Li carmati ti Santu Paulu e la cattura della serpe

campagna salentina con furnieddhu (ph M. Gaballo)

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra  (quarta parte)

 

“LA MBRIGGHIATA  SANTA”

(LA CATTURA DELLA  SERPE)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Per catturare la sacàra, lu carmàtu pretendeva di trovare nei pressi della pagghiàra più  persone, fra le quali potere scegliere li quattru niéddhri ti mbrigghiàta (i quattro anelli d’imbrigliata), ossia quattro persone adatte a coadiuvarlo nell’operazione. Nell’ora fissata – di solito l’ora ti lu fuécu, cioè quella successiva al mezzogiorno – c’era perciò sempre una piccola folla ad attenderlo al limitare del campo: uomini e donne, che se pure atterrite dalla prospettiva di essere scelte come niéddhri e quindi trovarsi costrette ad assistere alla cattura da una distanza ravvicinata, per nessuna cosa al mondo avrebbero disertato il campo: la mbrigghiàta santa*  veniva considerata alla stregua di un intervento miracoloso e quindi occasione spettacolare da non perdersi.

Nell’attesa, per farsi coraggio e ingannare il tempo, si raccontavano l’un l’altro i particolari delle  ‘mbrigghiàte alle quali avevano assistito, decantavano i prodigi operati da San Paolo e qualche volta si spingevano a fare scommesse sulla lunghezza della serpe nonché sul tempo che sarebbe occorso per la cattura. Un cicaleccio che si smorzava di colpo non appena si profilava la sagoma di lu carmàtu, messa in evidenza dal rosso di una sciarpa che portava sulle spalle a mo’ di stola: era la pezza rricanusciùta, equivalente a un’insegna e contemporaneamente usata come arma durante la cattura dei serpenti; arma ritenuta santa, in quanto il 28 di giugno di ogni anno veniva portata a Galatina nella cappella dedicata a San Paolo e deposta per un’intera notte ai piedi dell’effige del santo affinché ne assorbisse, unitamente alle benedizioni, le particolari virtù taumaturgiche.

Sventolandone i lembi come fossero bandiera, lu carmàtu faceva il suo ingresso nel campo, camminando lentamente e tenendo gli occhi fissi per terra, quasi fosse alla ricerca di misteriosi segni a lui soltanto noti. Avanzava sino alla pagghiàra, vi girava tutt’intorno, spargeva qua e là pizzichi della sua prodigiosa terra**, tornando più volte sui suoi passi forse a riannodare il filo delle sensazioni o intuizioni che, a quanto diceva, gli permettevano di identificare il posto più adatto per richiamare la serpe. “Ti cquài no scappa!” (“Di qui non scappa!”), affermava finalmente fermandosi di botto, e in un rapido scorrere di occhi sui presenti selezionava li quattru  niéddhri ti mbrigghiàta.

Jean-François Millet – Uomo con la zappa

Santu Pàulu ti stà scòcchia” (“S. Paolo ti sta scegliendo”), diceva puntando l’indice, a che il prescelto, sia pure con un tuffo al cuore, rispondeva prontamente: “Santu Pàulu m’àggia tegnu” (“San Paolo mi ritenga degno”).

Trovato il punto adatto ed espletata la scelta, il rituale poteva avere inizio, e mentre i semplici spettatori, mantenendosi a debita distanza, facevano cordone, lu carmàtu incrociando le gambe si accoccolava per terra, subito imitato dai suoi quattro ministranti che, due a destra e due a sinistra, gli dovevano rimanere vicini e sobbarcarsi alla fatica di battere ritmicamente a palme aperte a terra. Dopo essersi segnato di croce, con voce di nenia accordata al sincopato fluire dei tonfi, l’uomo cominciava a narrare la storia di S. Paolo, ossia a recitare il lungo componimento in versi che elencava le gesta dell’isola di Malta, racconto intercalato dalla lamentosa preghiera dei presenti: “Santu Pàulu nni fazza la razzia!… Santu Pàulu no ddica ti none!…” (“S. Paolo ci faccia la grazia!… S. Paolo non dica di no!…”).

Pian piano tonfi, assolo e coro si fondevano, e nel graduale, quasi istintivo accelerarsi del ritmo veniva a stabilirsi un raptus collettivo incentrato sul desiderio di vedere apparire la serpe. Potenzialità di un circuito che probabilmente si condensava in agente di richiamo per l’animale, convincendolo a uscire dall’intrico della pagghiàra e strisciare come inebetito verso il gruppo che lo attendeva.

Al suo apparire lu carmàtu si azzittiva per concentrare tutta la sua energia negli occhi, che di colpo apparivano incredibilmente dilatati. Contemporaneamente si toglieva la sciarpa dal collo, roteandola dapprima lentamente, per poi descrivere dei cerchi sempre più ampi, sempre più vorticosi. Era il momento del confronto decisivo: l’uomo e il serpente si fronteggiavano in uno spasmodico crescere di tensione, in un calamitante incrociarsi di sguardi, nella cui traiettoria sembrava rapprendersi l’ansito dei presenti, che sempre più forte battevano a terra, sempre più forte ripetevano: “Santu Pàulu nni fazza la razzia!… Santu Pàulu no ddica ti none!…

La serpe continuava ad avanzare impacciata, come intorpidita, finché, arrivata a pochi passi dall’uomo, si bloccava drizzandosi sulla coda, rigida come un bastone. Anche lu carmàtu cambiava posizione: attento a non  stornare neppure per un attimo lo sguardo della serpe e mai interrompendo il roteare del panno, lentamente disincrociava le gambe e, puntellandosi sulle ginocchia, si arcuava protendendosi sempre di più verso l’animale. A un suo cenno, espresso con un ripetuto cozzare di talloni, gli aiutanti smettevano di battere a terra, subito imitati dal coro, la cui ultima nota, per un attimo, permaneva nell’aria in dissolvenza di echi. Subentrava un silenzio pesante, un capovolgimento di atmosfera nella cui improvvisa rarefazione altrettanto rapidamente si inseriva la voce del carmàtu, bassa, suadente, fluida, come se non parole esprimesse, ma aliti magici capaci di annebbiare la coscienza. “Paulùzzu, paulùzzu… mòzzica  paulùzzu… mòzzica…   mòzzica…mòzzica…”, invitava avvicinando la stola alla bocca della serpe, finché questa, in un repentino risveglio, abboccava affondando il suo dente nel ruvido del panno, di regola tessuto in lana grezza. Altrettanto repentina la reazione del carmàtu, pronto a imprimere alla stola uno strappo, il più violento possibile. Preso contropiede, il rettile non faceva in tempo a disincagliare il dente che, appunto trattenuto dal ruvido della lana, nello strappo si sradicava, provocando contemporaneamente la rottura della ghiandola velenifera.

L’allargarsi di una macchia giallastra sul rosso della pezza rricanusciùta attestava che la grazia era stata concessa, e lu carmàtu, ormai messo al sicuro dall’avvenuta estirpazione del dente velenoso, poteva allungare la mano, acchiappare il rettile e, dopo averlo baciato sulla bocca, appenderselo al collo come gesto di vittoria. Gesto di vittoria e insieme mossa precauzionale, nell’intento di difendere l’animale dall’odio dei presenti, fermamente intenzionati a schiacciargli la testa.

Lassàmule tiémpu cu rràta li sùrgi” (“Lasciamogli tempo a diradare i topi”) supplicava, cercando di ricordare come nell’equilibrio della natura anche la vita delle serpi tornava utile. Ma raramente riusciva a essere  convincente: “Pi lla jettatùra ti lu sorge nni stéscia bbona la fame ti la cuccuàscia!” (“Per la disgrazia dei topi ci basta la fame della civetta!”), ribattevano ostinati i presenti; e neppure la promessa giurata di trasferire il rettile in una delle zone incolte della costa riusciva a smuoverli.

Nella stragrande maggioranza dei casi, la sacàra  finiva giustiziata a colpi di canna, vituperata da un collettivo premere di talloni finché, resa poltiglia nella testa, veniva arsa su un rogo sveltamente approntato con rami di sorbo, il cui legno si credeva avesse la proprietà di neutralizzare il male.Sventolando i loro grembiuli ed emettendo prolungati sospiri espressi in caratteristici haaii…, le donne, quasi volessero mimare il loro sgravarsi della paura, intrecciavano attorno a quel fuoco giri vorticosi di pìzzica pizzica, sollecitando gli uomini a ddintàre jaddhrùzzi ti prima cantu (a parteciparvi divenendo galletti di primo canto) e a fare bbrìnnisi ti priésciu (brindisi di gioia).

Nell’esplodere pirotecnico delle risate, provocate dai lazzi maschili, l’aureola di San Paolo scoloriva, così come all’orizzonte si rimpiccioliva la figura ti lu carmàtu, allontanatosi dal campo a passi svelti, contrariato di essersi dovuto accontentare soltanto dell’ultimo sputo della serpe: un alone giallastro sul rosso della stola, una macchia viscosa che sarebbe andato a lavare all’abbeveratoio pubblico dopo il tramonto, cioè nell’ora di punta, quando il largo spiazzo brulicava di uomini intenti a dissetare le loro bestie. Il suo gesto avrebbe così avuto il crisma della pubblicità, il che serviva, sia pure soltanto in parte, a consolarlo della delusione di non aver potuto transitare per le vie del paese con al collo attorcigliata una grossa sacàra ancora viva.

* Alla mbrigghiàta santa l’autrice ha assistito personalmente nell’agosto del 1943, in località  “Scucci”, un fondo di proprietà dei prozii con i quali viveva:

Nell’estate del 1943, a causa dei bombardamenti americani, la popolazione salentina  si era riversata nelle campagne, accampandosi alla meglio. Il fondo “Scucci”, un uliveto al limite fra il feudo di Copertino e quello di Leveranno, era pertanto diventato sede di molti pagliai, i cui abitanti avevano accusato ripetute molestie da parte di una grossa sacàra.

     Il 14 agosto a mattino, una rappresentanza dei rifugiati, capeggiati da Ngiccu lampetòru, colono del fondo, si presentò a casa per chiedere al prozio, il can. don Pietro

Verdesca Zain, il permesso di fare intervenire un carmàtu ti Santu Pàulu. Sapevano quanto lo zio – sacerdote – fosse contrario a quelle scene, che definiva vere e proprie pagliacciate.

     Una volta convintolo , facendogli pesare il rischio che correvano donne e bambini, si erano spinti a chiedergli in prestito il calessino per andare a Carmiano a prelevare un vecchio carmàtu, forse l’ultimo sopravvissuto all’estinzione della Scola ti li ttre pputiénti. A Copertino, infatti, non c’era più traccia di  mesci bbinitìtti. Al tardi approfittando dell’assenza dello zio, impegnato – in occasione della festività dell’Assunta – a confessare i militari dell’aeroporto di Galatina, e confidando nella complicità di alcune vecchie giardiniere, mi fu possibile accodarmi e assistere a tutte le fasi della mbrigghiàta, il cui epilogo coincise con un allarme e purtroppo con una mitragliata a bassa quota che procurò due feriti fra gli spettatori, per fortuna in modo lieve. Nel parapiglia la sacàra  appena catturata riebbe la libertà sfuggendo dalle mani del carmàtu”.

* * Terra che ritenevano miracolosa perché prelevata – dicevano – all’isola di Malta .

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari 1994 (pagg. 78-81)

 

 

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11 Commenti a Li carmati ti Santu Paulu e la cattura della serpe

  1. proprio oggi ho finito di leggere il capitolo di Santu Paulu e mi appresto a iniziare il secondo su Santu Itu. E’ un’opera meravigliosa che gelosamente custodisco anche perche’ donatami dal mio nonNINO. Magia e religione un indubbio binomio della tradizione cultuale del Salento!

    • Quando avrai letto tutto il volume me lo dirai, caro Vincenzino, perché per accertarmene ti farò qualche piccola interrogazione. Dico questo perchè
      “Li manure ti santu Itu” e “Li fronne ti Santu Cristofuru” sono le parti (potrei dire sono i due volumi) più ostiche, quelle cioè che richiedono più impegno e che – mi risulta – pochi hanno letto sino alla fine, eccetto ovviamente gli studiosi della materia.
      Comunque, sempre gentile tu, caro Vincenzo!

      Un grazie anche a te, Michele, pure tu amico mio di Fb!

      • Ciao Nino,
        è vero la parte su “Santu ITU” è più ostica ma se penso alla leggenda del massaro e alla sua “matthra” con tutto ciò che ne viene fuori (oltre al pane!) non posso non arrivare sino in fondo! A proposito, mia nonna diceva “Risparmia a farina quannu a matthra è china ca’ quannu u culu pare a nienti serve risparmiare”. Donna, matthra, ricchezza, il pane fatto in caso con le sue ritualità, la donna al centro di questo rito che diventa ella stessa “la mattrha feconda”… insomma NINO è un viaggio da fare sino in fondo.
        Grazie a te e a Giulietta!

  2. Hai ragione Fernando. Nella speranza che altri, approfittando di qualche nostra svista, non facciano propria la fatica di colei che io definisco “una vita sudata”!
    Ti auguro una estate felice assieme ai tuoi cari.

  3. Mi sbaglio o la SACARA o PASTURAVACCHE o meglio ancora CERVONE è un rettile timido, per niente aggressivo e non velenoso?

  4. Ho letto con amore e passione tre volte tutto il volume. ed è stato per me un Filo guida nella mia ricerca sulla Musica e la tradizione Popolare salentina.

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