Irene Mancini intervista Alfredo Romano sull’emigrazione salentina a Civita Castellana. SECONDA PARTE.

di Irene Mancini

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Ma c’erano salentini che abitavano nel centro storico? non stavano tutti nelle campagne?

“Abitare nel centro storico, per i salentini, era una conquista: significava aver rotto i legami col tabacco e aver trovato un lavoro più da cristiani, un lavoro preferibilmente in ceramica, ma anche nelle cave di tufo o nell’edilizia. Tutti miravano a uno di questi traguardi, dipendeva dalla composizione del nucleo familiare. Là dove c’erano figli piccoli, l’unica risorsa era il tabacco, e in tal caso anche i bambini davano una mano, ma, giunti i figli in età da lavoro, e trovata un’occupazione, cambiava il tenore di vita, fino al punto di poter dire addio al tabacco e potersi affittare o comprare una casa nel centro storico. Certo, si trattava di case spesso fatiscenti che i civitonici avevano abbandonato per case o villette più comode in periferia, ma il costo a quei tempi non era eccessivamente caro. Oggi, con gli immigrati stranieri, c’è speculazione, gli affitti sono vergognosi ed è più difficile comprare una casa. Al nostro posto adesso ci sono i rumeni nel centro storico; anche tunisini, marocchini, latino-americani e altri. C’è un avvicendamento. I salentini ormai sono bene integrati, anche loro hanno raggiunto sistemazioni più comode in periferia. A dire il vero c’è anche un fenomeno inverso: quello di civitonici che ristrutturano una vecchia casa e decidono di tornare a vivere nel centro storico. Si tratta di una scelta culturale, perché il centro storico dà il senso della comunità: si apre la finestra e si può parlare col dirimpettaio, ci si può sedere sotto casa e chiacchierare coi vicini, ci si scambiano i primi piatti, il sale, il prezzemolo, una bottiglia di vino. Fuori dal centro storico, invece, ma più in periferia, abbondano case e villette quasi tutte con recinto e cane da guardia. Qui è esclusa la possibilità di comunicare, e ognuno si gode, si fa per dire, la sua piccola isola”.

Chi viveva nel centro storico era privilegiato rispetto a chi viveva nelle case coloniche?

“Lo era soprattutto perché non coltivava più tabacco, perché era finita una maledetta schiavitù, perché, cambiato lavoro, era pure migliorato il suo tenore di vita; in paese poi c’erano più spazi per la socializzazione. Ma qualche rimpianto restava per quella vita all’aria aperta, o per quel pezzo d’orto che era una genuina fonte di frutta e verdura e al tempo stesso di svago; il rimpianto anche per amici e parenti lasciati lassù nella tenuta. C’erano circa 45 famiglie su a Terrano: occupavano altrettanti casali divisi per caseggiati; la distanza tra un caseggiato e l’altro era pressappoco di300 metrie ognuno era intitolato a un santo: il mio si denominava San Massimo. Qui eravamo tutti parenti, il cognome prevalente era Romano, per cui finirono per chiamarlo il ‘casale dei Romani’. D’inverno, quando non si lavorava il tabacco, di domenica pomeriggio, ci si incontrava talvolta con quelli degli altri caseggiati, e allora si ballava, si faceva la pizza insieme, ci si ritrovava a far festa insomma. Era difficile d’altronde andare a Civita a divertirsi, per via che non c’erano mezzi pubblici per arrivarci. I primi anni mi recavo a Civita, come tutti, a piedi: a passo svelto impiegavo tre quarti d’ora. A 22 anni mio padre mi regalò una bicicletta. Che gioia quella bicicletta!: cambiò la mia distanza con le cose, con le persone, col mondo”.


Cos’è questa storia delle case popolari?

“A Civita Castellana apparivano, di tanto in tanto, dei bandi di concorso per una casa popolare. Erano bandi dell’Istituto Autonomo Case Popolari della provincia di Viterbo. Naturalmente la graduatoria per ottenere una casa popolare veniva stabilita in base al censo, cioè in base al reddito, alle necessità, ai bisogni, al numero dei figli, in base alla situazione dell’abitazione in cui si dimorava. Le case popolari in palio erano di numero limitato, per cui era difficile poter soddisfare tutti i casi bisognosi. Succedeva, ogni volta, che alcune case venivano assegnate anche a delle famiglie salentine, che, evidentemente, rispondevano ai requisiti richiesti. Questo fatto, però, creava sempre un certo malumore a Civita. Fu così che i salentini, che già non erano molto amati, divennero ‘usurpatori’ di case popolari. Eppure, a ben pensare, malgrado certi luoghi comuni sui meridionali, i salentini, qui a Civita, hanno sempre lavorato, gente tranquilla, mai stati protagonisti di fatti delittuosi. Certo, c’erano persone brave e altre meno, ma come dappertutto. La loro colpa semmai era quella di essere poveri, e i poveri del mondo, si sa, generalmente sono odiati: sono lo spettro di ciò che potremmo essere. La storia delle case popolari, in ogni caso, peggiorò il rapporto tra le due comunità: oltre a ‘rubare’ il lavoro, ‘rubavamo’ anche le case. Un anno fui testimone di un fatto che mi diede amarezza. All’Albo del Comune erano stati affissi i nomi degli assegnatari delle case popolari. Nell’androne c’era ressa di gente interessata a conoscere i risultati. Mi sono trovato per caso a passare e ho ascoltato con le mie orecchie alcuni civitonici che imprecavano con tutto il cuore contro i leccesi accusati di fare più figli e di farli apposta per ottenere le case popolari. Su questa vicenda scrissi un articolo sull’Informatore Civitonico, un periodico del Comune di allora. Raccontavo come tanti salentini, diventati muratori, tiravano su le case di Civita, eppure non avevano diritto ad averne una! Anche il fatto di avere più figli era diventato una discriminante. Quelli erano i tempi in cui a Civita, con l’aumentato tenore di vita, si facevano meno figli, più o meno due; i leccesi invece erano rimasti, per così dire, a quattro figli o più. Era, in ogni caso, una guerra tra poveri, anche perché c’erano realmente delle famiglie civitoniche, nel centro storico, che vivevano nell’indigenza, ma che stavano magari in case di proprietà, anche se malridotte, o si componevano di pochi figli, fattori questi ultimi che abbassavano il punteggio ai fini dell’assegnazione di una casa. Ebbi io stesso modo di rendermi conto della miseria in cui vivevano alcune famiglie civitoniche, quando fui incaricato dal Comune nel 1971 per fare l’ufficiale di censimento nel centro storico. Mi sono sempre chiesto come mai nessuno allora cercò di spiegare ai civitonici il fenomeno dell’immigrazione salentina: un evento che nasceva da condizioni storiche ed economiche ben precise e non per il gusto di ‘viaggiare’ dei salentini. Non ricordo una conferenza, una discussione, una presa di posizione ufficiale da parte delle istituzioni per dire che l’immigrazione era la conseguenza dell’abbandono delle campagne da parte dei civitonici. C’era bisogno di manodopera nelle campagne, c’era bisogno di muratori nell’edilizia, di addetti alle cave per l’estrazione dei tufi. I lavori più umili insomma, quelli che i civitonici non gradivano più fare perché, giustamente, nelle imprese ceramiche godevano di redditi più alti. Ma l’uomo della strada facilmente si lasciava andare a discorsi del tipo che i leccesi rubavano le case popolari, senza sapere che i leccesi, la cui manodopera costava niente,  contribuivano enormemente all’economia cittadina e quindi al tenore di vita dei civitonici. A lavorare da negri sì, ma la casa popolare no?

Quindi era il civitonico poco colto che offendeva il leccese?

“C’era l’uomo della strada, ma anche chi aveva studiato che si lasciava andare ad espressioni poco gradevoli nei nostri confronti, gente che magari, chiusa nel suo particolare, non sapeva vedere al di là del proprio naso. Ma non voglio fare di tutta un’erba un fascio: c’erano tante persone sensibili indipendentemente dal fatto se erano colte o meno. Per noi non è stato facile, in ogni caso, venire qui, abbandonare il nostro paese, i nostri affetti, la nostra lingua, il nostro habitat, gli ulivi, il vino, i muretti a secco, il mare… abbandonare il mare! Voglio aggiungere, però, che sì, è vero che la mancanza di lavoro spinge gli uomini ad allontanarsi da casa, ma non basta: sotto sotto c’è anche curiosità, desiderio di conoscenza, il sogno di un altro destino, che è qualcosa di più complesso dell’obbiettivo di fare soldi e basta”.

Parliamo del lavoro: che tipo di contratto vi legava al proprietario della terra?

“Fino al 1975 c’erano delle leggi che consentivano di stabilire, tra il proprietario e i suoi coloni, un rapporto di colonìa, detto di compartecipazione. Era un rapporto che obbligava i coloni a certe regole, tipo che tutta la famiglia doveva essere impegnata nella lavorazione del tabacco. Devo dire che generalmente il proprietario tollerava che il figlio di un colono andasse a lavorare fuori dell’azienda, bastava che il resto della famiglia gli assicurasse la produzione di tabacco dovuta. La legge, in ogni caso, gli consentiva di guadagnare il 50% sul prodotto venduto al Monopolio di Stato. Sicché il profitto per il colono bastava appena per la sopravvivenza, non certo per mettersi soldi da parte: non si è arricchito mai nessun coltivatore col tabacco. Solo quando i figli in età di lavoro assicuravano a casa un altro salario, per la famiglia cominciavano ad affacciarsi altre prospettive: una casa più comoda con tutti i servizi necessari e l’avvenire dei figli, compreso il diritto allo studio. Alcuni sono riusciti a smettere prima del 1975, altri proprio in quell’anno, quando sono stati aboliti i vecchi patti agrari e i proprietari hanno smesso di coltivare tabacco perché non più conveniente per loro; o almeno, potevano continuare, ma a due condizioni: assumere dei salariati, pagando loro la giornata, oppure dando la terra in affitto. A conti fatti non conveniva. In pratica è dal 1975 che a Civita non si coltiva più tabacco, ad eccezione di alcuni piccoli proprietari che lo coltivano a conduzione familiare senza l’impiego di salariati”.

Si lavorava gran parte della giornata, ma il tempo libero esisteva?

“Il tempo libero… nel periodo di lavorazione del tabacco c’era soltanto la domenica pomeriggio e basta, e solo per gli uomini poi. Le donne no, le nostre mamme no. Le mamme approfittavano della domenica pomeriggio, quando tutti gli uomini erano usciti, per lavare la biancheria di una settimana, specie gli indumenti da lavoro sporchi del grasso del tabacco, un grasso maledetto che ti impregnava mani e indumenti. Era un super lavoro casalingo. Mia madre negli anni ha rimarcato sempre la solitudine di quei pomeriggi domenicali. Si vedeva abbandonata e diceva sempre: «Ho una casa tanto bella e comoda al mio paese, stavo in mezzo alla gente e sono venuta qui a soffrire di solitudine». Le donne perciò erano quelle che più pativano la fatica e l’isolamento. Gli uomini, per lo meno, i nostri padri, si recavano a Civita a piedi e passavano di osteria in osteria a farsi un bicchiere, giocare a carte, oppure puntavano sul Bar Sangallo. Ritornavano a casa che era già buio ed erano sempre un po’ alticci… ma quei cinque chilometri a piedi li conoscevano a memoria ormai. Uscivamo anche noi ragazzi: chi si recava a Civita a piedi, chi in bicicletta, qualcuno con un vecchio Itom, uno di quei ciclomotori in voga a quei tempi. In genere s’andava al cinema, dove si occupavano i posti davanti in platea (si chiamavano secondi posti) perché costavano meno, sicché il settore si riempiva di gente immigrata un po’ caciarona e adusa a far commenti specie durante le scene d’amore. D’estate si puntava pure al lago, a Trevignano; chi non disponeva di un mezzo s’accontentava delle acque dei vari torrenti che scorrevano sotto i fossi (forre) nei punti dove la corrente si radunava in piccoli bacini. Si provavano anche i tuffi, come d’abitudine dagli scogli del nostro mare giù nel Salento, ma, per via del fondale basso, non mancavano le capocciate contro la sabbia… me ne ricordo una! Beh… c’era una buona dose d’incoscienza. Si stava anche dietro alle ragazze: civitoniche o salentine non faceva differenza. Allora era di moda lo struscio in via Roma, corso Garibaldi, piazza Matteotti e corso Buozzi. Ricordo che alle otto di sera improvvisamente le vie si svuotavano: era ora di cena e i civitonici tutti a casa. I primi tempi, questa cosa che i civitonici scomparivano tutti insieme alle otto di sera, rappresentava una stranezza per noi; certo, dopo capimmo che era legata agli orari di lavoro della città. È che giù da noi, invece, d’estate non c’erano orari (avviene anche in Grecia): si cenava tardi e senza pretese. Anche i miei amici civitonici sparivano (ne avevo tanti: facevo parte del Movimento studentesco di Civita) e io rimanevo lì solo per strada come uno scemo: e non restava che incamminarmi a piedi e triste sulla via del ritorno; ma non mi davo pace che, per la cena, si dovesse interrompere il divertimento dello struscio. Rispetto ai nostri genitori, in ogni caso, per noi ragazzi era più facile integrarsi, ma loro erano emigrati che avevano 50 anni e più, come mio padre. Erano dei pesci fuor d’acqua in un paese dove non si parlava la loro lingua e non c’erano le loro usanze. Per la maggior parte poi neanche il conforto di andare a messa la domenica perché alle quattro del mattino si stava già in piedi: il tabacco maturava e non poteva aspettare”.

 

E le ragazze venivano con voi oppure rimanevano a casa?

“Rimanevano a casa, come le mamme. D’inverno, però, accadeva che in alcuni pomeriggi di domenica si organizzassero su a Terrano delle feste da ballo e loro erano autorizzate a partecipare. Certo, per alcune, c’era la sorveglianza della mamma, caso mai qualche ragazzo avesse voluto ‘approfittarne’. Si ballava con i 45 giri[1], andavano di moda lo shake e quei lenti tipici degli anni ‘60, detti ‘balli sul mattone[2]’. Naturalmente erano tempi in cui il ballo aveva le sue regole di comportamento, che poi magari non si mancava di trasgredire. Le ragazze ‘bene ammaestrate’ in genere difendevano il loro ‘onore’ puntandoti il gomito contro il petto per garantirsi una certa distanza. Giusto se la mamma non guardava era possibile… Avevamo 16, 17, 18 anni”.

C’erano ragazzi civitonici che partecipavano alle vostre feste?

“No, ma talvolta capitava che i miei amici civitonici assistessero a qualche improvvisata festa popolare. Erano loro, certe domeniche d’estate, a portarmi al mare dalle parti delle saline di Tarquinia. I miei m’accordavano il permesso a condizione che la mattina mi alzassi ugualmente alle quattro e raccogliessi tabacco fino alle otto. Poi il tempo di pulirmi, far colazione e trottare a passo svelto per raggiungere il luogo dell’appuntamento fissato per le nove. Ero un ragazzo e il piacere del mare e degli amici mi faceva sopportare ogni fatica. Qualche sera d’estate, sempre di domenica, capitava che fossero loro a venirmi a trovare su a Terrano. Così sullo slargo davanti casa era facile accendere un falò, approntare un giradischi e mettersi a ballare. C’era anche la fisarmonica di Pippi Romano, un cugino di papà che suonava i nostri motivi popolari, mentre io m’arrangiavo con una vecchia chitarra e mamma provava a battere il ritmo della pizzica tarantata su una scatola di cartone al posto del tamburello che non c’era. Mio padre e mia madre, quando sentivano il ritmo indiavolato della pizzica tarantata, gli si risvegliava dentro qualcosa, gli si rimescolava il sangue: erano incredibilmente attratti da quel ritmo ossessivo, per loro era un evento liberatorio e scatenante, c’era come un moto dell’animo, corde interne che venivano stuzzicate, e ballavano e ballavano con frenesia. Mia madre, in modo particolare, sembrava volare: era di una leggerezza e di una grazia unica nel ballare. I miei amici si divertivano molto di fronte alla danza-spettacolo. Ma, oltre alla pizzica, scoprivano qualcosa più interessante per loro: intendo la cucina salentina. Sono passati gli anni, ma ancora adesso, quando li ho a cena, vogliono solo e soltanto i tradizionali piatti della nostra cucina. Una delle più belle eredità che ho avuto da mia madre è stata proprio la cucina. Era una grande cuoca mia madre. Il parroco di Collemeto, quando arrivava al paese il vescovo in visita pastorale e doveva preparargli un pranzo a regola d’arte, chiamava mia madre. La nostra naturalmente è la cucina mediterranea per eccellenza, alla base della quale ci sono i prodotti genuini e tipici della nostra terra. Ma ci sono dei ‘segreti’ che non stanno scritti da nessuna parte e che fanno parte del tuo bagaglio creativo. Puoi anche dare la ricetta, ma il risultato non sarà mai lo stesso.”


[1] I 45 giri erano piccoli dischi di vinile degli anni ’60 su cui erano registrate due canzoni fronte-retro.

[2] Detti così perché il ballo era talmente lento che, avvinghiati alla ragazza, non ci si discostava quasi dal perimetro di un mattone.

CONTINUA…
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