Quando il gallo cantava la mattina

di Rocco Boccadamo

Talvolta, accadeva nel guado fra le residue ombre del buio e gli affioranti barlumi, dai contorni viepiù nitidi e indorati, dell’aurora, nell’immaginifica veste di giovinetta tenera e mite; talvolta ancora, nell’incedere, con movimento lento e lieve, di gruppi di nubi chiare e leggere, in spettacolare passeggio sull’appena dischiusosi tappeto azzurro, oppure all’atto dell’emersione dei primi, sottili raggi dell’immenso astro, dall’orizzonte dell’altra, liquida, distesa.Parimenti, in circostanze di tempo cupo e intristito, punto sempre fermo, anelito, testimonianza, grido o, se così si vuol dire, suono o semplicemente voce, ecco l’inconfondibile e ineguagliabile chicchirichì.

Lungo il tracciato dei mitici e, agli albori, considerati portentosi binari delle linee Sud Est, nella sezione incedente fra la mediana e il termine del Salento, si ergeva la stazione di Sanarica, strutturalmente simile alle altre umili casupole di fermata, salita e discesa, e però dotata, aggiuntivamente, di un accessorio speciale: un pozzo d’acqua sorgiva, sormontato da una pala fatta ruotare dal vento e, dopodiché, azionante una pompa d’aspirazione e attrezzato, infine, con una sorta di grande rubinetto, anch’esso girevole e orientabile.

A Sanarica, con il prolungamento della sosta per alcuni minuti, si rifornivano della materia prima dell’acqua le grandi caldaie a vapore delle locomotive, acqua poi riscaldata e fatta arrivare ad ebollizione e pressione grazie e corpose palate di carbon fossile lanciate e rovesciate con forza, dall’aiuto macchinista, nel “forno” delle stesse macchine.

Tra sbuffi incalzanti, ondate di nero fumo a spargersi copiose sulla superficie del gigante a vapore e parimenti a ricoprire la divisa, il berretto, quando non anche il volto dell’operatore, così lo stantuffo prendeva abbrivo possente e ritmato, i cerchi del convoglio rinnovavano il movimento scorrendo sulla strada ferrata, con lentezza ma con sicurezza, colmando chilometri: un mondo, le cose, la gente, andavano avanti, verso avventure, destinazioni, obiettivi, mete, o, semplicemente, occupazioni quotidiane.

Nell’arco della stagione bella, piena e calda, fra un raccolto e l’altro, alle luci dell’alba, padri e  figli contadini sortivano, incedendo silenziosi per non turbare il sonno continuante a beneficio delle donne di casa, fuori dagli usci, in direzione dei poderi, in piano o alle marine, fra piccole distese uniformi o fazzoletti frammisti di terra rossa e roccia.

Il loro obiettivo, o missione, era un lavoro faticoso e, insieme, di pazienza, appellato, dagli addetti, “roncare”, consistente nello strappo, lo sradicamento,

William Fiorentino, ideatore di commedie in dialetto salentino

TUTTO IL TEATRO DI WILLIAM FIORENTINO

 

 di Paolo Vincenti

 

Le Edizioni Il Raggio Verde, di Lecce, hanno pubblicato IL MIO TEATRO, un’opera in due volumi, che raccoglie la vasta produzione autore leccese William Fiorentino, stimato ideatore di commedie in dialetto salentino che svariate compagnie teatrali da molti anni a questa parte portano in giro per le piazze del Salento e non solo.

Fiorentino, nato nel 1932 a Lecce, dove vive ed opera, scrive da sempre ma non aveva mai raccolto in volume le sue opere, affidate solo alla carta scritta dei canovacci per le rappresentazioni teatrali. Queste commedie sono notissime, dicevamo, non solo perché continuano ad essere rappresentate dalle più importanti compagnie teatrali, ma anche perché esse riscontrano da sempre un immutato successo di pubblico, grazie al felice impasto fra trame ben elaborate e congegnate e dialetto leccese.

Il merito di questa pubblicazione si deve alla casa editrice Il Raggio Verde, che all’inizio operava nel campo della editoria “underground”, ed oggi si occupa soprattutto di pubblicazioni scientifiche e settoriali, ma anche di pubblicazioni dedicate all’arte, al teatro, alla letteratura e alla comunicazione. Compie una felice incursione nel campo della commedia dialettale con l’opera che qui si presenta e che si vuole sottoporre soprattutto all’attenzione della fiorente comunità dei salentini all’estero, sempre gelosamente attaccati alle proprie radici, che gradiranno certo, magari nelle fredde serate svizzere, ritornare con la memoria alla loro terra natale, assaporandone i colori e gli odori più veri e

Ezio Sanapo, i suoi personaggi, il suo mondo

C’è tempo fino  al 31 agosto per visitare la mostra personale di pittura di Ezio Sanapo ospitata nei locali appena restaurati di Palazzo Arena  in via S. Spirito n° 14 nella città di Tricase.

Patrocinata dal Comune di Tricase, dal Comune di Supersano e dalla Banca Popolare Pugliese e  inaugurata il 16 luglio da Alessandro Laporta e Francesco Accogli, la mostra raccoglie una sessantina di opere tra  disegni, bozzetti e dipinti.

Un autodidatta Ezio Sanapo che dipinge per intimo bisogno, per “esigenza dell’anima” per caparbia volontà di  comunicare e di raccontare in un connubio sublime di poesia, ironia ed utopia.

cercatori di lumanche – il campo

Il racconto che scaturisce dal percorrere le diverse sale della mostra trasporta piano piano il visitatore in un tempo sospeso dov’è possibile incontrare coppie di amanti che danzano o che ricamano , uomini che fanno bolle alle finestre o vanno in cerca di lumache o le sognano…

Il racconto si fa sogno (Cercatore di lumache –  il sogno  o Stefania ripassa a memoria il suo sogno)  e via via emozione appena accennata…così come lo stile pulito, lineare appunto essenziale con pochi elementi caratterizzanti che colpiscono immediatamente e coinvolgono piacevolmente l’osservatore.” (F. Accogli).

Le opere in mostra tutti i giorni dalle 9, 30 alle 12,30 e dalle 18,30 alle 23,30 “ridanno smalto a un artista già completo che in questa anteprima, che è un’ennesima conferma, sa insinuare il dubbio, padre di tutte le certezze, sa affascinare e far riflettere, sognare e commuovere”.  (A. Laporta)

scorcio interno – zona notte

Seclì. La chiesetta della Madonna di Luna

La chiesetta della Madonna di Luna

Uno scempio storico-artistico tra Seclì, Galatone e Aradeo

 

di Annunziata Piccinno

 

Nelle campagne salentine sono disseminate le cappelle e le edicole votive; di alcune di queste spesso si ignora l’esistenza o le radici storiche, altre invece sono conosciute e frequentate, altre ancora, sebbene si conoscano le radici storiche e l’importanza che hanno avuto anche in un recente passato, sono abbandonate a se stesse in uno stato di precaria conservazione. La grande quantità di testimonianze del passato, se da un lato ci riempie di orgoglio, dall’altro ci pone di fronte a delle responsabilità nel custodire questa grande mole di opere che i nostri avi hanno saputo realizzare.

Il nostro presente non può esistere senza il passato, e noi abbiamo il dovere di conservare e tutelare ciò che abbiamo ricevuto per trasmetterlo alle nuove generazioni.

In un saggio del 1997 il sovrintendente ai beni culturali, Giovanni Giangreco, denunciava il senso di impotenza ad operare per ragioni magari comprensibili, come la carenza di risorse, ma che non cancellano la nostra responsabilità storica. E scriveva:«Che fare? Questa domanda diventa sempre più pressante col passare degli anni perché le nuove generazioni incalzano […] Bisogna allora individuare la causa di tale impotenza e, se le leggi non aiutano, bisogna adoperarsi con la cultura e con la fantasia per tentare strade nuove che portano alla risoluzione di questi problemi»[1].

Problemi che si ripropongono ogni qual volta veniamo a conoscenza o constatiamo direttamente il degrado in cui certi monumenti sono caduti, nonostante la ricerca storica e il vincolo. Un caso esplicito è la piccola chiesa rurale della Madonna di Luna, in agro di Seclì.

facciata principale (ph A. Piccinno)

Abbandonata a se stessa versa in uno stato di deplorevole degrado, ridotta quasi a un rudere; riconoscibile a malapena da chi ne ricordasse le primigenie sembianze, non tanto per il logorio dei secoli, ma soprattutto per l’incuria e il vandalismo cui è stata soggetta in questi ultimi anni[2].

La storia della chiesa la conosciamo attraverso le ricerche del sacerdote Sebastiano Fattizzo, pubblicate nel suo volume sul Crocifisso di Galatone[3] e in seguito riproposte in un saggio edito dal Comune di Seclì[4].

Sulla scia delle ricerche del sacerdote galateo, è facile tracciare brevemente le vicende della chiesetta, a partire dall’inusuale intitolazione alla Madonna di Luna.

Probabilmente nell’area dell’attuale edificio esisteva un sacello già in epoca pagana. Il titolo dunque deriverebbe da un luogo di culto dedicato alla dea Luna, consacrato alla Vergine una volta scomparso il paganesimo. Ecco perché la festa della titolare, fino a pochi decenni addietro, veniva ancora celebrata alla fine di agosto o ai primi di settembre, in prossimità della luna piena. Nei pressi della chiesetta, del resto, vi era un grosso macigno in pietra viva, chiamato pietra di luna, posto sul ciglio di un quadrivio campestre e poi gettato nel fondo della cava, ormai esaurita, della Masseria Gentiluono. Sarebbe una reliquia dell’antico tempio pagano, o addirittura un resto dell’ara su cui si immolavano sacrifici alla dea.

Sta di fatto che la fantasia popolare dei galatei non disdegnò di imbastire leggende su quello strano cimelio. Così recita una strofa dialettale, che l’ignoto scopritore della pietra avrebbe trovato incisa sul retro, dopo averla rivoltata:Iata a ci mi ota!

E mò ca m’ha bbutàta

M’aggiu totta ddiffriscàta.

Òtame e sbòtame ‘n’addha fiata.

che si traduce così:

Beato chi mi volta!

E ora che mi hai voltata

mi sono tutta rinfrescata.

Voltami e rivoltami di nuovo.

La chiesa, come accennato in precedenza, è sita nei limiti di feudo tra Seclì (appartiene territorialmente a questo comune), Aradeo e Galatone.

prospetto laterale

L’originaria costruzione è di indubbia antichità, anche se ricostruita ed ampliata nel corso degli anni. La chiesa, nell’Inventario dei Beneficji Ecclesiastici di Galatone, redatto nel 1678, appare esistente dal 1657. Ivi si apprende che, in quella data, tal Francesco Buia ristrutturò un’antica cappella preesistente, la ampliò e la dedicò, per una sua particolare devozione, alla Madonna di Costantinopoli; il popolo, però, continuò a chiamare la chiesa con il suo vecchio nome di “Madonna di Luna” e così fino ad oggi.

La chiesetta, sollevata sul piano stradale di circa un metro e mezzo, è a due vani con volta a botte. Nel vano rettangolare, addossato al muro, vi era un altare sormontato dall’affresco della Madonna con in braccio Gesù Bambino. Era dotata degli arredi sacri e di una pregevole acquasantiera. Sul fronte dell’edificio, affacciato sulla strada principale, vi era (e oggi se ne può vedere solo una parte) un piccolo campanile a vela con una campana. Questo fino ad una ventina d’anni fa.

Un campanello di allarme sullo stato del monumento trillava già in un articolo del 1989 dove, tramite un altro scritto di Sebastiano Fattizzo, si denunziavano le pessime condizioni dell’affresco e la necessità di provvedere alla custodia della chiesa:

«[…] l’affresco […] è circondato da una magnifica cornice di pietra scolpita: se non si provvederà quanto prima a riparare il guasto, qualche piromane brucerà i vecchi scanni rimasti dentro la chiesa… ed altri sfonderà l’altare e il pavimento… ed in questo modo tutto sarà sfasciato…».

Profezia che purtroppo si è avverata!

Il monumento, sottoposto dalla Soprintendenza a vincolo di tutela con declaratoria del 19-08-1987, è beneficio dell’Insigne Collegiata di Maria SS.ma Assunta di Galatone. Per tale motivo i canonici galatei avevano l’obbligo di celebrarvi un certo numero di messe e di impegnarsi nella manutenzione e conservazione del monumento. Oggi, messo da parte tale obbligo morale, la chiesa è quasi del tutto inesistente se non per le mura, anch’esse percorse da numerose e profonde crepe. Soggetta a furti ripetuti, da quanto ho potuto personalmente appurare, dell’antico corredo la chiesa non conserva nulla. Durante un mio sopralluogo nel 2001 notai che l’altare era stato asportato e mancava l’acquasantiera. L’affresco della Vergine, picconato giù dalla parete, era a terra, fatto a pezzi, ridotto a un cumulo di frammenti informi; coperti da strati di polvere e calce, si potevano riconoscere come tessere di un mosaico il manto azzurro della Vergine, i piedi del Bambino e altri particolari[5]. Ora neppure questo. È lo scempio più totale! È addirittura arduo e pericoloso poterci entrare, giacché l’architrave è lesionata, così come la volta, e a terra vi sono pietre disseminate dappertutto. Uno scheletro che a malapena si mantiene in piedi, così è disgraziatamente ridotta la chiesetta.

Intanto, a braccia conserte, si resta a guardare. Che ne sarà di Luna? Ai posteri l’ardua sentenza.


[1] G. Giangreco, La Chiesa di S. Angelo De Salute in Galatone o l’eredità culturale del passato, in L’oro di Galatone, Lecce 1997, 135.

[2] Cf M. Grasso, Li petre ti luna, in «Il giornale di Galatone», 29 (2000), 11.

[3] S. Fattizzo, Il Crocifisso di Galatone, Galatina 1982, 484-492.

[4] S. Fattizzo, La leggenda della pietra di luna, in Seclì. Almanacco di storia arte e società 2003-2004, a cura di V. Zacchino, Galatina 2003, 105-113.

[5] A. Piccinno, La Chiesa di “Madonna di Luna”nella Visita Pastorale di Mons. Antonio Sanfelice del 1719, in «Piazza San Paolo, periodico di Seclì», 4 (2001), 9.

 

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

Santa Cesarea Terme, la bella del Canale d'Otranto, preda degli “Orchi”

La falesia a rischio crolli nel paesaggio incantato di Porto Miggiano

Comunicato Stampa Congiunto sottoscritto da:

Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio, della Salute e dei Diritti del Cittadino
Forum Ambiente e Salute del Grande Salento – Rete Apartitica
Save Salento – Associazione Salviamo il Salento

Santa Cesarea Terme, la bella del Canale d’Otranto,

preda degli “Orchi” del cemento

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“Le ingiustizie vanno perseguitate e represse non cementificate!”

Appello alla massima partecipazione

 

La Morte Grigia del Cemento attanaglia Santa Cesaria

Regione Puglia e Soprintendenza facciano appello al Consiglio di Stato, vincolino e includano tutte le aree a rischio cemento nel Parco Otranto-Santa Maria di Leuca-Bosco di Tricase

Magistratura e Forze dell’Ordine indaghino sugli scempi già in corso lungo la costa ordinandone le demolizioni!

 

“Apriti monte e ingoia Cesarea” (“aprite munte e gnutti Cisarea“) è la frase che, le anziane donne del Salento raccontano, pronunciò una spaventata giovinetta Santa Cesarea, quando inseguita dal padre orco,   giunse fuggendo dal villaggio di Francavilla (ubicato nell’entroterra tra Maglie e Cutrofiano), in prossimità delle rupi costiere della località oggi a lei omonima!

E la Madre Terra amorosa, intenerita dalla sua purezza, le aprì un varco tra le rocce dove l’antica Santa d’epoca romana trovò rifugio per l’eternità, conservandovi così intatta tutta la sua virginale purezza, la stessa del paesaggio naturale ancora integro in quei luoghi, dominio esclusivo della Natura!

Il delirio dell'impotenza - Idiozie nel paesaggio di Porto Miggiano

Oggi quelle stesse sacre rupi rischiano terribilmente d’essere inghiottite dal cemento, rischiano d’essere stuprate dal più terribile degli orchi, quello della speculazione che tutto divora in nome del demone della cementificazione selvaggia, del “Dio Bafometto del Denaro”!

Son rupi magnifiche, aspre e verdi, che si tuffano e si specchiano nel più azzurro dei mari, quello profondo del Canale d’Otranto; sono scogli nelle cui profondità, scrisse il filosofo greco Aristotele, (mentore di Alessandro Magno il Macedone), l’eroe Ercole, sconfitti i giganti, li costrinse ad un’eterna mortifera prigionia, liberando la terra dalla loro furia devastatrice; così i marinai greci spiegavano gli odori delle correnti sulfuree termali dai poteri curativi, che dalle grotte marine lì fuoriescono ancor oggi a Santa Cesarea non a caso detta Terme, dicendole essere il sangue putrido di quegli esseri

Lettera aperta riguardo le trivellazioni nei mari del Salento

ph Maria Aurora Trentadue

IN DIFESA DEL MARE DELLA PUGLIA E DELLE COSTE DEL SALENTO

Alla c. a. del Dott. Marcello Gaballo
“Spigolature Salentine”
https://spigolaturesalentine.wordpress.com/

Gentilissimo Dott. Marcello Gaballo,

mi è giunta una preoccupante comunicazione scritta (riportata di seguito
integralmente) da parte della Prof.ssa Maria Rita D’Orsogna,
professore associato di Matematica Applicata a Los Angeles, che mi
scrive in merito a nuovi pozzi di petrolio che dovrebbero sorgere lungo
le coste del Salento.

Da diversi anni la Prof.ssa Maria Rita D’Orsogna cerca di sensibilizzare
le comunità e i cittadini sui pericoli delle trivellazioni selvagge nei
mari italiani.

Come cittadini italiano, pugliese e salentino, mi sento in
dovere di trasmettere anche a Lei ed a tutti gli “Spigolatori Salentini
le comunicazioni pervenutemi da parte dell’insigne ricercatrice italiana
che sollecita attenzione ed interventi immediati da parte delle
istituzioni, dei cittadini e degli organi d’informazione del Salento.

Aderisco civilmente e moralmente al fianco degli abitanti delle Isole
Tremiti e del Gargano contro le trivellazioni in mare per l’estrazione
del petrolio, ed oggi ritengo che la tutela dell’ambiente del nostro
Salento contro i gravi rischi dell’estrazione petrolifera sia una
priorità irrinunciabile per tutti noi.

Confido che Lei e gli “Spigolatori Salentini” saprete offrire la giusta
attenzione alle allarmate e allarmanti comunicazioni della Prof.ssa
Maria Rita D’Orsogna, perché la sua non resti una “vox clamans in
deserto”.

Otranto. Quel 29 luglio del 1480

Il sacrificio di un popolo tra storia e leggenda

di Sonia Venuti

“ A ciascun uomo nella vita capita almeno un’ora in cui dare prova di sé;  viene sempre,  per tutti.  A noi l’hanno portata i Turchi

(Maria Corti)

“Era un Venerdì,  quel 29 Luglio del 1480, quando le vedette sugli spalti di Otranto scorgevano il filo dell’orizzonte nereggiare di navi: novanta galee, quindici maone, quarantotto galeotte. A bordo, diciottomila uomini. Turchi. I musulmani, comandati dal pascià Agomaht, avrebbero voluto sbarcare a Brindisi, porto più agevole, ma il vento contrario li aveva costretti a scegliere Otranto, la più orientale delle città della penisola”.

E’ questo il prologo di una delle pagine di storia salentina più cruente e più cariche di umanità, svoltasi in un periodo in cui era già in atto il declino di un’epoca quale il medioevo che aveva visto si tanti eroici cristiani dare la vita per fedeltà a Cristo,ma mai una città intera, e  né a tutt’oggi si conosce un episodio come quello di Otranto.

“La mattina del 14 agosto gli ottocento, la corda al collo, furono condotti sul colle della Minerva, poco distante dalla città. Per tutto il tragitto l’apostata rinnegato cercò di convincerli a cambiare idea, ma quelli resistevano, confortandosi l’un l’altro. Uno dei prigionieri, Antonio Primaldo, un vecchio sarto, risponde: «Crediamo tutti in Gesù, figlio di Dio, siamo pronti a morire mille volte per lui». E aggiunge: «Fin qui ci siamo battuti per la patria e per salvare i nostri beni e la vita: ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare le nostre anime».

Il primo ad essere decapitato fu il sarto. Miracolosamente il suo tronco si rizzò in piedi e non ci fu verso di atterrarlo finché l’ultima esecuzione non fu compiuta. Uno dei carnefici, al vedere il prodigioso evento, si convertì e cominciò a protestarsi cristiano. Venne immediatamente impalato, sorte prescritta per tutti i musulmani apostati “(questi fatti vennero descritti da testimoni oculari al processo di beatificazione dei martiri otrantini).

Alla notizia della caduta di Otranto, Ferdinando II d’Aragona inviò le sue truppe che dopo un anno  riuscirono a riconquistare la città, e quando arrivarono, trovarono sul colle della Minerva, i cadaveri ancora intatti come se fossero morti da poco. Un cane riconobbe dall’odore il suo padrone e gli si mise a scodinzolare accanto. Le teste avevano gli occhi rivolti al cielo e sorridevano. La notte la collina splendeva di luci, e così la cattedrale quando

L’Islam e la Puglia/ 2. Nel paese di Puliye

L’urna dei Beati Martiri di Otranto

L’Islam e la Puglia

 

Nel paese di Puliye

di Vito Salierno

 

Per i nostri lettori uno studio di Vito Salierno, uno dei massimi esperti di islamistica in Europa. Oggi la seconda parte

Dopo i fasti e il declino dell’Emirato di Bari, la seconda fase dell’impatto dell’Islam in Puglia si svolse nella prima metà del XIII secolo a nord, a Lucera, dove Federico II trasferì una gran parte dei Musulmani di Sicilia. L’esistenza di questa colonia saracena, registrata anche in numerose cronache arabe, attirò su Federico II le accuse della Chiesa, che nel Concilio di Lione del 1245 stigmatizzò l’operato dell’imperatore che aveva fatto della città un’enclave saracena in territorio cristiano (“civitatem maximam Agarenorum fecit in regno”)…

Gli Angioini

Subentrati gli Angioini, la situazione dei Saraceni di Lucera cominciò a diventare precaria. Dopo un’iniziale resistenza, i coloni di Lucera si sottomisero nell’agosto del 1269. Le condizioni imposte non furono dure anche perché Carlo d’Angiò (1266-1285) pensava di sfruttarne le capacità militari così come avevano fatto gli Svevi: parecchi sono i milites saraceni che combatterono tra le file angioine. La situazione peggiorò sotto il regno di Carlo II (1285-1309) con la persecuzione nei confronti dei notabili saraceni sino ad allora considerati fedeli e utili alla corona. Il motivo fu in apparenza il fervore religioso; in realtà le motivazioni erano politiche. La Chiesa aveva da sempre considerato peccaminosa la tolleranza dei due Angiò, così come aveva tuonato contro Federico II e Manfredi, scomunicandoli entrambi. Più che ad un improvviso mutamento di Carlo II l’impresa di Lucera fu decisa dopo un incontro del re con il papa che gli aveva concesso consistenti aiuti finanziari nella guerra di Sicilia in cambio della dispersione degli infedeli, necessaria dimostrazione della supremazia dell’unica vera fede nel primo anno giubilare della Chiesa, il 1300; inoltre i Saraceni non erano più utili né come mercenari per le defezioni ed il basso numero di coloro che rispondevano alla chiamata alle armi né come coloni per le frequenti conversioni che facevano diminuire le imposte gravanti sui musulmani. Infine c’era un risvolto economico non indifferente per un erario dissestato: la vendita dei Saraceni come schiavi e la

Si è spento il professor Mario Manieri Elia

 
La mattina del 26 luglio è morto il professor Mario Manieri Elia.
I funerali si svolgeranno giovedì 28 luglio alle ore 11.00 nella chiesa dei SS. Luca e Martina ai Fori Imperiali.
 
Accademico di San Luca
Professore Emerito dell’Università di Roma Tre
Professore ordinario di Storia dell’Architettura dal 1976
Prima della laurea, nel ‘53, Mario Manieri Elia vince con Maurizio Calvesi (un altro maestro della prima formazione) il premio Lecce per una Monografia sul Barocco leccese, assegnato da una illustre giuria: Lionello Venturi, Cesare

Il tonno del mare Jonio. Metodi di pesca, qualità, ricette…

TONNI, TUNNIDI E TONNARE           

 

di Massimo Vaglio

Sui tunnidi, o più specificatamente su tombarelli, alalunghe, palamite, tonni rossi, ecc… la gastronomia pugliese poggia su una tradizione peschereccia che risale sin ai tempi della Magna Grecia e che perpetuatasi nei secoli costituiva, in periodo bizantino, come si legge in un antico documento, il ramo più lucroso dell’industria peschereccia e l’oggetto più interessante dell’economia pubblica pugliese. In seguito ebbe grande sviluppo, grazie alle numerose tonnare introdotte durante la dominazione spagnola.

La città di Gallipoli, ebbe secoli di controversie con la limitrofa Nardò proprio per le tonnare e nonostante che la prima esibisse un privilegio attestato in un regio decreto del 1327 a firma del re di Napoli Roberto d’Angiò, la cosa non impensierì mai troppo i rivali, che continuarono imperterriti ad intercettare per primi i tonni che discendevano dal Golfo di Taranto con ben due tonnare, una sita nelle acque di santa Caterina e una nelle acque di Sant’Isidoro.

In seguito al duello si aggiunsero le tonnare di Porto Cesareo, sempre in territorio di Nardò, e quella di Torre Pizzo in territorio di Taviano.  Un’altra tonnara fu per un certo periodo in attività anche a Torre Ovo nei pressi di Campo Marino.

Situate lungo le rotte seguite dai branchi dei tonni e degli altri pesci pelagici, durante le loro migrazioni primaverili e autunnali, queste tonnare erano costituite da una serie di reti disposte nei punti della costa che l’esperienza suggeriva come più adatti. Lo sbarramento principale, detto pedale, era ormeggiato a terra e proseguiva verso il largo per circa due, tre miglia: le reti alte dai venti ai settanta metri, costituite da robuste corde di canapa, erano mantenute a galla da sugheri e fissate sul fondo mediante ancore e grosse

Il j’accuse di Marcello Gaballo. Lettera aperta ai cittadini di Nardò

di Marcello Gaballo

Domenica pomeriggio, 24 luglio 2011. Sono stato invitato a guidare un gruppo di circa 150 persone, tutte convenute a Nardò per un convegno nazionale. Con me anche l’architetto Giancarlo De Pascalis, con cui ho illustrato alcuni dei monumenti in città.

Il gruppo il giorno prima aveva visitato Lecce ed Otranto, riservando la conclusione del soggiorno salentino alla nostra città, preferita a Gallipoli per la festa in corso che lì si teneva.

Non mi soffermo sull’esigenza dei partecipanti di trovare un rivenditore di cartoline e souvenir, impossibile a soddisfarsi per essere venuti in un giorno festivo.

Voglio invece riferire delle considerazioni offerte al sottoscritto tra uno spostamento e l’altro.

L’itinerario prevedeva la visita alla chiesa di Santa Chiara, da qui alla chiesa di Sant’Antonio, quindi piazza Salandra, San Domenico e la Cattedrale. Un breve tour, rapportato alle circa 2 ore e mezza a disposizione.

Se soddisfazione, almeno questo è apparso, hanno avuto dall’illustrazione dei monumenti, diverse sono state invece le lamentele per le condizioni urbane e il mancato decoro.

Piazza Sant’Antonio piena di rifiuti, Via Muricino con le erbacce da entrambi i lati, auto a tutta velocità in Piazza Salandra, essendo le restanti parcheggiate in ogni dove nei pressi della chiesa di San Domenico, la cui facciata è stato impossibile guardare per l’incapacità agli ospiti a potervi sostare anche per pochi minuti.

Dovunque sacchetti di immondizia depositati, ubriachi ad occupare le panchine della piazza, astemi in canottiera e pantaloncini corti, con ventri esorbitanti a prendere il sole che da un bel pezzo era tramontato.

Eppure avevo anticipato nella prima tappa che Nardò è il secondo comune dopo Lecce per numero di abitanti ed estensione del territorio;16 Kmdi costa meravigliosa; tradizione culturale millenaria; frazioni attivissime; terra fertile e ubertosa; arte in ogni dove.

Mi son dovuto rimangiare tutto, convenendo con i presenti, accorsi da ogni parte d’Italia, che questo è il profondo Sud, l’arretrato e incivile entroterra salentino, che d’estate si preoccupa solo di far apparire linde e

La glassa di vincotto Primitivo di Sharon

di Pino De Luca

Tra chi si occupa di preparare delle bevande complesse (ad esempio i cocktails) e chi degli alimenti solidi polisensoriali (ad esempio i pasticcieri) è che i secondi, oltre ad aromi, colori e sapori devono anche occuparsi delle “consistenze”.

Da tempo immemore in cucina si sono instaurati processi chimico-fisici che hanno modificato la struttura degli alimenti, dalla lievitazione al congelamento, dalla gelatina alle meringhe.

Prosegue la ricerca e la selezione di processi e prodotti, naturalmente impegnando ambiti diversi e strutture culturali più evolute.

E dunque in una torrida mattina del torrido luglio 2011, nella fresca ed ampia sala del Centro Congressi dell’Università del Salento c’è stata una sessione di Laurea di Scienze Biologiche. Sharon, da Brindisi, consegue la Laurea triennale con una tesi di ricerca che ha studiato un nuovo tipo di “Glassa”. Una consistenza talmente importante e di tanta tradizione che esiste un sito alle glasse dedicato. Di glasse ne esistono tante, per il dolce e per il salato. La novazione è che la glassa di Sharon è prodotta esclusivamente con prodotti naturali: pectine estratte da bucce d’arancia e Vincotto PrimitivO. Ho avuto il piacere e il privilegio di gustarne sapore e consistenza, nulla da invidiare a

Libri/ Viaggio a Finibusterrae

 

“bisogna avere radici profonde come quelle degli ulivi per raccontare questa terra”

 

ANTONIO ERRICO, LA SCRITTURA E LA VITA

 

di Paolo Vincenti

 

Viaggio a Finibusterrae è l’ultimo attraversamento poetico della penisola letteraria salentina offerto da uno dei suoi corrispondenti culturali più conosciuti ed apprezzati: Antonio Errico da Sannicola. Un viaggio fra le bellezze più suggestive di questo estremo lembo di terra con la mediazione culturale dei suoi maggiori letterati, da Vittorio Bodini ad Ercole Ugo D’Andrea, da Vittorio Pagano a Luigi Corvaglia, da Antonio Verri a Fernando Manno, da Carmelo Bene a Vittore Fiore, da Giovanni Bernardini ad Aldo Bello, ecc. 

Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini, edito da Manni (2007), raccoglie una serie di saggi pubblicati dal noto critico letterario negli

Gigetto di Noha, nel solco di una tradizione musicale propriamente salentina

L’INCONTRO CON GIGETTO DI NOHA OVVERO LUIGI PAOLI
L’ULTIMO «FURESE ‘NNAMURATU» DEL SALENTO

di Alfredo Romano

“Durante la guerra mio padre suonava il flauto per gli Americani a Brindisi, ed io l’accompagnavo con la mia voce bianca di bambino, per campare. Tempi tristi!”.
Comincia così il racconto di Luigi Paoli, un cantastorie, un menestrello, un musicista popolare nato a Noha 48 anni fa e residente a Spongano in una bianca e comoda casa di periferia, con immancabile terrazza e orto giardino, e la cantina, dove le botti suonano di pieno e versano a me, fortunato visitatore, un negramaro robusto, profumato.
Non è facile orientarsi nel mercato minore della canzonetta popolare ora che molti improvvisatori sprovveduti si sono lanciati in questo folk alla moda che non ha niente di peculiare e scimmiotta anzi un certo liscio romagnolo omogeneizzato che imperversa nelle sale e sulle piazze di tutt’Italia.
Basta un po’ di gusto però per capire che Luigi Paoli, da trent’anni, nel solco di una tradizione propriamente salentina, elabora testi popolari, li arrangia, ne inventa di nuovi per un pubblico non solo salentino, meridionale in genere, emigranti soprattutto (in Australia perfino, in Canada) che curano l’amara nostalgia al ritmo di suoni e canti che ricreano l’atmosfera della terra natia. II suo racconto si dipana lentamente in un gesticolare ampio. La voce, il corpo, assumono una dimensione teatrale, un viso pienotto, da scatinatore, occhi neri e luminosi, a sottolineare un sorriso perenne, contagioso.
Il più piccolo di cinque fratelli maschi, orfano di madre a quattro anni, a otto guardava le capre presso un guardiano di Noha. Un giorno, per via che, assetato, aveva impunemente bevuto in un secchio d’acqua tirata dal pozzo destinata alle capre (pare che le capre si rifiutino di bere dove ha già bevuto un altro, ndr.), venne appeso al ramo d’un albero a testa in giù, e, come una bestia, bastonato di santa ragione. Quest’episodio acuirà la sua sensibilità di fanciullo, rivelatore di una futura carica umana che Paoli, da grande, saprà trasfondere nella sua musica.
Di quei tempi funzionava a Noha una, chiamiamola così, palestra di vino e

Cronache galatinesi fra gli anni ’20 e ‘40 del secolo scorso

uno dei palazzi del centro storico di Galatina

di Sonia Venuti

”Duce, Duce, lu pane ci lu ‘nduce”

Galatina, è noto, racchiuse in sé un movimento abbastanza largo di opposizione al regime, comprendente tutte le categorie sociali e varie ispirazioni politiche.

Tale opposizione aveva sfumature, valenze e incidenze diverse: si andava dalla non omologazione di alcune famiglie cattoliche, al disimpegno dei socialisti ( Avv. Gaetano Cesari), alla ostilità dei comunisti rappresentata da una nutrita schiera di artigiani (barbieri, meccanici, muratori, falegnami), capeggiati da Carlo Mauro.

L’adesione al fascismo, a Galatina come in gran parte d’Italia, fu propria della piccola borghesia, del sottoproletariato e delle classi ricche. La maggior parte della gente accettava con passività il Regime, senza partecipazione ma anche senza ostilità “Duce, Duce lu pane ci lu ‘nduce/ lu  ‘nduce lu furnaru, menzu duce e menzu ‘maru”

Galatina da “Valloniana” a fascista

La Galatina ufficiale, quella delle istituzioni comunali e del notabilato, divenne fascista solo dopo la presa del potere da parte di Mussolini. La famiglia Vallone, che sin dall’Unità d’Italia aveva governato la città, aveva espresso in diverse legislature il proprio deputato nella persona del repubblicano ing. Antonio Vallone. Sindaco della città era il fratello , il medico Vito.

I Vallone, come si è detto, rimasero estranei al fascismo, tanto che Vito Vallone aderì solo a cose fatte (1923) ed il popolo istintivamente distingueva tra la minoranza estremista degli squadristi e “i fascisti di don  Vito”, moderati per natura.

Il 7 febbraio 1925 muore l’on. Antonio Vallone e la partecipazione al lutto è corale.

Il Partito Fascista dice che “onorare il Cittadino benemerito è sacro dovere di tutti” e invita i propri iscritti a partecipare ai funerali che si svolgono il giorno 8.

 

balcone di uno dei palazzi più belli del centro storico di Galatina

“Ti mandu lu Caddara”

Gli anni ’30 furono terribili anche per i Galatinesi,  la miseria dilagava e la disoccupazione era alle stelle; con salari di fame le tabacchine prendevano la tubercolosi nelle fabbriche di tabacco.

Per cucinare la povera gente, non potendo comprare la legna, usava le “ramaje” risulta della monda delle olive.

Non era spettacolo raro vedere in giro braccianti di poco più di cinquant’anni letteralmente piegati in due a causa del duro lavoro, e non era raro neanche vederli la domenica sotto i grandi portoni padronali in attesa di ricevere l’elemosina.

I senza tetto  venivano ospitati in un grande locale in via Tanza, chiamato “cambarone” (camerone), dove le famiglie si divedevano gli spazi con lenzuola appese ai fili di ferro.

Il  giovedì giorno di mercato in piazza S. Pietro, venivano effettuate delle vendite all’incanto di beni pignorati a poveracci insolventi dall’Ufficiale Giudiziario d’allora soprannominato “caddara”; da qui il detto “ti mandu lu caddara” cioè “ti faccio pignorare la casa”. Qualche sollievo alla miseria dilagante lo diedero i lavori per la fognatura e per la costruzione dell’Edificio Scolastico di Piazza Cesari: per poter lavorare il Sabato (il “sabato fascista” era dedicato alle esercitazioni premilitari e alle “adunate”) bisognava ottenere il permesso scritto dal Segretario Politico.

La vita culturale

La vita culturale era molto stentata e le pubblicazioni erano scarsissime. L’unica rivendita di giornali era presso la cartoleria Mengoli, in Via Vittorio Emanuele II, vicino all’antica e rinomata pasticceria Ascalone.

Circolava uno strillone di nome “lenardu”, che per strillare “La Tribuna” gridava “Latri….buna”; circolava anche un banditore  chiamato “Giuju” (Giulio) che faceva precedere le comunicazioni ufficiali ai cittadini dal suono di una campana. Altre figure caratteristiche erano”lu Chiccu”, venditore ambulante di gelati (Gelati alla Maiella, quattru sordi la pagnottella) e due bravi pupari (“Pici Nera” e  “Naticeddrhu”) che allietavano i bambini con spettacoli di marionette.

Il Razzismo e demografia

Nel 1939 il Comune di Galatina si adegua alle leggi razziali e nel regolamento organico degli impiegati e salariati comunali stabilisce che gli stessi debbano essere cittadini italiani “di razza ariana”, avere buona condotta morale e politica ed essere iscritti al Partiti Nazionale Fascista. Per attuare la politica demografica del Regime si insediala Commissione Comunaleper  l’assegnazione dei premi di natalità.

Radio Londra

Anche a Galatina nel ’39 si svolsero manifestazioni per chiedere l’entrata in guerra, che videro però la partecipazione del solo mondo studentesco, dagli alunni delle elementari agli universitari.

Gli slogan erano i soliti.:gli “Eia, Eia, alalà” si sprecavano. Si cantava “ e se la Francia ci fa la spia/Nizza, Savoia e Tunisia”; ma dopo l’ubriacatura iniziale, l’atmosfera cupa della guerra spinse gl’italiani a “controllare” l’andamento delle vicende belliche attraverso l’ascolto di emittenti radiofoniche straniere quali Radio Londra e Radio Mosca. Dell’EIAR non si fidava nessuno.

Erano seguiti i commenti del Col. Stevens e di Mario Correnti (Palmiro Togliatti), e i locali pubblici erano tappezzati con cartelli con su scritto: “Vincere”, “taci il nemico ti ascolta”, e l’oscuramento era rigoroso.

L’ascolto delle radio straniere, non avveniva solo nelle poche case fornite di tali apparecchi, ma anche in sedi pubbliche, e molti degli ascoltatori erano iscritti al fascio.

Una casa in cui l’ascolto era metodico e continuo era quella di Carlo Mauro, in piazzetta S.Lorenzo, 8. L’ubicazione non era delle più felici perché era circondata dalla Casa del Fascio, sempre piantonata, e dall’abitazione del Maresciallo dei Carabinieri.

La sera, confusi tra i clienti dello studio legale, convenivano nel salotto della casa dove era installata una Radio Marelli, persone della più varia estrazione sociale: meccanici come Gino Luceri, barbieri come Pippi Marra, falegnami come Gaetano Cudazzo, avvocati come Gaetano Cesari, medici come Pietro Miorano, giovani magistrati come Giacinto Epifani. Naturalmente non tutti in una volta e con una certa discontinuità per non dare nell’occhio.

Duelli aerei su Galatina

Quando la guerra cominciò a farsi sentire, ci furono mitragliamenti e bombardamenti al vicino campo d’aviazione.

Per le segnalazioni delle incursioni aeree, il Comune istituì il servizio di allarme e cessato pericolo affidato ai sagrestani, e Anglani Paolo, è incaricato come motociclista per il segnale di allarme a mezzo di sirena a mano.

La grazia della Madonna delle Grazie.

Il 25 Luglio 1943 la radio annuncia la caduta del regime fascista, e l’8 Settembre fu proclamato l’armistizio (giorno della Madonna delle Grazie e l’evento fu considerato dal popolo una grazia).

I Tedeschi abbandonarono l’aeroporto, e grazie all’intercessione di una figura prestigiosa quale quella di Carlo Mauro, si evitò il peggio dei tumulti in città, così come invece avvenne nella maggior parte delle città pugliesi.

Si cominciarono a vedere in giro le prime truppe alleate: indiani, neri,inglesi, americani. La miseria dilagava e il contrabbando e la prostituzione proliferavano.

Si rivedeva il pane bianco, si scoprivano le chewin  gum e le caramelle col buco e ci si prostituiva per una stecca di sigarette

I Galatinesi si vestivano con i tessuti dei paracadute, il Commissario Prefettizio, Luigi Vallone cercava di coordinare gli aiuti e la distribuzione di viveri, mentre il comune di Galatina doveva ricorrere a prestiti presso la locale Banca Fratelli Vallone per pagare gli stipendi ai propri dipendenti.

Rinasce la Democrazia

A fatica iniziano a ricostituirsi le leghe dei lavoratori , e i vecchi partiti rinascono. Il I° Luglio 1945 si insediala Giunta Comualesu designazione del locale Comitato di Liberazione Nazionale.

La vita sociale dei contadini si svolgeva in piazza e nelle rinomate cantine de “lu Muscia” “l’Ossu” “lu Rasceddhra” tutte nel centro storico.

Vi era  una frequentata casa di tolleranza “la Rosetta”, ed il ceto medio si ritrovava nei Bar Cafaro  e Gran Caffè.

Il ceto medio-alto conveniva nei vari Circoli “Savoia” “Cittadino” o dei “Signori”.

Escono le prime pubblicità dell’”Idrolitina” dell”Amarena Fabbri” e del “Rabarbaro Zucca” mentre sugli schermi del cine-teatro Tartaro compaiono i primi film americani con attori protagonisti come Glenn Miller, George Murphy, Mirna Loy. Le attrici italiane più conosciute sono AlidaValli e Clara Calamai.

Le prime elezioni amministrative

Alle prime amministrative del dopoguerra, a Galatina entrano in competizione tre liste:

A destra,“Lu Tarloci”  (l’Orologio) capeggiata da Luigi Vallone ,la Democrazia Cristiana col debutto in politica di Beniamino De Maria con lo Scudo Crociato e le sinistre unite con la lista del “Sole”.

La vittoria dell’Orologio è schiacciante, perché raccoglie i consensi del vecchio notabilato prefascista, mentrela D.C. Raccogliei suoi voti nella classe impiegatizia e nel ceto medio.

L a sinistra, nonostante avesse come capo lista l’avv. Gaetano C esari, non riesce a mandare neanche un rappresentante.

La campagna elettorale si svolge in perfetto stile prefascista: comizi, volantini e manifesti polemici. Particolarmente accesa fu la contrapposizione tra valloniani e democristiani: ai primi si rinfacciava la posizione sociale “fatto v’avete Dio d’oro e d’argento”; per i secondi gli epiteti più gentili erano “collitorti”, “baciapile” e “democristiani”. Famoso rimase un volantino dal titolo “Viva viva lu Tarloci” che iniziava così “ viva viva lu Tarloci/ pè lle terre e pè  lli mari,/ Se squajara Soli eCroci/ se scacara l’avversari”.

Il 7 Aprile 1946 si riunisce il primo Consiglio Comunale e viene eletto Sindaco Luigi Vallone con 25 voti.

Eppùru scia chiànu chiànu…(Eppure andava piano piano…)

di Armando Polito

Il nesso  chiànu chiànu è usato nel dialetto neretino in funzione di avverbio di grado superlativo ottenuto con la reiterazione della stessa voce, inizialmente aggettivo, tal quale nell’omologo italiano piano piano, sicchè esso compare in locuzioni del tipo sta sciàmu chiànu chiànu (stiamo andando piano piano) o sta scìamu chiànu chiànu (stavamo andando piano piano). La grammatica definisce questo fenomeno (uso di una parte del discorso per un’altra, nel nostro caso dell’aggettivo per l’avverbio) enallage, dal greco enallaghè=scambio, da enallàsso=scambiare, a sua volta formato da en=in+ allàsso=cambiare, a sua volta, e sono arrivato all’osso con un gioco di parola di cui mi accorgo solo ora, da allos=altro. Il fenomeno non è di formazione  recente, dal momento che esso è presente in greco e in latino; per quest’ultima lingua un solo esempio: veramente si può esprimere con vere, vero o verum, ma delle tre forme solo la prima è formalmente un avverbio, le altre due sono rispettivamente un ablativo e un accusativo dell’aggettivo in funzione avverbiale. Piano e il corrispondente neretino chiànu, com’è noto, sono dal latino planu(m)1=piano, piatto e, per traslato, facile; sempre in latino con valore sostantivato, poi, assume il significato di pianura, come succede pure in italiano (un piano coltivato). Dall’idea di piano (senza asperità) con ulteriore riferimento alla pendenza (nel nostro caso assente) si è sviluppato il concetto di relativamente lento in contrapposizione a quello di veloce (connesso con una discesa) e a quello di estremamente lento (connesso con una salita). Anche la musica ha dovuto fare i conti con questa trafila concettuale, tant’è che nella parola pianoforte (all’origine clavicembalo col piano e col forte) il piano e il forte corrispondono alla minore o maggior forza con cui si premono i tasti. E planare non significa compiere un volo discendente a motore spento o al minimo, sfruttando la forza di sostentamento delle ali? E complanare non significa strada di grande comunicazione, che corre parallela a un’altra con funzioni complementari di svincolo o raccordo (che poi effettivamente assolva a tali funzione per cui, almeno sulla carta, sarebbe stata progettata, questo è tutt’altro discorso…)? E proprio la voce planare sopravvive nel dialetto neretino sia pure nella forma composta ‘nchianàre=salire. Si direbbe che il significato di salire sia in assoluta contraddizione con quanto prima detto. Lo è solo apparentemente, perché ‘nchianàre è da un latino *implanàre2 formato da in (preposizione di moto a luogo) e il planum detto all’inizio, sicché la forma verbale alla lettera significa andare verso il piano, cioè verso il raggiungimento della perfetta coincidenza tra il livello attuale (più basso) e quello da raggiungere (più alto).

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1 Il gruppo latino pl seguito da a,  da e o da u  sviluppa rispettivamente pia/pie/pio in italiano (planus>piano/plenus>pieno/plumbum>piombo) e chia/chi/chiu in neretino (chiànu/chinu/chiùmbu). Non mancano, per il neretino, le eccezioni: per esempio, dal latino placère in italiano si ha piacere ma in neretino piacìre e non, come ci saremmo aspettato, chiacìre (si spiega col fatto che la voce deriva non da un sostantivo ma da un verbo in cui la vocale che segue il gruppo pl è atona, cosa che non succede, per esempio in ‘ccucchiare=accoppiare che ha seguito la trafila *adcopulàre>*adcoplàre>*accocchiàre>’ccucchiàre) ; da un latino *plattum a sua volta dal greco platýs=largo, piatto si ha in italiano piatto nel duplice valore di aggettivo e di sostantivo, mentre nel neretino piàttu è riservato al sostantivo e chiàttu all’aggettivo (l’eccezione qui è in funzione di differenziazione semantica).

2 Nel latino medioevale è attestato (Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 309) un implanàre, ma il suo significato di ingannare lo rende inequivocabilmente trascrizione del greco en=in+planào=illudere; perciò la nostra voce è preceduta dall’asterisco.                                   

Li carmati ti Santu Paulu e la cattura della serpe

campagna salentina con furnieddhu (ph M. Gaballo)

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra  (quarta parte)

 

“LA MBRIGGHIATA  SANTA”

(LA CATTURA DELLA  SERPE)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Per catturare la sacàra, lu carmàtu pretendeva di trovare nei pressi della pagghiàra più  persone, fra le quali potere scegliere li quattru niéddhri ti mbrigghiàta (i quattro anelli d’imbrigliata), ossia quattro persone adatte a coadiuvarlo nell’operazione. Nell’ora fissata – di solito l’ora ti lu fuécu, cioè quella successiva al mezzogiorno – c’era perciò sempre una piccola folla ad attenderlo al limitare del campo: uomini e donne, che se pure atterrite dalla prospettiva di essere scelte come niéddhri e quindi trovarsi costrette ad assistere alla cattura da una distanza ravvicinata, per nessuna cosa al mondo avrebbero disertato il campo: la mbrigghiàta santa*  veniva considerata alla stregua di un intervento miracoloso e quindi occasione spettacolare da non perdersi.

Nell’attesa, per farsi coraggio e ingannare il tempo, si raccontavano l’un l’altro i particolari delle  ‘mbrigghiàte alle quali avevano assistito, decantavano i prodigi operati da San Paolo e qualche volta si spingevano a fare scommesse sulla lunghezza della serpe nonché sul tempo che sarebbe occorso per la cattura. Un cicaleccio che si smorzava di colpo non appena si profilava la sagoma di lu carmàtu, messa in evidenza dal rosso di una sciarpa che portava sulle spalle a mo’ di stola: era la pezza rricanusciùta, equivalente a un’insegna e contemporaneamente usata come arma durante la cattura dei serpenti; arma ritenuta santa, in quanto il 28 di giugno di ogni anno veniva portata a Galatina nella cappella dedicata a San Paolo e deposta per un’intera notte ai piedi dell’effige del santo affinché ne assorbisse, unitamente alle benedizioni, le particolari virtù taumaturgiche.

Sventolandone i lembi come fossero bandiera, lu carmàtu faceva il suo ingresso nel campo, camminando lentamente e tenendo gli occhi fissi per terra, quasi fosse alla ricerca di misteriosi segni a lui soltanto noti. Avanzava sino alla pagghiàra, vi girava tutt’intorno, spargeva qua e là pizzichi della sua prodigiosa terra**, tornando più volte sui suoi passi forse a riannodare il filo delle sensazioni o intuizioni che, a quanto diceva, gli permettevano di

Melpignano dà l'esempio di come si possa vivere senza centrali nucleari

Nasce la città del sole, un paese con 200 famiglie padrone dell’energia, primo in Italia ad affidarsi al fotovoltaico

 

Melpignano dà l’esempio di come si può vivere senza centrali nucleari. La comunità cooperativa guidata dall’amministrazione comunale (proprietaria di altre 200 quote) affida al sole del Salento un futuro “pulito” nella Puglia che moltiplica le pale eoliche

 

di Sergio Caserta

Lunedì 18 luglio si è costituita a Melpignano in provincia di Lecce la prima “comunità cooperativa” società cooperativa a responsabilità limitata che ha lo scopo di promuovere, sviluppare e realizzare una rete diffusa d’impianti fotovoltaici sugli edifici pubblici e privati del territorio comunale. La peculiarità dell’iniziativa che fa di Melpignano il primo esperimento del genere in Italia, è rappresentata dal fatto che alla cooperativa promossa dall’amministrazione comunale, aderiscono i cittadini che diventano così, in qualità di soci utenti, anche proprietari collettivi degli impianti fotovoltaici che si realizzeranno, per dotare le case e le aziende di energia da fonte rinnovabile.

Il progetto ambizioso e studiato in ogni particolare, rappresenta nel disegno dell’Amministrazione comunale, un importante volano di sviluppo economico, poiché tutte le attività necessarie a realizzarlo saranno affidate a soci lavoratori o a società ad hoc costituite o esistenti nel comune, dagli studi di

Bibliografia di Ortensio Seclì

di Paolo Vincenti 

 

 

1975

Chiedere o donare, in “Il Donatore”, Parabita, ottobre 1975.

1978

 Popolari personaggi. Rocco Marzano  –  All’emigrante (poesia),  in “A Parabita due notti d’estate”, Pro Loco, Parabita 1978.

1984

In attesa del riscatto,  in “Il Donatore”  Parabita, dicembre 1984.     

1985                          

Popolari personaggi.  Don Vincenzo  Muscari, in “A Parabita due notti d’estate”, Pro Loco, Parabita 1985.                      

1988

 Salute e turnisi, in “Il Donatore”, Anno I , N.0, Parabita, giugno 1988.

1989                                                              

 Santu Latteri,  in “Il Donatore”, AnnoI, N.1, Parabita, marzo 1989.

1990

Consultorio familiare, ieri e oggi, in “Il Donatore”, Anno II, N.2, Parabita, giugno 1990.

1991

Santu Latteri –  Chiedere o donare? – Salute e turnisi –  Consultorio familiare, ieri e oggi –  Il Santuario di Maria Ss. della Coltura , in “Minima Storica Parabitana” , a cura di Mario Cala, Luigi Barone, Massimo Crusi, Ortensio Seclì,  Adovos “F.Greco”, Parabita 1991.

Parabita –Origine Storia Genealogie di 99 cognomi (Presentazione di Ettore Garzia), Il Laboratorio, Parabita 1991.

1992

Note e documenti sul culto della Madonna della Coltura di Parabita 

Libri/ Porca Miseria. Storia da salumeria

Lupo Editore

NUBES – Ass. Culturale

Salumeria Cosimo Negri

22 Luglio 2011 – Ore 21,30

Piazzetta Mazzini – Copertino (LE)

“PORCA MISERIA. STORIE DA SALUMERIA”

Pane, vino e tanti racconti.

 

Special Guest: MINO DE SANTIS IN CONCERTO ACUSTICO

Venerdì 22 Luglio alle ore 21.30, presso la Piazzetta Mazzini a Copertino (LE), Lupo Editore in collaborazione con l’Associazione Culturale NUBES e la Salumeria Cosimo Negri, organizza “Porca Miseria. Storia da salumeria”, un’inedita formula che coniuga la lettura dal vivo e il racconto di storie per riflettere sul clima di austerità e di tagli alla cultura.

Lupo Editore inviterà gli scrittori presenti a raccontare la propria storia

Libri/ 33 Trotterellando

Associazione EVA LUNA

 

“33 Trotterellando”

 

Mercoledì 20 Luglio 2011

dalle ore18.00 in poi

 

pressola Libreria EVALUNA

in Via Mantovano, 16 – Lecce

 

Mercoledì 20 Luglio 2011 dalle ore18.00 in poi, presso la libreria Eva Luna di Lecce verranno presentate le ultime novità e la programmazione estiva dell’associazione “Eva Luna” relativamente alle pubblicazioni e alle iniziative editoriali relativa all’universo femminile, di cui la libreria Eva Luna, fin dalla sua fondazione, è stata luogo di promozione, diffusione e dibattito.

Durante la serata sarà presente la scrittrice Loredana De Vitis che con “33 trotterellando”, troverà occasione di fornire ai presenti una riflessione scanzonata e allo stesso tempo ‘estrospettiva’ e raccontare i propri 33 anni vissuti nella società di oggi con il doppio sguardo di donna e di scrittrice. Ciò che apprezza di più il pubblico, nei racconti e nelle performance di Loredana De Vitis, sono la vividezza dei dialoghi e la realtà, che viene restituita senza alcun filtro, se non quello dell’ironia; un sarcasmo che esprime le cose così come stanno, “anziché illudere i lettori”.

Libri/ Il colore del melograno

Per Spiagge d’autore

Giuseppe Scelsi a Monopoli (Ba)

con “Il colore del melograno” (Besa editrice)

20 luglio alle ore 9,00 presso il Lido Sabbiadoro (località Capitolo).

Intervengono Vito Bruno e Giulia Basile

Giuseppe Scelsi a Monopoli (Ba) presenterà il suo libro “Il colore del melograno” (Besa editrice)  il 20 luglio alle ore 9,00 nel Lido Sabbiadoro, località Capitolo. Intervengono Vito Bruno e Giulia Basile

Quando il solido muro della ideologia va in frantumi, migliaia di albanesi si ritrovano in preda alla più grande disperazione. Il sistema si sgretola, le rigidità di un regime che si è chiuso per decenni su se stesso si piegano alla furia di uomini e donne, idee e sentimenti vengono travolti.

Anche Filip Galimuna, sergente dell’esercito albanese con la passione per il pianoforte, perde tutto in un sol colpo: si ritrova a capo di una caserma vuota, i suoi uomini l’hanno abbandonato, preferendo il miraggio di una fuga verso l’Italia, e la sua donna, Iliria, lungi dal dargli quel conforto che egli cercava, si allontana da lui innamorandosi di un uomo i cui traffici di quei momenti hanno reso uomo di successo. In preda alla più cupa disperazione, Filip si fa coinvolgere in un traffico di armi, il cui ricavato però finisce nelle mani sbagliate e fa crollare le sue ultime illusioni e speranze.

La vicenda volge a un epilogo drammatico, ma non inatteso. Quando

Libri/ L’anello inutile

Per Spiagge d’autore

L’anello inutile di Maria Pia Romano

(Besa Editrice)

Rivabella (Gallipoli, Lecce) 20 luglio 2011 ore 19,00

con Carmen Foresio e Giovanni Invitto

Maria Pia Romano a Gallipoli (Le) presenterà il suo libro L’anello inutile (Besa editrice) il 20 luglio alle ore 19,00 a località Rivabella con Carmen Foresto e Giovanni Invitto.

Il Salento prende alla gola. E ti sa rubare l’anima. Luogo troppo selvatico per lasciarsi conquistare. Anche la sua gente è così. Qui le tarantate dicevano di sentire la noia all’inizio del male. Gli uomini andavano a fare l’olio nelle viscere della terra, incitando gli animali a spingere la ruota e stordendosi con l’oppio per non sentire la fatica. Nelle campagne che s’incontrano andando dalle Orte verso il faro della Palascia, la terra è rossa. Ci si può perdere, inseguendo il filo rosso che qui lega la terra, il cielo e l’acqua. Un sottile scoloramento di memorie adriatiche. Un annebbiamento dei sensi. Un capogiro. Cosa rimane quando non si ha più niente da perdere?

 

Una spina in gola

di Raffaella Verdesca

E non è un modo di dire! E’ vero, Alessio era distratto, disordinato, a volte smemorato, ma questa volta era stata solo sfortuna nera.

“Buoni questi saraghi che ti ho preparato, vero amore? Mi son ricordata che sono il tuo pesce preferito e quando stamattina li ho visti sul banco al mercato, non ho resistito alla tentazione di comprarli.” la moglie.

“Grazie tesoro, davvero squisiti.” lui.

Era stata una giornata infernale: il commercialista gli aveva riservato la stangata a tradimento, un autovelox mimetizzato in un cespuglio lo aveva folgorato, sempre a tradimento, a una velocità di oltre 160 km/ora su una statale con il limite dei 70, il figlio minore aveva ritirato la scheda di valutazione scolastica che definire tradimento era solo un simpatico eufemismo e la piscina, che gli era costata quanto il Tower Bridge, si era arrugginita tradendo sfacciatamente il suo conto in banca.

All’improvviso, il consueto silenzio dell’ora dei pasti in casa Stecchi fu lacerato da un’imprecazione sommessa: “Aarrgh! Cara…! Coff! Coff! Aiut…!”

“Che ti prende, amore? Sembra quasi che soffochi.”

“Una spina, cazz…! Un bicchiere d’acqua, svelta!”

Ci mancava pure quel maledetto sarago a mettere in onda l’anteprima del Giudizio Universale!

Più che di un ennesimo tradimento, a questo punto si trattava di una vera e propria congiura!

La donna, senza riempirsi la testa di inutili supposizioni, tornò lesta dalla cucina con in mano una caraffa d’acqua da due litri: “Manda giù, manda giù, amore!” e presa dalla foga del soccorso, travasò fino all’ultima goccia del recipiente nella bocca del marito, neanche fosse stato un imbuto.

Mai occhi umani furono più espressivi di quelli di Alessio in quel momento: rossi, fuori dalle orbite, bagnati come se tutta quell’acqua se la fossero bevuta loro.

“Il medico! Chiamiamo un medico!” riuscì a balbettare l’uomo con sgomento, sentendosi la spina sempre più conficcata in gola, come se quella schifosa

La storia della maschera mortuaria di Padre Pio

di Angelo Diofano

Ha dell’inverosimile la storia della maschera mortuaria di Padre Pio, ovvero l’ultimo ritratto originale della sua persona eseguito dal vivo immediatamente dopo il Transito terreno, realizzata dall’artista Michele Miglionico, originario di San Giovanni Rotondo, pittore, scultore e incisore.

“Ho sempre creduto che i santi non sarebbero mai morti”, pensò subito Miglionico, figlio spirituale del frate stimmatizzato e abituale frequentatore del convento francescano, quando all’alba del 24 settembre 1968 ricevette la notizia del triste accadimento. Alle tre del mattino l’artista si recò così nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, dove era stata composta la salma, assieme al

Libri/ Copertino. Immagini e storie

castello di copertino (ph M. Gaballo)

di Paolo Vincenti

Copertino. Immagini e storie”, di Mario Cazzato è un libro edito, per il Crsec Le/38 di Copertino Regione Puglia, dalle Grafiche Panico (2005). “Copertino. Immagini e storie”, a cura di Pierpaolo De Giorgi, offre una ulteriore riflessione sulla storia di Copertino dei secoli passati e va ad aggiungersi alle preziose pubblicazioni sulla storia del casale salentino già edite. Solo che stavolta si tratta non di una pubblicazione scientifica tout court, ma di un volume che, pur attingendo alla storia copertinese, si ritaglia ampi spazi  di invenzione fantastica, collocandosi  a metà strada fra il romanzo storico ed il saggio di carattere divulgativo. Si tratta di una storia avvincente offertaci da chi, come Mario Cazzato, ha una lunga esperienza di pubblicazioni di storia patria ed è avvezzo a consultare archivi e biblioteche, per dare alle proprie pubblicazioni il crisma della scientificità e del rigore nella ricerca.

Stavolta, però, Cazzato ci offre una lunga passeggiata nel XIV secolo, in compagnia di un cavaliere francese, Sourè, che arrivò a Copertino al seguito dei dominatori angioini e che, per propria devozione, realizzò, nella campagna fra Galatina e Copertino, un santuario dedicato a San Michele Arcangelo, santo guerriero dal Sourè molto amato. Questa devozione è testimoniata da una lunga

Un' occasione per reintrodurre nel Salento il daino

da http://www.naturamediterraneo.com/

di Oreste Caroppo*

 

IL RITORNO DEL DAINO NEL SALENTO OGGI PUÒ GIÀ DIVENTARE REALTÀ !

NON UCCIDETE quei cento DAINI Pugliesi !
Abbattere quei 100 Daini (o sterilizzarli) per una questione di sovraffollamento sarebbe un’operazione aberrante!
Da pochi giorni lo spiraglio: chi volesse in Puglia può ADOTTARLI e chiedere degli esemplari da ALLEVARE nella propria proprietà o nei parchi regionali!

 

Un’ occasione per reintrodurre nel Salento, nei suoi parchi naturali, nelle aziende agricole e parchi privati, ad esempio ricadenti anche nel neoistituito Parco dei Paduli-Foresta Belvedere nel cuore del basso Salento (tra Otranto, Leuca e Gallipoli), e nel Salento tutto, a scopo naturalistico, didattico e paesaggistico, il Daino (Dama dama), autoctono nel Salento già in epoca paleolitica, come innumerevoli resti fossili attestano scientificamente, prima che l’azione dell’uomo lo portasse all’estinzione locale insieme ad i suoi habitat, che oggi abbiamo il dovere di ricostruire diffusamente con un’azione nuova di “Rimboschimento Razionale e Partecipato” perfettamente conciliato con le attività silvo-agro-pastorali (vedi: “L’unica vera infrastruttura di cui ha urgentemente bisogno il Grande Salento sono i Grandi Boschi !!!” Link: http://www.lavalledeitempli.net/2011/03/22/lunica-vera-infrastruttura-di-cui-ha-urgentemente-bisogno-il-grande-salento-sono-i-grandi-boschi/ )!

Ancora nel secolo scorso, nei boschi del Salento era uso diffuso allevarvi allo stato brado proprio dei Daini, (come anche i Cinghiali, i “neri” anche chiamati in alcuni catasti del ‘700, relativi alla foresta del Belvedere – questi animali

Il caldo, l’acqua e il motore di ricerca… (terza ed ultima, era ora!, parte)

di Armando Polito

Il viaggio intorno a questo prezioso elemento fatto sotto la guida di Plinio non poteva non concludersi in casa nostra, cioè a Manduria, con la sorgente che ha preso il suo nome, ha ispirato lo stemma della città  e che localmente è nota col nome di Scegnu, secondo alcuni deformazione di genio, nume tutelare.

Il Fonte pliniano; immagine tratta da http://www.parcoarcheologico-manduria.it/foto-parco/foto-scegnu.php?fotomenu=fotomenu

 

Lo stemma di Manduria; immagine tratta da wikipedia

 

“Nel territorio salentino nei pressi di Manduria c’è un lago pieno d’acqua fino all’orlo ed il suo livello non diminuisce quando viene attinta né aumenta quando viene versata”13.

È un motivo di orgoglio, infine ricordare che il fonte di Plinio compare come una delle tappe privilegiate del Gran Tour, se hanno un senso le riproduzioni sottostanti.

Il Fonte pliniano in un acquerello di A. L. Ducros (1778)14

Tavola tratta da Jean-Claude Richard de Saint-Non, Voyage pittoresque ou description des royames de Naples et de Sicile, Clousier, Parigi, 1781-1786.

 

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/14/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-prima-parte/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/16/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-seconda-parte/

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Irene Mancini intervista Alfredo Romano sull’emigrazione salentina a Civita Castellana. ULTIMA PARTE.


di Irene Mancini

C’era il progetto di tornare giù o si pensava di rimanere qui a Civita?

“Alcuni si fermavano a Civita solo per il lavoro stagionale del tabacco, da marzo a settembre, ma i restanti mesi li trascorrevano nel Salento. Altri prendevano fissa dimora qui a Civita col solo obiettivo di trovare delle opportunità di lavoro che non fossero quelle del tabacco. Il tabacco non costituiva un avvenire. I miei genitori sono rimasti qui per dieci lunghi anni, fino a quando io e i miei fratelli non siamo diventati economicamente autonomi. Sono stato io stesso a incoraggiarli a tornare al paese. «È tempo che torniate, che ci fate più qui? Giù avete un pezzo di terra, una bella casa, c’è gente che parla come voi…». Sono tornati e hanno vissuto più da ‘cristiani’ gli anni che gli rimanevano da vivere. Ma quante lettere ci siamo scritti e quante telefonate. Spesso tornavo giù a sorpresa, anche dopo un anno. Erano emozioni, era festa, irripetibile la gioia”.

Oggi tornerebbe a vivere giù?

“No, non tornerei giù… o almeno non so… È che ormai, sradicato dal paese, sono diventato un cittadino del mondo… Anche se poi in effetti a Civita Castellana ho messo radici: il lavoro, le persone, gli amici di sempre, le conoscenze, i luoghi… Sono sicuro che se dovessi allontanarmi da Civita Castellana, finirei per relegarla nel mito. In fondo, 35 anni non sono pochi: ho amato, ho avuto tante cose belle qui… alla biblioteca comunale ho dato molto, ma poi sono stato ‘ricambiato’ in qualche modo. Di esperienze brutte, a Civita, ne ho avute tante, ma anche tantissime belle. E sono queste ultime che ti restano”.

Ho trovato dei leccesi che come ritmi, come orari, hanno preso la piega dei civitonici…

“Sì, lo capisco, anche nello stile di vita. Per tanti il bisogno di integrazione è stato così forte, da diventare, come si dice, più realisti del re, cioè più civitonici dei civitonici. La ricerca di un’identità è qualcosa di molto complesso, e non mi meraviglio se talvolta il diritto alla sopravvivenza passa per la perdita delle proprie radici: certo, è un prezzo troppo alto per integrarsi. Io ho un’idea di integrazione diversa, che non passa per il diventare civitonici a tutti i costi, anche perché civitonici non si diventerebbe mai, per via che le radici sono un imprimatur che non si cancella. L’integrazione passa

Salento terra di santità. I Servi di Dio di Galatina, Galatone, Gallipoli, Galugnano, Giuliano e Grottaglie

 di frà Angelo de Padova

Fra Francesco Antonio da Galatina, detto “Vantaggiato”, ultimo Ministro Provinciale dell’unita provincia Riformata di S. Nicolò. Morto a Galatina il 22 settembre 1847. Frate minore.

Fra Giacomo Gatto da Galatina, morto il 10 luglio 1639. Grande spirito di umiltà, di sacrificio, di penitenza, di preghiera. In alcuni giorni dell’anno si stendeva per terra e voleva che i frati lo calpestassero in segno di disprezzo. Passava le notti in preghiera, portava sulle carni il cilicio, digiunava spesso. Devotissimo alla Madonna e alla Passione di Gesù; usava dormire sulla nuda terra, senza pagliericcio, riparato da una semplice stuoia. Frate minore.

Suor Elisabetta Andriani, Suor Chiara Congedo, Suor Benedetta Mangiò, Suor Brigida Gallucci di Galatina, morte nel 1600.

Fra Francesco da Galatina, il 24 ottobre del 1574. Insigne oratore, lavorò con grande interesse per la salvezza delle anime. Cappuccino.

Fra Ludovico  Scorrano da Galatone, il 30 settembre del 1644. Dotto, insigne oratore, predicò con plauso nelle principali città d’Italia. Mentre era Guardiano  a Mesagne, ospitò e perdono agli uccisori del proprio fratello. Cappuccino.

Fra Silvestro da Gallipoli, morto il 2 agosto 1674. Molto compassionevole con i poveri; si privava sempre del secondo piatto e lo davo loro. Aveva il dono dell’estasi. Chiaro per la santità della vita, per l’eroicità delle virtù praticate e per i numerosi miracoli operati in vita e in morte.  Frate minore.

Fra Antonio da Gallipoli, il 23 luglio del ???; mentre si recava in Sicilia fu raggiunto in alto mare dai pirati Turchi che lo presero come schiavo e poi lo uccisero barbaramente. Cappuccino.

Fra Gregorio da Gallipoli, il 2 marzo del 1580. Cappuccino.

Madre Carmela del Cuore di Gesù, al secolo Alda Piccinno, nacque a Gallipoli il 7 marzo 1872 da Emilio e Maria Fiorito. Ricca di doni di natura e di grazia, manifestò, fin dalla prima infanzia, una tenera devozione per la

Pietas popolare salentina. Madonne del Carmine sotto campana

di Marcello Gaballo

Non è il caso di soffermarsi ulteriormente sulla pietas del popolo salentino nei confronti del divino, rimandando all’altro post di Daniela Lucaselli su questa particolare forma espressiva del sentimento religioso e della devozione.

Ci si limita dunque a descrivere succintamente alcune statue che raffigurano la Madonna del Carmine, esposte in occasione dell’unica mostra di tal genere che si tenne nel 1998 a Nardò, essendo vescovo Mons. Vittorio Fusco, parroco don Angelo Corvo, nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù (con catalogo di 88 pagine stampato a Nardò da Biesse).

La statua, alta 65 cm., poggia su un basamento in legno dorato, di forma quadrangolare, sostenuto da quatto piedini. Composta da un manichino di fil di ferro e canapa, ha i volti e le mani della Madonna e del Bambino in terracotta policroma decorata a mano; entrambi i volti sono rotondeggianti e con coloritura rosea delle guance.

La Vergine indossa un vestito di raso color tanè (come quello dei frati carmelitani), con decorazioni ricamate con filo dorato, evidenti su tutto il bordo inferiore, ed un semplice ed ampio mantello, sempre in raso color panna e con orlatura a frangia dorata. Con la mano destra tiene lo scapolare di raso, anche questo color tanè e con frangia dorata.

Più scura è la tunica del Bambino, che la Vergine sorregge con il braccio sinistro, arricchita da merletto e frangia dorata nella parte inferiore e sui bordi delle maniche.

Caratterizzanti sono la corona regale in stagno sbalzato e terminante in una croce, posta sul capo della Vergine, e la folta chioma di fili di canapa a riccioli. Sembrano posticce la collana di perline artificiali e quella con medaglia.

Graziosa e per certi aspetti fuori dagli schemi usuali è l’altra statua della Madonna del Carmine, alta circa 75 cm., poggiante su un basamento in legno  di forma quadrangolare su cui si alzano quattro nembi, che servono da supporto per i tre angeli, di terracota policroma lavorata a stampo, e per la Vergine con il Bambino.

Quest’ultima, aureolata, tiene in grembo il Figlio, anch’esso in terracotta e, come gli angeli, coperto all’inguine da una fascia di tulle rosso.

Anche qui Maria veste l’abito carmelitano (tunica tanè e mantello panna), con velum anch’esso chiaro e orlato in tutto il suo perimetro con pizzo, utilizzato anche per decorare gli scapolari tenuti da Madre e Figlio.

Caratterizzano il manufatto i decori dorati, a motivi fogliari e arabescati, che sono dipinti sulle parti frontali dei vestiti. Originale la cornice di fiori d’arancio, ottenuti, secondo le dichiarazioni dei proprietari, da teneri rametti di fico.

E’ sprovvista di scapolari, ma si tratta pur sempre della Madonna del Carmelo la terza delle statue. La conferma la forniscono i colori degli abiti e il velum, anch’esso color panna e orlato in tutto il suo perimetro con pizzo.

Maria, con aureola raggiata di metallo dorato,  è alta 61 cm e poggia su un basamento in cartapesta su cui posano due angeli in terracotta policroma, come le mani e i volti di Maria e del Figlio, coperto all’inguine da una fascia di bisso bianco.

La composizione è decorata co due mazzetti di fiori d’arancio di cera e stoffa, di cui uno tenuto dalla mano destra della Vergine, l’altro posto all’altezza dei fianchi, mentre il terzo, meglio rifinito e con fiori di stoffa e cera, è adagiato sulla base, tra i due angeli.

La discreta fattura del manufatto acquista maggior pregio grazie alle due composizioni floreali, anch’esse sotto campana di vetro soffiato, realizzate per essere collocate ai lati dell’elemento centrale.

In un vaso di porcellana nera, trovano posto margherite, gelsomini, garofani, dalie, rose e fiori di pisello odoroso, realizzati in stoffa, cera, organza e carta.

Il caldo, l’acqua e il motore di ricerca… (seconda parte)

di Armando Polito

Come si riconosce la bontà dell’acqua. La classifica delle acque migliori

“C’è discussione tra i medici su quali sono le acque più utili. A buon ragione condannano le stagnanti e quelle che scorrono lentamente, ritenendo più utili quelle correnti; infatti col movimento e con gli stessi urti si assottigliano e giovano. Per questo mi meraviglio come mai da alcuni sono massimamente lodate le acque di cisterna. Ma questi adducono la ragione che l’acqua piovana sarebbe leggerissima poiché ha potuto salire e restare sospesa in aria. Per questo preferiscono pure le nevi alle piogge e alle nevi pure il ghiaccio come per una sottigliezza compressa di affini. E dicono che neve e ghiaccio sono più leggeri e il ghiaccio molto più leggero dell’acqua. È molto importante per la vita che questa opinione sia respinta. Innanzitutto quella leggerezza a stento può essere avvertita se non come pura sensazione dal momento che per quanto riguarda il peso le acque non differiscono per niente tra loro; né è argomentabile motivo di leggerezza  il fatto che l’acqua sia salita in alto in pioggia poiché vediamo che pure le pietre vi salgono e la pioggia cadendo viene infettata dal vapore della terra. Perciò si sente che c’è moltissima sporcizia nell’acqua piovana e che essa riscalda rapidissimamente. Mi meraviglio che la neve e il ghiaccio appaiano come la parte più sottile di quell’elemento, se si adduce il caso della grandine dalla quale è fatale che

Libri/ Sangue di nemico

a cura di Stefano Donno

L’occupazione dell’Arneo – vasto territorio posto all’estremità nord-occidentale della provincia di Lecce, caratterizzato da macchia mediterranea e pascoli – segnò la storia salentina negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. La sollevazione popolare fu repressa dalle forze dell’ordine ma rappresentò comunque un’importante presa di coscienza per i braccianti, le cui condizioni di vita fanno da sfondo a questo romanzo corale ambientato a Monteroni, piccolo paese del Salento.
Nucleo della narrazione è la storia del diciannovenne Alfredo, figlio di Enrico, calzolaio, e del suo amore per la coetanea Maria, costretta a condividere con la madre le fatiche dei campi. Entrambi sono protagonisti in un Salento all’apparenza immobile e lontano come un lembo di terra dimenticato nell’estremo sud, ma traboccante di varietà umane e personaggi genuini che ne fondano un’identità unica e irripetibile.
Intorno all’amore di Alfredo e Maria è tutto un paese a muoversi e commentare i tempi e le vicende private, in un’epoca di confine tra il vecchio e il nuovo che si contende tra i pettegolezzi dei signori in piazza seduti attorno al solito mazzo di carte e la laboriosità inesauribile degli artigiani nelle botteghe, la religiosità delle perpetue a messa e la crudezza del lavoro nei campi di tabacco, la nascita di una grande fabbrica di scarpe pronta a stravolgere

La Bandiera “te lu Pippi”

di  Sonia Venuti

Gusto il mio caffelatte mentre osservo dalla finestra della mia cucina la bandiera italiana che sventola sul terrazzo “te lu Pippi”; il momento della colazione è per me  quello in cui sono sola a riflettere e e rimuginare i miei pensieri, e mentre lo faccio osservo  il cielo e quella bandiera, che oltre ad indicarmi la direzione del vento nella giornata, facendomi intuire il clima che dovrò affrontare, è il mio contatore personale  delle vittime Italiane, nei  vari conflitti in cui L’italia è impegnata con il suo esercito:   stamattina era a mezz’asta, si onorava la 40a vittima Italiana nel conflitto Afghano, Roberto Marchini 28 anni.

Era assente “lu Pippi” il 02 luglio,  quando è caduto il caporal maggiore scelto Gaetano Tuccillo 29 anni; lui non era in casa era andato a far visita alla figlia che si trova in Basilicata, e mi sembrava strana quella bandiera che sventolava al vento, svettante in cima all’asta.

“lu Pippi”, la prima cosa che ha fatto al rientro dal week-end, è stato salire sul terrazzo ed ammainarla, in segno di rispetto per il soldato caduto, per la patria, per suo figlio che combatte in prima linea questa assurda guerra e per se stesso.

Ad ogni notizia di soldati caduti in quello e altri conflitti in cui ci sono presenze dell’esercito italiano, “lu Pippi” si affanna a salire sul terrazzo ad ammainare la bandiera ,  per  rendere onore alle giovani vittime, sperando sempre nel  suo cuore che non sia la volta in cui deve essere lui a raccogliere l’infausta notizia, e sperando sempre che suo figlio torni sano e salvo.

E’ in questo modo che “lu Pippi” vive questa condizione di padre di un soldato (giovane ufficiale dell’esercito) impegnato a portare la “pace” in quelle terre

Un alieno in… spiaggia

di Rocco Boccadamo

Nato, cresciuto e fattosi adulto, e oltre, a contatto, in familiarità e consuetudine con un habitat marino di tutt’altro genere, ossia scogli, calette, pizzi e fondali subito profondi, chi scrive può disporsi a un approccio con l’arenile sabbioso esclusivamente per amore dei nipotini, i quali vi giocano, si divertono, compiono infiniti dentro e fuori nell’acqua bassa senza pericolo alcuno, trovano il loro gradito daffare con buche, castelli e opere varie. Il lido è discretamente alla moda e i frequentatori ospiti racchiudono e simboleggiano le più svariate tipologie, in tutti i sensi, dalla fisicità, agli atteggiamenti e ai comportamenti: a voler cogliere qualche spunto di richiamo o di amenità pura e semplice, v’è solo l’imbarazzo della scelta.Senza malizia, un aspetto si offre, innanzitutto, all’osservazione: la silhouette, o meglio la figura ragguardevole, quando non proprio imponente, diffusa in particolare a livello di sesso femminile. Quanti chili o taglie in sovrabbondanza! In siffatto scenario a tutto campo, un maschio di mezza età, già bruno di suo e per aggiunta abbrustolito dai raggi a guisa d’acini di caffè, va bighellonando a intervalli uguali, con vasche modello sfilata, tra gli ombrelloni da un confine all’altro dello stabilimento. Pretesto, forse, la fumata golosa di una sigaretta, ma, chissà se si tratta di ciò e basta.Altro flash, una giovane mamma, diciamo così, genere Penelope Cruz d’estrazione salentina, abbronzata artisticamente, con perfetta uniformità, senza nemmeno un millimetro quadrato d’eccezione, mentre sta arrivando al bagno si esibisce con una fantastica osservazione riferita al figlio ragazzino che le va dietro: “Sei molto cattivo, Romeo, sai, mamma!” Evidentemente, in ogni manifestazione, c’è modo e modo.All’interno del vano bar del lido, campeggia un cartello “Aperitivo con frutti di mare e flute di prosecco, € 15”,  che fa chiaramente sfigurare l’ordinazione del cronista di un caffè caldo e uno “in ghiaccio soffiato” per il figlio.Non può mancare, da ultimo, l’immigrato venditore di abitini leggeri e variopinti, parei e foulard: è letteralmente assediato dalle bagnanti d’ogni età e di tutte le fasce di peso. Il bravo ambulante appaga anche la curiosità fine a se stessa: i capi hanno prezzi da 10 a 18 euro, in fondo, dunque, per qualsiasi tasca.Scivola il mattino in spiaggia, grazie anche a una nuotata laddove l’acqua è finalmente un po’ alta e al vento che arriva vivace dal quadrante di tramontana, reso per fortuna meno caldo dal contatto ravvicinato con la distesa liquida.Da domani, partiti i nipotini, il ritorno ai preferiti scogli.

Pubblici appalti per la pavimentazione della città di Nardò tra 1582 e 1584

Pubblici appalti per la pavimentazione della città di Nardò tra 1582 e 1584, sull’esempio di quella già eseguita a Lecce e Francavilla Fontana

di Marcello Gaballo

L’amico Angelo Micello mi ha dato l’opportunità di riprendere un rogito notarile che avevo gelosamente custodito tra le carte, avendolo studiato non pochi anni fa. L’occasione è data da un altro suo bel contributo sulla ottocentesca pavimentazione con basoli di Castro, pubblicato sul suo interessante sito.

Su uno degli appalti neritini di cui si dà nota ne aveva già in parte scritto Giovanni Cosi[1], ma sembra  utile riprendere ed integrare con alcuni stralci, che danno meglio l’idea su come venissero commissionati i lavori pubblici e quali norme di dovessero rispettare in quel secolo. Il tutto vergato dal notaio, che nel nostro caso è Cornelio Tollemeto, che registra la convenzione in data 2 gennaio 1582, nell’abitazione che fu di Fabio Calò, dove risiede il regio Commissario per la Redenzione della città di Nardò. Sono presenti il sindaco dei nobili Filippo Sambiasi e quello del popolo Girolamo Burdi, gli auditori e gli ordinati dei nobili e del popolo, e quali tutti sono amministratori della città per l’anno in corso. Partecipa anche il Commissario Giacomo Antonio Seribella quale ufficiale del Regno; l’altro comparente è mastro Nicolao de Aricza de Litio. Il motivo del raduno è dettato dalla necessità di ufficializzare i capitoli et convenzioni statuite tra l’universitas di Nardò e il predetto mastro sopra il partito de l’insilicare detta città di Nardò.

Innanzitutto si conviene che detta università di Nardò dia al detto mastro Nicolò una stanza comoda, uno saccone, una lett(i)era, uno paro di lanzoli, una coperta gratis et che tanto esso mastro Nicolò quanto soi compagni purchè siano forestieri siano franchi di tutte gabelle et datii d’essa università, oltre agli alloggiamenti per il mastro e i suoi collaboratori.

Che detta università abbia l’obbligo di portare le pietre sul luogo in cui verranno collocate:  sia tenuta scappare le pietre et portarle sopra il lavoro di detto insalicato a sue spese, pericolo et interesse et che fanno spesa di far cavare la terra delle strade dove se haverà de insalicare, levare e mettere secondo sarà bisogno per l’insalicatore.

Nardò, via Sanfelice. Antica pavimentazione a basoli

Item che detta università sia tenuta accomodare detto mastro di ducati trenta al principio del lavoro di detto insalicato, et che gli si habbia da scomputare ogni mese cinque ducati sopra le fatiche del lavoro di detto insilicato, et che detto mastro sia obligato a dar plegiarìa di detti ducati trenta, osservando tutti i capitoli dell’accordo stipulato tra le parti.

Il mastro da parte sua si obbliga a far bono et perfetto lavoro et le pietre lavorarle come quelle di Lecce, alte et bascie con le sue pendentie di manera che l’acque vadano fora di detta Città, et se ne receva utile a beneficio di detto insalicato, quale s’habbia d’incominciare la prima volta da la strada de la Chiesa Madre verso la piazza, et poi la detta piazza, et  appresso l’altre strade ad elettione di detta università.

Il mastro si impegna a lavorare le pietre nello stesso sito in cui sono estratte, quindi sarà l’università a portarle così lavorate sul luogo di applicazione.

Il mastro con quattro dei suoi collaboratori si troverà in città a partire dal primo marzo, data in cui avranno inizio i lavori et che ne lui ne detti mastri si possano partire da detto lavoro per tutto il mese di settembre ma continuamente lavorare le petre et attendere a detto insilicato. Trascorso tutto il mese di febbraio dell’anno 1583 il mastro e i suoi collaboratori riprenderanno la messa in posa, lavorando fino a tutto settembre 1583, e così per l’anno successivo, fino al completamento dei lavori, secondo le esigenze dell’università. Quest’ultima si impegna a versare in anticipo i trenta ducati, all’inizio dei lavori, scomputando dalla somma prevista pari a cinque ducati per mese.

Item detta università sia obligata a dare le petrelle […] al detto mastro e compagni affinché nello […] per tutto tempo in detto lavoro e mancando detta università e detti mastri perdendono tempo per culpa o defetto de detta università  sia essa università obligata pagare a ciascuno mastro la ragione di carlini quattro il dì, salvo e reservato quando essa università fusse impedita da legittimo impedimento, che in tal caso non sia obligata alle giornate di detti mastri.

Il lavoro sarà valutato di mese in mese, con sopralluoghi, e si provvede dunque al credito dovuto.

Nardò, centro storico, Via Sant’Angelo

Nell’atto si stabilisce anche il salario finale per detto lavoro di insalicato di detta città: a mastro Nicola  carlini dieci e grana due e mezza la canna, che gli saranno consegnati poco prima del completamento dei lavori, a patto che li faccia bello lavoro con pendentia debita per restare bene  limpia e netta la città in occasione delle piogge. E siccome spesso venivano aggiornate le unità di misura, ecco che nell’atto si precisa che la canna si intende otto palmi di quattro, conforme allo insalicato canniggiato nella città di Lecce, con declaratione et pacto che quando il partito de l’insalicato della terra di Francavilla fusse stato fatto per meno prezzo che li carlini dieci e grana due e mezza per canna, il presente partito d’insalicare detta città di Nardò s’intenda essere stato fatto per quello meno che si trovarà detto partito di Francavilla.

I convenuti – si legge ancora- si impegnano ad osservare et fare osservare tutta la consistentia de li presenti capituli con la pena et sotto la pena de onze XXV ogni qualvolta sia trasgredito un qualsiasi punto di detta capitulazione.

Dato che le pietre erano state già estratte dai mastri nella cava in località San Leucio (nei pressi della masseria Torsano), l’università stringe accordo con i cittadini Lucio Bove e Mariano Calabrese perché portino “le chianche” in città, pagando loro 34 grana la canna quadrata. Ma essi dovranno effettuare almeno quattro carichi al giorno, per impedire il fermo dei lavori da parte dei mastri insalicatori. Se così non fosse stato i trasportatori avrebbero dovuto pagare quattro carlini per ognuno di essi.

L’atto si conclude con la formula di rito, sottoscritto dal giudice regio Domenico Musachio, dai testimoni don Cicco Calò, Scipione Farina e il notaio Aquilante Costa.

Un anno dopo, quindi 1583, il 5 ottobre, il governo della città si ritrova per riproporre il capitolato per la pavimentazione. Il sindaco dei nobili per l’anno in corso è Giovan Bernardino Sombrino e quello del popolo è Cicco Gaballone, in carica da settembre, che pattuiscono con il mastro Paulo de Arice de Litio e con Lupo Antonio Mergola de Neritono le regole per insilicato faciendo in civitate Neritoni.

I due magistri in solidum prometteno et se obligano d’insilicare detta città di Nardò, far bono et perfetto lavoro et le pietre lavorare come quelle di l’insilicato fatto sin ad hoggi in detta città, alte et bascie  con le debite pendentie di maniera che l’acque vadano di fora di detta città, et se ne receva utile  et benefitio di detto insilicato, quale s’habbia da fare in quelle strate primieramente che da detta magnifica università gli saranno ordinate, et detto insilicato s’habbia d’incominciare al primo di marzo pr(oss)imo venturo dell’intrante anno 1584 et che per fare detto  insilicato detti mastri siano obligati a loro proprie spese scappare et dolare le pietre in quello loco dove si scappano, et da là condurle in la città, farne detto insilicato, cernere la terra sopra detto insilicato et impirlo di terra a tutta perfezione, cavar la terra da le strate, con ponerci essi mastri tutti manipoli et ferramente a loro spese.

Ma, continua ancora l’atto, anco cacciare et portare tutta la terra (che) sarà soverchia alle muraglie di la città o in quel loco ove gli sarà ordinato da detta magnifica università purchè non si porti fuori della città.

Non si prevedono altri impegni da parte del governo municipale se non reperire il sito di lavorazione delle pietre, in cui scappare et dolare dette pietre, luogo che sarà distante dall’abitato entro tre miglia. Se il sito sarà più lontano dallo stabilito, l’università si impegna a risarcire l’eccesso di distanza (la strata che giustamente gli competerà di più).

I mastri et loro discipuli forastieri che saranno impiegati all’esecuzione del lavoro saranno esentati (franchi et immuni) da dazii e gabelle. La paga stabilita è di carlini diciotto la canna per ognuno, così come è stato aggiudicato in seguito a pubblico bando tenutosi nello stesso giorno in città, come ultimi licitatori et plus offerenti ad extintum candelae. Difatti, secondo la norma, al mattino era stato messo all’asta il lavoro, bandito quattro giorni prima.

Ad inizio lavori l’università versa ai mastri cento ducati, con l’impegno di darne sufficiente pleggiaria  per una perfetta esecuzione dei lavori. Ancora un impegno dalla civica amministrazione: non sarà annullato il lavoro, né sarà dato ad altri per minor prezzo. Se mai ciò dovesse accadere, la penalità sarà di cinquanta ducati.

Anche questo atto si conclude con la formula di rito e il giuramento, sottoscritto dal giudice regio Tommaso Manieri, dai testimoni suddiacono don Tommaso de Ruggiero, Ottaviano de Castello e il mastro Ercole Pugliese.

Con altro atto del 1586 ai mastri si aggiungerà il figlio di Paolo de Arice, Nardo.


[1] G. Cosi, Il notaio e la pandetta, Galatina 1992, pp. 84-85.

Il caldo, l’acqua e il motore di ricerca… (prima parte)

di Armando Polito

Nardò, la Palude del capitano

Qualche amico napoletano commenterebbe il titolo con le parole chisto è pazzo e mi risparmio pure di immaginare quale locuzione più o meno simile userebbero i miei conterranei, anche per quell’inquietante prima parte. La colpa, però, in un certo senso, non è solo mia, se un mio post dell’anno scorso, Oggi parliamo di caldo. Tutta colpa del verbo latino calère compare, per me ormai come un incubo, tra quelli più letti, anche in pieno inverno. Non so ancora oggi spiegarmi il motivo di tanto successo per un contributo che io stesso giudico modestissimo, anche se il suo attuale imperversare in classifica è senz’altro legato al fatto che caldo è la parola più probabilmente ricercata in questo periodo attraverso gli appositi motori. È ovvio che chiunque cercava un qualche refrigerio è rimasto deluso e avrebbe fatto meglio a bersi un semplice bicchiere di acqua, ma è proprio quest’ultima parola che mi ha fatto venire l’idea di scrivere un’altra scemenza per vedere se e quanto essa sia competitiva rispetto a quella prima citata. E poi, siccome sono, oltre che pazzo, anche un po’ vigliacco voglio proprio vedere quale trattamento sarà riservato al buon Plinio che, in fondo, è il vero autore di questo post.

L’acqua è, tra tutti, l’argomento al quale il naturalista latino del I° secolo d. C. dedica il maggior spazio nella sua opera e non poteva essere altrimenti perché la fondamentale importanza di questo elemento per l’umanità è cosa nota fin dagli albori della vita in genere. Sulla consapevolezza attuale di questa importanza getto il solito velo pietoso e non mi ergo certo a moralista pensando che, solo per fare un esempio, chi di noi non ha rimpianto un affetto (col quale, tuttavia, non ne andava di mezzo la vita fisica) solo quando

Libri/ Il custode delle reliquie

ARCI Maglie Biblioteca di Sarajevo e Libri & Musica

 

presentano

IL CUSTODE DELLE RELIQUIE

di Vittorio L. PERRERA


Libreria Libri & Musica – Maglie
Sabato 16 luglio
Ore 20.00

 
Otranto, Puglia, 1979. A seguito di alcuni ritrovamenti archeologici vengono aperti tre cantieri di scavo che coinvolgono equipes di Università provenienti da varie parti d’Europa. Mentre nella cittadina fervono i preparativi per la

Retaggi culturali salentini

particolare di un dipinto eseguito da un seguace di Francesco Maggiotto (1738-1805) (da: http://www.anticoantico.com/)

di Sonia Venuti

Sembra ancora ieri, quando i nostri padri emigravano in nazioni come Germania e Francia, per poter migliorare il loro status sociale,con l’ausilio di un lavoro che la madre patria non riusciva ad offrirli.

Durante i loro ritorni in patria, al paese, facevano “incetta” di quei beni di prima necessità, come il caffè da portare con sé in quei paesi freddi e senza sole, dove la cultura dell’espresso all’italiana, andava prendendo piede lentamente,  in sordina, e dove per poter accedere a quel gusto bisognava organizzarsi.

Le madri , le nonne ed i parenti, quando i loro familiari partivano, iniziavano un piccolo via vai, quasi come  fosse una processione di quelle in cui si rende onore  al santo , e si portavano in dono pacchi di zucchero e caffè, indispensabili per la “sopravvivenza” di coloro che si apprestavano a partire.

Quando l’emigrante si sedeva davanti a quella tazza di bollente liquido di color nero intenso, si inebriava di quel profumo, che lo trasportava indietro, nella sua terra d’origine facendogli  rivivere momenti d’appartenenza, indispensabili per poter proseguire quel percorso intrapreso per migliorare se stesso e la famiglia, privandolo del beneficio primario che poteva donargli la sua terra.

Retaggi d’altri tempi, qualcuno oserebbe pensare, e invece no, se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che sono più vivi che mai, a dispetto del tempo che è trascorso e della tecnologia che ha preso il sopravvento, e dal fatto che gli emigranti non sono più gli italiani in cerca di lavoro all’estero, ma gli extracomunitari che vengono a lavorare da noi, come mano d’opera a basso prezzo o come badanti.

Sono i datori di lavoro,  gli amici e le varie conoscenze (nei rapporti  che ognuno di loro è riuscito a costruire) che,  nel momento in cui o viene il familiare a trovarli in Italia o sono loro stessi a partire per tornare al paese d’origine per un periodo più o meno breve, rinnovano  la processione del “caffè” , rimasta  immutata nel tempo, a dispetto delle regole e dei limiti che impone oggi la tecnologia nei mezzi di trasporto, e in quei15 kgdi bagaglio massimo che ognuno può portare con sé in aereo, troveremo sempre un pacco di “caffè” italiano, che intraprende un lungo viaggio verso paesi e culture lontane.

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