova nella costellazione di Perseo, incrocia frammenti residui di roccia e ghiaccio della cometa Swift-Tuttle ( l’ultimo passaggio vicino al sole è stato nel 1992, osservato da  un astrofilo giapponese che vide un puntino luminoso nella costellazione dell’Orsa Maggiore. Il prossimo appuntamento sarà nel 2126), che penetrano nell’atmosfera e,  a circa un centinaio di chilometri di altezza,  diminuiscono la loro velocità.

Come avviene questo fenomeno?

Le comete durante i loro avvicinamenti al sole evaporano formando una lunga coda di gas e polveri spazzata dal vento solare e sulla stessa orbita lasciano numerosi detriti (pezzettini di ghiaccio, sassolini, polveri). Quando la terra, viaggiando nello spazio, attraversa queste regioni i frammenti più piccoli entrano nell’atmosfera terrestre ad altissima velocità ed evaporano (consumano e bruciano la materia di cui sono composti, in poche parole le loro molecole a contatto con l’aria s’incendiano) a causa del forte attrito e surriscaldamento, producendo reazioni fisico-chimiche che determinano l’affascinante scia luminosa, dovuta alla ionizzazione dell’aria.

La cometa, partendo dai confini del sistema solare, si avvicina verso la terra ogni 130 anni, sciogliendo parte del suo mantello di ghiaccio, nel momento in cui si avvicina al sole. Il tratto di orbita più vicino alla cometa è quello più ricco di polveri e quindi l’attività dello sciame meteorico si accentua negli anni più vicini al transito della cometa.

Nel lontano 36 d. C. i  Cinesi notarono per primi l’evento.  Seguirono i giapponesi, i coreani ed infine gli europei. Ma fino all’inizio dell’800 il fenomeno celeste non destò particolare interesse negli astronomi che ritenevano giustamente che si trattasse di meteore, una particolarità di carattere atmosferico e meteorologico.  Attorno al 1830 si appurò che questo stabiliante avvenimento ricorreva annualmente. Nel 1862 Lewis Swift ed Horace Tuttle  identificarono la cometa per la prima volta, ma fu l’eclettico astronomo italiano Giovanni Virgilio Schiapparelli colui che collegò la scia di polveri alla cometa.

Le stelle cadenti sono gli asteroidi della costellazione di Perseo, dette appunto Perseidi, che vengono attraversate dall’orbita terrestre creando questa vera e propria pioggia meteorica. Le Perseidi ,  uno sciame meteorico tra i più rilevanti tra tutti quelli che incrociano il nostro pianeta nel corso della sua rivoluzione intorno al Sole, sono popolarmente  denominate lacrime di San Lorenzo, in quanto in passato il picco di visibilità avveniva intorno al 10 agosto, mentre ora è  intorno al 12 agosto, a causa della precessione degli equinozi, del variare dell’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre (lentissima rotazione dell’asse di rotazione terrestre nello spazio), quando la  pioggia di stelle è visibile ad occhio nudo e a tutte le ore dalla Terra. Questo mutamento si registra  un giorno e mezzo circa ogni 100 anni. Quando poi si è in  presenza di Luna Nuova e la luminosità lunare è inferiore lo spettacolare sciame meteorico ha un fascino che non ha eguali.a

san Lorenzo con la graticola in una rara incisione della fine del ‘400

Di fronte a tanta meraviglia e stupore pochi si ricordano che questa notte, in cui le stelle sono più abbondanti,  è dedicata al martirio di San Lorenzo, avvenuto il 10 agosto del 258 d.C., le cui reliquie riposano  nell’omonima basilica a Roma. Durante la persecuzione dei cristiani, avvenuta durante  il III secolo d. C. da parte dell’imperatore Valeriano,  Lorenzo si rifiutò di adorare le divinità pagane e fu arrestato il 6 agosto dalla Guardia imperiale mentre assisteva Sisto II durante una Messa. Dopo essere stato torturato fu decapitato. La pioggia di stelle sono le lacrime che il santo versò durante il supplizio della decapitazione e che scendono sulla terra il giorno in cui il martire morì. Le stelle sono chiamate anche fuochi di San Lorenzo, in quanto nella tradizione popolare si pensa che il santo fu bruciato vivo su una graticola arroventata da carboni ardenti e i lapilli derivanti da questo atroce e doloroso martirio siano poi volati in cielo e giungono sulla Terra il giorno in cui morì per portare agli uomini la speranza. Infatti in Veneto un detto appunto popolare è San Lorenzo dei martiri innocenti, casca dal ciel carboni ardenti. 

La sfavillante pioggia di stelle è stata evocata poeticamente e tragicamente anche dal grande Giovanni Pascoli, che dedicò un canto, chiamato appunto X Agosto, al padre ucciso in un’imboscata proprio quel giorno. In questi versi il poeta  universalizzava il dolore personale  e, attraverso varie similitudini, evidenzia sensibilmente  le ingiustizie umane di fronte alle quali il Cielo riversa sulla terra, atomo opaco del male,  il suo pianto. Il cielo infinito, immortale, immenso guarda dall’alto con sdegno e amarezza la terra, luogo pieno d’insidie e di contrasti.

Il tempo è trascorso, ma  amaramente persistono ingiustizie e  crudeltà.  Artefice immutabile nei secoli è sempre l’uomo…

X  Agosto

di Giovanni Pascoli

San Lorenzo, io lo so perché tanto

di stelle per l’aria tranquilla

arde e cade, perché sì gran pianto

nel concavo cielo sfavilla.

 

Ritornava una rondine al tetto:

l’uccisero; cadde tra spini;

ella aveva nel becco un insetto:

la cena de’ suoi rondinini.

 

Ora è là come in croce, che tende

quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell’ombra, che attende,

che pigola sempre più piano.

 

Anche un uomo tornava al suo nido:

l’uccisero; disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido

portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,

lo aspettano, aspettano in vano:

egli immobile, attonito, addita

le bambole al cielo lontano

 

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

sereni, infinito, immortale,

Oh! d’un pianto di stelle lo inondi

quest’atomo opaco del Male!

(da Myricae)

 

Bibliografia:

J. Bellavita, Le lacrime di San Lorenzo, Italiadonna. it;

INAF, Istituto Nazionale di astrofisica, Le lacrime di san Lorenzo, 2007 .

Etnomusicologia in Terra d’Otranto: esce il primo “Dizionario dei temi musicali della tradizione salentina”

Copertina del Dizionario

L’impegnativa ricerca etnomusicale condotta da Luigi Mengoli, rifluita nell’Archivio Etnografico  dell’Università Popolare della Musica e delle Arti “P. E. Stasi” di Spongano, trova in questo Dizionario una ricognizione accurata dell’ampio repertorio di canti che la memoria di una molteplicità di soggetti ha restituito e consegnato alla possibilità della pubblicazione e dello studio da parte di quanti vogliono approfondire la straordinaria ricchezza culturale del Salento.

Nella lunga premessa che precede l’importante lavoro e che siamo lieti di offrire interamente qui in anteprima  agli Spigolatori, scrive il prof. Salvatore Colazzo dell’Università del Salento: «Il lavoro che presentiamo, un incipitario dei principali temi della musica salentina, costituisce il punto di arrivo di una lunga ricerca, i cui inizi sono da collocarsi sul finire degli anni Settanta del

San Michele Arcangelo in Feste e Riti d’Italia

di Maria Teresa Rauzino

10 Agosto 2011, ore 19:00 – San Menaio (Foggia) Sala conferenze dell’Hotel Orchidea Blu

Il 10 agosto si svolgerà a San Menaio il convegno “San Michele Arcangelo in “Feste e Riti d’Italia”, organizzato dal Centro Studi Giuseppe Martella e iil Comitato per la promozione del patrimonio immateriale (ICHNet), in collaborazione con il Centro Studi sul patrimonio immateriale Lucano di Sala Consilina e l’Associazione culturale Carpino Folk Festival.
L’incontro avrà come tema il culto di San Michele Arcangelo e le sue valenze culturali, oltre che religiose, tema, questo, affrontato nell’ambito dello studio “Feste e riti d’Italia” realizzato dall’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia del Ministero per i beni e le attività culturali  in collaborazione con gli organizzatori dell’evento.


Al convegno parteciperanno esperti del culto di San Michele Arcangelo provenienti da tutta Italia, oltre a coloro che hanno contribuito alle realizzazione del volume “Feste e riti d’Italia” che è il primo di una serie di studi scaturiti dall’incontro tra l’Istituzione che in Italia ha competenza sui beni demoetnoantropologici e le comunità che custodiscono i beni viventi, che cercano di prendersene cura attraverso la ripetizione e la trasmissione e si oppongono alla folklorizzazione del loro patrimonio.
L’evento si svolgerà a pochi mesi dall’iscrizione del Santuario di San Michele Arcangelo di Monte San’Angelo nella lista del patrimonio Unesco ed affronterà anche il tema della valorizzazione sostenibile del patrimonio culturale e delle relazioni esistenti tra patrimonio materiale ed immateriale.
L’incontro rientra nell’ambito del progetto nazionale “Beni immateriali in azione” inaugurato nel 2008 con l’obiettivo di individuare spazi di confronto tra quanti manifestano la loro creatività culturale all’interno delle comunità, s’impegnano nella salvaguardia, attraverso la trasmissione o lo studio, del patrimonio culturale immateriale, alimentano in valore della differenza e dei diritti culturali, animano e arricchiscono le comunità con valori, saperi, espressioni culturali che riaffermano il senso e l’importanza dei beni viventi.
Il convegno ha il patrocinio dell’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia del Ministero per i beni e le attività culturali e del Comune di Vico del Gargano (FG).
Gli atti saranno pubblicati dal Centro Studi sul patrimonio immateriale Lucano di Sala Consilina.

PARTECIPERANNO AL CONVEGNO:
Luigi Damiani – sindaco di Vico del Gargano
Maria Elvira Consiglio – vicepresidente dell’Amministrazione Provinciale di Foggia
Stefano Pecorella – commissario del Parco Nazionale del Gargano
Don Antonio Cantelmi – parroco della chiesa della SS. Annunziata di Sala Consilina
Antonio Basile – Associazione Culturale Carpino Folk Festival
Un rappresentante della  Procura di San Michele Arcangelo di Sala Consilina

INTERVENTI
Teresa Maria Rauzino – presidente del Centro Studi “Martella” di Peschici – “San Michele Arcangelo a Monte Sant´Angelo”
Barbara Terenzi – Antropologa – “Culture viventi”
Antonio Tortorella – Coordinatore ICHNet – “Il culto micaelico nella Lucania tardoantica e altomedievale”
Matteo Fusilli – Docente di Antropologia del Turismo presso Università degli Studi Siena-Grosseto – “La convenzione del Patrimonio mondiale Unesco”: “La convenzione del Patrimonio mondiale Unesco”
Gian Paolo Vigo – presidente dell’Associazione San Rocco Italia – “San Michele, le Confraternite e la Liturgia”
Arcangelo Palumbo – Fototeca Palumbo – “Le immagini della Fototeca Palumbo sul culto micaelico a Monte Sant’Angelo”
Lidia Croce – scultrice e pittrice –  Presentazione di una tela ispirata alla “Francigena” e di uno  studio per una scultura bronzea dell’Arcangelo.
Giuseppe Torre – Coordinatore nazionale ICHNet – “Salvaguardia del patrimonio immateriale e sviluppo turistico, economico e sociale”

Moderatore
Piero Paciello – Direttore del quotidiano “L’Attacco”

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Feste e Riti d’Italia
Istituto Centrale per i beni demoetnoantropologici
Roma, De Luca Editore, 2009

Elenco delle feste
 
BASILICATA
Madonna del Sacro Monte, Viggiano
Santissimo Crocifisso, Brienza
Madonna del Pollino, San Severino Lucano/Terranova del Pollino
Madonna della Bruna, Matera
Madonna del Carmine, Avigliano
San Rocco, Tolve
Madonna del Carmelo, Pedali di Viggianello
 
CALABRIA
Settimana Santa. Battenti rossi, Verbicaro
San Rocco, Gioiosa Jonica
Madonna di Polsi o della Montagna, Polsi di San Luca
Santi Cosma e Damiano, Riace
 
CAMPANIA
Maria Santissima del Carmine detta delle Galline, Pagani
Madonna dell’Arco, Sant’Anastasia
San Michele Arcangelo, Sala Consilina
San Michele Arcangelo, Padula
San Michele Arcangelo, Rutino
Gigli per la festa di San Paolino, Nola
Santa Maria della Neve, Ponticelli
San Silvestro, Sessa Aurunca
 
MOLISE
Carnevale. Il Diavolo, Tufara
Madonna Incoronata, Santa Croce di Magliano
Carrese per la festa di San Leo, San Martino in Pensilis
Mája, Acquaviva Collecroce
Corpus Domini. Misteri, Campobasso
Volo dell’Angelo per la festa della Madonna delle Grazie, Vastogirardi
 
PUGLIA
Maria Santissima Addolorata, Molfetta
Settimana Santa, Ruvo
Settimana Santa, Taranto
San Michele Arcangelo, Monte Sant’Angelo

A 530 anni dalla guerra di Otranto (1480/81-2011) (I parte)

1480/81-2011 – 530° Anniversario della guerra di Otranto

 

LA GUERRA DI OTRANTO DEL 1480

di Maurizio Nocera

Recentemente, ho riletto l’opuscolo “Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)” [Estratto da «Japigia», Rivista Storica di Archeologia, Storia e Arte; Anno II, 1931 – IX (Fascicolo II) – Società Editrice Tipografica, Bari] di Salvatore Panareo (Maglie 1872 – Roma 1961), storico, folclorista, linguista e poeta dialettale che, per molti anni insegnò Storia al Capece di Maglie, poi fu preside nei Licei di Agrigento (1922-3), Molfetta (1923-6) e nella stessa Maglie (1926-37), dove fu preside anche del Tecnico Commerciale e dell’Istituto Magistrale.

Gli scritti di S. Panareo sono molti conosciuti in Salento, e il suo nome non sfugge a chi si interessa di storia salentina in quanto collaborò con diverse riviste, fra cui «Maglie Giovane», «Japigia», «Rinascenza salentina», «Archivio per le tradizioni popolari», «Archivio storico pugliese», «Rivista Storica Salentina» (di cui fu direttore nel 1922-3). Panareo fu autore anche di diversi saggi, dei quali ecco alcuni titoli: “Fonetica del dialetto di Maglie in Terra d’Otranto” (1903), “Dileggi e scherni fra paesi dell’estremo Salento” (1905), “Puglia” (Torino 1926), “Il Comune di Maglie dal1901 in poi” (1948). Ancora oggi il suo nome e la sua memoria sono presenti nella Biblioteca comunale di Maglie, dove un importante fondo è intestato al suo nome, perché prevalentemente composto dai libri provenienti dalla sua biblioteca privata.

Ma veniamo al testo. Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle relazioni dei memorialisti del tempo e grazie anche agli studiosi che si sono interessati e continuano a interessarsi di quell’evento. Ricordo qui solo gli studiosi antichi.

Antonio De Ferraris detto il Galateo (Galatone 1448 – Lecce 1517), riconosciuto grande umanista salentino, scrisse “Il Liber De Situ Japigiae” (1512-1513), fonte certa e probante, all’interno della quale, sia pure in modo breve e sintetizzato, fa riferimento alla guerra di Otranto. Donato Moro (Galatina 1924-1997), che delle vicende otrantine fu grande cultore per

La società inglese Northern Petroleum ha iniziato il suo iter per trivellare i mari del Salento

ph Roberto Filograna

di Maria R. D’Orsogna

La societa’ inglese Northern Petroleum ha iniziato il suo iter autorizzativo per trivellare i mari del Salento e del Barese.

Ben nove concessioni sono in giacenza presso il Ministero dell’Ambiente e dei Beni Culturali per l’approvazione di ispezioni sismiche e successiva perforazione di pozzi esplorativi, allo scopo di estrarre petrolio
per decenni. L’area interessata si estende per circa 6,600 chilometri quadrati a circa venticinque chilometri da riva, da Bari fino a Santa Maria di Leuca.

Secondo comunicati agli investitori del 28 Luglio 2011, la Northern Petroleum ha ottenuto di recente il permesso di eseguire ispezioni sismiche con la tecnica dell’air-gun nell’area di Monopoli-Ostuni-Brindisi in due proposti campi di petrolio chiamati Rovesti e Giove. Si afferma di volere iniziare i lavori a partire da Ottobre 2011.

Il direttore resposabile della Northern Petroleum, Derek Musgrove, aggiunge che “l’esplorazione dell’Adriatico Merdionale è una priorità per la Northern Petroleum” e che la ditta intende procedere velocemente con l’air-gun
in modo da identificare i siti da trivellare gia’ all’inizio del 2012. Simili permessi sono in giacenza, ma ad uno stadio meno avanzato, per la provincia di Lecce.

Le ispezioni sismiche sono violente esplosioni di aria compressa in mare che

Una raccolta di firme per dire NO alle trivellazioni petrolifere nel Salento

Ecco il testo della petizione che potrai firmare:

Ministero dell’Ambiente
Direzione per la Salvaguardia Ambientale del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare – Divisione III
Attenzione: Concessione d71 FR-NP e d149 DR-NP Northern Petroleum
Via Cristoforo Colombo, 44
00147 – Roma

e p.c. : Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale per la Qualità e la Tutela del Paesaggio e l’Arte Contemporanea
Via San Michele, 22
00153 – Roma

Oggetto : Osservazioni contro le Concessioni D71 BR-EL e D149 BR-EL Northern Petroleum

Con la presente comunicazione i sottoscritti cittadini intendono esprimere un deciso NO all’attività di ricerca e sfruttamento di idrocarburi lungo le coste del basso Adriatico da parte della ditta britannica Northern Petroleum, secondo le concessioni d71 FR-NP e d149 DR-NP, rese note sul sito del Ministero dell’Ambiente.
I progetti in esame riguardano le ispezioni sismiche con l’invasiva tecnica air gun a soli 25 chilometri da riva e la possibile installazione di pozzi per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi.

La presente lettera è da intendersi ai sensi dell’articolo 6, comma 9 della legge 8 luglio 1986 n.349, che consente a ogni cittadino italiano di presentare in forma scritta le proprie osservazioni sui progetti sottoposti a Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) e ai sensi del trattato di Aarhus. Quest’ultimo, recepito anche dall’Italia, afferma che le popolazioni hanno il diritto di esprimere la propria opinione su proposte ad alto impatto ambientale e che l’opinione dei cittadini deve essere vincolante.

Esortiamo dunque i Ministeri a bocciare i progetti Northern Petroleum e tutti gli altri a venire, in rispetto dell’Adriatico, della volontà popolare e della legislazione vigente.

Tutte le adesioni e la documentazione possono leggersi su:
https://spigolaturesalentine.wordpress.com/
http://dorsogna.blogspot.com/2011/07/affondiamo-la-northern-petroleum.html
http://www.torredibelloluogo.com/
I firmatari

http://www.petizionepubblica.it/PeticaoVer.aspx?pi=P2011N13045

Turisti in Carrozza, all’insegna della lentezza e della sostenibilità

“TURISTI IN CARROZZA”: ITINERARI IN TRENO ALLA SCOPERTA DELLA GRECìA SALENTINA

Il Salento è un mondo da visitare lentamente, per questo niente è meglio del treno.

Soprattutto poi, se si abbinano ai tratti di linea ferrata, passeggiate di media e lunga percorrenza, che permettono di assaporare il gusto dell’incontro con la gente, la bellezza della natura e la scoperta di culture e tradizioni di un Salento arcaico, essenziale, che più di tutti ha conservato gli elementi delle sue tipicità.

L’iniziativa “Turisti in Carrozza”, promossa dall’Associazione Salento Slow Travel, nata grazie al Concorso Regionale Principi Attivi 2010, propone una serie di itinerari all’insegna della lentezza e della sostenibilità.

L’Associazione sostiene e diffonde i principi e i valori del Turismo Responsabile, con l’obiettivo di promuovere a partire dal Salento, un turismo lento e sostenibile, attento ai valori di un territorio e alle sue tipicità.

Per tutto il mese di Agosto dalla stazione Ferroviaria di Zollino, sarà possibile scegliere di viaggiare in direzione Sternatìa, Soleto e Corigliano d’Otranto, alternando tragitti in treno a percorsi  a piedi e/o in bici.

La stazione di Zollino diventa così capolinea di itinerari turistici sostenibili ma soprattutto responsabili : qui infatti due vagoni, altrimenti rifiuto per le Ferrovie Sud Est, sono stati appositamente restaurati e recuperati, per essere portati a nuova vita come contenitori di idee e cultura. All’interno, la proiezione di un documentario  e una mostra di fotografie storiche (entrambi a

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